Philip Morris-Casaleggio? Buongiorno!

Il mondo è strano e oggi scopriamo che esiste il conflitto d’interessi a scoppio ritardato. Il ruolo della Casaleggio Associati torna sotto accusa. A sollevare il caso è stato Il Riformista, che ha rivelato i soldi versati dalla Philip Morris alla società di Davide Casaleggio. Un contratto di consulenza, firmato nel 2017, per un totale di 2,4 milioni, accostato dal giornale a un intervento del governo Conte-1 a favore delle sigarette a tabacco riscaldato, di cui il colosso è maggior produttore con la sua Iqos. La notizia è stata ripresa da altri giornali. L’opposizione attacca, da Giorgia Meloni a Forza Italia. Anche Nicola Fratoianni (Si) chiede chiarimenti. Casaleggio annuncia querele per gli accostamenti.

Eppure la consulenza del colosso del tabacco alla società del presidente dell’associazione Rousseau, cuore politico del M5S, è nota da un anno, dall’ottobre 2019, quando la rivelò Il Fatto (all’epoca era nota la cifra annuale, 500 mila euro) che diede conto anche dello sconto sull’accisa per il tabacco riscaldato decisa dal governo gialloverde. Reazioni? Nessuna, eppure all’epoca Casaleggio non era in rotta con il Movimento.

Oggi scopriamo che le norme a favore di Philip Morris e il suo rapporto con la politica sono una novità dirompente. Il colosso incassa favori fiscali da anni. A fine 2016, il governo Renzi accordò uno sconto del 50% sull’accisa del tabacco riscaldato nel decreto che riformava il settore. Pochi mesi prima, Renzi si era fiondato a Bologna per inaugurare in pompa magna lo stabilimento delle Iqos di Philip Morris: 800 posti nella “rossa” Emilia. Non c’è manovra di bilancio in cui non abbia fatto capolino una norma sospetta. Nell’ultima, per dire, è saltato un aumento delle accise.

Tra il 2017 e il 2018 sono state diverse le aziende con business regolati dallo Stato, da Moby a Lottomatica, che hanno siglato contratti di consulenza con la Casaleggio (in una evidente situazione di potenziale conflitto di interessi, visto il ruolo in Rousseau). Tutti rivelati dal Fatto nel silenzio più assoluto.

Il Garante indaga, i furbastri sperano nello stop all’Inps

Perdonati dai partiti, ignorati da quasi tutti i giornali e soprattutto ancora senza un volto. E così potrebbe rimanere fino all’anno nuovo, sempre che l’Inps possa poi davvero svelare il mistero.

Sono passati più di tre mesi dallo scoppio dello scandalo dei cinque parlamentari che hanno chiesto il bonus Covid-19 destinato alle partite Iva, eppure il caso è ancora lontano da una risoluzione.

L’identità di tre di loro è nota – i leghisti Andrea Dara ed Elena Murelli e l’ex 5Stelle Marco Rizzone –, mentre quella degli altri due potrebbe non essere mai rivelata: l’Autorità garante per la privacy sta indagando su come l’Inps ottenne i dati di quei deputati e, se accertasse irregolarità, a quel punto l’ente non potrebbe neanche divulgarne i nomi.

Di certo c’è che per una risposta, in un senso o nell’altro, dovremo aspettare ancora qualche settimana perché l’istruttoria del Garante è tuttora in corso e terminerà come minimo a ridosso di Natale o, più probabilmente, a inizio 2021. Solo allora, quando il dipartimento avrà completato l’indagine e il collegio dovrà giudicare l’ente, si saprà il destino di quei nomi.

La decisione del Garante non sarà dunque direttamente sulla legittimità di rendere pubblico chi sono i furbetti del bonus – su questo l’Autorità si è già espressa, pur senza parere formale, chiarendo che in un caso del genere i politici non possano trincerarsi dietro al diritto alla privacy – ma su come l’Inps venne a conoscenza del fatto che tra i richiedenti del bonus c’erano alcuni deputati e consiglieri regionali, che fecero domanda nonostante stipendi mensili a cinque cifre. Era necessario che l’ente raccogliesse tutti quei dati?

Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ritiene di sì, come ha spiegato anche in Commissione Lavoro alla Camera in agosto, perché la profilazione rientrava nelle normali attività della struttura antri-frode dell’ente, che doveva controllare se tra i richiedenti non ci fossero persone iscritte ad altra cassa previdenziale (eventualità che avrebbe impedito l’erogazione del bonus da 600 euro). Tutte le forze politiche d’opposizione, Italia Viva e parte del Pd hanno invece accusato Tridico di essersi mosso ben oltre le sue prerogative, chiedendone così le dimissioni. Per verificare questa eventualità si sta muovendo il Garante, che nelle ultime settimane ha raccolto materiale sui fatti avviando un’interlocuzione con l’Inps, a sua volta in contatto con Montecitorio soprattutto per chiarire la natura della previdenza parlamentare.

Una volta avuto accesso a tutte le carte, l’Autorità si potrà occupare dell’analisi giuridica del caso: se riterrà che l’Inps non avrebbe potuto a priori incrociare i propri dati con quelli della Camera, indagando sulle altre casse previdenziali dei deputati richiedenti, allora Tridico potrebbe passare guai legali e l’ente non potrà rivelare i nomi degli altri due parlamentari coinvolti e di tutti i consiglieri regionali che si sono intascati il bonus Covid.

D’altra parte, l’eventuale archiviazione nei confronti dell’Inps sembra ormai l’unico modo per scoprire i furbetti. La politica, infatti, che pure si era mostrata così indignata, ormai è immobile. La Commissione Lavoro di Montecitorio aveva deciso di invitare in audizione Pasquale Stanzione, il presidente dell’Autorità per la privacy, ma poi tutto è stato congelato in attesa del giudizio del Garante. Nel frattempo i furbetti hanno smesso di auto-denunciarsi, avendo capito che rischiano di farla franca, mentre la Lega, in cui militano due deputati e una decina di consiglieri regionali coinvolti nello scandalo, ha già riabilitato quasi tutti i suoi.

Se però il Garante sancisse che la raccolta dati dell’Inps è stata regolare, non servirà aspettare il risveglio della politica per sollecitare Tridico a rivelare l’identità dei furbetti: basterà che l’ente riprenda in mano la richiesta di accesso civico agli atti recapitata dal Fatto Quotidiano e per ora lasciata in sospeso in attesa del giudizio. Così sarà finita ogni melina.

Mes, Ristori, bilancio: le sfide di B.

Raccontano che nella telefonata di felicitazioni reciproche, come per festeggiare un amore riesploso, giovedì Renato Brunetta, che faceva le veci di Berlusconi, abbia salutato così Roberto Gualtieri: “Ciao, ci sentiamo presto!”. Non che la confidenza tra i due sia una novità ma in quella locuzione temporale, il “presto”, c’era un po’ tutto: la voglia dell’ex premier di tornare padre della patria ricevendo il plauso di tutti i suoi storici nemici (da Zingaretti e Franceschini ai 5Stelle), un po’ di egomania per essere tornato al centro della scena, ma soprattutto la volontà di continuare a collaborare con il governo. Da fuori, senza tanti proclami, per non irritare gli alleati. E allora ad Arcore, nella pila di carte sulla scrivania dell’ex premier, c’è il dossier sulle candidature alle amministrative, la riorganizzazione interna al partito ma anche l’agenda dei prossimi provvedimenti che arriveranno in Parlamento. Quelli più importanti, su cui ci sarà – per “senso di responsabilità” o per pura tattica – l’appoggio di Forza Italia e soprattutto il Mes, dove gli azzurri potrebbero sostituirsi ai grillini, che di fondo salva-Stati non vogliono sentire parlare.

Il primo provvedimento è il decreto “Ristori Quater”, in cui il governo darà seguito al voto che autorizzava un ulteriore deficit da 8 miliardi. Va approvato entro il 30 novembre per rinviare le scadenze fiscali, come ha specificato il Mef in una nota. E non è un caso che nel tardo pomeriggio fonti di Forza Italia tengano a precisare: “Il comunicato del Mef rappresenta la prima conseguenza degli impegni tra governo e centrodestra a favore del lavoro autonomo”. Se il governo non metterà la fiducia, FI potrebbe votarlo.

Poi mercoledì 9 dicembre alle Camere si voterà la risoluzione di maggioranza alla vigilia del Consiglio europeo, che potrebbe trattare anche l’annosa vicenda della riforma del Mes: se ci fossero segnali di apertura molti eletti grillini sono già pronti al “no”, ma in quel caso arriverà in soccorso il gruppo forzista. Poi a fine anno arriverà la manovra e Brunetta ha già fatto sapere che FI sta “lavorando con il governo per modificarla”.

Infine, ma qui siamo già nel 2021, Berlusconi vuole giocare la partita della legge elettorale (sì al proporzionale) e soprattutto quella del Quirinale, parola che ad Arcore risuona sempre come una dolce nota di violino. “E a quella data bisognerà arrivarci con un solido rapporto con il governo” dice chi ha parlato con Berlusconi. Ché alla fine non serve nemmeno che la “collaborazione” in Parlamento ci sia veramente, basta darne l’impressione.

“Questo regionalismo ha fallito. Via l’autonomia differenziata”

Nel 2001, il centrosinistra approva la riforma del Titolo V della Costituzione, che ridisegna le competenze legislative di Stato e Regioni. Vent’anni dopo tutti sono concordi nel dire che qualcosa è andato storto. Abbiamo chiesto lumi a Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza, che per prima cosa circoscrive le circostanze attuali: “In questo momento ci sono due incomprensioni: una riguarda la gravità della situazione, l’altra i valori costituzionali che sono in gioco. Mi chiedo quanto si possa andare avanti senza rendersi conto che la sanità è al collasso, con 800 morti al giorno. Se questa è la situazione di fatto, in gioco sono i principi costituzionali supremi, come il diritto alla vita (il diritto “fondamentale” alla salute). Invece i presidenti delle Regioni vogliono far valere le loro competenze ordinarie in materia di sanità, commercio e gestione del territorio. Nella situazione descritta bisognerebbe aver presente che la nostra Costituzione prescrive che deve prevalere l’interesse nazionale. Lo afferma lo stesso articolo che viene invocato per rivendicare le competenze sul sistema sanitario. L’articolo 117 stabilisce che la profilassi internazionale è di competenza esclusiva dello Stato centrale”.

Professore, non è un controsenso che chi è più vicino ai territori e ai cittadini non sia in grado di gestire al meglio le necessità dei cittadini?

Una cosa è la gestione dei servizi, che certamente deve spettare agli enti territoriali (non avrebbe senso che il Policlinico di Milano fosse gestito da Roma), altra questione è l’effettività del diritto alla salute che deve essere assicurata a tutti in tutto il territorio nazionale.

Di fatto è così: i Lea, i livelli essenziali di assistenza, sono standard nazionali.

I Lea riguardano la situazione ordinaria. Il problema è che in questo momento il servizio sanitario praticamente ovunque è al collasso perché in tutte le regioni, ove più ove meno, non sono più garantiti i servizi di pronto soccorso e diagnostica extra Covid. Qui non stiamo discutendo del cattivo funzionamento del sistema sanitario (che è un enorme problema), ma dell’impossibilità di accesso al servizio sanitario (che lo è ancor più). In questi casi il governo può, anzi deve, intervenire. Potrebbe farlo persino più incisivamente di come non abbia sin qui operato. In Costituzione è previsto, all’articolo 120, che lo Stato possa nei casi di grave pericolo per l’incolumità pubblica sostituirsi alle Regioni, un potere che non è mai stato utilizzato in questi mesi.

Mattarella ha richiamato Stato e Regioni alla collaborazione in nome del benessere di tutti. Come si concilia l’unità nazionale con le articolazioni locali? O con i sindaci che dicono “abbiamo malati non nostri”?

Questa è l’espressione di una barbarie culturale, la degenerazione di un’autonomia declinata come egoismo territoriale. Sono discorsi inaccettabili. Il presidente Mattarella, almeno così io ho interpretato le sue parole, non dice al governo di utilizzare l’articolo 120, ma dice ai presidenti di Regione di non essere gelosi delle proprie competenze, dovendo avere come faro l’unità nazionale. Alcune perversioni – quelle cui lei faceva riferimento – degli amministratori locali sono state favorite da una cultura separatista, sarebbe meglio definirla “tribale”, che si è insinuata perfino nella Costituzione. Mi riferisco al terzo comma dell’articolo 116 che ha ipotizzato l’autonomia differenziata, indirizzando il nostro regionalismo verso un modello competitivo e non solidaristico. Questo articolo è distonico con il resto della Costituzione. Così come lo è la legge del 1999, che ha determinato l’elezione diretta dei presidenti di Regione, facendo credere ai presidenti di essere “governatori”, se non addirittura “sovrani” e di poter quindi decidere anche negli stati d’eccezione.

Alla luce di ciò che sta succedendo, ha senso andare avanti con l’autonomia differenziata?

No, sarebbe opportuno abrogare il terzo comma dell’art. 116. Sarebbe questa una riforma della Costituzione che sosterrei con convinzione.

Secondo alcuni il bicameralismo andrebbe rivisto nel senso di dare una rappresentanza alle Regioni in Senato. D’accordo?

Nel 2001 quando fu fatta la riforma, mancò questa gamba e nacque un sistema regionale zoppo. Dopo vent’anni, però, non possiamo limitarci a riprendere lì dove eravamo rimasti. Nel frattempo abbiamo registrato la crisi dell’intero impianto regionalistico e i rapporti tra Stato e Regioni è stato assorbito – in modo confuso in verità – entro la Conferenza. Forse dovremmo pensare a cambiare nel profondo la Conferenza, ad esempio distinguendo meglio tra questioni politiche e amministrative, prevedendo la partecipazione oltre che dei presidenti anche dei rappresentanti dei Consigli.

Spopolano i video su come “fregare” i prof se sei in Dad

Di metodi per saltare la scuola, copiare verifiche o suggerire alle interrogazioni ce n’è a iosa già in tempi normali. Figuriamoci quando tra controllati e controllori – perlomeno dai 14 anni in su – ci sono chilometri di distanza e in mezzo una misera webcam. Sfruttando l’impietoso divario tecnologico, i teenager hanno imparato in fretta a condurre il gioco della didattica a distanza: sui social fioriscono tutorial, da decine di migliaia di visualizzazioni ciascuno, che insegnano a ingannare i prof, facendo credere di seguire la lezione mentre ci si dedica ad attività più interessanti. O, ancora meglio, sbirciando a piacimento libri e appunti durante le interrogazioni. “Io adoro la dad! Si risparmia un sacco di tempo, un sacco di stress e ci si concentra su altro”, esordisce uno youtuber siciliano, tanto spavaldo da presentarsi con nome e cognome. Anzi: “Saluto i miei professori”, gigioneggia.

Gli stratagemmi sono tanti, alcuni piuttosto semplici. Il più gettonato è il freeze dello schermo: si cattura un fermo immagine del proprio volto e lo si proietta alla classe, contando sul fatto che sarà difficile notare l’anomalia tra decine di webcam aperte. Per farlo basta un’estensione di Google Meet. “Entrate, fate l’appello, poi freeze. E ve ne andate a dormire. È la base della dad”, narra uno dei pionieri. E se il prof se ne accorge? Si finge un problema di linea: per questo è consigliato non catturarsi in posa “studiata”, ma produrre un fermo immagine casuale e un po’ mosso. La stessa estensione contiene gli effetti blur, per sfocare artificialmente lo schermo, e pixelate, per ridurre la qualità dell’immagine. Tutti utili a distrarsi in santa pace, ma anche a guadagnare secondi preziosi durante le interrogazioni: “Mentre siete interrogati, tenete pronto il pulsante del freeze. Se vi fanno una domanda brutta e volete leggere, state bloccati qualche secondo, il tempo di guardare gli appunti. Sembrerà un problema di connessione, siete a posto”.

Ma ci sono anche soluzioni più fantasiose. Nel corso “trucchi per sopravvivere alle videolezioni”, sempre su YouTube, un giovanissimo guru mostra come registrare brevi video da mandare in loop: minuti interi in cui lo studente annuisce, prende appunti, sposta lo sguardo. Tutto (all’apparenza) normale: difficile accorgersi che i movimenti tornano a intervalli regolari. “È un trucco da usare solo quando interrogano altri, sennò è troppo rischioso”. Poi c’è questa: “Aprite il software della vostra webcam, sfocate l’immagine e alzate al massimo l’esposizione per simulare un lag (immagine ritardata per la connessione scadente, ndr). Poi, quando dovete sgamarvela, buttate su e giù l’esposizione come dei pazzi, e dopo qualche secondo bloccate il video”. Che succede? L’immagine diventa nera decine di volte in pochi secondi, poi non si vede più nulla. Chiunque penserebbe a un wi-fi molto debole. E mentre il “problema” si risolve, lo studente si salva da un brutto voto.

Ma l’arsenale di “aiutini” non si limita ai finti disguidi tecnici. I tutorial spiegano come consultare gli appunti durante le interrogazioni senza destare sospetti: “Tenete il libro o il monitor in alto, non in basso. Lo sguardo verso il basso vi fa beccare subito, quello verso l’alto, mentre si pensa alla risposta, è naturale”. Ancora più semplice: “Trascrivete le pagine da studiare su Word, usando la digitazione vocale. Quando siete interrogati, rimpicciolite la finestra di Zoom e aprite accanto il documento”. Per chi è affezionato ai buoni vecchi suggerimenti, basta collegare le cuffie. Ma non al pc, bensì allo smartphone, dove un fidato compagno vi telefonerà aiutandovi a fare bella figura. Insomma, per i tutori della dad il panorama è grigio. In loro soccorso c’è 110 cum laude, un’app pensata dallo sviluppatore Stefano Bargagni proprio per riconoscere atteggiamenti “sospetti” tramite riconoscimento facciale e machine learning. Che però, va da sé, non è gratis. Forse conviene aspettare il ritorno tra i banchi.

Scuola, il Mit va in difesa: “Servono troppi bus”

Si riparte quotidianamente dal via: ogni volta che sembra raggiunto un equilibrio sulla scuola, arriva qualcuno a sparigliare le carte. I modi per farlo sono diversi: in Consiglio dei ministri, a margine degli incontri o nelle riunioni dei parlamentari, delle commissioni, dei capigruppo. Lo si può fare anche con una strategia a doppio binario: lettera inviata al premier e intervista a un giornalone. Paola De Micheli ha scelto l’ultima strategia: a pochi giorni dal momento in cui si dovrà capire come ricominciare a far tornare gli alunni delle scuole superiori e di parte delle medie in classe, mentre si ultima la consegna dei banchi (il commissario Arcuri ha annunciato che ne sono arrivati 2.36 milioni e che le poche migliaia che mancano dipendono dagli istituti chiusi o dalla richiesta di posticipare la consegna) e si decide se rimandare tutto a gennaio come vorrebbero molte Regioni, la ministra dei Trasporti ha sfoderato la sua difesa prima della tempesta. In una missiva inviata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, per conoscenza, alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, spiega quale sia il punto di vista del suo ministero sulla condizione dei trasporti nelle città, analizzando tre possibili scenari a Roma, Milano e Napoli sulla base dei dati forniti dalle aziende di trasporto pubblico locale: con capacità dei mezzi al 50 , al 60 e al 70 per cento, rispettivamente in due diverse condizioni, quindi come a ottobre (con didattica a distanza per le scuole superiori e buona parte dei lavoratori in smart working) e come sarebbe se si tornasse all’80 per cento delle condizioni pre Covid.

 

Troppe persone, troppo traffico, troppi mezzi

È solo la conferma di quanto si dichiara da mesi (e di quanto suggeriva già uno studio dell’Istituto superiore di sanità di aprile sulla riapertura totale delle attività produttive, dell’istruzione e dell’intrattenimento): il trasporto pubblico nelle grandi città non è in grado di sostenere – garantendo le misure di sicurezza anti Covid-19 – il riversarsi contemporaneo sia degli studenti sia dei lavoratori, soprattutto nelle ore di punta. È per questo motivo che il Comitato tecnico scientifico ha più volte rimodulato le sue indicazioni sul riempimento dei mezzi, ma sempre in ottica di cautela: prima il 50 per cento, poi il 75 per cento e poi ancora il 50. “A titolo esemplificativo – scrive la De Micheli – riporto alcuni dati relativi ai servizi della metropolitana di Milano. In particolare con una domanda di mobilità dell’80% dello scenario ordinario riferito al 2019, nelle ore di punta del mattino (dalle 7 alle 9) occorrerebbero, senza rimodulazione della domanda e con i limiti attuali del 50% della capienza, 2.240 autobus aggiuntivi, e anche in un contesto emergenziale simile a quello del mese di ottobre 2020, con una ridotta domanda di trasporto pubblico, sarebbero comunque necessari almeno 489 autobus aggiuntivi. Appare evidente anche nella migliore delle ipotesi, il sistema della mobilità pubblica e della mobilità in generale in queste condizioni sarebbe ingestibile con evidenti disfunzioni operative e organizzative”. Oltre a essere irreperibili, è la traduzione, i mezzi sarebbero troppi e congestionerebbero le città.

Secondo De Micheli, la soluzione, spiegata ieri in una intervista a Repubblica, sarebbe aumentare gli scaglionamenti in ingresso a scuola e andare a lezione anche di sabato e di domenica: la ministra ha parlato finanche di istituire un organismo centrale che coordini le aperture scaglionate.

 

Scaglionamenti già previsti (e proteste)

Neanche a dirlo, nel giro di qualche ora sono arrivate le repliche: sindacati, politica, insegnanti, presidi. Ora, il tentativo della ministra di mettere argine alle responsabilità che le sarebbero potute essere attribuite nel dibattito sulla riapertura dei prossimi giorni, le si potrebbe rivoltare contro. Come abbiamo già detto, infatti, l’insufficienza dei trasporti è nota da tempo e riguarda per lo più le città medio grandi. Altrettanto nota è la necessità di aumentare gli scaglionamenti in ingresso, ritenuti fondamentali sin da aprile a ogni emanazione di nuove linee guida, nei tavoli al ministero dell’istruzione, nelle indicazioni del ministero dei Trasporti e pure in quelle arrivate dagli scienziati. Non c’è quindi alcun limite posto dall’alto a una nuova distribuzione degli orari tanto che in diverse città e istituti, come a Milano, ci son stati casi di ingressi a scuola anche alle 10 o alle 12. A mancare è in realtà un coordinamento territoriale e multilivello: là dove non arrivano le Regioni, dovrebbero arrivare le Province (con i provveditori) o i Comuni. E tutti insieme dovrebbero coordinarsi su come garantire la massima efficienza tanto nei trasporti quanto negli ingressi scaglionati. Senza contare che non si è mai discusso seriamente della rimodulazione dei ritmi del lavoro privato. I tempi ci sono: l’ipotesi del rientro a scuola già dal 9 o dal 14 dicembre prevede un rientro graduale e dunque anche la possibilità di provare a gestire la situazione al meglio.

 

L’idea della domenica e le altre proposte

Molto difficile, invece, pensare alla scuola nel weekend. O meglio, di domenica, visto che non tutte le Regioni prevedono la settimana corta e anche in questo caso non è stato posto veto all’autonomia territoriale e scolastica. I primi ad agitarsi, ieri, sono stati i sindacati: “Aspettiamo solo che qualcuno chieda alla scuola i turni di notte – ha detto Lena Gissi, segretaria generale della Cisl Scuola – Se qualcuno vuole fare proposte di incremento dell’orario di servizio, di gestione di festivi, ci sediamo intorno a un tavolo negoziale e ne discutiamo nell’ambito del contratto”. I sindacati ricordano che in questi mesi docenti e personale Ata hanno lavorato in ogni condizione per il bene della scuola e degli studenti. Si sono adattati a mille cambiamenti, hanno frequentato corsi di formazione e di aggiornamento nel periodo tra fine giugno e i primi di settembre e, molti, continuano a formarsi a proprie spese. Calare dall’alto l’ennesima decisione unilaterale, anche se in emergenza, potrebbe non essere la scelta migliore. Non mancano però le ipotesi alternative. “Siamo nella temporaneità degli annunci, invece bisognerebbe trovare una soluzione organica – ha detto il segretario della Uil Scuola, Pino Turi –. Io ho chiesto una modifica del calendario scolastico, un allungamento dell’anno verso giugno, le prime settimane di luglio. Serve recuperare il tempo perduto”.

“Studiava da jihadista”: arrestato

Ha imparato a costruire ordigni, a preparare attentati e a eludere le intercettazioni. Per la Digos si era avvicinato al jihadismo ed era un “lupo solitario”. L’uomo, 42 anni, è stato arrestato a Luzzi, in provincia di Cosenza, perché si sarebbe “autoaddestrato a fini terroristici”.

Si era fatto crescere la barba, secondo l’usanza degli estremisti. La polizia lo ha tratto in arresto ieri mattina nella casa dei suoi genitori, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e delle forze antiterrorismo del capoluogo calabrese. L’accusa è di auto-addestramento ad attività con finalità terroristiche anche internazionale. Tutto è partito da una segnalazione, giunta con la collaborazione di altre procure internazionali, sulle attività digitali dell’uomo. Proprio sui suoi innumerevoli profili social – come sulle piattaforme Telegram, Rocket Chat e Riot –, l’uomo condivideva post e messaggi dal contenuto jihadista in lingua araba. Partecipava a questi gruppi online il cui accesso passa dal vaglio degli amministratori dei canali, che reputano più o meno affidabili i partecipanti. Questo perché il materiale diffuso deve restare anonimo e riservato. Tuttavia, indirizzati sulla scia delle intercettazioni telematiche, gli agenti della Digos sono riusciti a scoprirlo e a fermarlo. Il quadro indiziario, secondo l’accusa, è stato confermato dalle risultanze delle intercettazioni ambientali e telefoniche, nonché dal contenuto del materiale sequestrato durante le indagini (dispositivi telefonici, informatici, memorie Usb e manoscritti). Nel materiale informatico requisito sono stati scovati manuali per creare bombe, tutorial su come condurre attacchi terroristici e documenti esplicativi sull’auto-addestramento per eseguire attentati. E ancora, video e immagini di cruenti esecuzioni dell’Isis, riviste dei media di Isis, al Qaeda e di altri gruppi terroristici e documenti in arabo autoprodotti.

Dalle indagini è emersa l’attenzione quasi maniacale per evitare di essere localizzato e intercettato, ma soprattutto come l’uomo negli anni avesse acquisito le competenze e la capacità necessarie a compiere un attentato. Non sarebbero stati trovati elementi, però, che lo stesse effettivamente organizzando. Non ancora, almeno.

“Confinata tipo ‘zona rossa’ per aver difeso pace e diritti”

Da marzo è sorvegliata speciale, lo sarà fino al 2022, ritenuta socialmente pericolosa perché, tornata dal fronte nel Nord della Siria, dove combatteva con le milizie curde contro le bande jihadiste, ha preso parte a proteste. Maria Edgarda Marcucci detta “Eddi”, 29 anni, aspetta il verdetto d’appello. Docenti universitari, persone della cultura e dello spettacolo e simpatizzanti stanno raccogliendo firme in suo sostegno.

Come sta trascorrendo questa sorveglianza speciale?

Lavoro da casa e vivo secondo le limitazioni imposte. Dalle 18 non posso entrare negli esercizi commerciali, dalle 21 in poi devo stare in casa. Mi hanno ritirato patente e passaporto, devo concordare ogni mio spostamento con la polizia e girare con un libretto rosso su cui gli agenti possono scrivere quello che faccio.

È come se per due anni fosse in “zona rossa”?

Sì, rende l’idea.

Qual è la limitazione che patisce di più?

Decisamente quella alla vita pubblica e politica. Per giorni, dal 13 novembre, sono stati chiusi i miei profili social.

Conosce il motivo?

Non ho avuto nessuna informazione, a parte una schermata standard. Tornata dalla Siria viaggiavo per fare informazione su quanto accade in Kurdistan. Negli ultimi mesi ho continuato a farlo sui social. Parlavo della sorveglianza speciale, perché poche persone sanno che esiste e faticano a capirla, e di altri temi che mi stanno a cuore, come femminismo e transfemminismo, la lotta No Tav… Comunque da giovedì i miei profili sui social network sono stati riattivati.

Perché il Tribunale di Torino l’ha ritenuta “socialmente pericolosa”?

Mi hanno chiamata in tribunale perché dal settembre 2017 al giugno 2018 sono stata in Siria del Nord Est, mi sono unita alle Ypj (Unità di difesa delle donne all’interno delle Forze siriane democratiche, ndr) e ho partecipato alla resistenza di Afrin, in Rojava, dove era in corso un’operazione militare dell’esercito turco e delle bande jihadiste. Il tribunale ha ritenuto questa esperienza un’aggravante della mia condotta in Italia.

Casi simili al suo hanno avuto una conclusione diversa. Cosa la differenzia dagli altri?

Io sono pericolosissima (dice ironica, ndr). Nel decreto c’è scritto: “Il Tribunale si è confrontato con una costante, pervicace, mai sopita opposizione, da parte della Marcucci, nei confronti di provvedimenti delle pubbliche autorità, sfociata, in alcuni casi, in atti di vera violenza”. Il pericolo secondo loro sarei io che protesto contro la fornitura di armi dall’Italia alla Turchia, non la guerra. Per me ciò che è lampante in questa vicenda è quanto polizia, procura e tribunale siano distanti anni luce dalla realtà in cui viviamo noi. Per loro sono un pericolo se insieme ad altri lavoratori e lavoratrici pretendiamo che un cuoco venga pagato dal ristorante in cui lavora? Per milioni di persone il pericolo vero è non ricevere lo stipendio.

Cosa le fa più male?

Durante l’udienza d’appello il procuratore generale ha parlato di “reati spia”, un termine da codice antimafia, usando la categoria senza però farne un riferimento esplicito.

Nell’attesa del nuovo verdetto, in molti la sostengono sul web. È utile?

L’attivazione è sempre molto importante, fa la differenza. Chi ha una posizione istituzionale deve rendere conto alla società delle decisioni che prende, ormai sembra che se lo siano dimenticato. Sta a noi non permetterlo. Non possiamo lasciare che le decisioni sulla nostra vita vengano prese all’oscuro da noi.

I firmatari chiedono anche di rivedere il sistema della sorveglianza speciale.

Le misure preventive devono sparire. Ci si deve occupare anche di un codice penale che è innervato di leggi fasciste. Poi per me l’impianto della giustizia punitiva è sbagliato e inefficace. Nella Confederazione democratica nel Nord Est della Siria non hanno eliminato del tutto i tribunali, ma quasi. Nelle comuni ci sono dei “comitati del consenso” per dirimere i contrasti, sono membri della comunità scelti dalla comunità stessa: i conflitti interni vengono risolti in un clima di fiducia e sono spesso anche l’occasione per una crescita collettiva.

Tornerebbe nelle zone curde?

Certo.

“Addosso avevo 100 miliardi di bond e in aeroporto li ho buttati tra i rifiuti”

E pensare che nel 2014 il circolo del Pd di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, lo aveva inserito tra i relatori del convegno “Legalità e crescita, efficienza amministrativa e sviluppo del territorio”. Perché, sulla carta, la storia di Roberto Recordare è la storia di un imprenditore di successo, in un territorio difficile come la Calabria. Tanto è che, negli anni, con la sua Golem diventa il main sponsor della squadra di pallavolo, la “Golem Volley Palmi” e lo sponsor di quella di calcio “U.S. Palmese”. “Un soggetto riservato della ’ndrangheta”, lo definiscono oggi gli investigatori nell’informativa depositata nel 2018 e diretta alla pm Giulia Pantano. Ma la sua storia inizia da lontano. A carico di Recordare, infatti, ci sono “precedenti di polizia – scrive la Squadra mobile – per truffa, ingiuria, diffamazione e violazione delle misure previdenziali e sanitarie”. Nel 1987 è stato arrestato “per reati in materia di stupefacenti”. Vecchie storie di un imprenditore di provincia capace di passare – a leggere le carte – con disinvoltura dai salotti buoni della finanza mondiale ai boss di Gioia Tauro.

In un passaggio dell’informativa, si racconta di come sarebbe riuscito a far sparire i suoi debiti fiscali grazie all’“amico Pino Carbone”, proprietario della locale squadra di calcio. “Tu mi fai una fattura della Palmese”, dice Recordaro a Carbone. “Roberto ti parlo chiaro, dimmi cosa ti serve… glielo dico a un amico… Tu mi fai tipo lo sponsor a me, giusto? Quanto devi sistemare tu?”. “Sono intorno al milione e otto”. “Non c’è problema, diciamo 2 milioni, ne ho fatto uno di 22”. Un mese dopo questo dialogo intercettato – siamo nel 2017 – l’operazione era già partita e, per gli investigatori, “dipendenti infedeli dell’ufficio delle Entrate avrebbero, nel giro di due anni, azzerato i debiti fiscali di Recordare”.

Nella sede della Golem, la Squadra mobile ha trovato i timbri del Comune di Palmi con cui Recordaro avrebbe falsificato le autentiche che servivano per le sue operazioni finanziarie. Ma anche passaporti falsi. Tutti con la sua foto. Uno era intestato a un ucraino morto più di 20 anni fa (nella foto). “Ho tre passaporti… Dopo che facciamo questa operazione, devo trovare come cazzo sparire per un po’ di tempo”. Recordare sapeva di essere indagato. Il 24 settembre 2017 ne parla con il boss di Sant’Eufemia, Domenico Laurendi detto “Rocchellina”: “Ho due che mi seguono, pure quando vado fuori”, dice. “Ho avuto una mezza soffiata – prosegue – vuol dire che la cosa è seria. No?”. E “Rocchellina”: “Chissà che cazzo di traffici che stanno combinando. Stai tranquillo che sono sempre Finanza”, lo conforta il boss. Sapeva che i pm della Dda di Reggio Calabria stavano sfiancando le cosche della Piana di Gioia Tauro. Ed è sempre Recordare che parla: “Io sono convinto di una cosa… questi non si spaventano più di niente… se ogni tanto ne vede saltare qualcuno in aria, questa non faceva niente”. “Questa” è il sostituto procuratore Giulia Pantano: a lei la ’ndrangheta avrebbe dovuto mandare un messaggio “come facevano in Sicilia”. Occorreva farle capire che “a mezz’acqua non si può stare”, diceva il 20 ottobre 2017 nella conversazione captata Recordare.

Il sangue freddo all’imprenditore non mancava. Come quando racconta di una perquisizione subita all’aeroporto di Fiumicino, il 4 giugno 2017. Se la Guardia di finanza avesse trovato “quel bustone di bond e di procure” che aveva addosso, “non mi muovevo più di là”, dice. “Più o meno erano 100 miliardi, o qualcosa del genere. Ho preso quella busta e l’ho buttata nella spazzatura”.

Il “riciclatore delle mafie” con 800 clienti nella P.a.

In Procura a Reggio Calabria i magistrati non rilasciano commenti ufficiali. L’inchiesta è delicatissima, va avanti in silenzio da almeno tre anni. Se l’ipotesi degli investigatori si rivelerà corretta, Roberto Recordare finirà a processo con l’accusa di essere uno dei più grandi riciclatori di tutti tempi di denaro delle mafie. Un insospettabile capace di gestire contemporaneamente i tesori criminali di clan di ’ndrangheta, camorra e Cosa Nostra. Recordare è indagato da almeno due anni per associazione mafiosa e riciclaggio dalla Procura di Reggio Calabria.

Calabrese di Palmi, 54 anni, è un imprenditore informatico che gestisce dal 1994 il gruppo Golem, una software house che dichiara 800 clienti nella Pubblica amministrazione italiana: Comuni, Province, Regioni, Asl di tutta Italia. Imprenditore di successo, Recordare risulta titolare di quote azionarie in sette società italiane, e con parecchi interessi all’estero. Nel marzo scorso ha aperto la Golem Foundation a Londra, ma è a Malta che ha messo casa: nel 2014 ha aperto tre società. Tutte finite nei “Paradise Papers”, fra le migliaia di offshore create dallo studio Appleby.

La capacità finanziaria di Recordare è raccontata da oltre 500 pagine di informativa scritta dalla Squadra mobile di Reggio Calabria e dal commissariato di Palmi. Recordare è descritto come “la mente economica-finanziaria delle consorterie criminali”. Dietro l’apparente normalità ci sarebbe insomma uno dei più importanti riciclatori della criminalità organizzata italiana. Il resoconto delle indagini degli investigatori calabresi parla di centinaia di miliardi di euro parcheggiati su conti cifrati, aperti presso banche di tutto il mondo. Soldi che l’imprenditore calabrese sarebbe in grado di fare rientrare cash attraverso carte di credito intestate a prestanomi.

È l’inverno del 2017 quando la polizia inizia a intercettarlo. Le chiamate collegano Recordare a due famiglie ’ndranghetiste: i Gagliostro di Palmi e gli Alvaro di Sinopoli. Indagando su di loro la polizia arriva alla conclusione che l’imprenditore informatico ha un lato oscuro. Avrebbe ripulito soldi per i Galiostro e gli Alvaro, ma anche per alcune famiglie di Cosa Nostra e della Camorra, gli Iarunese di Casal di Principe. In un colloquio dell’agosto del 2017 con una sua consulente, Recordare dice di gestire in tutto 500 miliardi. L’operazione che in quel momento sta cercando di organizzare, e che gli investigatori seguono fino all’inizio del 2018, ne vale però 36. Attraverso un trojan inserito nel telefono i poliziotti trovano il certificato di un fondo del valore di 36 miliardi di dollari, depositato presso la Banca centrale di Danimarca.

Sono questi i soldi che Recordare starebbe cercando di riportare in Italia. Ci proverà prima attraverso la coreana Worri Bank, poi con una banca del Tagikistan che ha un conto aperto in Malesia. Il sistema prevedeva “lo scarico presso la banca corrispondente in Malesia (CIMB Bank Berhad) su un conto intestato alla ‘Orion Bank’ del Tagikistan dove i soldi sarebbero confluiti prima di essere spostati su più conti correnti ordinari”. Per farlo, dice Recordare intercettato, “abbiamo dovuto interessare il governo della Malesia e la Banca centrale. Fortunatamente quella società che tu hai visto… Power… è del ministero dell’Interno della Malesia. Scaricare su quei conti… sarà un bordello a livello internazionale”.

L’informativa non chiarisce se l’operazione da 36 miliardi sia andata in porto, ma dai documenti estratti dal computer emerge la grandezza della rete di Recordare. Conti correnti aperti in mezzo mondo: da Cipro a Hong Kong passando per Afghanistan, Croazia, Bulgaria, Tunisia. E carte di credito intestate a vari prestanome, cittadini dell’Europa dell’Est e della Penisola Arabica. I soldi parcheggiati sui vari conti bancari devono finire su queste carte, così da essere poi spesi e prelevati. Il sistema funziona se le carte di credito sono agganciate a conti in Paesi dove i controlli antiriciclaggio scarseggiano, annotano i detective. Posti come gli Emirati Arabi. “Là la droga non la devi toccare – dice Recordare – se tu invece commerci droga e la ricicli, i soldi se li prendono e basta”.

A Dubai, dove ha “diversi conti speciali, ci sono due grattacieli di proprietà di calabresi”, confida intercettato senza specificare l’identità dei suoi conterranei. Dubai, Cipro o Malesia poco importa: per fare operazioni pulite le carte devono essere intestate a prestanome, e le banche non devono fare troppe storie. Lo dimostra una foto allegata all’informativa della polizia: su una delle carte di credito a disposizione di Recordare, intestata a un lituano di 32 anni ed emessa dal gigante bancario Barclays, nell’agosto del 2017 c’era un saldo di 2 miliardi di euro. Una delle tante operazioni di riciclaggio architettate dall’imprenditore di Palmi, sostiene la Procura di Reggio Calabria.

Solo un pezzo di una trama finanziaria più grande, che ha necessariamente avuto bisogno di complicità ai massimi livelli. “Operatori nel campo bancario corrotti – scrivono gli investigatori – capaci di spostare somme fuori dal circuito europeo”. Contattato per un commento, Recordare non è risultato raggiungibile.