Virus e Brexit: mai così giù dal ’700

Il Regno Unito fa i conti con la pandemia, e il suo ministro del Tesoro, il dinamico Rishi Sunak, si trova davanti a un bivio di politica economica. Le previsioni dell’Office for Budget Responsibility sono gruesome, raccapriccianti: l’economia britannica è sprofondata nella recessione più grave degli ultimi 300 anni, con una contrazione prevista del Prodotto interno lordo, per quest’anno, dell’11,3%. Il deficit si avvia a raggiungere i 394 miliardi di sterline, pari al 19% del Pil, perché malgrado la contrazione economica la spesa pubblica non può che impennarsi, date le spese correnti per fronteggiare l’emergenza economica e di salute pubblica. Poi c’è Brexit: nell’attesa dell’esito dei negoziati, gli scenari hanno forbici anche molto vaste, ma nessun economista dubita di un impatto economico negativo di breve e medio termine: un’ipotesi è, per il 2025, di una contrazione dell’economia del 3%, e circa 30 miliardi di mancate entrate fiscali. Sunak ha presentato martedì al parlamento il suo programma di revisione di spesa, cioè la strategia aggiornata del governo per gestire i conti pubblici nel mezzo della pandemia. A pagare la crisi sono i soliti noti: i pubblici dipendenti, a cui sono stati congelati gli aumenti salariali previsti, e da lungo attesi. Con l’eccezione del personale sanitario, a cui arriverà un riconoscimento economico non ancora precisato, e degli stipendi più bassi, sotto le 24mila sterline l’anno. E a questo si aggiunge l’aumento del salario minimo nazionale del 2.2%, una misura che sostiene anche i giovani, e i primi 4 miliardi per il level up, l’ambizioso programma di ridistribuzione di rilancio delle regioni povere del Nord. Contestato anche dentro il partito conservatore l’altro intervento per fare cassa: la riduzione dello 0,2% dei finanziamenti alla cooperazione internazionale, dallo 0,7 allo 0,5 del Pil, tradendo impegni recenti e precisi. Se ne ricavano 4 miliardi, che Sunak trasferisce direttamente al fondo per il sostegno all’occupazione. Scelta con evidenti implicazioni politiche: ridimensionare il soft power globale, anch’esso fondamentale per la politica estera dell’ex impero, per privilegiare l’elettorato domestico. Alle ambizioni globali vanno altri stanziamenti: i 16 miliardi alla difesa per ammodernamento e cyberwar già annunciati e gli 8 già stanziati per l’Agenzia per l’innovazione, una Darpa British, fortemente voluta dall’ex consigliere speciale ora defenestrato Dominic Cummings.

Basterà? Dipende dal progredire della pandemia, e anche da Brexit, naturalmente, che nel suo discorso Sunak non ha nominato. E altrimenti, sono già circolate voci di aumento delle tasse ai redditi alti, da rimandare a tempi meno drammatici.

Zero égalité: “La riforma del lavoro è da riscrivere”

Una delle misure centrali e più controverse della riforma dei sussidi di disoccupazione in Francia è stata giudicata “illegale” dal Consiglio di Stato in quanto “viola il principio di uguaglianza dei beneficiari”. Per cui è stata annullata. Stiamo parlando della più alta giurisdizione amministrativa in Francia e di una delle riforme principali di Emmanuel Macron, che già faceva parte del suo programma elettorale per l’Eliseo.

Al Consiglio di Stato hanno fatto appello i principali sindacati dei lavoratori, capeggiati dalla combattiva Cgt, per i quali la riforma è solo un pretesto per “tagliare le sovvenzioni a chi è senza lavoro”. La misura contestata riguarda il metodo di calcolo delle indennità mensili. Da decenni viene effettuato in Francia a partire dalla media delle remunerazioni percepite nei giorni lavorati sul- l’arco di un anno. Si prendono in considerazione cioè solo i giorni effettivi di lavoro. La riforma prevedeva invece di basare il calcolo sulla remunerazione mensile media, che si sia lavorato oppure no. Si sarebbero presi in considerazione cioè anche i periodi non lavorati. Di conseguenza l’indennità di disoccupazione sarebbe stata per forza più bassa.

Secondo l’associazione Unédic, se la riforma di Macron fosse passata, i sussidi versati ad almeno 850.000 persone – un po’ più di un terzo dei “nuovi” disoccupati – sarebbero scese in media del 24% (tra 900 e 700 euro netti in media al mese). “Sarebbero stati toccati soprattutto i disoccupati più precari – ha spiegato ieri il giornale online Mediapart – quelli che alternano periodi senza lavoro e periodi lavorati, che avrebbero perso fino al 50% delle indennità mensili. Nei casi più estremi – si legge ancora – la riforma avrebbe portato a dividere per quattro o cinque la somma versata tutti i mesi”. Per il governo la misura doveva servire invece a scoraggiare il precariato incitando a riprendere un lavoro stabile: “Il principio è assurdo – ha detto Denis Gravouil della Cgt a Mediapart –: tagliare i viveri a chi è senza lavoro col pretesto di aiutarli a trovare lavoro”. Lo Stato avrebbe soprattutto fatto economia: fino a 3-3,9 miliardi di euro in tre anni, secondo i dati di Le Monde. I sindacati, che ora si sentono più forti, hanno chiesto già il puro e semplice abbandono della riforma, che nel calendario originale del governo sarebbe dovuta entrare in vigore già dal primo aprile 2020, ma che è stata rinviata di un anno per via dell’epidemia di Covid-19: “Questa riforma – hanno scritto in un comunicato – è in gran parte illegale e profondamente ingiusta”. Il governo, che per via della crisi ha già dovuto rinviare sul lungo termine l’altra controversa riforma di Macron, quella delle pensioni, che ha scatenato mesi di scioperi lo scorso inverno, ha risposto che adatterà il testo alle disposizioni del Consiglio di Stato, ma non vi rinuncerà. Se può andare avanti è anche perché l’alta giurisdizione ha confermato altre misure controverse del testo, quelle che rendono più dure le modalità di accesso alle indennità e le più penalizzanti: con la riforma bisognerà infatti lavorare almeno sei mesi sugli ultimi 24 per ottenere il diritto alla disoccupazione, mentre ora ne bastano quattro sugli ultimi 28.

Inoltre il sussidio di chi percepiva uno stipendio alto prima di perdere il lavoro, cioè più di 4.500 euro lordi, sarà tagliato del 30% dopo otto mesi. Al governo toccherà però rivedere anche un altro punto della riforma, annullato dal Consiglio di Stato più per un vizio di forma che per il principio, e contestato questa volta dal Medef, la Confindustria francese: esso riguarda una sorta di sistema di “bonus malus” sui contributi sociali versati dal datore di lavoro in funzione del numero di contratti brevi o precari a cui fa ricorso.

Consegne: a Biden le prime scelte, mentre Trump borbotta

Il presidente eletto Joe Biden avrà la prossima settimana il suo primo briefing d’intelligence, dopo essere già stato aggiornato sulla risposta in atto alla pandemia, compresa la Operation Warp Speed (una formula da StarTrek) sulla distribuzione dei vaccini. È il segno che il processo di transizione s’è davvero messo in moto: secondo laCnn, Biden dovrà presto decidere se confermare la stretta alla circolazione delle informazioni riservate imposta dall’Amministrazione Trump o se allentarla. È probabile che, almeno all’inizio, tutto resti com’è. Sempre la prossima settimana, Biden annuncerà la sua squadra economica – largamente anticipata la nomina al Tesoro dell’ex presidente della Fed Janet Yellen –. Donald Trump, però, non desiste, nonostante la transizione in atto. Chiosando un sondaggio per cui la maggioranza dei repubblicani lo rivoterebbe nel 2024, avverte che “il 2020 non è mica finito!”. E al telefono con i senatori della Pennsylvania, dice: “Dobbiamo ribaltare l’esito delle elezioni”. Poi contesta il record di voti di Biden e rilancia la tesi dei brogli “È impossibile che Biden abbia avuto 80 milioni di voti!!! Sono state elezioni truccate al 100%”. Secondo la Cbs, il candidato democratico ha superato gli 80 milioni di voti – la conta non è però finita –: un record assoluto per un candidato alla presidenza degli Usa. Con quasi 74 milioni di suffragi, Trump è il secondo più votato di tutti i tempi. Entrambi superano Barack Obama, che nel 2008 ebbe 69,5 milioni di voti. Ieri, era Thaksgiving, la festa delle riunioni familiari negli Stati Uniti, quest’anno scoraggiate, causa pandemia da coronavirus – ma decine di milioni si sono ugualmente spostati –: Trump con Melania alla Casa Bianca; Biden con Jill a casa loro, a Wilmington, nel Delaware (“Il piccolo atto di stare a casa è un dono per i nostri concittadini americani”, ha twittato ‘Uncle Joe’). Alla vigilia della ricorrenza, Biden aveva pronunciato un sobrio discorso, ricordando agli americani che “siamo in guerra contro il virus, non l’uno con altro” e chiedendo perseveranza nel contrasto alla pandemia. Il virus corre: ogni giorno, sta facendo oltre 2000 morti e quasi 200 mila nuovi casi. Secondo la John’s Hopkins University, i contagi nell’Unione, alle 18.00 di ieri sulla East Coast, erano complessivamente oltre 12.831.000 e i decessi quasi 263.000.

Grazia, graziella e grazie a me. Trump vuole autoassolversi

Donald Trump ha sempre il colpo a sorpresa in canna: dopo quella – rituale – del tacchino Corn, ecco, in coincidenza con il Thanksgiving, la grazia per il generale Michael Flynn, l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale coinvolto nel Russiagate e reo confesso di avere mentito all’Fbi. E non finisce qui: altri perdoni e condoni sono attesi di qui al 20 gennaio, l’Inauguration Day di Joe Biden. La ciliegia sulla torta d’una presidenza ‘eversiva’, per il mancato rispetto delle regole istituzionali, sarebbe la grazia a se stesso, per porsi al riparo dagli strali della giustizia una volta senza lo scudo dei privilegi del potere esecutivo – i procedimenti giudiziari già avviati nei suoi confronti sono numerosi –. Ma la strada per arrivarci è lunga e complicata. E potrebbe persino non valere la pena percorrerla. Mettiamo ordine, cominciando con il dire che grazie e condoni a fine mandato sono prassi consueta, utilizzando un potere previsto dalla Costituzione statunitense: non sono cioè un’iniziativa di Trump. Ne diedero, facendo pure discutere, Barack Obama e Bill Clinton, i Bush e tutti i loro predecessori. Il caso più clamoroso fu il perdono di Richard Nixon concesso dal suo successore Gerald Ford poco dopo che il presidente del Watergate s’era dimesso fra la riprovazione generale. Circa un mese dopo avere assunto l’incarico, senza neppure aspettare Thanksgiving, Ford concesse il “perdono presidenziale” a Nixon, cancellando ogni addebito penale per quanto d’illegale l’ex presidente potesse avere commesso: un provvedimento molto discusso, tanto che Ford è ricordato come “the man who pardoned Nixon”, ossia l’uomo che graziò Nixon”.

Ford motivò la grazia con il fatto che Nixon era stato ormai estromesso dal potere e che sarebbe stato inutilmente lacerante per il Paese affrontare anni di diatribe. Trump ha finora concesso 28 grazie, o perdoni, che estinguono i reati commessi, e 16 commutazioni della pena, che riducono la condanna – per fare un confronto, Barack Obama, il presidente più ‘generoso’, ne concesse circa 1.500 in due mandati, spesso scarcerando gente che stava per morire in prigione –. Flynn è l’unico consigliere della Casa Bianca condannato nell’ambito dell’indagine sul Russiagate condotta dal consigliere speciale Robert Mueller. Flynn aveva successivamente ritrattato le sue ammissioni e il Dipartimento della Giustizia stava ora cercando di farne chiudere l’istruttoria con un ‘non luogo a procedere’, ma l’istanza era al vaglio d’un giudice federale. La grazia ora concessagli conferma il totale appoggio del magnate presidente al generale in congedo cacciato dalla Casa Bianca nel febbraio 2017, appena 22 giorni dopo l’entrata in carica; essa rappresenta altresì un’ultima salva contro l’inchiesta Russiagate sui contatti tra la sua campagna ed emissari russi che aveva gettato un’ombra sulla prima metà del suo mandato. Per i media Usa, la lista di possibili beneficiari del perdono presidenziale comprende Paul Manafort, ex capo della campagna di Trump, condannato a sette anni e mezzo di per ostruzione della giustizia e violazione di leggi finanziarie e sull’attività di lobby, il suo ex vice Rick Gates e l’ex consigliere della campagna George Papadopoulos, entrambi condannati nel Russiagate. E c’è pure l’ex stratega della Casa Bianca Steve Bannon, incriminato in agosto per truffa: raccoglieva fondi per il muro lungo il confine col Messico e li spendeva per sé. A luglio, Trump aveva già commutato la pena a Roger Stone, amico e consigliere di vecchia data che era stato condannato a 3 anni e 4 mesi per avere mentito al Congresso, ostacolato la giustizia e corrotto testimoni, sempre nel Russiagate. Il magnate ritiene Flynn e Stone vittime di una “caccia alle streghe”, di un complotto dell’Amministrazione Obama contro la sua vittoria elettorale 2016. Resta da vedere se Trump, braccato da mezza dozzina di inchieste, frode, truffa, evasione fiscale, proverà a graziare se stesso. Non può farlo direttamente, ma ha due percorsi: un patto “alla Ford” con Biden e/o con il Congresso – politicamente difficile –; oppure ricorrere al 25° emendamento, dichiararsi temporaneamente inabile, fare diventare presidente ad interim il suo vice Mike Pence e farsi graziare da lui, sempre che sia disposto a farlo – sarebbe un suicidio politico, ma forse neppure Pence crede alle sue chances presidenziali 2024 –. Ne varrebbe la pena? La grazia presidenziale copre solo i reati federali. Le Corti statali di New York tirerebbero diritto e non basterebbe per cavarsela rifugiarsi in Florida a Mar-a-lago.

Il veleno che minaccia il recovery plan

Quando approvarono il Piano di ripresa Covid, il 21 luglio, i leader del Consiglio europeo dovettero transigere sulla questione stato di diritto, per poter ottenere l’accordo unanime dei 27 Stati membri. Polonia e Ungheria respingevano ogni condizionalità legata al rispetto della rule of law, e il comunicato finale ne tenne conto.

Esso si limita a ricordare che “gli interessi finanziari dell’Unione sono tutelati in conformità dei principi generali sanciti dai trattati dell’Unione, in particolare i valori di cui all’articolo 2 dei Trattati. Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza della tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Il Consiglio sottolinea l’importanza del rispetto dello Stato di diritto” (l’articolo 2 contiene raccomandazioni su democrazia e stato di diritto).

Il compromesso tuttavia è sgradito a una serie di Stati (i “frugali” in prima linea) che vogliono condizionare in vari modi i fondi iscritti nel bilancio UE, compreso il Piano Covid da loro avversato sin da principio. È il motivo per cui i governi di Polonia, Ungheria e Slovenia hanno opposto il veto: niente bilancio pluriannuale e piano Covid, se la condizionalità non viene ritirata o magari mitigata. Anche il Parlamento europeo rifiuta compromessi, avendo recentemente votato in favore di condizionalità forti sul rispetto della rule of law: sono in gioco – dicono i deputati – principi dell’Unione come la separazione dei poteri, il pluralismo, la libera espressione.

Queste preoccupazioni sono più che legittime, se consideriamo la degenerazione democratica in Polonia e Ungheria. Ma l’intera controversia è profondamente viziata e insidiosa, se esaminata alla luce di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il continente con una distruttività mai vista in tempi di pace. Il dibattito attorno allo stato di diritto è condotto come se non vivessimo tempi di peste, come se l’Unione non avesse alcun tipo di strumento per ottenere il rispetto della rule of law (l’articolo 7 dei Trattati prevede la sospensione dei diritti di voto del singolo Stato in caso di chiare e persistenti violazioni) e come se in colpa fossero solo i Paesi dell’Est. Verrà certo il momento in cui occorrerà superare gli ostacoli che rendono inutilizzabile l’articolo 7, l’ostacolo principe essendo la regola dell’unanimità. Sono anni ormai che Parlamento e Commissione cercano vie alternative. Ma il momento non è questo, a meno che non si voglia affossare il Recovery Plan usando la democrazia come pretesto.

A ciò si aggiunga che condizionalità e sanzioni suscitano risentimenti crescenti negli Stati membri, dopo le politiche di austerità imposte dall’alto della troika a una Grecia umiliata e devastata. È inevitabile che il risentimento risorga ancora più intenso in pieno tifone Covid. Se davvero siamo in emergenza, sia sanitaria sia economico-sociale, non si possono ostinatamente rispolverare metodi punitivi che hanno già più volte lacerato l’Unione.

Prima ancora che esplodesse la pandemia, l’ex presidente della Commissione Juncker – tra i primi responsabili dei piani di austerità – fu esplicito nel condannare questa coazione a ripetere gli errori fatti con Atene. Il 1° gennaio 2017 commentò così i piani tedeschi – e poi franco-tedeschi – di condizionamento sullo stato di diritto: “Sono dell’opinione che non dovremmo vararli”. Aggiunse che le minacce non sono un buon metodo per imporre la disciplina finanziaria o il rispetto dello stato di diritto: “Credo che non sarebbe una buona cosa dividere l’Unione in questo modo: sarebbe veleno per il continente”.

Sono veleno entrambi: i veti come le minacce di sottrazione di fondi. In primo luogo perché a patirne sarebbero popolazioni dell’Unione molto bisognose di aiuti europei, anche se governate dispoticamente. In secondo luogo, la lotta sui “valori” è discriminatoria. Nel discutere e proporre nuovi meccanismi sulla rule of law, l’Unione e il suo Parlamento sono altamente selettivi. Le condanne più severe riguardano i paesi dell’Est, non senza ragione, ma quelli dell’Ovest, specie se “fondatori”, restano intoccabili al massimo grado. Il governo spagnolo di Mariano Rajoy violò manifestamente lo stato di diritto, impiegando violenze sproporzionate contro gli indipendentisti catalani e imprigionando i suoi leader.

Non meno pesante la situazione in Francia. È di questi giorni l’approvazione di una legge di “sicurezza globale” che vieta di fotografare o filmare l’uso di violenza poliziesca eccessiva nelle manifestazioni. È un autentico bavaglio imposto ai fotoreporter che negli ultimi due anni – durante i tumulti dei Gilet gialli – hanno rivelato lesioni del diritto e violenze sproporzionate inflitte da armi semi-letali tra cui i proiettili di gomma LBD 40 (migliaia di feriti, 25 accecati, 5 vittime di mutilazione della mano). A settembre è uscito il documentario del giornalista che ha puntigliosamente raccolto testimonianze sulle violenze, David Dufresne. Il film s’intitola “Un pays qui se tient sage” – Un paese che si comporta bene. Nel 95% dei casi, i video recuperati da Dufresne sono diffusi in rete da anonimi provvisti di cellulare.

L’articolo 24 della nuova legge sulla sicurezza vieta proprio queste immagini, specie se disseminate da reporter non accreditati (la rete è considerata nemico numero uno). Simili violenze sono state condannate dall’Onu. È condannabile anche la brutalità con cui lunedì è stato sgomberato un accampamento di migranti a Place de la République, a Parigi. Né si può dimenticare che l’Unione intera è responsabile di violazione del diritto internazionale per le migliaia di rifugiati lasciati morire in mare.

Il Recovery Plan e la decisione di indebitarsi collettivamente e non più come singolo Stato rappresentano un prezioso progresso, facilitato dall’insistenza di Italia e Spagna. I vecchi meccanismi intergovernativi d’assistenza, come il Mes non del tutto emendato, sono superati da un’iniziativa che non vede più contrapposti creditori con la frusta in mano e debitori che si ritrovano, sempre più impoveriti, sul banco degli imputati.

Naturalmente è grave che permanga lo scoglio dell’unanimità (compresa l’unanimità dei 27 Parlamenti sul Piano Covid). L’Unione resta la costruzione imperfetta che è, senza strategie di ricambio. Ma come nel racconto di Conrad, quando sei assalito dal Tifone non c’è tempo per discettare sulle migliori “strategie della tempesta”. Ti piove addosso il cielo, e unico compito del comandante della nave è portare in salvo, se può e come può, equipaggio e passeggeri.

Il “Dema” scorda pure che c’è il Covid

C’era una volta lo spaventatissimo Luigi de Magistris, il sindaco di Napoli che invocava coprifuochi e lockdown per difendere la città dai contagi. Ieri però, nella tragedia del lutto per Maradona, De Magistris ha rivisto di colpo le sue priorità. Già dal pomeriggio infatti migliaia di napoletani sono scesi in strada per omaggiare il loro campione davanti ad altari improvvisati e a uno Stadio San Paolo – che presto sarà Stadio Maradona – illuminato come nelle serate migliori. Troppo il dolore tale da vanificare i divieti a uscire di casa tipici delle zone rosse. Di fronte a cotante manifestazioni di lutto, però, anche il sindaco si dev’essere messo una mano sul cuore. E così, invece che invitare i suoi concittadini – anche solo bonariamente – a non esagerare con gli abbracci e le adunate, De Magistris è andato in televisione a legittimare quanto stava accadendo: “Sì, siamo zona rossa, ma come fai a condannare questa gente?”. Buono a sapersi, soprattutto in un periodo in cui a malapena si riesce a onorare i propri parenti defunti con un funerale.

Il limite dei mandati per i virologi in tv

Le numerose lettere ricevute a proposito della rubrica precedente, dedicata alle esternazioni di Andrea Crisanti, fanno capire che il tema vaccini è il nervo più scoperto della pandemia mediatica. Siccome il lettore ha sempre ragione, vediamo di spiegarci meglio. Nella nota non si entrava nel merito degli annunci del virologo, abbastanza simili all’annuncio della scoperta dell’acqua calda (ci si vaccina solo quando si è certi che il vaccino è sicuro); si discuteva dell’opportunità di esternare pubblicamente, ogni giorno, a ogni ora, su ogni orizzonte proposto dall’ordine mondiale della sanità. Ci si interrogava inoltre sull’onestà intellettuale dei salotti, televisivi e non, sempre a caccia della sparata più grossa, dei Savonarola di giornata. Epidemiologi, virologi e compagnia curante li facevamo meno sensibili al fascino dei riflettori, invece sono in evidente trance agonistica. Certo, non c’è solo Crisanti, che almeno è rimasto tutto intero, mentre c’è chi ha cominciato a sdoppiarsi. Avete presente il vecchio adagio “Due galli in un pollaio”? Ebbene, martedì in tv c’era un Galli in due pollai. Chi si fosse sintonizzato su Carta Bianca, Rai3, avrebbe visto comparire il professor Massimo Galli; se poi fosse passato su Rete4, avrebbe rivisto comparire il professor Massimo Galli a Fuori dal coro (talmente fuori dal coro che c’era lo stesso ospite del canale accanto). Galli Uno indossava giacca e cravatta, Galli Due il camice. Una differenza di non poco conto. Però le domande erano più o meno le stesse e le risposte pure. Niente di speciale: sono le regole del Talk Unico dove la fantasia è bandita, tutto è in fotocopia, a partire dagli ospiti; però ci aspettavamo una minor smania di divismo da parte della Scienza. Forse il Cts potrebbe metterci una pezza. Si potrebbe pensare a un limite di mandati televisivi, oppure a tre fasce di presenzialismo. Nella peggiore delle ipotesi, si fa a pari o dispari. Pari viene Crisanti, dispari viene Galli.

“Cento luoghi di-versi”: le pezze al culo del Paese meraviglioso

Quando l’ho preso in mano, cartonato rilegato e patinato, m’è venuto il sospetto che si trattasse di una strenna natalizia solo resa un po’ più chic della media grazie all’accoppiata di due personalità erudite ma scomode, l’uno poeta e l’altro storico dell’arte. Invece Franco Marcoaldi e Tomaso Montanari (Cento luoghi di-versi, Treccani, 232 pagine, 19,90 euro) mi hanno letteralmente incastrato, sorpreso, con l’accostamento estroso di versi, classici e non, alle 101 immagini in cui raffigurano l’Italia migliore e peggiore: foto di ambienti naturali, statue, dipinti, paesaggio e degrado urbano. Sicché non sono riuscito a smettere di sfogliare in su e in giù le pagine, incantato dalla loro bellezza, curioso della storia che racchiudono, turbato dai loro risvolti impliciti di tragedie e abbrutimento. Un Paese meraviglioso, l’Italia, ma con le pezze al culo. C’è dell’insipido autocompiacimento nel ripeterselo. Un rischio che viene scongiurato però dalla natura al tempo stesso raffinata e pop di un’opera concepita come impresa civile. Per spaventarvi potrei dire che solo nel primo capoverso dell’introduzione Montanari riesce a citare, descrivendo la Cappella Medicea di Firenze, Simone Weil, Beethoven, Michelangelo, Sofocle e la fatica del lavoro operaio. Ma il suo risulterà un suggerimento facile e necessario per lasciarci incantare nel viaggio. La prima immagine, bellissima e spossata, di un reparto ospedaliero al tempo del Covid, viene vivificata dai versi di Boris Pasternak sull’ospedale. Tra i poeti può succedere che Sandro Penna insidi, per numero di presenze, Dante Alighieri. E che Petrarca rifulga modernissimo, fulminante quanto un Giorgio Caproni. Largo spazio ai cantautori, non solo agli ovvi Conte e De André, fino al binomio a me carissimo di Franco Fortini ed Enzo Jannacci in Quella cosa in Lombardia. Così entriamo nei quadri delle nostre città. Perché, come spiega in versi Marcoaldi, “chi non sa apprezzare un albero,/non può apprezzare un quadro./ Perché comune a entrambi/ è la profonda vastità delle radici:/ se non cogliamo quelle,/ siamo solo dei penosi/ ladri di immagini”.

Mail Box

 

Bisogna distribuire più equamente le risorse

Con la necessità di aiutare le fasce più colpite dal virus, abbiamo dato un premio agli evasori che si annidano numerosi tra le partite Iva e arricchito i ricchi, cioè la maggior parte delle imprese. Chi ha maggiori risorse dovrebbe essere disposto a distribuirle per non gravare il debito pubblico, altrimenti questa pandemia ci costerà ancora più cara perché i debiti si pagano con gli interessi.

Livio Artusi

 

I dati stanno migliorando ma restiamo in allerta

Riaprire scuole e attività commerciali, allentando le misure restrittive a ridosso delle festività natalizie ci farebbe ripiombare in uno scenario drammatico. Proprio ora che i dati del contagio vanno meglio, non bisogna abbassare la guardia.

Gabriele Salini

 

Mai che la “casta” si sia dissociata dai corrotti

Ho ascoltato i commenti quasi unanimi di alcuni politici indignati per le parole pronunciate dal sen. Nicola Morra. Ecco allora che la “casta”, con la complicità di molti giornali e commentatori televisivi vari, accusano Nicola Morra “colpevole” di essere irriguardoso verso le istituzioni. La cosa che mi disturba è che non ho mai ascoltato dichiarazioni da lor signori in cui si prendevano le distanze dai tanti politici colti con le mani nel sacco mentre si facevano corrompere, oppure da quei dirigenti di aziende partecipate che non solo non hanno risanato i conti da sempre in profondo rosso, ma sono stati garbatamente accompagnati alla porta con generose indennità.

Luigi De Luca

 

Morra ha solo richiamato ai doveri istituzionali

Anche senza il pericolo Covid, non credo che Cristiano Ronaldo verrebbe schierato in una finale di Champions League se stesse facendo cicli di chemioterapia. Il sen. Morra dice che Jole Santelli avrebbe dovuto astenersi dal giocare una partita un tantino più preziosa e importante e non perché a causa di una grave situazione di salute avrebbe potuto perderla, ma perché avrebbe potuto vincerla. Il premio: giocare un intero “campionato” lungo anni, ovvero guidare una regione in tempo di Covid. Di cosa dovrebbe vergognarsi il senatore? Di aver ricordato i doveri di responsabilità da parte dei candidati nei confronti di un incarico politico amministrativo?

Romano Frigo

 

Si parla ancora di parità dei sessi in Costituzione?

L’art. 3 della Costituzione dice: “Tutti cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso”. Sembra di capire che la distinzione fra i sessi debba essere bandita da ogni legge dello Stato. Invece, sempre più spesso, le leggi fanno riferimento al sesso dei cittadini senza alcun riferimento alle caratteristiche fisiologiche specifiche e che potrebbero comportare una legislazione diversa fra uomo e donna. Non dico che una legge non sia accettabile o condivisibile qualora faccia specifico riferimento al sesso. Dico però che sarebbe opportuno togliere dalla Costituzione il concetto di parità dei sessi davanti alla legge perché così proprio non è.

Pietro Volpi

 

Chi cambia casacca dovrebbe dimettersi

Assistiamo all’ennesimo trasferimento di parlamentari da un partito a un altro. È un comportamento trasversale ma resta ugualmente un tradimento della fiducia dei cittadini che scelgono di farsi rappresentare da donne e uomini con cui condividono valori importanti. Chi viene eletto in un partito che non risponde più alle sue idee si deve dimettere, non cambiare casacca. Impedire le porte girevoli sarebbe rispettare il voto di chi crede nella democrazia rappresentativa.

Ernesto

 

Direttore, non concordo con la sua risposta di ieri

Egregio direttore Travaglio, nel commento di risposta alla lettera del sig. Castagnoli, lei sostiene di voler fare quello che le pare in auto se non mette a repentaglio la vita altrui. Per dovere civico un guidatore deve obbligatoriamente allacciare le cinture perché rimanendo ferito, a causa del mancato allaccio, provocherebbe alla società in primis un danno economico e anche di altro tipo; in caso di morte, poi, l’altro conducente si troverebbe comunque indagato per omicidio colposo. Mi meraviglio che lei, così attento agli obblighi di solidarietà, si lasci andare a queste considerazioni.

Mario Cerri

Caro Mario, so benissimo che questa è la motivazione dell’obbligo di cintura. Ma non mi convince lo stesso: lo sa quanti malati e morti fa l’alcol ogni anno? Io sono astemio, ma non mi sognerei mai di proibire gli alcolici.

M. Trav

Gedi e l’informazione. Caro Elkann, le tue strategie non ci convincono

 

Lettera aperta al presidente del Gruppo GEDI, John Elkann.

Egregio presidente, in merito alla sua visione dell’editoria e del giornalismo esternata al master di Giornalismo dell’Università di Torino, è interessante vedere che lo stesso articolo, firmato dallo stesso giornalista sia stato pubblicato su due quotidiani diversi. Su La Stampa e sul Secolo XIX di sabato 14 novembre 2020. “Sinergia” o “omologazione”? Stiamo parlando di due grandi quotidiani autonomi o asserviti “al capo”? Al giornalista è stato pagato solo un articolo anche se lo stesso è stato pubblicato su due quotidiani? Se è questo che lei intende quando afferma che è ora di fare un balzo nel XXI secolo, le ricordo che anche le fotocopie sono uno strumento del secolo scorso. E poi, suvvia, quei dati sugli abbonamenti digitali che ha magnificato: il raddoppio nel corso del 2020. Ma siamo seri. È come dire che nello stesso periodo le televisioni hanno migliorato lo share degli ascolti. O forse pensa che il lockdown non abbia influito? Inoltre, leggere di questo grande exploit degli abbonamenti digitali mi ha riportato alla mente la vicenda di un importante quotidiano nazionale che dichiarava numeri di vendita e diffusione stratosferici e in aumento fino a quando si è scoperto che non era così. L’unico dato interessante da approfondire non lo ha però reso noto. Quello che la carta stampata sia per l’80% la fonte di reddito per un editore. E nonostante sia un decennio che si utilizzi il reddito della carta stampata per investire nel digitale. Trovo incomprensibile non fare più investimenti sul cartaceo che, tutto sommato, porta ancora un po’ di reddito dilapidando risorse sul digitale senza ottenere un risultato degno di nota. È evidente che la tecnologia si evolve rapidamente e le nuove generazioni sono proiettate a utilizzarla. È evidente che occorre trovare un modello per l’informazione del futuro che coinvolga i giovani e che possa sviluppare sinergie tra cartaceo e digitale. È altrettanto evidente che questo nuovo modello non nasce continuando a pensare di scimmiottare altri modelli del modo digitale come è stato fatto sinora con le piattaforme dei social. Un modello funziona se è sviluppato in base al target dei possibili utenti e non esiste un modello “buono per tutto”. Certo, occorre conoscerlo questo target. E se si pensa a nuove forme di contatto con i lettori buttando a mare una rete capillare come quella delle edicole, etichettandola come obsoleta, si dimostra quanto si è miopi. Gli edicolanti sono a contatto quotidiano con i lettori e ne conoscono interessi, curiosità e sogni. Invece no. Dopo le cantonate prese correndo dietro ai modelli Facebook, Twitter ecc. ora si corre dietro ai modelli Netflix, Amazon e Spotify, esaltando i fenomeni TikTok e Youtube. La questione è come si vuole che sia l’informazione. Informazione di qualità e verificabile o informazione spazzatura e non verificabile? Informazione libera e pluralista o informazione omologata e in mano a pochi? Giornali e giornalismo originali o fotocopia?

Andare al master di Giornalismo a dire quello che è stato detto credo di capire dove si voglia andare. E rabbrividisco.

Il Segretario Nazionale del SI.NA.G.I., Amilcare Digiuni