Giustizia e verità confinano col Male: l’esordio in giallo dell’ex pm Capaldo

Un principe detective, sovente annoiato dalla ricchezza. Un procuratore capo corrotto. Un cardinale potentissimo che però non ha nome, identificato come l’Anonimo, con la maiuscola. E poi Roma, quella celata ai comuni mortali. La Città Eterna delle antiche dimore, delle feste esclusive e del potere vero. Al centro, ovviamente, un omicidio. Un delitto dalla griffe aristocratica: la contessa Maria Ludovica Romano della Gherardesca. La donna è stata uccisa al vernissage di un pittore, nella celebre via Margutta. Stava andando in bagno, quando qualcuno l’ha accoltellata e soffocata. Sulla scena c’è anche un caro amico della contessa, che comincia da subito a indagare. È lui il principe detective: Gian Maria Ildebrando Del Monte di Tarquinia.

S’intitola I delitti di via Margutta e segna l’esordio giallistico di uno dei magistrati più noti del nostro Paese, oggi in pensione: Giancarlo Capaldo, già capo della Dda di Roma e del pool antiterrorismo, titolare di inchieste sull’eversione nera, sulla banda della Magliana, su Emanuela Orlandi, sulla P3. La trama è magnetica e ha più livelli di lettura. Compreso quello che include il giochino di riconoscere personaggi importanti dell’Italia, visti da vicino – diciamo così – da Capaldo. Ma a spiazzare è il concetto empirico che sottende alla storia, considerata l’importante parabola del magistrato. La competizione, cioè, tra giustizia e verità e scoprire che entrambe possono confinare con il Male e rimanere monche o segrete. Il principe insegue infatti una giustizia “privata” a fronte di quella corrotta o impotente dello Stato: una scelta di campo. Un thriller, infine, che ci avverte sul pericolo di fare troppa luce nel buio. Inquietante.

 

I delitti di via Margutta

Giancarlo Capaldo

Pagine: 245

Prezzo: 18

Editore: Chiarelettere

 

“La mia Adelphi, nata dallo psicoanalista”

Per raccontare Roberto Calasso, 79 anni, cuore e anima di Adelphi, bisogna ricorrere alla figura mitologico-millenaria del serpente: quello che destò nell’uomo brama di conoscenza, ma più in particolare dell’Uroboro di matrice nietzschiana che si morde la coda e rappresenta l’energia universale che si consuma e rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose, l’eterno ritorno, l’unità, la totalità del tutto.

In primis perché per Calasso essere da mezzo secolo sia editore sia scrittore è un’attività continua, senza separazione, “io non smetto mai di essere editore e scrittore, lo sono anche quando dormo” disse a Riotta nel 2016. Poi perché il marchio Adelphi è il pittogramma cinese della luna nuova, che compare sui bronzi della dinastia Shang dal 1000 a.C. e significa, guarda caso, morte e rinascita. Ancora perché Calasso se ne serve per spiegare la propria impresa editoriale: “Che cos’è una casa editrice se non un lungo serpente di pagine? Ciascun segmento di quel serpente è un libro. Ma se si considerasse quella serie di segmenti come un unico libro? Un libro che comprende in sé molti generi, stili, epoche, ma dove si continua a procedere con naturalezza, aspettando sempre un nuovo capitolo, che ogni volta è di un altro autore”. Da ultimo perché il rettile compare in ogni sua opera, come una costante, “emissario del continuo”.

Fiorentino, il padre fu storico del diritto e giurista, il nonno materno, Ernesto Codignola, fondò La nuova Italia editrice nel ’26, cominciò l’avventura adelphiana “il giorno in cui feci 21 anni, nel ’62, a Bracciano, nella villa dello psicoanalista Bernhard. L’intellettuale Bobi Bazlen ne era ospite. Lo avevo già conosciuto a Roma perché era cugino del pittore Settala, amico di famiglia e mi disse che, con Luciano Foà e Roberto Olivetti, stavano dando vita a un progetto che ci avrebbe permesso di pubblicare i libri che ci piacevano davvero. Mi mise tra le mani un mucchio di bozze…”. Il “la” lo diede l’edizione critica delle opere complete di Nietzsche, per Calasso “il pensatore decisivo dell’età moderna”, in un momento in cui faceva ancora paura, specie in Germania. Einaudi ci meditava da anni ma Cantimori non se la sentiva di tradurlo. Ci pensarono allora Colli e Montinari, spinti da Bazlen, facendo uno straordinario lavoro tanto che quelle 3.000 pagine sono poi state la base delle edizioni uscite nel resto del mondo. Poi la letteratura mitteleuropea, che Calasso definiva nel ’78, ormai direttore editoriale, “ancora sommersa, ma d’importanza essenziale per la cultura moderna”, funse da faro guida e immenso pozzo da cui pescare autori di spessore, all’epoca poco conosciuti e oggi assurti a classici, come Kraus, Musil, Wittgenstein, Schnitzler, Canetti, Singer, Márai, in un continuo oscillare tra scienza e letteratura, psicoanalisi, arte e filosofia.

La sua attività di autore si splitta invece in due: da una parte opere brevi in cui discetta del suo oggetto preferito, i libri, come ne L’impronta dell’editore, Cento lettere a uno sconosciuto, a inanellare 100 tra gli oltre 1.000 risvolti di copertina che ha scritto o Come ordinare una biblioteca e dall’altra la titanica opera in corso, che conta oggi 11 volumi, in cui mira a riscrivere enciclopedicamente la storia della civiltà umana, spaziando da Talleyrand ai miti dell’antica Grecia, da Kafka a Tiepolo, dalla Parigi degli Impressionisti alla storia di dèi, animali e uomini dal Paleolitico, dai miti indiani vedici ai nostri giorni, da lui definiti l’innominabile attuale, un mondo inconsistente e sfuggente che ha smarrito il senso del divino, del sacro e ignora il proprio passato.

Inaugurata nell’83 con La rovina di Kasch, proseguita con, forse tra i più amati, Le nozze di Cadmo e Armonia, questo work in progress ha come recente tappa La tavoletta dei destini in cui Utnapishtim, il Noè della cultura babilonese, incontra Sinbad, il leggendario marinaio di origine persiana che ai tempi del Califfato viveva fantastiche avventure in Africa orientale e Asia meridionale. Si incontrano, dialogano, sull’isola di Dilmun dove Utnapishtim vive da migliaia di anni, immortale per volere degli Dei. Un tassello in più della nostra storia universale. D’altronde per Calasso, mostro di erudizione e narratore raffinato, “le storie non vivono mai solitarie: sono rami di una famiglia, che occorre risalire all’indietro e in avanti”.

La favola buonista della maghetta J. K. Rowling

Nel diluvio di strenne natalizie dedicate ai lettori più piccoli quest’anno si impone J. K. Rowling, la celebre autrice della saga di Harry Potter. Salani manda in libreria L’Ickabog, fiaba lunga 300 pagine che già era stata diffusa gratuitamente online durante la prima ondata della pandemia da Covid-19 e che ha coinvolto i bambini di tutto il mondo in tornei nazionali di illustrazioni (l’edizione italiana contiene 34 disegni).

Le riserve di immaginazione dell’autrice britannica sembrano davvero feconde se ritorna alla narrativa per l’infanzia dopo migliaia di pagine sul mondo magico di Hogwarts e la “parentesi” consacrata al pubblico adulto con Il seggio vacante e i cinque romanzi del ciclo con protagonista l’investigatore privato Cormoran Strike.

Se con il maghetto più amato di sempre Rowling ha dato vita a un microcosmo fantastico originalissimo, con questo suo nuovo L’Ickabog l’impressione è che si sia limitata da par suo a imbellettare un canovaccio un po’ usurato. Siamo nel solco della tradizione più classica, dall’incipit “C’era una volta una minuscola nazione chiamata Cornucopia…” al finale “… il regno di Cornucopia visse per sempre felice e contento”. Lo schema, sintetizzato all’ingrosso, è presto detto: un sovrano ingenuo, consiglieri del re infingardi che tramano alle sue spalle, servitori o sudditi vittime di angherie, bambini eroi e risolutori delle avversità. Sullo sfondo l’incubo di un mostro, sospeso tra leggenda e realtà. Rowling conosce il mestiere, sa come disporre tra le righe eventi e personaggi. Peccato ceda a una confusa accelerazione nel finale con tratti di inverosimiglianza dove se per tre quarti della storia il “cattivo” brilla per astuzia d’improvviso è messo sotto scacco in un tranello elementare.

Ecco più in dettaglio protagonisti e sviluppo di L’Ickabog. Siamo nel regno di Cornucopia, con il re Teo e i suoi lord Scaracchino e Flappone e due bambini, Robi Raggianti, figlio del capo della Guardia Reale, e Margherita Di Maggio, figlia della capo sarta del palazzo. Quando la capo sarta muore sfinita dal lavoro per un nuovo abito del sovrano, la piccola Margherita tuona contro l’egoismo della corte. Il re Teo, nel giorno delle udienze, per smentire una sua supposta aridità cede alla richiesta di un pastore che lamenta la morte del suo cane, vittima dell’Ickabog, mostro che si favoleggia viva nelle paludi. È una leggenda, nessuno vi presta fede ma il re ordina comunque una spedizione per vendicare il pastore. Durante la spedizione, Raggianti viene ucciso per errore da uno dei lord, Flappone. L’altro consigliere, Scaracchino, sfrutta l’incidente e elabora un piano perverso: grida all’esistenza dell’Ickabog assetato di sangue e convince il re a mantenere un esercito in prossimità dei luoghi del mostro con relativo aumento di tasse a danno dei sudditi.

Sono Robi e Margherita a smascherare l’inganno. Il finale riserva però una sorpresa proprio grazie ai due bambini con la rivelazione che l’Ickabog esiste davvero e riuscendo nell’impresa di convertirlo in una creatura buona e amica degli umani. La storia finisce in un’apologia della bontà, ma a questo servono le fiabe e il Natale alle porte.

 

L’Ickabog

J. K. Rowling

Pagine: 320

Prezzo: 11,99

Editore: Salani

Sono belli, affermati e ricchissimi. Ma dentro hanno “Le verità non dette”

Sono belli, affermati e ricchissimi: lei psicoterapeuta e rampolla col pedigree, lui oncologo rinomato, il figlio adolescente più maturo dei coetanei. Abitano il cuore della New York che conta e rappresentano, in una frase, la famiglia perfetta. Anzi, La famiglia felice come recita il titolo del romanzo di Jean Hanff Korelitz, fonte d’ispirazione della serie tv HBO che li vede protagonisti e che, tuttavia, ha mutato il titolo nel ben più inquietante The Undoing – Le verità non dette. Il motivo è semplice, ciò che vediamo è la classica superficie dorata che copre una realtà torbida, capace di emergere solo in seguito a un evento shock. Così avviene che il perbenismo ipocrita di quel ceto alto-borghese della Grande Mela si sgretola rivelando il marcio dell’establishment Wasp e dando pertinenza al titolo The Undoing, il disfacimento. Psico-thriller a grandi firme, è andato in onda negli Usa a fine ottobre per arrivare, salvo slittamenti a gennaio come indica qualche rumor, l’11 dicembre in 6 puntate su Sky Atlantic / Now Tv. Showrunner è David E. Kelley, già fra gli autori di Big Little Lies, alla regia è la premio Oscar danese Susanne Bier, ma soprattutto sugli schermi brillano stelle pesanti: Nicole Kidman è Grace Fraser, Hugh Grant suo marito, Donald Sutherland suo padre, il teen-talento emergente Noah Jupe suo figlio e il venezuelano più noto di Hollywood, Edgar Ramirez, il detective di turno. Ciliegina italiana sulla torta è Matilda De Angelis nei panni di una giovane il cui destino determina la caduta degli dei. La notizia è che sono tutti magnifici tranne lei, l’algida Nicole, imbalsamata nel botox, immota come lo snobismo della famiglia a cui appartiene, improbabile bambola di cera inespressiva dai capelli rossi e selvaggi. Persino la nostra Matilda le ruba la scena quando le due la condividono, per non parlare del sempre più bravo Hugh Grant come dell’eterno Sutherland.

 

“No Man’s Land”, così un’occasione è persa

No Man’s Land, serie in otto episodi disponibile su Starzplay, si apre con il riassunto della guerra civile siriana scoppiata nel 2011. “Una delle maggiori forze a frenare l’espansione dell’Isis furono le donne dell’Ypj, una milizia composta da volontarie internazionali” si legge in sovrimpressione: ”L’Ypj ha combattuto coraggiosamente contro i militanti dell’Isis, che credevano che la morte per mano di una donna avrebbe negato loro il posto in Paradiso”. La serie promette insomma di ripercorrere la storia di queste donne ed esplorare un aspetto della guerra siriana ancora poco raccontato. Ma la promessa, purtroppo, rimarrà in larga parte disattesa, perché gli autori scelgono sin dalle prime scene di assumere un punto di vista maschile e occidentale sul conflitto.

Parigi, 2014. Antoine Habert è un uomo sulla trentina che pare vivere un presente felice: cerca un figlio con la compagna Lorraine, gestisce per conto del padre un mega-cantiere nel centro della capitale. Il suo passato nasconde però un grande dolore legato alla scomparsa della sorella Anna, un’archeologa uccisa anni prima in Egitto dallo scoppio di una bomba. Antoine non ha mai davvero creduto a quella morte: e così, quando vede in tv una donna che le somiglia, parte per la Turchia con l’idea di trovare Anna, che secondo lui ha finto di morire per arruolarsi con le milizie dell’Ypj e combattere l’Isis in Siria.

Com’è prevedibile gli andrà malissimo. Antoine finisce prima nelle mani dell’Isis e poi in quelle dell’Ypj: da Parigi al cuore della guerra siriana senza passare dal via. Il suo viaggio s’incrocia con quello dei combattenti impegnati su entrambi i fronti. Sarya, una curda cresciuta in Francia, e Ryan, ex soldato americano in Iraq, stanno con la resistenza; Nasser, Iyad e Paul, tre giovani britannici, si arruolano con l’Isis. La crisi siriana assume così i contorni di un conflitto combattuto da europei e americani annoiati in cerca di avventure… Soprattutto quando tra razzi, scontri a fuoco e ponti da far saltare spunta James, un misterioso faccendiere che sembra in grado di tirare le fila del conflitto senza nemmeno sporcarsi le mani.

No Man’s Land è una produzione franco-israeliana. Il protagonista Antoine è interpretato dal parigino Félix Moati, che vedremo anche nel prossimo film di Wes Anderson. Il regista è Oded Ruskin, i creatori sono quattro nomi noti della serialità israeliana: Ron Leshem (Euphoria), Eitan Mansuri (Quando gli Eroi Volano), Maria Feldman e Amit Cohen (False Flag). La premessa nasce dalla biografia di Maria Feldman, che nel 1993 perse il padre e per anni fu convinta che dietro al suo suicidio, la causa ufficiale della morte, si nascondesse un’altra verità.

Il merito di No Man’s Land è quello di restituire, almeno in parte, la complessità del conflitto. Rimane però l’impressione di un’occasione mancata. Innanzitutto perché la prospettiva è quella degli stranieri, principalmente uomini, mentre il punto di vista dei siriani e delle donne rimane in secondo piano. Poi, perché nonostante la serie cerchi di spiegare attraverso i flashback le motivazioni che hanno spinto i foreign fighters a impegnarsi in una battaglia che si combatte a migliaia di chilometri da casa, le loro storie risultano spesso banali. Il background di Nasser, Iyad e Paul, per esempio, è un vecchio cliché: tre ragazzi di Londra cresciuti in un contesto difficile, che si avvicinano all’Islam dopo essere stati bullizzati dai coetanei e che per questo, due decenni dopo, decidono di partire per la Siria.

No Man’s Land è girata in sei lingue (francese, inglese, arabo, curdo, turco e farsi) e gli autori hanno molto insistito sugli sforzi fatti per rendere tutti gli idiomi credibili. Sono i personaggi e le situazioni, d’altra parte, a risultare troppo poco originali e di conseguenza poco credibili. Più che una guerra universale, così, il conflitto siriano sembra una guerra qualunque.

 

Asterix & Obelix questa volta salvano la principessa

Guillaume Canet dirigerà a marzo Asterix & Obelix: L’Empire du Milieu, quinta commedia peplum della serie live action con i celebri personaggi creati da Goscinny e Uderzo di cui la 47enne star francese sarà anche il protagonista con l’antico sodale Gilles Lellouche e sua moglie Marion Cotillard nel ruolo di Cleopatra. La trama è incentrata sull’unica figlia dell’imperatore cinese Han Xuandi che fugge da un principe canaglia e finisce col chiedere aiuto e soccorso agli eroi gallici Asterix e Obelix. Canet sta intanto ultimando il montaggio di Lui, un altro film di cui è sia il regista sia l’interprete principale insieme a Laetitia Casta, Virginie Efra e Matthieu Kassovitz. In scena un musicista cinquantenne che arriva a Belle-Île per isolarsi in un vecchio faro per ultimare finalmente una colonna sonora che lo tiene bloccato da tempo. Dopo una prima notte inquieta, inizierà a ricevere una serie di visite: la sua padrona, sua moglie, suo figlio, il suo migliore amico, i suoi genitori e anche il suo medico. Le varie discussioni lo costringeranno ad affrontare vari argomenti rimossi e una parte di sé che non vuole più vedere.

Il romanzo L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, Premio Campiello 2017. viene trasferito sullo schermo da Giuseppe Bonito in un film omonimo interpretato nei ruoli principali da Sofia Fiore, Vanessa Scalera, Fabrizio Ferracane. Realizzato da Maurizio e Manuel Tedesco per Baires Produzioni con Maro Film, Kafilms, Rai Cinema racconta le vicende ambientate nell’estate del 1975 di una ragazza di 13 anni che viene restituita alla famiglia d’origine a cui non sapeva di appartenere. Perderà così all’improvviso una casa confortevole e l’affetto riservato a un figlio unico e si ritroverà alle prese con un mondo estraneo appena sfiorato dal progresso e vivere con cinque fratelli in una casa piccola e buia.

Il sogno libertario esisteva. Ed era davanti a Rimini

La forza prima de L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è il soggetto, e lo ammette senza riserve il regista Sydney Sibilia: “Mentre cercavo come un rabdomante, Wikipedia mi ha proposto un ‘non tutti sanno che’, ovvero la micronazione dell’Isola delle Rose. Davvero una storia incredibile, il film poteva considerarsi già fatto”. Protagonista col sodale Matteo Rovere di una delle più intelligenti trovate produttive ancor prima che poetiche degli anni Dieci, la trilogia Smetto quando voglio, stavolta inquadra l’assolo partecipato di Giorgio Rosa, un giovane e geniale ingegnere che nel 1968 “mentre Parigi è infiammata dalle lotte per rincorrere idee e ideali, costruisce con le sue mani il proprio mondo utopico al largo di Rimini”: una piattaforma di 20 metri per 20 fuori dalle acque territoriali che si farà Stato indipendente, oltre che universo alternativo, attirando l’interesse della stampa globale, e finendo prima alle Nazioni Unite e poi al Consiglio d’Europa.

A incarnare questo nerd libertario è Elio Germano, con la duttilità e l’intensità che ne fanno da tempo il nostro migliore interprete: divertente e divertito, vocato e dedito, il suo Giorgio stigmatizza per contrasto “l’idea di libertà oggi declinata al ribasso, col mancato accesso di molti a cure, istruzione, dimore. Purtroppo, qui e ora tocca pensare al diritto alla vita, alla sopravvivenza delle persone”. Fuori dall’emergenza, per Germano “quell’impresa che non fu ideologica, bensì realizzazione individuale di una cosa molto grande” riconsegna “un’epoca in cui si gareggiava in stranezza, viceversa, oggi è tutta omologazione, si punta ai like, ad adeguarsi agli altri: si fa la gara a sparire, a nascondersi”. Prodotto da Groenlandia, arriverà su Netflix il 9 dicembre, e non è davvero niente male: più che Matilda De Angelis, nel ruolo di Gabriella che fu motore conflittuale per la creatività di Giorgio, convincono Maurizio Orlandini, ovvero il compagno d’avventure Leonardo Lidi cui si deve un esilarante e politicamente scorretto trattamento dei calabresi, nonché Fabrizio Bentivoglio e, irriconoscibile, Luca Zingaretti, rispettivamente Franco Restivo e Giovanni Leone, i due politici che annichilirono la possibilità dell’isola. Ricordando la battuta clou, “Con un culo puoi fare tutto quello che vuoi?”, scambiata in Vaticano, la co-sceneggiatrice Francesca Manieri ascrive condivisibilmente al film una riflessione “sulla biopolitica, il corpo delle donne, il rapporto tra libertà individuale e potere costituito”. Senza entusiasmare, forse, ma con lucidità e piglio, Sibilia leva dall’archivio, e dall’ignoto, una pagina emblematica della nostra Italia, e della nostra non-Italia, confermando in filigrana la propria autorialità, quale detentore se non di uno stile di una poetica, in cui ricorre dopo la molecola stupefacente di Smetto quando voglio la solita suggestione: dove inizia e dove finisce la legalità? In mezzo, c’è tempo, modo e gusto di filmare.

 

Renato Zero: “La nostra cultura musicale non va tradita”

Per chiudere in bellezza la trilogia Zerosettanta, Renato Zero pubblica il terzo e ultimo capitolo: una analisi delle sfumature misteriose di una “forza benevola” – come predilige chiamarla – applicata alle relazioni, alla società e, soprattutto, alla musica. Tredici inediti capitanati da Amara melodia, una dichiarazione di guerra – porgendo l’altra guancia – alla musica computerizzata senz’anima: “Noi siamo figli di una cultura musicale che non deve essere tradita. Penso ai Bindi, a Lauzi, a Modugno. Ci vuole la scintilla”. E la trap di Sfera Ebbasta? “C’è posto per tutti. Io ho fatto il sarto, il ballerino, il truccatore per arrivare a stare sul palco in modo degno; non ci si improvvisa. Io sto parlando del marciapiede: l’ho battuto come una mignotta e ho assorbito tutto quello che dovevo da zone impervie con tanto di ceffoni. Riportiamo l’educazione civica nelle scuole”.

Tra le altre tracce l’ottimo sound di Orfani di cielo targato Danilo Madonia, ispirato al mago Donald Fagen; echi dei Manhattan Transfer nell’ambigua Nemico caro: “Dietro i tuoi sorrisi compiacenti quante trappole mi hai teso (salvo ammettere poi ‘Mi annoio se non ci sei’)”.

In Io e te torna lo chansonnier di Spalle al muro, dedicato a chi anela all’amore ricambiato. Ne L’ultimo gigolò c’è il Renato di Madame e Sgualdrina, per divertire sul mestiere più antico del mondo; Finalmente te ne vai ha un basso incalzante degno di Cuore matto. “Negli anni della trasparenza analizzo la mia vita: abbiamo visto anziani andare via in forma violenta, con camion di militari che hanno portato via la storia, il sogno e l’ipotesi di futuro. Invecchiare è la garanzia che hai vissuto: se non invecchi non sei mai esistito”.

Caustica la sua chiosa: “Non ci possiamo sputare nel microfono; dobbiamo emettere un suono celestiale altrimenti lui ci manda letteralmente a… fanculo”.

Monaci, finocchi e lattai: dove nascono i modi di dire

Fare una figura da cioccolataio significa fare una pessima figura, una figura barbina, una figuraccia. Questa curiosa espressione ci riporta alla Torino dei primi dell’Ottocento. Si racconta infatti che, negli anni del regno di Carlo Felice, re di Sardegna e duca di Savoia, i borghesi non potessero andare in giro con carrozze trainate da più di due cavalli, perché le quadrighe erano riservate esclusivamente ai nobili e agli appartenenti alla casa reale. Un artigiano cioccolatiere, però, arricchitosi con i proventi della sua fiorente attività, si fece costruire una grande carrozza trainata da quattro cavalli, finemente decorata e così lussuosa da fare invidia persino a un re. Ed è proprio quello che accadde. Carlo Felice convocò subito l’artigiano e lo invitò a usare un tiro a due, perché non poteva lui, re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, permettersi di fè na figura da ciculatè, fare una figura da cioccolataio.

Avere voce in capitolo. No, i capitoli dei libri non c’entrano nulla, e nemmeno i bilanci d’esercizio e la contabilità. Questa espressione medievale trae origine dalla vita monastica e dal diritto canonico. Il Capitolo era infatti l’assemblea di monaci che si teneva ogni giorno, sotto la supervisione del padre priore, nella cosiddetta sala capitolare, per la lettura delle regole e la discussione dei problemi. Non tutti i monaci avevano però diritto di parola; alcuni potevano solo ascoltare senza intervenire. Per questo oggi, in senso figurato, avere voce in capitolo significa avere il titolo e l’autorevolezza per esprimere un parere, fare una proposta o prendere una decisione.

Piove sul bagnato e cioè la fortuna arride sempre a chi ne ha già abbastanza. Questa felice espressione ha chiare origini letterarie: “Piove sul bagnato: lagrime su sangue, sangue su lagrime” è quanto scriveva infatti Giovanni Pascoli nelle sue Prose. Nel linguaggio comune questo diffuso modo di dire sta a significare che gli eventi piacevoli capitano a chi è già baciato dalla buona sorte e, per converso, le avversità si abbattono contro chi sta soffrendo ed è tormentato dalla sfortuna.

La camicia non tocca il culo. “Guarda, Antonio, è arrivato Giovanni; è talmente contento per il ‘salto’ sociale che la camicia non gli tocca il culo”. L’espressione si utilizza quando si vuole mettere in evidenza la contentezza di una persona per il successo ottenuto. La locuzione, immortalata negli scritti del Boccaccio e in quelli dei novellieri del Rinascimento, deriva probabilmente dal modo di camminare di una persona che per la gioia o la soddisfazione si muove impettita, come se fosse aumentata di altezza tanto che… la camicia non le tocca il culo.

Far venire il latte alle ginocchia è utilizzata per esprimere impazienza, noia, frustrazione, fastidio, impotenza, esasperazione. Pare che le origini di questo detto siano correlate all’antica pratica della mungitura. Un tempo, il mungitore si sedeva su uno sgabello al fianco della mucca e all’altezza delle mammelle sistemava un secchio tra le gambe e, armandosi di santa pazienza, iniziava a mungere finché il livello del latte non fosse arrivato al livello delle sue ginocchia.

Farsi infinocchiare. Nel periodo medievale gli osti veneti, in particolare quelli veneziani, erano soliti offrire ai loro clienti dei rametti di finocchio prima di servire loro vino di pessima qualità. Così facendo erano sicuri che gli avventori non si sarebbero accorti del vino “scadente”. Il forte aroma del finocchio, infatti, ingannava il palato, e l’ospite veniva così “infinocchiato”, ingannato, perché è risaputo che il finocchio, particolarmente quello selvatico, ha il “potere” di camuffare il sapore delle bevande e dei cibi.

Trump: “Voto truccato, Joe alla Casa Bianca non può entrare”

In 244 anni di storia degli Stati Uniti, non è mai accaduto che un’elezione presidenziale sia stata decisa dal voto malandrino di un Grande Elettore che abbia violato il proprio mandato: solo 165 Grandi Elettori su 23.529, lo 0,7%, hanno votato per un candidato diverso da quello che avevano mandato di scegliere: e 71 di questi perché il loro candidato era nel frattempo deceduto. Ma Donald Trump non ha ancora abdicato alla speranza di rovesciare l’esito maturato nelle urne, cioè la vittoria di Joe Biden, quando il Collegio Elettorale dei Grandi Elettori si riunirà: l’8 dicembre separatamente nei singoli Stati e poi il 14 dicembre tutti insieme. Giovedì, il magnate ormai presidente uscente s’è impegnato a lasciare la Casa Bianca. Poi, quasi pentito, ha innescato la retromarcia: impossibile ammettere la sconfitta, anzi, bisogna “ribaltare il risultato”. Ma un giudice federale in Pennsylvania respinge la sua richiesta di bloccare la certificazione del voto. Su Twitter, Trump contesta il record di voti di Biden e rilancia la tesi dei brogli: “È impossibile che Biden abbia avuto 80 milioni di voti! Sono elezioni truccate al 100%”. Una prova? “Il discorso di Biden per il Thanksgiving ha ottenuto solo 1000 visualizzazioni online, un minimo storico. Un candidato con 80 milioni di voti otterrebbe molte più visualizzazioni online. I numeri non mentono”. E ancora: “Biden può entrare alla Casa Bianca come presidente solo se dimostra che i suoi ridicoli 80 milioni di voti non sono stati ottenuti in modo fraudolento o illegale. Biden ha un problema irrisolvibile”. Dalla prossima settimana, il presidente uscente tornerà a fare campagna elettorale, in Georgia, dove sosterrà i due repubblicani in lizza nei ballottaggi del 5 gennaio, il cui esito è decisivo per il controllo del Senato: attualmente, i senatori repubblicani eletti sono 50 e i democratici 48.