La Lega ha un obiettivo: aprire a Sant’Ambrogio

Il nostro obiettivo e anche del governo è che nel periodo delle feste natalizie, da Sant’Ambrogio in poi, ci sia la possibilità per i negozi e anche i ristoranti, di riaprire per fare ripartire l’economia”. E ancora: “Capiremo a breve se riaprire lunedì o addirittura da questo sabato”. È tutta racchiusa in queste frasi – pronunciate dall’assessore Giulio Gallera il 24 novembre scorso – la strategia che Regione Lombardia persegue giorni. Un piano con un unico scopo: riaprire tutto, il prima possibile, per non bruciare la corsa agli acquisti natalizi. Una torta da 1,4 miliardi che Attilio Fontana non può lasciarsi scappare senza scontentare una buona fetta dell’elettorato leghista. Del resto, secondo i dati del 2019, il 59% dei lombardi acquista i regali nei primi 10 giorni di dicembre, cioè a Sant’Ambrogio. Un obiettivo parzialmente raggiunto ieri, col passaggio della regione in zona arancione, nonostante i 5.389 nuovi positivi e i 181 morti registrati (sono 1927 solo negli ultimi 10 giorni).

Nell’immediato cambierà poco: “I negozi verranno riaperti, la scuola media sarà in presenza anche per la seconda e la terza media e all’interno del Comune si potrà circolare liberamente senza autocertificazione”, ha spiegato il presidente. Ma intanto è un passo avanti verso quel Sant’Ambrogio all’insegna dello shopping. Da giorni Fontana lo sostiene: “I numeri della regione sono da zona gialla”, tanto convinto da arrivare giovedì notte ai ferri cortissimi con il ministro Speranza che, esasperato, ha accettato la riapertura a fine weekend, sebbene volesse un margine di tempo più ampio.

Soddisfatti i commercianti, che da tempo pressano i sindaci leghisti per la riapertura totale. Sindaci che, a loro volta, fanno pressioni su Matteo Salvini, vero regista della manovra. E non è un caso se proprio ieri, il Capitano abbia platealmente richiesto l’uscita dalla zona rossa: “I dati sanitari sono evidenti da giorni, la Lombardia da zona rossa deve diventare zona arancione, con le riaperture previste. Subito”. Tanto che Fabio Pizzul (Pd) ha commentato sarcastico: “Sulla zona arancione Fontana e la Lega, Salvini in testa, hanno messo in scena una sterile pantomima”.

Tuttavia, quei dati così evidenti non sono. “Non li abbiamo mai visti – dice il 5stelleMassimo De Rosa – e non conosciamo il rapporto tra numeri e i 21 parametri. Come opposizione siamo stati tagliati fuori da ogni decisione. L’unica cosa sicura è che manca un piano per la gestione della ripartenza”.

Il Pirellone ha fatto di tutto per riaprire, ma non ha pensato al come, la critica. Certo, ieri Fontana ammoniva che “non bisogna abbassare la guardia” e che si deve “far capire ai cittadini che non è iniziata la stagione del liberi tutti”. Sul come farlo capire, silenzio. Così come non ha speso una parola sulla riapertura delle scuole e sui trasporti, sui tamponi che non si fanno, sul tracciamento in tilt, sui vaccini mancanti. Aspetti che se si allargano le maglie, si devono per forza affrontare. Ma non in Lombardia, dove l’importante è il negozio aperto e il ristorante pieno.

Alla sanità in Calabria il governo manda il nemico delle cosche

È arrivata ieri, al termine di un Consiglio dei ministri di soli 15 minuti, la nomina del commissario alla sanità calabrese. Dopo tre dimissioni e un discreto numero di scivoloni, il governo ha scelto il prefetto Guido Longo, per rimettere in sesto i conti e l’organizzazione della situazione sanitaria regionale. Un profilo assai diverso dalla rosa di nomi di cui si era discusso negli ultimi giorni, quando hanno sfiorato l’incarico prima un dirigente Asl (Narciso Mostarda) e poi l’attuale capo del Comitato tecnico scientifico, Agostino Miozzo. Alla fine si è scelta soprattutto la via della “legalità”. Perché, ragionano a Palazzo Chigi, è quella “la prima emergenza” da affrontare in Calabria. Per cui si è abbandonata la ricerca di un profilo medico, che rischiava di peccare di “ingenuità” in quel contesto difficile. E pure quella di un volto già noto ed esposto all’agone politico (come Miozzo, che pure ha posto condizioni giudicate irricevibili dal governo). Così, dalla ricerca di una persona “credibile e inattaccabile” è uscito fuori Longo. Chi lo conosce bene, lo ricorda come un uomo delle istituzioni a cui non è mai piaciuto stare dietro una scrivania. Un investigatore di strada, vecchio stampo. Un mastino. Anche per questo, in Calabria non ha bisogno di presentazioni. Funzionario di pubblica sicurezza dal 1978, quando vinse il concorso, per lui parla il suo passato e i risultati ottenuti a Reggio Calabria negli anni Ottanta quando lavorava alla Squadra mobile. Era il periodo in cui c’era la guerra di mafia e in riva allo Stretto si contavano i morti prima degli arrestati nelle inchieste poi sfociate nei maxi-processi alla ’ndrangheta.

All’epoca la sezione della Squadra mobile che Longo dirigeva ricostruì le dinamiche criminali di due gruppi: gli Imerti-Condello da un lato, De Stefano-Tegano-Libri dall’altro.

Catanese, 67 anni, di cui 40 al servizio del ministero dell’Interno, Guido Longo è stato anche a Palermo dove ha partecipato alle indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, e a Caserta dove è diventato una delle “bestie nere” dei casalesi. Non è un caso che la sua firma è in calce sull’inchiesta che ha portato all’arresto dei responsabili della strage di Castel Volturno.

Fu lo stesso Longo, da questore di Caserta, a condurre le indagini concluse con l’arresto dei latitanti dei casalesi Antonio Iovine, Michele Zagaria e, soprattutto, del capo assoluto del clan, Francesco Schiavone, detto “Sandokan”.

Il suo ultimo incarico “operativo” è stato quello di questore di Reggio Calabria fino al 2015. Quindi la promozione a prefetto e la nomina a Vibo Valentia, che ha mantenuto fino al 30 maggio 2018, giorno in cui è andato in pensione.

Ora una nuova sfida, forse la più difficile: provare a risanare, in piena pandemia, una sanità commissariata da undici anni.

Le “rosse” non ci sono quasi più. Ora si litiga sulla messa di Natale

Lombardia e Piemonte saranno “promosse” da zone rosse ad arancioni da domani, quindi riapriranno i negozi e si potrà circolare almeno nel Comune di residenza. Liguria e Sicilia, finora arancioni, diventano gialle: riapriranno, fino alle 18, bar e ristoranti. Le nuove ordinanze firmate ieri dal ministro della Salute, Roberto Speranza, fotografano la situazione in miglioramento, sintetizzata dal tasso di riproduzione del virus Rt sceso da 1.18 a 1.08. Dal 4 dicembre dovrebbero passare all’arancione anche Campania e Toscana (confermate rosse ieri) insieme ad Abruzzo, Val d’Aosta e provincia autonoma di Bolzano. Fino al 3 restano arancioni Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Marche, poi si vedrà, come per Puglia, Basilicata e Umbria. Perché a quel punto il Dpcm dell’Italia “a colori” sarà scaduto, il governo ne prepara un altro che dovrebbe mantenere le misure differenziate a livello locale a seconda dell’andamento dell’epidemia fin dal ponte dell’8 dicembre e in vista di Natale. Dove Rt risale a 1.5 torna il rosso, sopra 1.25 l’arancione.

Si va avanti con i piedi di piombo perché basta poco, pochissimo, per tornare in crisi nera. Per questo il premier Giuseppe Conte ieri è stato in riunione-fiume con i capidelegazione. Nessun “liberi tutti”. Fermo il no allo spostamento tra Regioni, anche se dovessero diventare tutte gialle. E nessuna deroga agli orari dei locali che, secondo Palazzo Chigi, dovrebbero rimanere chiusi alle 18 anche in prossimità delle feste. “Se non fosse Natale nessuno, con questi numeri, si sognerebbe di chiedere riaperture: la verità è che non dobbiamo cedere alle pressioni, quest’anno va così”. Le pressioni non sono poche né indolori. Una riguarda la montagna, non solo le piste da sci ma tutto l’indotto delle settimane bianche: buona parte della discussione, ieri, è stata dedicata agli (ingenti) ristori che dovrebbero arrivare con il Consiglio dei ministri di lunedì. Il settore “neve” impiega mezzo milione di persone, ragionano al governo. La risposta economica va parametrata su questo e qualcun altro dovrà accontentarsi, anche se tra i ministri il tiro alla fune per la distribuzione delle risorse è agguerrito. Così come quello che riguarda la fatidica notte del 24 dicembre. Sulla messa di Natale è in corso una guerra, che ha tra i suoi protagonisti anche Luigi Di Maio, particolarmente sensibile al mondo cattolico, che non può immaginare di anticipare la funzione di mezzanotte. L’orientamento è quello di celebrare la messa al massimo alle 22, con la speranza nemmeno troppo velata che le persone a quell’ora preferiscano finire la cena. Altrimenti, dicono, le chiese diventeranno pericolosissimi focolai.

L’indice Rt è sceso ma dodici Regioni, anche gialle, restano sopra 1: Lombardia e Toscana 1.24, Veneto 1.23, Basilicata 1.22, Friuli-Venezia- Giulia 1.17, Molise 1.12, Abruzzo ed Emilia-Romagna 1.11, Puglia 1.06, Sicilia 1.05, Bolzano 1.03 e Valle d’Aosta 1.01. La Calabria è a 0.92 ma i dati non sono completi, quindi è ritenuta sempre ad alto rischio. Come la Sardegna: benché Rt sia a 0.72 è tra le 10 ad alto rischio per il tracciamento in crisi. La Campania è a 0.94, il Lazio a 0.96. Per la prima volta da luglio diminuisce l’incidenza: da 732 a 706 nuovi positivi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni. Ieri altri 28.352 nuovi casi, la media settimanale scende attorno ai 27.500 al giorno contro i 34 mila della settimana precedente; il rapporto positivi tamponi ieri era al 12,73%, appena più su del 12,46% di giovedì ma lontano dal 17% di metà novembre. Ancora una volta c’è stato un numero spaventoso di morti: 827 (giovedì 822). Negli ospedali però la pressione si attenua lentamente: ieri 354 pazienti in meno nei reparti ordinari (dove ce ne sono sempre 33.684, oltre il picco di aprile) e 65 in meno nelle terapie intensive (3.782 in tutto). Ben 17 Regioni restano sopra almeno una delle soglie fissate per le terapie intensive (30%) e per l’area medica (40%).

Babbeo Natale

Il premio Coglionevirus del giorno se lo aggiudicano, ex aequo: l’addetto alle pompe funebri che s’è fatto un selfie col pollicione accanto alla bara aperta di Maradona; e gli autori dei cento e più articoli dell’ultima settimana per “difendere” e “salvare il Natale” dal governo dei senzadio che s’inventano il Covid e gli 800 morti al giorno per guastarci le feste. L’apoteosi s’è registrata ieri, dopo che il ministro Boccia ha confermato il coprifuoco alle 22 anche il 25 dicembre e, con una battuta, ha spiegato che “quest’anno non è un’eresia far nascere Gesù Bambino due ore prima”, anticipando la messa di mezzanotte. Apriti cielo. Sedicenti cattolici e noti mangiapreti sono insorti come un sol uomo ergendosi a Defensores Fidei: giù le mani dal compleanno di Gesù. E i giornaloni dietro. “‘Gesù nasca prima’. Caos messa di Natale”, “Boccia sposta Natale” (Giornale). “Boccia vuole stabilire quando nasce Gesù” (Libero). “Boccia surreale: ‘Gesù può nascere due ore prima’” (Verità). “Il caso della messa di Natale: ‘Gesù può nascere prima’” (Messaggero). “Anticipare di qualche ora la messa di Natale: il governo tratta con la Cei” (Repubblica). Poteva mancare l’illuminato parere di Salvini? Non poteva: “A me non sembra normale che un ministro della Repubblica, che si dovrebbe occupare delle emergenze, proponga una nascita anticipata di Gesù Bambino e manchi di rispetto a un Paese legato profondamente ai simboli cattolici”. Il pover’uomo dev’essere davvero convinto che Gesù di Nazareth sia nato alle 24.00 in punto del 25 dicembre di 2020 anni fa sotto il segno del Capricorno. Non sa che quella data è una convenzione priva di qualunque attendibilità storica.

Nei primi due secoli, in Oriente c’era chi celebrava il Natale il 20 maggio, chi il 20 aprile, chi il 17 novembre; e in Occidente chi il 28 marzo, chi il 25 dicembre. Nel IV secolo la Chiesa scelse la data attuale per cristianizzare una festa pagana dell’Impero romano: il Sol Invictus, in onore della dea Mitra vincitrice delle tenebre, coincidente con quello che si pensava essere il solstizio d’inverno (poi anticipato dagli scienziati al 21 dicembre). Ma in Oriente si optò per il 6 gennaio, in uno con l’Epifania. Del resto, se Gesù avesse voluto farci conoscere il giorno del suo compleanno, l’avremmo trovato nei vangeli. Che invece non fanno cenno alla sua data di nascita. Non solo al giorno, ma neppure all’anno. Tant’è che oggi, paradossalmente, gli storici lo collocano tra il 7 e il 4 avanti Cristo. Strano che la Madonna di Medjugorje, con cui Salvini vanta un filo diretto, non gliel’abbia detto. Forse voleva risparmiare al figlio gli auguri e i regali del Cazzaro, tipo i soliti rosari sbaciucchiati. O forse Salvini ha le pile del walkie-talkie scariche.

Angela Merkel, da 15 anni è il mastino dell’industria

Angela Merkel guida la Germania da 15 anni. La sua impronta politica non poteva non lasciare segni profondi anche sull’industria dell’auto tedesca, che ha plasmato ma soprattutto sostenuto. Prima consentendole di guadagnarsi il primato continentale (ma anche la ribalta mondiale) e poi salvandola dalla potenziale implosione dopo lo scandalo Dieselgate. Anzi, proprio da quello facendola risorgere seguendo il new deal dei “suoi” costruttori: quella via della batteria forse troppo frettolosamente imboccata dai burocrati di Bruxelles, spaventati dall’ondata popolare di sdegno ma anche pressati da un paese desideroso di emendare i propri peccati con l’elettrico. E pazienza se i motori diesel moderni emettono fino a 90% di particolato in meno rispetto a quelli degli anni ‘80. La Merkel ha spinto più di chiunque altro in Europa sulla mobilità sostenibile, concedendo incentivi esclusivamente a vetture elettrificate e proponendo un piano di medio termine: contributi statali per le ibride plug-in fino al 2022 e per le elettriche fino al 2025. Il risultato è che da inizio 2020, nonostante la pandemia, le immatricolazioni delle prime sono cresciute del 300%, mentre quelle a emissioni zero del 105%. Ma frau Merkel è anche la donna che ha trattato dietro le quinte con i vertici di Psa, quando tre anni fa i francesi hanno comprato Opel da General Motors, per salvaguardare i posti di lavoro tedeschi. Un osso molto più duro dei top manager americani, che non vedevano l’ora di disfarsi della loro divisione europea, perennemente in perdita. Chissà se in Italia avrebbe potuto fare le stesse cose.

Negli Usa i pick-up vengono “taroccati”

Negli Usa c’è un nuovo scandalo dieselgate. Ma stavolta i costruttori di auto non c’entrano nulla. Così come nel 2015, a scoprire i misfatti è stata l’Epa, l’agenzia americana per la protezione dell’ambiente: sotto accusa sono finiti circa mezzo milione di pick-up con motore diesel, manomessi dagli utenti e da officine specializzate conniventi per migliorare le prestazioni a scapito dei sistemi di trattamento dei gas combusti.

Più nel dettaglio, sono state “truccate” le centraline elettroniche di gestione del propulsore nonché le linee di scarico, dove sono inseriti i dispositivi catalitici.

Secondo l’Epa, l’impatto ambientale di tali pratiche illegali è incalcolabile, con conseguenze che andrebbero ben oltre quanto successo con lo scandalo emissioni.

Negli ultimi cinque anni le autorità statunitensi hanno portato avanti indagini sulle officine responsabili delle modifiche, scoprendo che la pratica di manipolare i sistemi di controllo e abbattimento delle emissioni è largamente diffusa in tutti gli Usa. E, per la verità, lo è anche nel Vecchio continente.

L’investigazione ha scoperto 28 aziende attive nella realizzazione di almeno 45 differenti software di modifica dell’elettronica motore. E sono già state elevate le prime multe: in Florida, ad esempio, la Punch It Performance Tuning dovrà pagare un risarcimento di 850 mila dollari per archiviare le accuse.

Per ora il caso coinvolge solo i pick-up di grandi dimensioni – con massa compresa tra i 3.855 e i 6.350 kg – prodotti da Chevrolet, Ram e Ford.

Ma questo tipo di frode è tecnicamente possibile su ogni veicolo diesel (e benzina). Ciò significa che l’inchiesta potrebbe allargarsi a macchia d’olio, tanto negli Usa quanto in Europa.

Le emissioni extra causate dalla manomissione di mezzo milione di veicoli equivarrebbero a quelle di 9 milioni di pick-up “regolari” e, secondo l’Epa, avrebbero comportato un incremento di 570 mila tonnellate di diossido di azoto (NO2) – dieci volte in più rispetto a quanto fatto dai veicoli coinvolti nel dieselgate – e 5 mila tonnellate di particolato.

 

28 Le aziende imputate
Tutte attive nella realizzazione di almeno 45 differenti software di modifica dell’elettronica motore. E sono già state elevate le prime multe: in Florida la Punch It Performance Tuning dovrà pagare un risarcimento di 850 mila dollari

Il fantasma di Trump (e anche di Obama) sull’auto di Biden

È stato valutato come un referendum tra due persone, ma in fatto di ecologia e visione dell’auto, il passaggio di testimone tra Joe Biden e Donald Trump rischia di risolversi in una parziale continuità. A risultato faticosamente acquisito, si può valutare il manifesto elettorale del nuovo inquilino della Casa Bianca non più per la contrapposizione ideologica, ma per i cambiamenti reali che può portare, per la svolta verde promessa all’auto statunitense. “Creare un milione di nuovi posti di lavoro per mettere in condizione l’America di vincere la sfida del 21 secolo in fatto di materiali, energia pulita e produzione di batterie”, ha scritto in settembre Biden, anticipando un stanziamento 450 miliardi di dollari per incentivare gli automobilisti statunitensi all’acquisto di vetture a batteria con sconti a partire da 3.000 dollari rottamandone una tradizionale. Una transizione necessaria, che rischia tuttavia di trovare l’industria yankee impreparata a offrire già ora modelli elettrici di grande diffusione. Non a caso, a elezioni avvenute, Biden aggiusta il tiro, recuperando l’iniziativa da 3 miliardi di dollari della amministrazione Obama, che nel 2009 propose sconti governativi per l’acquisto di vetture semplicemente più efficienti, dunque a benzina, rigorosamente “Made in Usa”.

Da Biden e Trump arrivano dunque soluzioni similari, come appare dai proclami del nuovo 46.mo Presidente. Testualmente, preannuncia l’acquisto massiccio di 3 milioni di vetture e mezzi più ecologici di produzione nazionale, da destinare all’intera filiera delle istituzioni federali. Nazionalismo dunque, anche se accompagnato da un impegno formale al rientro degli Usa nell’Accordo di Parigi sul clima e alla ricomposizione delle dispute sui trattati di libero scambio, salvo poi additare come nemico i sussidi cinesi alla sua industria nazionale, non a caso in posizione di forza a livello mondiale nella produzione di vetture a zero emissioni. Un ostacolo a oggi insormontabile per ricostruire negli States una reale occupazione. Secondo gli analisti di Deloitte, è infatti il settore petrolifero statunitense ad avere il ritmo più forsennato di perdita di posti di lavoro mai registrato nella storia dell’industria. Stando alla forma, la svolta verde di Biden cozzerebbe frontalmente con il realismo dell’Amministrazione di Obama, che in due mandati ha innalzato l’estrazione di greggio del 66%. Tra il 2011 e il 2019 gli Usa sono riusciti ad azzerare quasi del tutto la loro dipendenza energetica, raggiungendo una posizione strategica condivisa poi da Trump, fino a trasformare gli States nel primo produttore al mondo di petrolio e gas naturale. Una leadership irraggiungibile per la Cina e l’Europa, patrie dell’auto elettrica.

Le perle di Mina riprendono vita. Il figlio: “Dalla Rai zero notizie”

Come i Beatles anche Mina sceglie di pubblicare una doppia antologia di colore rosso e blu – la prima di una lunga serie –, Italian Songbook, in uscita oggi. Complici le 1400 canzoni pubblicate, l’artista ha avuto l’imbarazzo della scelta, selezionando 30 brani dal suo repertorio dal 1975 al 2018, rimasterizzandoli tutti. “C’era l’esigenza di rimettere mano ai suoni” interviene Massimo Pani, “abbiamo riaperto e risuonato alcuni brani dalle multitracce originali, rendendo ad esempio minimalista Il cielo in una stanza. Mancano i brani degli anni Sessanta e saranno nel prossimo capitolo”. Ovviamente sono i due inediti il piatto forte, uno dei quali scritto da Leo Chiosso e Fred Buscaglione, Nel cielo dei bars (la s è nel titolo, ndr); l’altro è Un tempo piccolo, capace di descrivere una vita intera vissuta come una mano di poker. Tra gli autori c’è Franco Califano. Quale sarà l’enigma dietro la scelta di Cassiopea e Orione? I riferimenti saranno da cercare tra le costellazioni o nella mitologia? Pani non dipana il mistero ma regala sfumature della mamma: “Mette da parte alcuni inediti che riceve quotidianamente, circa tremila all’anno, in attesa di inciderli. Ha sempre avuto fiducia di chi ha avuto coraggio. È sempre controcorrente, la sua forza è la sua personalità, anzi le sue palle. Quando sono nato non la facevano più lavorare, era scandalo. Lei è andata avanti”. Sempre attenta alla scena musicale, ascolta “dalla classica a Chet Baker a Bruno Mars; Billie Eilish la considera una ragazza con delle idee, scrive e canta in modo diverso da tutti”. Rivedremo Mina? “Una sua apparizione deve avere un senso. Non ama i soldi, altrimenti farebbe tv; non ama i gioielli, non ama i potenti, ama la musica. Attraverso i dischi si riesce a capire chi è. Non è autocelebrativa: un giorno arrivò un telegramma di Paul McCartney con scritto che la versione di Michelle rifatta da Mina era la migliore mai sentita. Lei dopo averlo letto disse ‘che carino’ e lo buttò. Niente feticismi”. La proposta di fare la direttrice artistica nel prossimo Festival? “È piaciuta talmente tanto alla Rai che non ha mai chiamato…”.

L’urlo di Bruce Lee fa “80”. Ed è sempre icona globale

Il 27 dicembre 1973, Variety traccia il bilancio annuale. Sono quattro gli attori a vantare due film nella top 50: Barbra Streisand, Robert Redford, Gene Hackman, il quarto è un caso a sé. Asiatico, hongkonghese con cittadinanza statunitense, e defunto: è morto cinque mesi prima, il 20 luglio, a soli 32 anni. In eredità lascia una combinazione devastante: I 3 dell’Operazione Drago (Enter the Dragon), uscito postumo e arrivato al ventesimo posto del box office, e Dalla Cina con furore (The Chinese Connection). Oggi Bruce Lee avrebbe compiuto ottant’anni, e vale quel che il critico del New York Times Howard Thompson scrisse recensendo Enter the Dragon: “… anche bravo attore, è decisamente affascinante. Il signor Lee, che ha coreografato i combattimenti, è morto di recente. Qui non potrebbe essere più vivo”. Mancato per un lustro il Club 27, è entrato nel novero delle icone globali, al pari di Marilyn Monroe, Elvis Presley e James Dean. Al protagonista di Gioventù bruciata è stato più volte accreditato della stessa aura: nel 1960 interpreta un altro Rebel without a cause in The Orphan, anch’egli finirà appeso al muro, nelle Chinatown e poi ovunque. Ma c’è una differenza fondamentale: la celebrità lui non l’ha raggiunta in vita.

L’action star per antonomasia, il demiurgo di arti marziali, l’attore-lottatore-filosofo, l’antesignano di Jackie Chan e Jet Li, l’ispiratore di Stan Lee, John Woo e, ci ritorniamo, Quentin Tarantino, il campione della cultura pop è divenuto tale da 47 anni a questa parte: tumulato a Seattle con “Founder of Jeet Kune Do” per epigrafe, alive and kicking nel nostro immaginario. E con un identikit al passo coi tempi, anche politicamente: complice Shannon, oculata amministratrice del lascito paterno, Lee è oggi celebrato quale travalicatore di confini culturali, distruttore di barriere razziali, soppressore di stereotipi. Se il Jeet Kune Do, “autodifesa e autoilluminazione”, prese da Oriente quanto da Occidente, ibridando kung fu e boxe, scherma e misticismo, Bruce è stato meno tollerante verso altre contaminazioni, segnatamente il trattamento “yellowface” in uso a Hollywood con attori caucasici per protagonisti asiatici. Passi, l’ha fatto, insegnare a Steve McQueen e James Coburn, ma trovarsi David Carradine quale dominus della serie Kung Fu? Lee non digerì e perfezionò post mortem la parabola identitaria avviata negli Anni Sessanta quale Kato nella serie The Green Hornet, che a Hong Kong venne puntualmente ribattezzata The Kato Show: da spalla a stella, con le stimmate glocal. Buono per spianare la strada nello showbiz ad asiatici e altre minoranze, ottimo per le cause di mezzo mondo: non solo la statua fronte mare a Hong Kong o quella di cera al Madame Tussauds, ma una bronzea a grandezza naturale a Mostar per simboleggiare “i conflitti etnici che ha affrontato e superato – osservò la figlia – nella sua vita, divenendo agli occhi dei bosniaci una forza unificante”. Metteteci una morte le cui cause, spaziando dall’edema cerebrale agli effetti collaterali di aspirina e/o cannabis fino alle Triadi, molto concedono al gossip, e una seconda morte, quella del figlio Brandon sul set del Corvo nel 1993, che apre alla maledizione familiare, e la leggenda è servita, alimentata dalla figlia e dalla vedova Linda Caldwell da un lato, e dai parenti dall’altro, due vasi non comunicanti. Benzina su questo sacro braciere l’ha versata Tarantino, prima con l’omaggio in Kill Bill Vol. 1, poi con l’onta del ritratto di un Bruce Lee smargiasso a parole, ai danni di Muhammad Ali, e preso a botte, dal Cliff Booth di Brad Pitt in C’era una volta a… Hollywood, che ha fatto infuriare Shannon. Nulla di nuovo sul fronte globale: Bruce Lee è più vivo che mai.

Ballando con Vespa: il programma unico del libro-panettone

Per l’ultima opera di Bruno Vespa il servizio pubblico ha dato tutto se stesso, si è messo a disposizione completamente. Il libro è uscito il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma. Tiene insieme, in uno sforzo intellettuale sovrumano, la doppia tirannia del fascismo e della pandemia: Perché l’Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del Covid). Anche Vespa – se ne sentiva proprio il bisogno – fa un po’ di sano revisionismo sul Ventennio. Rimette in circolo quelle quattro o cinque informazioni errate o incomplete sul duce che ha fatto anche cose buone, si è inventato le pensioni agli italiani e la settimana lavorativa di 40 ore, ha goduto di un enorme consenso tra le masse grazie alle sue politiche sociali.

Vespa lo ripete ovunque. Si sdoppia, si triplica, riempie i palinsesti, si insinua con cadenza orwelliana. C’è Vespa nei Tg, c’è Vespa nei talk della mattina, c’è Vespa che pontifica il pomeriggio e Vespa che balla la sera.

Si capisce che l’azienda voglia pubblicizzare un suo prodotto (il volume è edito da Rai Libri insieme a Mondadori), ma qui siamo oltre la marchetta: siamo alla perversione. Era già successo quest’estate con il tour de force per presentare un’altra opera imprescindibile: Bellissime! Le donne dei sogni italiani dagli anni 50. Vespa era comparso nei programmi Rai 8 volte in 10 giorni. Almeno però parlava delle gambe delle Kessler e non della mascella del duce.

Ecco una versione ridotta e forse nemmeno esaustiva di tutto il Vespa minuto per minuto.

1) II 29 ottobre, all’indomani della pubblicazione, al libro è dedicato un bel servizio del Tg1 delle 20. Intervistone di Marco Frittella sullo sfondo del balcone di Piazza Venezia: “Nel primo decennio le opere sociali di Mussolini gli donarono un oggettivo consenso, di cui poi gli italiani si sarebbero pentiti”.

2) Il 31 ottobre stesso e identico trattamento sul Tg2. Un altro minuto e mezzo. L’intervistatore ammicca: “Tra il duce e l’Italia fu love story e non matrimonio forzato?”. Vespa si barcamena: “Be’, insomma, in fondo fu un colpo di Stato. Però di fatto fu accolto con sollievo dalla grande parte degli italiani”. (Il Tg3 invece si è astenuto. O forse nell’orgia vespiana di questi giorni ce lo siamo perso, chiediamo venia).

3) Il 3 novembre arriva la spettacolare doppietta di Frittella, che dopo averlo intervistato sul Tg1 lo ospita anche a Unomattina: “Mussolini ha avuto grande consenso fino alle leggi razziali, quando poi impazzì e fece l’alleanza con Hitler”. Prima di impazzire, se ne deduce, era un ragazzo affabile.

4) Il 12 novembre Vespa sbarca a La vita in diretta, ancora su Rai1. Preliminari lunghi: la copertina del libro viene mostrata solo al diciottesimo minuto della sua ospitata (ma rimane a lungo sullo schermo alle spalle del presentatore).

5) Il 14 novembre è capolavoro, Bruno approda a Ballando con le stelle (Rai1): cosa non si fa per qualche copia in più. È protagonista di un languido tango durante il quale, per la verità, rimane fermo su una sedia, mentre due ballerine tarantolate lo circuiscono con sorrisi allusivi e vestiti svolazzanti. Dopo questo lungo momento di imbarazzo, finalmente può presentare il libro.

6) Il 17 novembre Vespa è ospite di Agorà (Rai3). Ripete il solito copione mistificatorio: “Mussolini ha avuto un consenso enorme e lo ha avuto anche in Italia per le sue opere sociali, parliamoci chiaro. Ha fatto la settimana di 40 ore: chi lo sa tra gli italiani Non lo sa nessuno. L’Inps l’ha inventato Mussolini: quanti lo sanno?”.

7) Il 21 novembre, insieme a Carlo Calenda, Vespa anima anche il Tg2 Post, l’approfondimento che segue il notiziario serale: “Mussolini e il Covid sono due dittatori, uno riempiva la piazza, l’altro la svuota”.

8) Il 22 novembre, infine, la consacrazione nel salotto nazionalpopolare per antonomasia, Domenica In. Un commovente racconto personale, tra le imprese pubbliche e la vita privata. Di fronte alla materna Mara Venier, Vespa si commuove parlando del terremoto a L’Aquila e della moglie Augusta. Poi vabbè – ma noi siamo veniali – c’è pure la marchetta al libro. La Venier ha una curiosità legittima: “Ma tu il tempo per scrivere dove lo trovi?”. Sottotesto: stai sempre in televisione.