La guerra civile in Etiopia è ormai un dato di fatto. Dopo un mese di scontri armati tra l’esercito federale etiope e il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf), che ha lanciato il conflitto contro il governo centrale, sarebbe iniziata l’offensiva “finale” di Addis Abeba. Sarebbe perchè i soldati, pur avendo ricevuto l’ordine ieri, non sono stati ancora visti nella provincia dove si trova la capitale del Tigray, Mekelle, obiettivo del rush finale. Che però, secondo quanto sostengono numerosi osservatori non sarà un rush ma un conflitto lungo che potrebbe destabilizzare l’intero Corno d’Africa. Lo ha sottolineato anche l’Alto Rappresentante degli Affari esteri dell’Unione europea, Josep Borrell, preoccupato per le future vittime e le migliaia di civili in fuga nel confinante Sudan privo di strutture per accoglierli. L’esercito, che aveva già preso il cruciale aeroporto di Humera nonostante le smentite del Fronte di liberazione tigrino, ora punta alla capitale regionale Mekelle, abitata da mezzo milione di persone, governata dai leader del Tigray. Il vertice politico dello Stato “ribelle” ha guidato per decenni tutto il paese fino al 2018 quando fu scalzato in seguito a una rivolta popolare da un esponente dell’etnia Oromo, maggioritaria in Etiopia, ovvero il premier Abiy Ahmed. Premio Nobel per la Pace nel 2019 grazie alla firma degli accordi per porre fine alla lunga guerra con l’Eritrea, Ahmed ha sentenziato che è scaduto l’ultimatum di 72 ore intimando alle milizie tigrine di arrendersi “altrimenti non ci sarà pietà”. Il primo ministro però ha più volte dichiarato che in questa fase finale verrà fatto di tutto per proteggere i civili innocenti e verranno fatti tutti gli sforzi per evitare di danneggiare le abitazioni e i siti archeologici e i luoghi di culto copti di Mekelle. Per quanto riguarda i tentativi delle diplomazie straniere, comprese quelle africane, di fare da intermediarie, Abiy li ha bloccati sul nascere bollandoli come “atti di interferenza inopportuni nonchè illegali”. La rappresentante delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michele Bachelet, ha dichiarato di “essere davvero preoccupata, in particolare a causa dei civili intrappolati a Mekelle e per la mancanza di accesso alla regione da parte degli operatori umanitari”. Le autorità di Addis Abeba hanno risposto che sarà aperta “una via di accesso umanitario sotto la supervisione del governo” ma non sotto le insegne dell’Onu. Sarebbero centinaia le persone finora uccise e almeno 40 mila i profughi costretti a lasciare le proprie case con l’avanzare dell’esercito per rifugiarsi appena oltre confine, in Sudan. Ma da due giorni le truppe etiopi sono dispiegate anche lungo tutta la frontiera impedendo così alle persone in fuga di lasciare il Paese. I dettagli dei combattimenti sono però difficili da confermare: le comunicazioni telefoniche e Internet con lo Stato del Tigray sono state tagliate.
Brutti, sporchi e cattivi: è la Cia, anche con Biden
Brutti, sporchi e cattivi. Se non sono così i direttori della Central Intelligence Agency (Cia) negli Stati Uniti non li prendono sul serio. E neanche il presidente appena eletto, Joe Biden, pare fare eccezione. Dopo Avril Haines a capo dell’Intelligence, infatti, il democratico sta affrontando in queste ore la decisione sul nome a cui affidare la più importante tra le 17 agenzie di spionaggio del Paese, che proprio sotto l’Amministrazione Trump ha dimostrato la preminenza del suo ruolo nella politica interna (vedi Russiagate).
Tre le possibilità al vaglio di Biden, secondo fonti vicine al presidente, sentite da Politico. Tom Donilon, il brutto, o meglio, bruto. Già consigliere della sicurezza di Barack Obama, quel porto sicuro che non tradisce. Classe 1955, né troppo anziano, né troppo giovane. Profondo conoscitore sia della macchina fin dai tempi di Jimmy Carter, che del neo-presidente – di lui resta nella storia la foto alla Casa Bianca accanto a Biden mentre i Navy Seal uccidevano Osama bin Laden nel 2011 – è anche un esperto di Estremo Oriente, che non guasta. Per finire, il suo incarico resterebbe in famiglia, con il fratello Mike dato tra i consiglieri della Casa Bianca. Peccato che la corrente a sinistra di Biden non veda Donilon di buon occhio per due ragioni: una, quella per il suo ruolo di presidente della BlackRock Investment, con forti interessi nell’industria del petrolio. La seconda, e qui torniamo al bruto, è che per i suoi detrattori, compresi gli ex membri del suo staff sarebbe un capo insolitamente duro incapace di gestire i suoi dipendenti con uno scopo chiaro. A ogni modo, per ora pare che Donilon sia il favorito, soprattutto per scongiurare l’arrivo di quello “sporco”, Michael Morell. Già a capo della Cia ad interim tra il 2012 e il 2013, dunque anche lui buon conoscitore dell’establishment, ma inviso ai dem per quel suo vizietto di difendere in passato l’uso della forza e della tortura da parte degli agenti, in particolare durante gli interrogatori ai sospettati dell’11 settembre 2001, durante i quali veniva spesso utilizzata la tecnica del waterboarding. “All’epoca il dipartimento di Giustizia ci disse che era legale. Ma i miei agenti non hanno mai torturato nessuno”, ha spiegato dopo Morell. Non è dello stesso avviso il democratico Ron Wyden, membro della commissione intelligence del Senato che alla sua nomina si oppone con fermezza e che al Daily Beast ha giurato che “nessun apologeta della tortura sarà confermato a capo della Cia”. Terzo viene il cattivo, Jeh Johnson, ex segretario per la sicurezza nazionale di Barack Obama, ex procuratore federale, consigliere del Pentagono nell’Obama I, cercò di chiudere senza successo Guantanamo Bay. Peccato che sieda nel consiglio di amministrazione di Lockheed Martin, non esattamente una spilla di cui farsi vanto di fronte ai progressisti del partito democratico che spingono perché Biden tagli le spese della Difesa.
Johnson non ha voluto commentare le voci sul suo futuro. Intanto la neo direttrice dell’Intelligence, Avril Haines ha fatto trapelare che preferirebbe Morell a Donilon con cui ha già lavorato nel Consiglio di sicurezza nazionale. Biden, dicono, tiene in grande considerazione l’opinione di Haines e, d’altra parte, in caso scegliesse Morell supererebbe la “linea rossa” impostagli dalla corrente progressista del partito, quella che sta lavorando affinché non si noti troppo la vena centrista del presidente appena eletto.
Iran, l’arma nucleare resta orfana: il “papà” era nella lista nera
“Ricordatevi questo nome”, aveva detto due anni fa il premier Netanyahu. E ieri, il capo del Programma nucleare iraniano è stato assassinato vicino Teheran. La Nissan nera di Mohsen Fakhrizadeh, professore di Fisica e ufficiale della Guardia rivoluzionaria iraniana, è stata investita da decine di colpi. Un agguato nel quale sono stati feriti gravemente anche gli uomini della sua scorta. La notizia è stata ufficializzata con un comunicato del ministero della Difesa iraniano. Fakhrizadeh è stato portato in ospedale e come recita la nota ufficiale: “L’equipe medica non è riuscita a rianimarlo, e questo manager e scienziato, ha raggiunto il martirio”. Nessuna parola sulla matrice dei terroristi che hanno compiuto l’agguato né sul fatto che gli aggressori siano fuggiti senza lasciare traccia, arrivati dal nulla e scomparsi nel nulla.
L’attacco è avvenuto ad Absard, una piccola cittadina alle porte di Teheran, dove lo scorso 7 agosto altri misteriosi killer hanno ucciso Abdullah Ahmed Abdullah, noto anche come Abu Mohammed al-Masri, il numero 2 di Al Qaeda che, fuggito dall’Afghanistan, viveva sotto la sorveglianza dei Pasdaran. L’area Absard è piena di ville per le vacanze dell’élite iraniana con vista sul Monte Damavand, la vetta più alta del paese. Le strade per il fine settimana erano più vuote del solito a causa di un blocco per la pandemia di coronavirus, e questo ha dato ai killer la possibilità di colpire con meno gente in giro. La tv di Stato ha mostrato immagini delle forze di sicurezza che bloccavano la strada dell’agguato, avvenuto in un tratto dove non ci sono abitazioni. Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ha denunciato che probabilmente c’è Israele dietro l’assassinio. “I terroristi hanno ucciso un eminente scienziato iraniano. Questa codardia, con gravi indizi del ruolo israeliano, mostra un disperato disegno guerrafondaio”, ha scritto su Twitter. “L’Iran chiede alla comunità internazionale – e in particolare all’Ue – di porre fine ai loro vergognosi doppi standard e di condannare questo atto di terrorismo di stato”. Moshen Fakhrizadeh uscì dall’ombra quando venne nominato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel 2018 come direttore del progetto di armi nucleari iraniane, denominato Amad. Quando Netanyahu rivelò che il Mossad aveva rubato da un magazzino a Teheran un vasto archivio di materiale iraniano dettagliato con il suo programma di armi nucleari, disse: “Ricordate questo nome, Fakhrizadeh”. Il fisico iraniano era già da tempo entrato nel mirino del Mossad, che ha dimostrato di poter agire agevolmente nel cuore del terreno nemico, appoggiandosi alle reti clandestine degli oppositori degli ayatollah – i monarchici che sognano il ritorno dello Scià, i Mujaheddin Khalq, la minoranza sunnita – che il Vevak, lo spionaggio iraniano, non è riuscito a debellare. Israele, il “sospettato” numero uno per le uccisioni mirate di scienziati nucleari nel tentativo di rallentare il programma nucleare iraniano, ieri non ha fatto commenti. Almeno quattro scienziati sono stati uccisi tra il 2010 e il 2012. Nel 2014, quattro scienziati nucleari siriani sono poi stati uccisi vicino a Damasco dopo che uomini armati avevano aperto il fuoco contro il loro autobus, nell’attacco morì anche uno scienziato iraniano.
L’assassinio di Fakhrizadeh è destinato a far salire la tensione con Israele e con gli Usa. L’Amministrazione Trump ha in programma di inasprire le sanzioni contro l’Iran prima che il presidente eletto Joe Biden entri in carica e possa tornare all’accordo sul nucleare negoziato da Obama nel 2015 e ancora valido per l’Unione Europea. Nonostante la crisi politica – Israele è a un passo dalle quarte elezioni in due anni – la macchina militare è perfettamente attiva e secondo un rapporto confidenziale l’esercito si sta preparando alla possibilità che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump possa ordinare un attacco contro l’Iran prima di lasciare l’incarico a gennaioNon ci sono informazioni specifiche, ma i leader israeliani ritengono che le ultime settimane di lavoro del presidente degli Stati Uniti saranno certamente “un periodo molto delicato”.
Cabrini: “Fosse stato nella Juve sarebbe vivo oggi”
Ora che tutto è finito, e che Maradona – che con le parole ci sapeva fare solo un po’ meno che con i piedi – non può più rispondere a tono di quel che si dice di lui, restano come impunite alcune uscite. “Se Maradona avesse giocato nella Juventus, non solo avrebbe potuto vincere molto di più, ma forse oggi sarebbe ancora qui”. Lo ha detto ieri Antonio Cabrini, bandiera della Juve negli anni 70-80 e campione del mondo nel Mondiale 1982, in una intervista rilasciata a Irpinia Tv. “Sì, sarebbe ancora qui perché l’ambiente lo avrebbe salvato. Non la società, ma proprio l’ambiente – ha aggiunto –. L’amore di Napoli è stato tanto forte e autentico quanto, ribadisco, malato”. Per l’ex terzino, “Maradona in campo avrebbe potuto vincere una partita da solo e in un altro ambiente avrebbe potuto vincere anche quella della sua vita terminata troppo presto”.
Tanta sicurezza non tiene conto di un po’ di cose. Primo: che Maradona alla Juve non ci è mai voluto andare: certo sapeva che avrebbe potuto vincere di più, ma forse per lui era più importante farlo in un altro ambiente. Secondo: la “partita della vita” purtroppo non si capisce mai bene su quale campo si giochi. E non è mai questione di schemi. Nemmeno di ambiente. Nemmeno se stai nella Juve.
(Ps: a partita abbondantemente finita, ieri sera Cabrini si è dovuto scusare con Napoli: “Il mio non era un giudizio morale, ma sull’energia di una città che non poteva contenere tutta questa passione”).
Il museo segreto di Maradona nella casa dell’ex governante
Il 5 aprile 1989 a Monaco di Baviera, prima di una storica semifinale di Coppa Uefa, Diego Armando Maradona inizia a ballare durante il riscaldamento. Balla insieme al pallone. Si muove e palleggia seguendo il ritmo della musica che arriva dagli altoparlanti – live is life, na na na na na – lo fa con una naturalezza impossibile, un’intimità che non si riesce a spiegare. Non è calcio, né danza: è una forma d’arte di sintesi. È uno dei momenti assoluti di Maradona. È nella sua eredità a fianco del gol del secolo all’Inghilterra, la punizione irreale alla Juve o il pallonetto da centrocampo al Verona.
Molto lontano dagli occhi del mondo che piangono per il Dieci, quei ricordi diventano materiali. Nello scantinato di una palazzina in periferia, a Miano, c’è un museo nascosto del maradonismo. Quasi nascosta, in un tesoro di storia del calcio, c’è anche la giacchetta che Diego indossava a Monaco mentre ballava con il pallone. Accanto, la maglia dello scudetto del 1987 e quella dell’anno successivo, con la coccarda della Coppa Italia e il tricolore della Serie A. Sono originali, indossate da lui per davvero. E poi scarpini, palloni, borse, maglie del Boca e dell’Argentina, decine di fotografie autografate, una vecchia panchina in legno dello stadio San Paolo, addirittura un divano bianco in pelle che apparteneva alla casa napoletana del Pibe.
Napoli è incredibile. In città ognuno ha conservato un segno del passaggio di Maradona, come se ci fosse bisogno di qualcosa di concreto per rendere reale una manifestazione divina. Ma nessun posto è come questa stanza a Miano: ricorda il “Museo dell’innocenza” di Pamuk a Istanbul; il senso degli oggetti, centinaia di oggetti, per raccontare una storia.
Quella di Diego e di una famiglia napoletana. Anzi, della sua famiglia napoletana. Perché quei cimeli Maradona li ha donati personalmente a Saverio Silvio Vignati, il custode che per 35 anni ha tenuto le chiavi dello Stadio San Paolo. Oppure a sua moglie, Lucia Rispoli, che era la sua cuoca e la governante della casa del Pibe a Posillipo. Oggi il “museo” è mantenuto da loro figlio, Massimo Vignati. Racconta una storia talmente incredibile che deve aiutarsi con le fotografie per convincere chi lo ascolta: “Mamma ha conosciuto Diego per caso. Sua madre – mia nonna – era la cuoca di un famoso imprenditore. Quella sera però era stanca e si fece sostituire dalla figlia, che era brava quanto lei. Mamma non sapeva che a cena ci fosse Maradona. A un certo punto entrò in cucina, prese un tozzo di pane e fece la ‘scarpetta’ nel sugo. Posso testimoniare che il sugo di mamma è una cosa mondiale. Da quel momento non l’ha lasciata più, per sette anni è stata la donna che si occupava di casa sua”.
Massimo ha vissuto un’infanzia da romanzo: “Il lunedì Maradona mi portava a giocare a calcetto a Posillipo, nel circolo sportivo di Gianni Improta. Il martedì andavamo agli allenamenti insieme. Mi faceva scegliere la macchina: un giorno la Ferrari, un giorno la Mercedes”. Lucia, vedova di Saverio, da mercoledì pomeriggio si è chiusa in camera. A Napoli tutti considerano Maradona un parente, questa donna di 74 anni può dire davvero di averlo trattato come un figlio.
Il museo è una perla nascosta, chiusa in un seminterrato. All’esterno c’è l’insegna del Club Napoli “Saverio Silvio Vignali” di Miano. Ogni tanto qualcuno che conosce questo segreto si affaccia. “Una volta sono venuti dei cinesi – dice Massimo ridendo –. E una volta una coppia francese, che ha preso la metro fino a Scampia e poi si è fatta una gran camminata fino a qui. Lei era incinta di 7 mesi, il figlio ora si chiama Diego”.
Si chiamerà Diego Armando Maradona anche lo stadio dove suo padre ha lavorato per una vita: “La cosa più bella sarebbe trasportare lì questo museo”.
Omicidio Rostagno, la Cassazione conferma l’ergastolo al capomafia. Ma il killer non c’è
Solo uno spicchio di verità giudiziaria, ieri, per l’omicidio di mafia e non solo, del giornalista Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi, Trapani, ben 32 anni fa, il 26 settembre 1988. Ieri sera la Cassazione ha confermato l’ergastolo per il boss Vincenzo Virga, allora capomafia della provincia trapanese. Confermata pure l’assoluzione di Vito Mazzara, condannato in primo grado, nel 2014, come killer di Rostagno e assolto dalla Corte d’Assise d’appello di Palermo nel 2018. Restano tanti dubbi e sospetti su chi, oltre a Cosa Nostra, abbia voluto la morte di Rostagno e su chi gli abbia sparato mentre in macchina stava rientrando a Saman, la comunità di recupero che aveva contribuito a fondare. In Cassazione hanno fatto ricorso sia la Procura generale di Palermo (per Mazzara) sia i difensori di Virga. Durante la requisitoria di ieri, il sostituto pg Gianlugi Pratola aveva chiesto la conferma dell’ergastolo per Virga e l’annullamento dell’assoluzione di Mazzara ma con rinvio, cioè per lui aveva chiesto un Appello bis. Condannato in primo grado all’ergastolo, Mazzara fu assolto dai giudici in Appello perché, a loro avviso, non ha retto la prova “regina” contro di lui: gli esami scientifici effettuati molti anni dopo sull’arma del delitto. Dunque, ci sono voluti oltre 30 anni per avere un frammento di giustizia per quella morte che è da ricollegare inequivocabilmente ai coraggiosi e puntuali editoriali di Rostagno su Rtc, una tv locale. Ma Rostagno non attaccava solo i boss di Cosa Nostra, denunciava anche gli intrecci politico-mafiosi e con la massoneria, storicamente fortissima in quella parte della Sicilia (vedi “loggia Scontrino”). Il dopo omicidio è segnato da depistaggi istituzionali con annesso arresto pure della compagna del giornalista, Chicca Roveri, madre di una delle figlie, Maddalena: si voleva accreditare l’ipotesi che il movente fosse da ricercare dentro Saman. “Bisognava mettere a tacere per sempre quella voce – scrivevano i giudici d’Appello – che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari e le trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere”. Così la pensava anche l’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, che aveva fatto riaprire le indagini da cui è nato il processo, che ieri è arrivato in Cassazione. E al Tribunale di Trapani è in corso un processo connesso, per falsa testimonianza, contro dieci persone, tra cui un luogotenente dei carabinieri in pensione, Beniamino Cannas, e Leonie Heur, vedova di Angelo Chizzoni, un generale dell’Intelligence, ex Sisde.
Strage Bologna, al processo sui mandanti torna in aula pure l’ex primula nera Bellini
Nell’aula 11 del Tribunale di Bologna, dietro le porte chiuse dell’udienza preliminare, c’è anche lui. La Primula Nera, Paolo Bellini. Il ‘quinto uomo’ della strage alla stazione del 2 agosto 1980, secondo l’avvocato generale Alberto Candi e i sostituti Umberto Palma e Nicola Proto. Tutti magistrati della Procura generale, che ha avocato a sé l’indagine nel 2017, alcuni mesi dopo che la procura ordinaria ne aveva chiesto l’archiviazione. Dopo più di tre anni di indagini, adesso si deciderà se processare o meno il 67enne ex membro di Avanguardia Nazionale, omicida e collaboratore di giustizia. Un passato da film, pieno di misteri. Negli anni Settanta, dopo aver sparato al convivente di sua sorella, scappa da Reggio Emilia e assume la falsa l’identità di Roberto Da Silva. È latitante ma nel 1977, dopo anni in Sudamerica, decide di rientrare in Italia e si trasferisce a Foligno dove diventa un habitué dell’aeroclub. Volare è sempre stata la sua passione, lo sanno tutti nell’ambiente di destra, e almeno in due occasioni accompagna l’allora procuratore di Bologna Ugo Sisti a Roma. Paolo e il padre Aldo sono in ottimi rapporti con Sisti: il magistrato, deceduto nel 2009, la notte dopo la strage si trova proprio in un albergo a Reggio Emilia di proprietà di Aldo Bellini. La Primula Nera fu inquisito nel 1992 anche grazie alla testimonianza di un paio di persone che dichiararono di averlo visto in stazione ma venne poi prosciolto grazie all’alibi fornitogli dalla famiglia che confermava invece la sua presenza a Rimini insieme a loro. Intercettata nell’ambito di queste nuove indagini però l’ex moglie lo ha riconosciuto in un’immagine catturata da una cinepresa di un turista tedesco che si trovava sul primo binario il giorno della strage. A differenza del figlio, che ai tempi era un neonato, l’ex moglie non sembra avere dubbi e ricorda ad alta voce di aver sempre saputo che Bellini fosse a Bologna in quei giorni ma “solo per un affare di mobili rubati”. Il reggiano potrebbe essere “l’aviere” una figura di cui parla Carlo Maria Maggi, ex capo di Ordine Nuovo, condannato per la strage di Brescia, intercettato in casa con il figlio. “In pratica già qua nei nostri ambienti erano in contatto con il padre di ’sto aviere e dicono che portava una bomba”. La Primula Nera, apparso invecchiato, è corso via al termine dell’udienza, che proseguirà a gennaio. “Abbiamo appena iniziato, è ancora tutto da discutere”, ha detto l’avvocato generale dello Stato.
Open Fiber, lite sui ritardi: finora 4 milioni di penali
Lo scontro sui ritardi di Open Fiber per i lavori di cablaggio della rete in fibra nelle aree a fallimento di mercato sta raggiungendo vette surreali, con accuse pesanti. Ieri la società (50% a testa Cdp ed Enel) ha reagito duramente alla notizia di una lettera spedita da Infratel, la concessionaria pubblica della rete che OF deve costruire, che annuncia azioni legali a causa degli ulteriori ritardi accumulati che potrebbero far slittare i lavori oltre il 2023, scadenza già slittata di 3 anni rispetto al 2020 previsto dai bandi Infratel. OF ha risposto dicendo che la tabella di marcia verrà rispettata, ma ha ammesso i ritardi. Infratel ha già applicato 4 milioni di penali per i ritardi sui lavori, avanzati finora del 55%. OF se l’è presa con la fuga di notizie e incredibilmente anche con Italtel, il suo progettista, le cui difficoltà sarebbero in parte alla base dei ritardi. Non solo, secondo OF ci sarebbe un possibile conflitto di interessi in cui si trova Italtel, perchè è stata scelta da Tim come advisor per valutare il valore della società in vista del progetto rete unica.
Dibba contro Crimi: “In Puglia col Pd, sei come Forlani”
I 5 Stelle si dividono ancora sull’intesa pugliese con il governatore Pd, Michele Emiliano. Così come era stato durante tutta la campagna elettorale, la spaccatura tra chi vorrebbe il dialogo e chi sogna un M5S equidistante tra destra e sinistra prosegue nelle fasi di formazione della giunta.
Ieri Vito Crimi ha precisato che al momento i 5 Stelle non fanno parte della squadra di Emiliano, pur avendo accettato l’offerta della vicepresidenza del Consiglio regionale. Nel suo post, Crimi ha tentato di soffocare le polemiche: “Invece di parlare di tradimento, cerchiamo di lavorare per i cittadini”. Sotto al suo post, è comparsa subito la replica di Alessandro Di Battista: “Forlani deve averti rubato l’account. Controlla”.
Intanto i 5 Stelle devono anche vedersela con alcuni guai in Ue: l’Ufficio europeo per la lotta anti-frode ha infatti congelato i versamenti degli eurodeputati grillini a favore del Movimento, in maniera analoga a come aveva fatto per altri partiti a Bruxelles. Il M5S dovrà perciò ripensare il proprio auto-finanziamento.
Mail Box
Una svolta giuridica nel settore della canapa
Lo scorso 19.11 è accaduto un fatto storico nel settore della cannabis e nessun giornale ne ha parlato. La Corte di Giustizia europea ha detto senza mezzi termini che il Cbd e la canapa (cannabis light) sono prodotti del tutto legali e nessuno Stato membro può proibirne la libera circolazione e commercializzazione. Le motivazioni della Corte si basano sulle evidenze scientifiche e sugli obbiettivi della Convenzione Unica degli Stupefacenti del 1961 che avevano a cuore la tutela della salute pubblica.
Arben Cuadari
B. continua a fregare la sinistra italiana
Con certezza, di Berlusconi si possono dire almeno due cose. È stato condannato per aver frodato il fisco. Ha fregato clamorosamente due che si credono molto furbi, Massimo D’Alema, vedi alla voce B… icamerale. Matteo Renzi, vedi alla voce riforma della Costituzione 2016. Che il geniale Bettini consigli il Pd di prendere per buona la proposta del “magliaro” di una collaborazione unitaria in Parlamento, per il bene del Paese, mi rafforza nella convinzione che solo uno tsunami potrebbe risanare la sinistra italiana.
Vittorio Melandri
Virus, ai cittadini servono spiegazioni
In questo momento di grande preoccupazione e sconcerto da parte di molti cittadini, la politica potrebbe rivolgersi loro esordendo magari così: “Signori, ci rendiamo conto che siamo piombati nelle vostre vite e le stiamo quotidianamente devastando. Ci rendiamo conto che stiamo frantumando progetti, deludendo speranze”. Io credo che il popolo di una nazione non sia composto solo da individui aventi diritto al voto, ma soprattutto da cittadini aventi diritto alla libertà e a spiegazioni chiare e circostanziate nel momento in cui detta libertà debba essere a tal punto limitata.
Maria Ida Leone
Lutto Maradona: quanti affollamenti sconsiderati
Durante gli assembramenti dei seguaci del Dio del pallone, nascosto c’era anche il malfamato allenatore Mister Corona Sars II (“Covid” per gli amici ultras). La presenza del Mister sarà confermata se, fra qualche settimana, scoppierà la bomba “Maradona Covid” negli ospedali a Napoli e a Buenos Aires. Purtroppo dove entra il pallone… esce la ragione.
Claudio Trevisan
DIRITTO DI REPLICA
Con riferimento all’articolo da voi pubblicato ieri dal titolo “Affaristi e Csm. Casellati sentita in Procura”, precisiamo che Piero Amara non è “ex legale di Eni” ma ex avvocato di uno studio esterno che prestò assistenza legale per alcuni manager Eni in occasioni di loro coinvolgimento in indagini per presunti reati ambientali. Non comprendiamo perché continuamente associare il nome di Amara (che ben vantava numerosi altri clienti diversi da manager della nostra società e per conto dei quali è stato condannato in via definitiva per corruzione di giudici dello Stato) a Eni anche quando essa non ha nulla a che vedere con il contenuto della notizia. Ricordiamo altresì (nell’occasione) che Amara è stato citato in giudizio da Eni per il risarcimento dei danni causati dal suo comportamento, ed è stato altresì querelato e denunciato da vari manager della società in relazione a svariate false affermazioni e false dichiarazioni da lui rese in vari procedimenti.
Erika Mandraffino,
Direttore Comunicazione Eni
Eni, non coinvolta nelle vicende descritte, era di certo il cliente più prestigioso dell’avvocato Amara. Sappiamo che, dopo il suo arresto e gli interrogatori in cui ha accusato Eni, è stato citato in giudizio, querelato e denunciato da Eni e da alcuni suoi manager di vertice.
Sappiamo però anche che, prima del suo arresto, Amara ha lavorato molto per la compagnia, come si legge in un internal audit Eni: “Dall’anno 2000 fino a settembre 2017, risultano registrati 81 fascicoli legali con parcelle pagate all’avvocato Piero Amara, per un valore complessivo di circa 13,5 milioni di euro”.
FQ