In questo momento i super-ricchi devono dare una mano in più

Di solito nel momento del bisogno le famiglie, se sono già indebitate fino al collo, guardano a ciò che hanno in casa. E prima di rivolgersi a una banca o a uno strozzino rompono il salvadanaio o, se la possiedono, vendono la seconda auto sapendo che intanto possono contare sulla prima. Se poi hanno uno straricco zio d’America provano a bussare alla sua porta. Non solo perché i legami di sangue contano, ma anche perché quello che per una famiglia è tanto (il denaro necessario per uscire dalle difficoltà) per lui è niente o molto poco.

Oggi nessuno può dubitare sul fatto che la famiglia Italia sia nelle peste. La pandemia ci sta mettendo in ginocchio. Sta allargando le diseguaglianze tra ricchi e poveri. E pure quelle tra i garantiti (coloro i quali uno stipendio lo hanno e continuano a percepirlo) e i non garantiti: i 300mila lavoratori a termine rimasti disoccupati; i cinque milioni di lavoratori autonomi che hanno subito impressionanti cali del fatturato e poco indennizzati; i commercianti e i ristoratori solo in minima parte ristorati. Un elenco lunghissimo di categorie che sanno quanto saranno difficili i prossimi mesi. A tutti loro servono, per dirla con Matteo Salvini, “soldi veri” per passare la nottata. Ma i soldi, si sa, sono pochi e anche se in questo periodo ottenerli in prestito è facile e pure conveniente (i tassi d’interesse sono bassissimi o addirittura negativi) fare altri debiti, avendone già tanti sulle spalle, è molto pericoloso. Per questo, invece che impegnarsi in lunari discussioni sui 37 miliardi del Mes (che convenienti o meno sempre debito sono), i nostri politici farebbero bene a guardare a ciò che abbiamo in casa. O meglio a guardare ai nostri zii d’America, ma italianissimi di passaporto, che per un paio d’anni potrebbero facilmente darci una mano. Nel nostro Paese, secondo l’ultimo rapporto sulla ricchezza globale del Credit Suisse, esistono 2.774 cittadini con un patrimonio personale superiore ai 50 milioni di euro. In totale possiedono liquidità, beni mobili e immobili per almeno 138 miliardi. Anche se stime più realistiche parlano di una loro ricchezza complessiva almeno doppia, circa 280 miliardi, visto che molti dei 2.774 fortunati hanno patrimoni di svariate centinaia di milioni. Secondo la rivista Forbes ci sono poi altri 40 italiani addirittura miliardari o multimiliardari. Veri e propri paperoni che in tutto detengono la bellezza di 140 miliardi. Bene, questa rubrica pensa che sia arrivato il momento di rivolgersi a loro. Un contributo del 2 per cento versato da chi possiede patrimoni superiori ai 50 milioni, ma inferiori al miliardo, potrebbe fruttare 6 miliardi. Uno del 3 per cento dato dai 40 supericchi permetterebbe allo Stato di incassare altri 4 miliardi.

Per questo i partiti, tutti i partiti da destra a sinistra, dovrebbero cominciare a pensare di votare assieme non solo gli scostamenti di bilancio, ma anche l’una tantum per il 2021 (seguita da quella per il 2022) con la quale raccogliere i primi 10 miliardi. Non si tratta di introdurre patrimoniali che colpiscano ciò che resta della classe media. Ma di fare ciò che è ragionevole e giusto. Dire ai nostri quasi tremila concittadini più fortunati che la patria ha bisogno di loro. Che il momento è difficile e che il sacrificio loro chiesto è molto piccolo.

La prossima settimana, in ogni caso, sul sito del Fatto partirà una raccolta firme. La crisi è per tutti ed è giusto contribuiscano tutti. A partire da quegli italiani ai quali la vita ha dato davvero molto di più.

 

Altro che Mediaset o Vivendi, qui è ora di una legge sulle tv

Mentre sulla Rai infuria la tempesta perfetta (Zinga contro Salini, Rai3 contro Morra, la maggioranza contro Salini e Di Mare) la domanda parrebbe: morire per Vivendi o morire per Mediaset? La quale, per inciso, si oppone alla decisione della Corte europea che autorizza la prima, che detiene una parte rilevante di Tim, a disporre a pieno titolo del suo 29% di quote del Biscione, ma in Italia grazie alla legge Gasparri beneficia, unico caso in democrazia, di tre reti generaliste più una quindicina tra digitali e pay, più il controllo del mercato pubblicitario, più quello di giornali e periodici. Il tutto in spregio a qualsiasi pluralismo. Questo il problema vero che il governo dovrebbe affrontare. Colmare un vuoto, dice il ministro: pure perché in Francia fanno carte false per difendere le loro aziende. Anche se sembra poco probabile l’acquisizione di Mediaset, azienda in crisi, da parte di Vivendi. Ciò che però non si può digerire è che un’impresa che ha ricevuto da quando è nata (sin dai tempi di Craxi) più di un favore dalla politica, con leggi ‘ad aziendam’ finanche in barba a sentenze della Corte (Mammì, Maccanico, Gasparri) o la demente ‘rinuncia’ a intervenire dell’Ulivo di Prodi, possa ancora godere di un trattamento privilegiato. Tra l’altro non ci pare che ci siano altre aziende nazionali in pericolo. E se anche si corresse questo rischio ci sarebbe sempre la possibilità dell’utilizzo del golden power da parte di Palazzo Chigi.

Detto questo se, come dice il ministro, la norma va in direzione della tutela del pluralismo, il governo per essere credibile ha una, e una sola, strada da percorrere: fare la riforma della Gasparri. Questa sì un’azione utile a scongiurare lo scenario pur improbabile di un nuovo duopolio dell’etere Rai-Vivendi al posto di Rai-Mediaset. Una riforma vera, che in Italia aspettiamo da quel dì, che preveda per il privato un massimo di 2 reti e per la Rai una rete senza pubblicità. Perché sarà pur vero che oggi la transmedialità, i nuovi media, il digitale e bla, bla, bla via discorrendo, ma nonostante ciò il sistema rimane duopolistico considerato che Rai e Mediaset coprono con le loro reti i 2/3 dell’audience tv; oltre ad essere entrambe politicizzate fin nel midollo. In questo senso sia la proposta di Orlando (Pd) che quella di Fornaro (LeU) appaiono insufficienti, soprattutto perché non sono proposte complessive, limitandosi a intervenire sulla Rai diversamente dal modello Gentiloni cui pure si ispirano. Parliamo della vecchia proposta di legge di Gentiloni che da ministro della Comunicazione del secondo governo Prodi propose una riforma però di tutto il sistema (di cui poi, a dire il vero, si dimenticarono sia lui che il Pd). Se rimane apprezzabile il tentativo di mettere in sicurezza l’azienda pubblica, ciò non basta però a garantire un assetto antiduopolistico e plurale all’etere nazionale. E dire che l’occasione per fare una riforma radicale della Gasparri, una legge frutto di una grave forzatura a vantaggio di Mediaset ed oggi del tutto anacronistica, la maggioranza ce l’avrebbe, completando il recepimento parlamentare della direttiva europea per i media audiovisivi (Smav), magari con una delega al governo che vada nella direzione riformatrice che abbiamo auspicato. Lo ha scritto sul manifesto Vincenzo Vita, ex sottosegretario al ministero delle Telecomunicazioni nel 1996-2001 e autore materiale dell’unica legge seria in materia partorita dal centrosinistra al governo nell’ultimo quarto di secolo: quella sulla par condicio. Vedremo. È che purtroppo la storia lunga dei rapporti tra sinistra e tv e quella breve tra quest’ultima e i grillini non ci spingono a eccessi di ottimismo.

 

Il “Titolo V”, una follia in mano alle regioni

Passata la pandemia e al netto dell’immane disastro che essa lascerà, occorrerà riflettere sulla tenuta complessiva del nostro Paese, in termini di adeguatezza delle norme, efficienza ed efficacia degli apparati amministrativi in un contesto in cui i Costituenti rifiutarono giustamente ogni tentazione di inserire nel testo della Carta ogni riferimento al cosiddetto “stato d’eccezione” (con il suo automatico corollario dei “pieni poteri” e dell’improbabile e inopportuno “uomo solo al comando”), come pure altri Paesi hanno ritenuto di fare, Francia in primis. Balza agli occhi la pessima prova di sé che ha dato l’attuale assetto dei rapporti centro-periferia, voluto dall’allora maggioranza di centrosinistra, e approvata, forse con eccessiva superficialità in un referendum costituzionale, contenuto in quello che continuiamo a definire “nuovo Titolo V”. È tempo di bilanci, misurati tanto nella gestione ordinaria del rapporto Stato-Regioni, quanto in quella necessitata dall’attuale situazione di emergenza che ha determinato una tale bailamme di polemica da non trovare eguali nella storia della Repubblica. Già in tempo di “pace sociale” abbiamo assistito a un aumento smisurato del contenzioso costituzionale fra Stato e Regioni, tale da costringere la Corte a emettere decine e decine di sentenze con le quali ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di numerose, e talvolta, stravaganti leggi regionali che, nel maldestro tentativo di costruire una sorta di “federalismo fai da te”, ha finito per invadere le competenze legislative del Parlamento. La Corte ha più volte ribadito che il nuovo Titolo V non è il grimaldello attraverso il quale si intende scardinare l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, sostituendola con uno sgangherato autogoverno.

Abbiamo assistito alla progressiva adozione di locuzioni e terminologie d’oltreoceano (la sostituzione del termine “Presidente della Regione” con quello di “Governatore”) che hanno, nei fatti, legittimato il governo regionale dell’uomo solo non disgiunto dalla circostanza per cui, essendo i Presidenti delle Regioni “eletti direttamente dal popolo” (tale evenienza è figlia della malsana idea di prevedere anche l’elezione del Sindaco d’Italia), essi godrebbero di una legittimazione persino maggiore di quella del Presidente del Consiglio (indicato dalla maggioranza e nominato dal Presidente della Repubblica). Questo il fiume carsico che ha pervaso il nostro Paese e che negli anni ha eroso, con evidente responsabilità politica di chi quel Titolo V scrisse, volle e approvò, ogni equilibrio istituzionale di questo Paese, a favore di una non meglio precisata “partecipazione caotica” alla formazione delle decisioni. Frutto dell’assenza di una “clausola di supremazia” della legislazione nazionale a tutela dell’unità della Repubblica di cui si sente la mancanza. Quanto poi il Titolo V abbia dato buona prova di sé in tempo di Covid-19 è sotto gli occhi di tutti. Non vi sono Regioni (e loro Presidenti) “virtuose” e Regioni “viziose” nella gestione delle competenze, Regioni governate da una parte politica o dall’altra. Vi è solo una follia collettiva che vede impegnati i Presidenti a rivendicare poteri per i quali non hanno competenze e a “scaricare” adempimenti non graditi, nella più indistinta applicazione di principi clientelari e populisti. Mentre in tempo di pace abbiamo assistito all’approvazione di leggi regionali davvero assai originali (dal divieto di edificare nuovi edifici di culto, ovviamente diversi da quello cattolico, alla organizzazione di strutture paramilitari regionali volte a “perseguire” la sicurezza, come noto competenza dello Stato), in tempo di guerra (al virus) assistiamo alle più incredibili delle scelte (apertura estiva delle discoteche, ma anche riapertura degli ospedali infetti) sotto gli occhi attoniti degli addetti ai lavori, ma anche dei cittadini che, quasi che sia uno sport nazionale, fanno il tifo per il capo del governo o per questo o quel Presidente della Regione, quasi che si stia assistendo a una partita di calcio. Verrà presto il tempo in cui questa pandemia sarà solo un brutto e tragico ricordo, ma anche un monito per comprendere quanti danni abbia fatto il virus a noi, ma anche quanti ne abbiamo fatto noi a noi stessi, per non aver compreso fino in fondo che l’assetto disegnato dalla riforma costituzionale del 2001 ha seriamente peggiorato i nostri conti pubblici senza aver minimamente migliorato le prestazioni a favore dei cittadini. È giunto il momento di porre in essere una serie riflessione sul nostro regionalismo che, nel rispetto del principio contenuto nell’art. 5 della Costituzione ponga al centro, in maniera chiara, la potestà legislativa statale nelle materie che investono tutto il territorio, senza deroghe né eccezioni, con provvedimenti di portata nazionale, tali da garantire omogeneità, efficacia ed efficienza.

 

Sesso all’intervallo della partita e il dubbio su Paul McCartney

E ora, per la serie “Dove sei stata tutta la mia vita e perché non ci ritorni”, la posta della settimana.

 

Caro Daniele, cosa leggi di bello nel tempo libero? (Laura Marveggio, Sondrio)

Di tutto, tranne i romanzi autobiografici. Non mi piacciono. Mi danno sempre l’impressione che l’autore si tolga di continuo il termometro dal culo per mostrarlo alla lettrice.

Hai presente i Wings, il gruppo dove suonava Paul McCartney dopo i Beatles? Il loro chitarrista si chiamava Danny Laine. Ma Danny Laine come suono ricorda Penny Lane. Ecco: per me questa assonanza Danny Laine/Penny Lane è sempre stata insopportabile. Danny Laine/Penny Lane. Danny Laine/Penny Lane. Insopportabile. Anche per te? Be’, comunque, se doveva essere qualcuno a dirlo per primo, sono contento di essere stato io. (Franco Occhipinti, Ragusa)

Aspetta: Paul McCartney suonava in un altro gruppo prima dei Wings?

È vero che in Australia, invece dei cani-guida, i ciechi usano i canguri-guida? (Lucia Martelli, Novara)

Sì.

Ho una domanda di galateo. Il mio ragazzo lavora in una base Nato dalle parti di Vicenza. Qual è il modo migliore per dire a un ragazzo che non lo ami più, quando sai che lui sta in un bunker a 80 metri sotto terra col dito su un pulsante rosso che può lanciare 200 megatoni su Mosca? (Silvia Rigon, Vicenza)

Diglielo in latino: “Trahit sua quemque voluptas”. Lui ti chiederà cosa vuol dire. E tu: “Vuol dire ‘Fai almeno lo sforzo di guardartelo su Google’. Addio”. Gli procurerai un disorientamento duraturo, e avrai tutto il tempo di stabilirti in Tibet, una località amena e sicura che se avesse il mare sarebbe una piccola Bari.

In un articolo su Famiglia Cristiana ho letto il termine “frottage”. Cos’è il frottage? (Giancarlo Traverso, Genova)

Il frottage è due cose: 1) il procedimento artistico, caro ai surrealisti, di sfregare con una matita un foglio sovrapposto a una superficie ruvida (tela di sacco, barba, peli pubici ecc.), ottenendo immagini inedite e casuali; 2) l’antica usanza inca di sfregare il pene contro il culo dell’amata durante i rituali di fertilità che si celebravano sugli autobus affollati della tratta Moche-Chicama (Perù). Quizquiz, il generale delle armate di Atahualpa, insegnò il frottage a Francisco Pizarro che, in segno di riconoscenza, ne commutò la condanna a morte con la garrota in condanna a morte sul rogo. A Pizarro si deve poi l’introduzione del frottage nei seminari spagnoli. Famiglia Cristiana

parla di frottage in un articolo su Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, perché Escrivá era un noto surrealista.

Vorrei fare l’amore con te in un campo di calcio, nei 15 minuti di intervallo tra i due tempi della finale dei Mondiali 2022 in Qatar. Davanti a tutto lo stadio e alle telecamere. Che ne pensi? (Paola Raviola, Asti)

Ok. Ho un debole per le timide.

Come combattevi lo stress prima di ogni puntata di Satyricon? (Luca Mentasti, Varese)

In effetti lo stress era enorme, ma recitare il rosario insieme a Freccero prima di ogni registrazione mi aiutava a rilassarmi.

Quali sono le regole nella tua camera da letto? (Maria Chiacchiari, Isernia)

1) Niente crackers fra le lenzuola. 2) Ignorare la persona che è dietro le tende.

Cercate anche voi una guida spirituale? Scrivetemi! (lettere@ilfattoquotidiano.it)

 

Il capitano si crede pure giudice antimafia

Ogni giorno si imparano cose nuove. E, dando a Cesare quel che è di Cesare, sovente il merito è di Matteo Salvini. Ieri per esempio il buon Matteo ci ha illuminati su come, in barba alla separazione dei poteri, gli arresti siano prerogativa nientepopodimeno che del ministro dell’Interno. O meglio, del ministro dell’Interno se il ministro dell’Interno è lui. La rivelazione è stata consegnata ieri mattina a Omnibus, su La7, di fronte a una entusiasta Gaia Tortora. Fiutando lo scoop, la giornalista aveva chiesto al Nostro di replicare all’editoriale di ieri di Marco Travaglio, che accusava Salvini di una biennale fuga dalla Commissione antimafia presieduta da Nicola Morra, che più volte avrebbe voluto ascoltarlo su alcune indagini che coinvolgono la Lega. E qui Salvini ha dato il meglio di sé: “Agli insulti del signor Travaglio, che deve avere una vita già triste di suo, non ho tempo né voglia di rispondere. Io ho fatto il ministro dell’Interno e ai mafiosi portavo via ville, aziende e piscine”. E noi che credevamo che gli arresti fossero roba per magistrati e forze dell’ordine. Salvini, al massimo, le operazioni antimafia rischiava di bruciarle, come quando sbandierò in anticipo sui social l’arresto di 15 nigeriani costringendo il procuratore di Torino Armando Spataro a pregarlo di starsene zitto. Mai consiglio sarebbe più attuale. Ma temiamo che Salvini proprio non resista.

Cybersicurezza sotto ricatto: cosa vogliono Pd e Iv

Si è parlato di “problema di metodo”: secondo la vulgata, il motivo per cui dalla bozza della legge di Bilancio è saltata la norma che assegnava – di fatto, creandolo – 10 milioni per l’Istituto italiano di cybersecurezza sarebbe stato semplicemente il fatto di non aver prima consultato Pd e Italia Viva. “Serve il Parlamento” hanno accusato i dem. Peccato che “semplicemente”, in politica, non esiste.

Pd e Iv, infatti, stanno pensando di utilizzare la fondazione come clava per ottenere più peso nel comparto: puntano a togliere al premier Giuseppe Conte la delega ai servizi e per lasciarla alla cosiddetta “autorità delegata”, in pratica un organo di indirizzo della Presidenza del Consiglio sulle strutture d’intelligence (che può essere affidata a un ministro senza portafoglio o a un sottosegretario, ovviamente del Pd). Altro obiettivo, le vicedirezioni: blindato il rinnovo del direttore del Dis con Gennaro Vecchione, restano dei posti all’Aisi e all’Aise. Una questione di trattative, insomma, che poco hanno a che fare con l’utilità tecnica dell’istituto, peraltro molto voluto proprio da Conte. La fondazione dovrebbe ora finire nel maxi-emendamento alla legge di Bilancio, ma anche per questo servirà un accordo: prima lo si trova (e dovrà essere entro il 15 dicembre), prima sarà possibile redigere un progetto organico e “cantierabile” per legarlo al Recovery Fund.

L’obiettivo dell’istituto, come da bozza, è “promuovere e sostenere l’accrescimento delle competenze e delle capacità tecnologiche, industriali e scientifiche nazionali nel campo della sicurezza cibernetica e della protezione informatica”. Una struttura simile era già stata pensata nel 2017, nell’allora Piano nazionale cyber, più privatistico e sotto il controllo dell’intelligence (mentre adesso avrebbe come riferimento anche premier e ministri del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica). Oggi però non si può rimandare: sulla cybersecurity potrebbero arrivare, nei prossimi anni, centinaia di milioni di euro da Bruxelles, via Recovery fund ma anche dai fondi Horizon e Digital Europe che destinano quasi 5 miliardi per l’European Cybersecurity Competence Center, un centro di ricerca europeo proposto dalla Commissione per un “approccio comprensivo alla cybersecurity in tutta la catena di valore, dalla ricerca all’applicazione e lo sviluppo delle tecnologie chiave” anche favorendo il dialogo tra privati, consumatori e “altri stakeholder rilevanti”. Il centro, però, dovrebbe avere ramificazioni in tutti i Paesi, essere il vertice di una rete diffusa di cui l’Italia al momento non fa e non potrebbe far parte rischiando, di fatto, di perdere centinaia di milioni di euro in fondi europei e di indebolirsi in un momento in cui, anche a fronte della crescita della domanda “digitale” generata dalla pandemia, la sicurezza cybernetica diventa strategica. Tanto che, in sua difesa, è scesa in campo sia Confindustria Digitale sia il Comitato Nazionale per la Ricerca nella Cybersecurity formato dal Consiglio Nazionale per le Ricerche (Cnr), il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (Cini) e il Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni (Cnit): “Una struttura centralizzata, multidisciplinare e con adeguata massa critica, che permetta la collaborazione efficace delle istituzioni con il mondo della ricerca pubblica e privata è indispensabile per lo sviluppo di piattaforme e di soluzioni architetturali al servizio del Paese e della sua ripartenza”.

Banda ultra-larga in ritardo. Open Fiber rischia le revoche

Il progetto della rete unica non è ancora partito, ma è già pronto ad assicurare un affare d’oro all’Enel guidata da Francesco Starace, a spese dello Stato. Peccato che l’oggetto del contendere, Open Fiber, non se la passi bene. Nei giorni scorsi Infratel, la società pubblica concessionaria della rete in fibra che Open Fiber deve costruire in mezza Italia, ha mandato una lettera terrificante alla società. La missiva si conclude con un avvertimento dell’ad Marco Bellezza: “Ci si riserva di intraprendere le azioni più opportune a tutela dell’interesse pubblico”. Sembra il preludio ad azioni legali, che infatti pendono al ministero dello Sviluppo, da cui dipende Infratel.

Andiamo con ordine. Il piano del governo per la rete unica prevede di fondere quella di Tim con quella di Open Fiber, partecipata al 50% ciascuna da Enel e Cassa depositi e prestiti. Cdp avrà la governance del nuovo gruppo, Tim la maggioranza. Per procedere, Enel deve vendere il suo 50%, e Starace ha deciso di sfruttare la situazione per farselo strapagare. Nel 2015 per obbedire al diktat di Matteo Renzi ha messo in piedi OF insieme a Cdp con l’idea di sfidare Tim sulla fibra ottica. La società ha vinto con ribassi stellari i bandi Infratel per cablare le aree bianche, “a fallimento di mercato”, dove i privati non investono. Il valore è di due miliardi e mezzo, ma il cronoprogramma è un colabrodo.

Finora la società ha collezionato tre anni di ritardi su tre anni di lavori previsti. Doveva concluderli nel 2020, ma a maggio scorso nell’apposito Comitato governativo per la banda Ultralarga (CoBUL) si è capito che sarà il 2023 (su 7mila Comuni da cablare quelli connessi sono un migliaio secondo Infratel). Ora anche quella data sembra scritta sulla sabbia. Nella lettera, Infratel descrive una situazione disastrosa ed esprime “forte preoccupazione in relazione alla progettazione esecutiva del piano Bul e la Vostra capacità di rispettare i tempi pattuiti”. Per l’anno in corso sono stati consegnati solo 3.144 progetti, cioè “600 meno rispetto alle previsioni contrattuali e oltre 400 in meno rispetto al target rideterminato al ribasso a seguito della vostra richiesta di revisione del maggio scorso”. Non è tutto. Per 168 progetti, Infratel “ha formulato richieste di integrazioni/correzioni” senza ottenere riscontro e questo “induce a ritenere che il processo di progettazione subirà nel 2020 un significativo rallentamento anche rispetto al 2019”. Infratel ha scoperto poi che in 314 Comuni non sono partiti i lavori malgrado progetti esecutivi e permessi siano stati approvati da tempo. A preoccupare la concessionaria è il fatto che nel 2021 i progetti da consegnare dovrebbero raddoppiare, ma non sembra possibile. “Considerati i gravi ritardi accumulati e la riscontrata insufficienza delle misure messe in campo… – si legge – esprimiamo la seria preoccupazione che finanche il termine del 31 dicembre 2023, già rimodulato rispetto alle originarie previsioni contrattuali, possa essere da voi disatteso”.

Infratel ha dato 30 giorni a OF per spiegare come si metterà in regola. A quanto filtra, al Mise pende una richiesta di poter revocare le concessioni nelle aree dove i ritardi sono ingenti. Bellezza, arrivato a febbraio scorso, avvisa anche che, a differenza di prima, non verranno pagati anticipi sui lavori non conclusi in deroga alla concessione. Al Fatto OF replica che “la velocità di realizzazione raggiunta è del tutto coerente con il completamento del piano nei tempi previsti”, che da sei mesi la velocità dei lavori è triplicata e “17 Regioni su 20 e il 92% delle unità immobiliari sarà completato nel 2022”.

Lo scontro rischia di avere un riflesso pesante sul progetto rete unica. Quanto vale infatti Open Fiber? Starace si fa forza di un’offerta del fondo australiano Macquarie che valuta il suo 50% 2,7 miliardi, una cifra iperbolica considerato che la società ha chiuso il 2019 con 186 milioni di ricavi, 117 di perdite e 1,6 miliardi di indebitamento netto. Al punto che Enel e Cdp dovranno ricapitalizzarla con 450 milioni. Open fiber non sembra stare in piedi da sola. Sembra logico che Macquarie inglobi nell’offerta il progetto della rete unica. Il problema è che prima di fonderla con Tim, Cassa depositi vuole avere la maggioranza e Starace deve vendergli un 5-10%. Pensa di farlo al prezzo stellare offerto da Macquarie, più il sovrapprezzo per il controllo.

In pratica, Enel, controllata dallo Stato (che a bilancio valuta la quota in Open Fiber 384 milioni), farà un affare d’oro ai danni di una partecipata statale, che potrebbe dover scucire 7-800 milioni. I valori di Macquarie rischiano poi di sballare il concambio di fusione con Tim, vanificando il progetto. “Venderemo al giusto prezzo”, ha detto Starace. Ma per chi?

Di Marzio. Mi nascosi in bagno per non farmi fregare Diego

Finsi di andare in bagnoper non farmi seguire da un giornalista tifoso della Lazio, temevo potesse soffiarmi la segnalazione di Maradona…”. La storia non si fa con i se e con i ma e non sapremo mai come sarebbero cambiate quelle di Maradona e del Napoli se il Dio del calcio avesse vestito la maglia azzurra già a 17 anni. Nel 1978 l’allenatore del Napoli, Gianni Di Marzio, ne aveva compreso l’enorme talento “ma il presidente Ferlaino non volle parcheggiarlo in Svizzera, le frontiere erano chiuse, mi disse ‘lei è fissato coi giovani…’”. 1978: Di Marzio è in Argentina per i Mondiali, ha conquistato un piazzamento Uefa dopo aver svecchiato una squadra di senatori con ragazzini presi dalla C. “Ferlaino mi diceva ‘qui rischiamo la retrocessione…’ ”. Il tassista che lo porta a vedere Olanda-Germania gli fa il nome di Maradona. “Giocava in una polisportiva presieduta da un italiano di origini calabresi, Settimio Aloisio, che in seguito diventerà il procuratore di Batistuta. Era un tifoso del Catanzaro, che io avevo quasi portato in A… Organizzò una partitella la mattina successiva. Tre magie in dieci minuti. Con me c’erano dei giornalisti tra cui un tifoso della Lazio, finsi di andare in bagno con Aloisio perché volevo far uscire Maradona dal campo e farlo firmare subito… Ma poi Ferlaino disse che ero fissato coi giovani…”. Poteva cambiare la storia di Maradona e del Napoli. “Non lo so. Forse da giovanissimo lo avremmo protetto meglio”.

“La droga è un Pac-Man che ti mangia la famiglia”

Nel libro de L’Airone su Maradona, tra incredibili foto, eccessi, palloni e ricordi, “el pibe de oro” è raccontato da tante angolazioni. Tra le varie “perle”, una serie di sue frasi non sempre politicamente corrette.

“Il Vélez Sarsfield sarebbe stato campione anche se allenato da Andrea Bocelli!”

“Gli americani non vogliono che rientri nel loro paese perché sono un drogato, ma non trovano niente da ridire su Schwarzenegger che ha preso anabolizzanti per tutta la vita”

“In Argentina gli stronzi sono come le formiche: si spostano sempre in gruppo”

“Dopo gli afghani, gli argentini sono quelli che soffrono di più su questo fottuto pianeta”

“Nessuno ha la sua intelligenza, nessuno ha le sue idee, nessuno ha la sua umanità. Per me, Fidel Castro è Dio”

“La pazzia è terrificante. In clinica, avevo l’impressione di essere Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo”

“In clinica, c’è uno convinto di essere Robinson Crusoe, e a me nessuno mi crede quando dico di essere Maradona”

“Io non sono un mago. I maghi vivono a Villa Fiorito: bisogna esserlo per vivere con appena 400 pesos al mese”

“Stare in area di rigore senza tirare in porta, è un po’ come ballare con la propria sorella”

“Vincere contro il River Plate è come il bacio del buongiorno della mamma”

“Passarella vuole che i giocatori si taglino i capelli perché se li toccano di continuo. Ma se si toccassero di continuo le palle, gli chiederebbe di tagliarsi anche quelle?”

“La droga è un Pac-Man che mangia tutta la tua famiglia”

“Per tutti sono stato un drogato, sono un drogato e sarò sempre un drogato”

“Non sono grosso, sono gonfio”

“Chi sono io? Un ragazzo povero di Villa Fiorito, che un pomeriggio del 1986, allo stadio Azteca del Messico, si è messo a piangere stringendo tra le braccia la Coppa del mondo”

“Se non avessi fatto il calciatore, mi sarebbe piaciuto fare il ragioniere”

“Se devo morire e mi obbligano a giocare con Pelé, allora preferisco non conoscere il Paradiso”

“Ho un messaggio per quelli che volevano la mia morte: ‘Andate a prendervelo nel culo!’”

“Se muoio, voglio rinascere un’altra volta e ritornare a essere Diego Armando Maradona, un calciatore che ha dato gioia alla gente”.

Zona rossa di lacrime e lumini. Napoli piange il suo dio Diego

Il momento peggiore è la mattina dopo, quando si riaprono gli occhi. Napoli si sveglia e si ricorda che è successo davvero: Diego è morto. La città è la navata di un’immensa chiesa a cielo aperto. Necrologi sui muri, sciarpe e bandiere alle finestre, striscioni, scritte, fiori e candele votive: le pareti della città sono altari. È un funerale laico collettivo, celebrato a metà: è zona rossa, non ci si potrebbe raccogliere. Ma da mercoledì pomeriggio Napoli vive in una realtà sospesa: per la prima volta da quasi un anno, nessuno pensa al Covid.

QUARTIERI SPAGNOLI. Il primo epicentro del lutto sono i Quartieri Spagnoli. In cima alla salita di via Emanuele de Deo c’è il più famoso murale di Diego, quello del secondo scudetto – maglia azzurra, sponsor Mars, tricolore sul petto – disegnato nel 1990 da un ragazzo del rione, Mario Filardi. Napoletano ed emigrante, girava il mondo lavorando nei ristoranti, è morto 10 anni fa a Zurigo, in circostanze misteriose. Ha lasciato solo la sua opera: una delle più iconiche rappresentazioni di Maradona al mondo. Il tempo l’aveva scrostata via quasi del tutto dalla parete. Incredibilmente, proprio all’altezza del volto, era stata aperta una finestra abusiva che aveva cancellato la faccia di Diego. Il murale è rinato nel 2016 con una colletta del quartiere e la mano di un falegname, Salvatore Iodice. Infine il viso è stato ridipinto dallo street artist argentino Francisco Bosoletti: oggi è ancora più bello.

Sotto all’immagine sacra, s’è fatto un tempio: i napoletani vengono in piazza a lasciare ricordi e preghiere. Un fiume di persone e una parete di giornalisti, davanti alle telecamere il lutto si mescola al folklore: ognuno mostra una foto, un autografo, una reliquia. Il “sindaco” della piazza è Antonio Bostik, vecchio capo ultrà delle Teste Matte, gruppo della Curva A nel San Paolo di fine anni 80. “La notizia me l’ha data mia figlia – racconta –, ho sentito una scossa di dolore che partiva dalla pancia e arrivava al petto”, e fa il gesto con le mani. Bostik è un pozzo di memorie e aneddoti: “Diego viveva Napoli solo di notte, io l’ho conosciuto quando andavamo in trasferta, a volte ci incontrava in albergo. Era una persona di cuore, non mi frega niente di quello che dicono gli ipocriti”.

BRONX. C’è un altro altare lontano dal centro, nella periferia est di San Giovanni a Teduccio. È al “Bronx” di via Taverna del Ferro: due palazzi gemelli, lunghe spine di cemento parallele. Su una delle due facciate è dipinto il gigantesco Maradona di Jorit, artista di strada napoletano. Sotto, una processione meno fitta e rumorosa di quella dei Quartieri. Si lasciano fiori e candele, uno sguardo e un saluto a quell’uomo sul muro: un Diego non più giocatore, già quasi anziano e la scritta “Dios umano”. Un giovane in tuta verde accende un cero e si allontana lentamente. Si chiama Ciro, è del 1990: Maradona non l’ha mai visto giocare. “L’ho vissuto, me l’ha fatto vivere papà. I racconti da bambino, poi le videocassette con i suoi gol. Ora c’è YouTube”. Ieri ha letto la notizia sullo smartphone, non ci credeva. Per prima cosa ha telefonato alla madre: “Ma’, è morto Maradona. Quando muore uno di famiglia chiami la mamma”.

TE DIEGUM. Piange la Napoli popolare, piangono i “presepiari” di San Giovanni Armeno, mostrano le statue di Diego e “la Natività che abbiamo deciso di regalare a sua moglie Claudia”. Piange Bruno, il proprietario del bar Nilo, quello con la ciocca “miracolosa” dei capelli di Maradona tenuta sotto una teca. Piange Daniela, la nipote di Michele ai Tribunali, la pizzeria storica che è diventata un brand internazionale: “Prima del Covid qui abbiamo chiuso il locale una sola volta in trent’anni, quando è venuto a mangiare lui. C’era la polizia fuori, per tenere la folla”.

Ma piange pure la Napoli borghese, l’aristocrazia cittadina, i quartieri alti: Maradona ha fatto il miracolo vero di farsi amare nella stessa misura dai ricchi e dai sottoproletari. Claudio Botti, uno dei più noti avvocati penalisti della città, è tra gli intellettuali che nel 1991 fecero nascere il “Te Diegum”, per portare il mito del Dieci al riparo dalle ipocrisie dei moralisti e dai fanatismi delle barricate tra popolo ed élite. Botti racconta un episodio epico: “I nostri articoli avevano fatto incazzare alcuni esponenti del tifo organizzato. In particolare Gennaro Montuori, in arte Palummella, all’epoca capo assoluto della curva B. Gli ultrà ce le avevano promesse e Palummella venne a trovarci personalmente al convegno in cui lanciammo il Te Diegum. Alla fine, dopo averci sentito parlare di Maradona, Palummella si fece largo tra la gente con gli occhi lucidi e mi venne ad abbracciare”.

L’APPLAUSO. Nel pomeriggio la folla più grande si raccoglie fuori dal San Paolo, che si chiamerà presto “Stadio Diego Armando Maradona”. Ci sono due o tremila persone, al diavolo le ordinanze e il buon senso. I divisori di fronte ai tornelli sono l’ennesimo lunghissimo altare: sciarpe, foto, striscioni, poesie e disegni di bambini. Sembra il calcio prima del Covid: fumogeni, canti, persone insieme. Dentro, il Napoli gioca la sua partita di Europa League con il lutto al braccio e tutti i giocatori con la maglia numero 10. La città aspetta in un silenzio surreale, poi alle 21 in punto si scioglie in un lunghissimo applauso corale. Tutta Napoli, dai suoi balconi e dalle sue piazze, saluta Maradona.