Strage di Bologna, i pm: “Così Gelli finanziò i Nar e gli altri eversivi neri”

Sopra c’è Licio Gelli, il Maestro Venerabile della P2, con il fiume di denaro che riesce a manovrare. Sotto i Nar, ma non solo. Insieme a loro, Terza posizione, Ordine nuovo, Avanguardia nazionale. I gruppi della destra eversiva insieme. Dal giovane Giusva Fioravanti alla vecchia Primula nera Paolo Bellini. In mezzo, faccendieri come Francesco Pazienza ed eminenze grigie dei servizi segreti come Federico Umberto D’Amato. Una ragnatela vischiosa che avvolge la strage di Bologna, lambisce la tragedia di Ustica, incrocia il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.

Il lavoro della Procura generale di Bologna, al termine della lunga inchiesta sui mandanti dell’esplosione del 2 agosto 1980, potrebbe cambiare la storia italiana. Grazie alla digitalizzazione di migliaia di pagine dei processi degli anni Settanta e Ottanta, è stato possibile rivedere testimonianze e documenti che era utile confrontare e incrociare. Mai era stato considerato, per esempio, che il 30 luglio 1980, a Roma, fossero presenti alcuni dei protagonisti dell’impresa bolognese: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, giudicati in via definitiva come esecutori materiali della strage, quel giorno sono nella capitale, arrivati (in volo) da Palermo o (in treno) da Taranto (a seconda delle versioni raccontate nel corso dei vari processi). Anche Licio Gelli in quegli stessi giorni è a Roma, soggiorna all’Hotel Excelsior dal 28 al 30 luglio. Negli stessi giorni, dal 29 al 31 luglio, all’Excelsior c’è anche Marco Ceruti, prestanome e cassiere del Venerabile. Pochi giorni prima, secondo i magistrati, Ceruti riceve in contanti 1 milione di dollari, un anticipo dei 5 milioni pattuiti per la strage. Sono soldi distratti dal Banco Ambrosiano Andino, consociata dell’Ambrosiano di Roberto Calvi. Per la Procura generale non è un caso che nel documento “Averi” di Gilberto Cavallini – ultimo Nar a essere stato condannato (in primo grado) per aver dato supporto per la strage a Fioravanti, Mambro e Luigi Ciavardini – si segnali la disponibilità di 57 mila dollari americani e 3 milioni e mezzo di franchi svizzeri. Denaro che mai i Nar hanno rapinato nella loro epopea nera. Eppure Cavallini, “il ragioniere”, aveva due conti correnti bancari in Svizzera. Lo dimostrano le verifiche finanziarie, lo racconta già nel 1982 Dragutin Petrovic, bandito complice di Cavallini in diverse imprese criminose: riferisce che l’ex sodale aveva ricevuto un “grosso finanziamento” dall’Italia, e forse dal Sud America. I neri dei Nar hanno sempre negato con sdegno ogni legame con Gelli, adesso però lo sdegno sembra vacillare. Oggi comincia al Tribunale di Bologna l’udienza preliminare per Paolo Bellini, fascista di Avamguardia nazionale in contatto con uomini di Cosa nostra e degli apparati dello Stato, accusato di essere il quinto uomo della strage. Lo ricollega all’attentato il fotogramma di un filmato amatoriale, un Super 8 girato da un turista, in cui compare un uomo riccio con i baffi, troppo simile a Bellini, che il 2 agosto si aggira nei pressi del primo binario della stazione di Bologna, subito dopo l’esplosione. Tra le prove raccolte a suo carico c’è anche il riconoscimento dell’ex moglie e una vecchia intercettazione ambientale a casa di Carlo Maria Maggi, il capo di Ordine nuovo Triveneto, condannato per la strage di Brescia: parlando con il figlio, Maggi dice di sapere che l’azione di Bologna è attribuibile alla banda Fioravanti e che all’evento partecipò un “aviere” che portò la bomba. Bellini era conosciuto negli ambiente di destra per la sua passione per il volo. Nella stessa intercettazione, Maggi compie un collegamento tra la strage di Bologna e il disastro di Ustica: “Ustica è stato un episodio di guerra fredda, la strage di Bologna è stato un tentativo di confondere le acque, per far dimenticare Ustica”. Una tesi confermata anche da Bellini stesso che in un interrogatorio del 1999 riporta che il padre gli aveva riferito che la strage era stata commessa per coprire Ustica. Verità e menzogna mescolate, come sempre nelle storie dei servizi segreti e delle stragi.

Regeni, un ex 007: “Ho visto Giulio alla National Security”

Una nuova testimonianza: un ex 007 ha rivelato di aver visto Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto, nelle zone di interesse della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano, alla quale appartengono i cinque agenti indagati in Italia per sequestro di persona. È la nuova carta in mano ai magistrati capitolini che indagano da oltre quattro anni. Un ulteriore elemento che rafforza il quadro probatorio della Procura di Roma, ormai prossima a chiudere le indagini. Sui nuovi elementi di prova raccolti, finora inediti, si tiene il massimo riserbo. Ma secondo quando risulta al Fatto, l’agente che apparteneva proprio alla National Security, sentito a sommarie informazioni, ha aggiunto un dettaglio non da poco. Quello di aver visto Regeni nelle zone dell’apparato di sicurezza: sul luogo preciso di cui parla il testimone le bocche sono cucite.

Una testimonianza molto importante che si aggiunge alle altre prove raccolte in questi anni. Era già noto il ruolo del sindacalista Abdallah. Come ricostruito il 17 dicembre 2019 dal pm di Roma Sergio Colaiocco in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni, Abdallah viene incaricato dall’agente della National Security Sharif (uno degli indagati) di registrare un incontro con il 28enne friulano. È la sera del 7 gennaio 2016 quando tra le 21 e le 22.30 i due si incontrano. L’inesperienza del sindacalista fa sì che il registratore rimanga acceso sia una mezz’ora prima sia dopo l’appuntamento con il ricercatore. Da qui gli investigatori scoprono che Abdallah parla con gli uffici della National Security e con il maggiore Sharif “sul cui tabulato risulta una telefonata del sindacalista un quarto d’ora” dopo l’incontro con Regeni. “Tra l’8 e il 21 (gennaio 2016, ndr) – spiega Colaiocco in Commissione – Abdallah contatta 13 volte, quindi in poco più di dieci giorni, Sharif. In uno di questi colloqui, riferisce Abdallah a verbale, ‘parlando con Sharif ho capito che avrebbero comunque voluto tenere sotto controllo Giulio per sapere che cosa avrebbe fatto il 25 gennaio’”. La Procura ha anche scoperto che Noura, l’amica di Giulio, da una certa data in poi, ogni volta che parlava con il ricercatore telefonava a un agente turistico, che a sua volta subito dopo chiamava il maggiore Sharif. E agli atti, infine, ci sono anche le dichiarazioni di una persona che dice di aver assistito a Nairobi a un colloquio in cui Sharif, nell’agosto del 2017, riferiva le circostanze e le modalità con cui aveva provveduto a sequestrare Regeni. In una rogatoria del 28 aprile 2019 la Procura di Roma aveva chiesto ai colleghi egiziani di acquisire elementi per capire se effettivamente Sharif nell’agosto del 2017 si trovasse nella Capitale del Kenya. In quella rogatoria si chiedeva anche l’elezione di domicilio dei cinque agenti indagati. I pm aspettano ancora una risposta, ma ormai sono pronti a chiudere l’inchiesta, con nuove prove che rafforzano ancor di più la convinzione degli investigatori sul coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani.

Ok dei ministeri al piano di Aspi sui pedaggi. Resta il mega-regalo bocciato dall’Authority

È un rebus che la politica riuscirà a spiegare. O forse sarà travolto prima dalle novità giudiziarie. A ogni modo, seppur non ancora ufficiale, tutti gli indizi portano a ritenere che i ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti, con l’avallo si presume di Palazzo Chigi, abbiano dato l’ok al nuovo Piano economico finanziario (Pef) di Autostrade per l’Italia. Si tratta del documento che contiene investimenti, manutenzioni e pedaggi dei prossimi 5 anni, essenziale per dare un prezzo ad Aspi nella trattativa per la cessione del controllo a Cassa depositi e prestiti da parte di Atlantia e chiudere la ferita del Morandi.

Aspi ha presentato il Pef il 30 settembre, dopo una lunga interlocuzione con il ministero delle Infrastrutture, che lo ha poi girato all’Autorità dei Trasporti (Art) che deve esprimere un parere. L’Authority lo ha fatto a metà ottobre, con un documento durissimo a firma del presidente uscente Andrea Camanzi. Il parere fa a pezzi il Pef in più punti perché troppo generoso, in grado di garantire ad Autostrade di poter distribuire 21 miliardi di dividendi fino a fine concessione, più di quanto ha fatto finora con la gestione Benetton. La parte più rilevante riguarda l’aumento tariffario. In base all’accordo col governo, Aspi prevede un aumento automatico dei pedaggi dell’1,75 per cento all’anno per i prossimi 18 anni di concessione, mentre secondo il parere dell’Art dovrebbe essere dello 0,87%. La differenza è sostanziale. Senza entrare nei tecnicismi, l’impatto vale quasi 4 miliardi di ricavi attualizzati in meno, tali da ridurre di almeno di 3 miliardi di euro il prezzo di Aspi.

Il parere non è vincolante, ma i ministeri non potevano certo ignorarlo. Solo che l’accordo con Autostrade lascia perplessi: nel nuovo Pef l’aumento è sceso dall’1,75 all’1,67, una limatura che vale 320 milioni di ricavi in meno in 18 anni e quindi non cambia molto nella sostanza. Se fosse confermato, l’impatto sul prezzo sarebbe minimo, ma quello sugli automobilisti notevole (i pedaggi continueranno a salire di molto). Se fosse confermato, di fatto il parere dell’Art non sarebbe stato recepito in pieno. Spetterà al Comitato interministeriale per la programmazione di Palazzo Chigi decidere se va bene così. Poi servirà il via libera di Corte dei conti e Nucleo di valutazione Nars. Per ultimo andrà firmato l’atto aggiuntivo tra Mit e Autostrade che modificherà la concessione.

Atlantia ha dato a Cdp e ai fondi in cordata fino al 30 novembre per una nuova offerta “vincolante”. Cdp valorizza Aspi 8-9 miliardi, al lordo dei contenziosi legali.

I soci di Atlantia ne vogliono 11-12. Un balletto che può durare a lungo, novità giudiziarie permettendo.

Processo Raggi, verso la sentenza il 14 dicembre

Potrebbe essere un processo d’Appello lampo quello a carico di Virginia Raggi. Con i giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Roma disponibili a emettere il verdetto già il prossimo 14 dicembre, data della discussione. Dopo l’assoluzione del 10 novembre 2018, la sindaca di Roma è tornata alla sbarra nel procedimento che la vede accusata di falso documentale, nell’ambito della procedura per le nomine dirigenziali avvenute nel 2016. In quella sede si realizzò la “promozione” a direttore di Dipartimento dell’ex vicecomandante della Polizia locale, Renato Marra, operazione nella quale era coinvolto, secondo le accuse, anche il fratello, Raffaele Marra, all’epoca direttore delle Risorse umane. Ieri sono stati riascoltati gli unici due testi dell’accusa ammessi dalla Corte, l’ex delegato e attuale assessore al Personale, Antonio De Santis, e il segretario personale della prima cittadina, Fabrizio Belfiore. De Santis ha spiegato che “la sindaca si era raccomandata di non promuovere Renato Marra per il vincolo di parentela con Raffaele Marra”, mentre Belfiori ha detto nuovamente di non aver “visto l’email dell’ex assessore Adriano Meloni (che chiedeva la nomina a dirigente di Marra nel suo ufficio competente al Turismo, ndr) perché in quel periodo, per un errore di comunicazione, arrivavano migliaia di messaggi al giorno”. Non accolta, per la seconda volta, la richiesta della Procura di escutere Mariarosaria Turchi, all’epoca responsabile dell’anticorruzione capitolina. Oggetto della contestazione fu la risposta della sindaca alla richiesta di spiegazioni, in cui si affermava che Raffaele Marra nella nomina del fratello non partecipò “alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali”. Una menzogna, per i pm. Accuse smontate in primo grado: la sindaca è stata assolta con formula piena perchè il fatto non costituisce reato. Prima della sentenza d’Appello la sindaca Raggi potrebbe rilasciare dichiarazioni spontanee.

Diritti fondamentali: in Europa Pd e Iv contro un emendamento a protezione di Assange

È l’unico giornalista in una prigione di massima sicurezza a Londra per aver rivelato crimini di guerra. Il primo incriminato, nella storia Usa, che rischia 175 anni di galera. Eppure in una votazione al Parlamento europeo per approvare la relazione annuale sui diritti fondamentali, in 408 hanno bocciato un emendamento a protezione di Julian Assange. Degli italiani, hanno votato a favore solo i 5Stelle e Pierfrancesco Majorino (Pd). Hanno votato contro Sandro Gozi, Antonio Tajani, Giuliano Pisapia e Pietro Bartolo. “È stato già molto grave il primo episodio: in Commissione libertà civili (Libe) è stato tolto qualsiasi riferimento”, dichiara al Fatto l’europarlamentare M5S, Eleonora Evi, che aggiunge: “La relatrice ha ritentato, ma è stato bocciato a larghissima maggioranza. Sono scioccata”. L’irlandese Clare Daly (Sinistra Unitaria) dice al Fatto: “È assurdo e disgraziato che abbiamo un Rapporto che si occupa di whistleblower e libertà di stampa, ma non menziona Julian Assange”. Ieri la compagna di Assange, Stella Morris, ha chiesto la grazia a Trump.

Corte dei Conti: risposte al Covid in grave ritardo per 13 Regioni

Un bilancio impietoso quello messo nero su bianco dalla Corte dei Conti e riportato ieri da La Stampa, nel capitolo della Memoria sul Bilancio di previsione dello Stato dedicato alla sanità delle Regioni, messe sulla graticola per ritardi e inadempienze nella gestione della risposta al Covid, che avranno sicure ripercussioni negative nel 2021. Perché nonostante le risorse siano state significativamente potenziate, lo stato di attuazione delle misure avviate nei mesi scorsi è, per usare un eufemismo, parziale. Quanto alla programmazione, a fine ottobre solo 13 Regioni avevano presentato un piano per la revisione dell’assistenza territoriale e solo 12 avevano dato attuazione ai piani per il recupero delle liste d’attesa. Così sul prossimo esercizio andranno a gravare anche i costi del forte rallentamento dell’attività ordinaria, ospedaliera, specialistica e ambulatoriale registrata nel 2020. Ma la nota più dolente è forse quelle Usca, le unità speciali di medici e infermieri per l’assistenza domiciliare dei malati Covid. “L’attivazione delle Usca, che ben avrebbero potuto rappresentare uno strumento di assistenza sul territorio anche in grado di alleviare la pressione sugli ospedali, ha avuto un andamento inferiore alle attese e con forti differenze territoriali” scrivono i magistrati, che quantificano il mezzo fallimento: ne sono state realizzate a livello nazionale meno del 50% del previsto. E a questo si aggiungono i ritardi nell’introduzione dell’infermiere di famiglia, ancora praticamente al palo in attesa del via libera all’intesa da parte della Conferenza delle Regioni. Che invece non si sono tirate indietro quando si è trattato di assunzioni: 36.300 i nuovi addetti attivati in relazione all’emergenza sanitaria, 7.650 medici, 16.500 infermieri e 12.115 operatori sanitari. Anche se la disponibilità di operatori in alcune specializzazioni “rimane uno degli aspetti più delicati della fase attuale”.

Pazienti dirottati nelle Rsa: Torino, primi 8 indagati

La Procura di Torino ha iscritto nel registro degli indagati per epidemia e omicidio colposi otto persone, ritenute responsabili del trasferimento di pazienti Covid dagli ospedali a due case di cura (Massimo D’Azeglio e Chiabrera). Gli indagati sono tre tecnici e il presidente della Commissione di vigilanza della Asl Città di Torino e i vertici del gruppo Gheron, che gestisce le due Rsa. Sono 20 gli anziani deceduti nelle strutture, 120 i trasferiti, e secondo i pm Rossella Salvati e Giovanni Capsani, il trasloco sarebbe stato organizzato con il placet della Regione, che all’epoca era in cerca di strutture private con spazi vuoti. È la vicenda che Il Fatto raccontò per primo, e che riguarda la famigerata delibera – da molti definita “fotocopia” della gemella emessa da Regione Lombardia – con cui si tentava nella prima ondata di alleggerire la pressione sugli ospedali, trasferendo da questi alle Rsa i pazienti Covid a bassa intensità. L’inchiesta ora punterà, secondo fonti vicine alla procura, a un livello superiore, sfiorando ruoli, azioni e responsabilità dei vertici regionali che permisero il “trasloco” dei malati. Anche perché la Commissione di vigilanza, in un documento scritto a marzo, mise nero su bianco che quel trasferimento non sarebbe stato consentito. Ma alla fine, non si sa come, i pazienti contagiati vennero spostati ugualmente nelle Rsa. A cose fatte, i tecnici della Asl erano di fronte a due possibilità: riparare all’errore fatto ri-trasferendo i malati in ospedale, o lasciare tutto così com’era. Optarono per quest’ultima scelta. Nei giorni scorsi in procura gli indagati sono stati interrogati. E nelle Rsa sono state svolte perquisizioni dalla Finanza. L’inchiesta quindi continua, così come prosegue il lavoro della procura di Ivrea – che indaga sull’ospedale di Settimo e su oltre dieci case di riposo – e delle altre sette procure piemontesi.

Anche a Milano, l’inchiesta sulla “strage dei nonni” registrata nella primavera scorsa, è a un passo dalla chiusura. Determinante è la relazione dei consulenti tecnico-scientifici incaricati dal pool coordinato dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano: dovranno cristallizzare la situazione di sei mesi fa dentro il Pio Albergo Trivulzio, la struttura geriatrica più importante d’Italia. Qui e in altre Rsa del Milanese nella fase più acuta della prima ondata è morto un ospite su cinque. Una strage che solo i consulenti della Procura di Milano saranno in grado di dire quanto riconducibile alle scelte delle singole direzioni delle strutture e quanto, anche, sulla scorta della delibera di Regione Lombardia. Non mancano gli indagati, tra cui il direttore generale del Trivulzio, Giuseppe Calicchio accusato di epidemia colposa e omicidio colposo plurimo.

A Bergamo la procura guidata da Antonio Chiappani segue invece tre filoni di indagine: ospedale di Alzano, mancata istituzione della zona rossa e assenza di un piano pandemico aggiornato. “Siamo molto attenti su quest’ultimo aspetto e potremmo arrivare ad una svolta a breve” annuncia Chiappani. Al momento gli unici indagati sono relativi alla gestione dell’emergenza all’ospedale di Alzano. “Nessun politico è indagato” assicura Chiappani che ha affidato una super consulenza al professor Andrea Crisanti. Sotto indagine al momento ci sono Luigi Cajazzo, ex dg della sanità della Lombadia, il suo vice nel periodo della prima ondata del Covid, Marco Salmoiraghi e una dirigente dell’assessorato, Aida Andreassi. E poi Francesco Locati, ex direttore generale della Asst di Bergamo e Roberto Cosentina, direttore sanitario della stessa struttura. “Ancora non ci sono indagati” assicurano invece fonti interne alla Procura di Brescia che con un pool coordinato dall’aggiunto Carlo Nocerino sta guardando soprattutto ai morti nelle 58 Rsa del territorio. Dove i morti tra febbraio e la primavera hanno raggiunto quota 667.

Gennaio 2020, “la peste è alle porte”: il documento

La peste alle porte. Era il 30 gennaio 2020 – attenti alle date – quando il ministero della Salute informava tutti i presidenti delle Regioni italiane che era in arrivo una pandemia simile a quella della peste: “Il nuovo virus, pur essendo per il momento classificato come di tipo B quanto a pericolosità (al pari di quelli della Sars, dell’Aids e della Polio), viene gestito come se fosse appartenente alla classe A (la stessa del colera e della peste)”. Ventuno giorni dopo, viene individuato a Codogno quello che è considerato il “paziente 1” del Covid-19. Ma uno dei presidenti a cui era arrivata la circolare ministeriale che evocava la peste, il lombardo Attilio Fontana, doveva essere molto distratto, perché 26 giorni dopo averla ricevuta, il 25 febbraio, dichiarava: “Cerchiamo di sdrammatizzare, è una situazione senz’altro difficile, ma non così tanto pericolosa: il virus è molto aggressivo nella diffusione, ma molto meno nelle conseguenze. È poco più di una normale influenza”.

A ricostruire gli agghiaccianti passaggi di una epidemia spaventosa e di un’azione di contrasto disastrosa, proprio nell’epicentro della prima ondata, la Lombardia, è il comitato Noi Denunceremo, che a partire da Bergamo ha raccolto oltre 70 mila persone, parenti dei morti e sopravvissuti, che raccontano le loro storie affinché tanto dolore non sia disperso nel vento.

Ieri i rappresentati del comitato, Stefano e Luca Fusco e l’avvocato Consuelo Locati, hanno depositato alla Procura di Bergamo un esposto di 66 pagine in cui allineano ulteriori elementi per contestare, agli amministratori pubblici che hanno sottovalutato la situazione e malgestito il contrasto, il reato di epidemia colposa. Ipotizzando anche il “dolo eventuale”, quello che fu contestato ai dirigenti della ThyssenKrupp durante il processo per la strage che avvenne a Torino nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2007, quando morirono sette operai a causa di un rogo sulla linea 5 dell’acciaieria. Il pool guidato dall’allora procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello, ottenne in primo grado la condanna dei dirigenti dello stabilimento per “omicidio volontario con dolo eventuale”: quei dirigenti si erano rappresentati “la concreta possibilità del verificarsi di un incendio, di un infortunio anche mortale, accettandone il rischio”. In Appello e in Cassazione, il reato fu riformulato da “omicidio volontario con dolo eventuale” a “omicidio colposo con colpa cosciente” (la colpa nella sua forma più grave), con condanne comunque molto pesanti per quello che era considerato un “incidente”.

Ed è qui che i legali di Noi Denunceremo vedono le maggiori analogie con la pandemia: “La reiterazione delle condotte omissive – scrivono – è provata dall’assoluta identità di comportamenti omissivi posti in essere nelle prima fase pandemica e reiterati, senza alcuna modifica, anche nei mesi successivi al mese di marzo 2020 e sino a oggi”.

Quanti errori, quante sottovalutazioni, nell’affrontare la prima e poi la ancor più prevedibile seconda ondata. Il comitato Noi Denunceremo ha già fatto osservare che nel 2019 non avevamo un piano pandemico aggiornato e che quello del 2017 era un copia-e-incolla del piano del 2006, compilato senza neppure aggiornare le date. Eppure, “prepararsi alla prossima pandemia di influenza è una nostra responsabilità collettiva”, diceva il direttore della Divisione delle emergenze sanitarie presso l’Organizzazione mondiale della sanità-sezione Europa, già nel giugno del 2018, giusto 18 mesi prima del Covid-19. “Siete pronti a gestire una pesante pandemia nei vostri Paesi? I vostri piani pandemici sono stati aggiornati?”. Era l’ultimo campanello di allarme. Inascoltato.

Ora, Noi Denunceremo ha scovato una bozza, datata 11 aprile 2019, inedita e mai tradotta in piano definitivo. Eppure era ricca di suggerimenti che sarebbero stati preziosi. Si apriva così: “La pianificazione e la preparazione sono fondamentali per contribuire a mitigare il rischio e l’impatto di una pandemia e per gestire la risposta e la conseguente ripresa delle normali attività”.

Invece a febbraio 2020 ci fu la gestione sciagurata dell’emergenza in Lombardia, con la riapertura dell’ospedale-focolaio di Alzano Lombardo (23 febbraio) e subito dopo la non chiusura in zona rossa dei cluster di Alzano e Nembro (Bergamo), di Lodi e di Orzinuovi (Brescia): “Una responsabilità omissiva” della Regione Lombardia, “per non aver posto in essere quanto era suo preciso obbligo attuare per tutelare la salute e la vita dei cittadini. La Regione non fece scorta di Dpi (mascherine e altre protezioni individuali) nonostante sapesse del rischio di epidemia sin dal 22 gennaio 2020, non si attivò per reperire agenti reagenti per l’effettuazione di tamponi per il tracciamento della catena di contagio del virus, non provvide al tracciamento immediato della catena di contagio, attraverso l’effettuazione di tamponi immediati e test (come invece fu fatto dalla Regione Veneto). Non comunicò quali fossero i numeri dei casi di polmoniti anomale (…) almeno da novembre/dicembre 2019”.

Il presidente Fontana ha dichiarato di essere stato “tenuto all’oscuro” delle direttive nazionali. Eppure fu un suo uomo, il direttore generale di Areu (Azienda regionale per l’emergenza urgenza in Lombardia), Alberto Zoli, a esporre al ministro della Salute, Roberto Speranza, il piano elaborato dal Comitato tecnico scientifico per fronteggiare la possibile pandemia. Già il 29 febbraio, comunque oltre una settimana dopo il primo caso italiano di Covid-19, Cts e ministero della Salute sollecitavano le Regioni: dovete comunicarci quanti posti letto in terapia intensiva avete a disposizione.

Solo il 1° marzo, ottenuti i dati regionali, il comitato vara l’aumento del 50 per cento dei posti letto in terapia intensiva e del 100 per cento nei reparti di pneumologia e malattie infettive. Troppo tardi.

Affaristi e Csm, Casellati sentita in Procura

“Gianni Letta mi chiese di accogliere Paradiso nel mio staff. Lo accolsi a titolo gratuito nel 2018, nella qualità di consigliere dei convegni. In realtà avevo animo di sostituirlo con il dottor Carlo Maria Galloppi”. Così la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, riferiva ai pm della Procura di Roma sui suoi rapporti con Filippo Paradiso, il funzionario della Polizia di Stato indagato per traffico di influenze illecite insieme all’avvocato Piero Amara, ex legale di Eni coinvolto in diverse inchieste giudiziarie per i suoi rapporti con politici e imprenditori.

Sentita come persona informata sui fatti, anticipato dal Domani, il 10 luglio scorso la Casellati (non indagata) spiegava ai magistrati che “Paradiso lo conosco dal 2016 – si legge nel verbale d’interrogatorio –. Il sottosegretario Gianni Letta me ne parlava assai bene per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi. Per tali ragioni propose la sua candidatura per il partito chiedendomi di caldeggiarla, ma non venne accettata”.

Adesso Paradiso e Amara rischiano il processo: i pm Paolo Ielo, Rodolfo Maria Sabelli e Fabrizio Tucci infatti hanno chiuso le indagini nei loro confronti. Paradiso – ora negli uffici del sottosegretario grillino Carlo Sibilia – è accusato di essersi fatto “indebitamente promettere e consegnare denaro o altre utilità indebite da Piero Amara” sfruttando “e vantando relazioni con pubblici ufficiali in servizio presso ambienti istituzionali” fra i quali “Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Consiglio superiore della magistratura” e “in particolare – si legge nell’avviso di conclusione delle indagini – con Elisabetta Casellati”, in riferimento al suo precedente ruolo di consigliera del Csm. Fra le “utilità” contestate dai magistrati a Paradiso, ci sono “somme di denaro per un valore non inferiore a 2000 euro” e la “messa a disposizione di carte di credito” con le quali venivano pagati diversi viaggi aerei sulla tratta Roma-Bari e Roma-Bari-Catania, fra il gennaio e il dicembre del 2015.

In ordine di tempo, il 24 gennaio 2015, cinque biglietti per un totale di 326,33 euro pagati dalla carta di credito intestata alla madre di Piero Amara; il 7 maggio 2015, un biglietto sulla tratta Roma-Bari (vettore Alitalia) per un importo di 446,68 euro pagato direttamente da Amara; tre biglietti (vettore Ryan Air) il 24 maggio 2015 sulla tratta Bari-Roma-Catania e uno il 29 maggio 2015 sulla Bari-Roma, per un totale di 414,91, pagati sempre dal conto condiviso da Amara con sua moglie; infine un biglietto Vueling da 84,99 euro per il 23 dicembre 2015 pagati ancora dalla carta della madre di Amara.

Non è tutto. Secondo i pm, l’ex legale dell’Eni aveva messo a disposizione per Paradiso anche un appartamento nel rione romano di Trastevere, che a sua volta Amara “aveva avuto la disponibilità dall’intestatario Luigi Pietro Caruso”. Quest’ultimo, ex magistrato della Corte dei Conti, è stato coinvolto in un altro procedimento in cui erano imputati Amara e il suo socio Giuseppe Calafiore, relativo alle presunte sentenze pilotate del Consiglio di Stato e per il quale nel luglio 2019 ha patteggiato una pena di 2 anni e mezzo di carcere. Alcune carte dell’indagine romana sono state trasmesse alla Procura di Potenza, dove si indaga anche sull’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo.

Vitalizi, c’è il regalo di Natale. E gli “indigenti” già si salvano

Loro sperano di poter trovare sotto l’albero il regalo che anelano da tempo, con tutte le forze. E così festeggiare il santo Natale a champagne se non circondati dall’affetto di parenti e amici data l’emergenza Covid-19, almeno avendo riconquistato il vitalizio. Che la Camera dei deputati ha sforbiciato a gennaio del 2019 gettandoli nella più cupa disperazione, nonostante non siano ridotti alla fame, anzi: il prossimo 22 dicembre l’esercito dei 1.400 ex deputati che hanno fatto ricorso contro il taglio sono stati convocati virtualmente dal Consiglio di giurisdizione, organo di primo grado della Camera da cui attendono una sentenza che vale oro. Circa 45,6 milioni all’anno che potrebbero tornare a rimpinguare i loro assegni mensili, laddove le istanze di cui si sono fatti promotori, dovessero essere accolte.

Pregano e sperano gli ex, di qualunque parrocchia politica siano o siano stati: attende Claudio Scajola, già ras di Forza Italia, come Pierluigi Castagnetti, depositario dell’eredità della Dc che si fece Partito popolare italiano e infine Margherita. O Italo Bocchino, un tempo colonnello di Gianfranco Fini, sulle spine al pari del già sessantottino Mario Capanna: un elenco sterminato in cui compaiono pure Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli del craxismo che fu, insieme ad altri personaggi di primo piano della Prima e pure della Seconda Repubblica. Ministri indimenticati o dimenticabilissimi, capicorrente, sindaci e amministratori, come Antonio Bassolino che ancora oggi accarezza l’idea di riprendersi Napoli. O Agazio Loiero assai potente presidente della Calabria oggi in cerca di autore: tutti ex deputati in attesa di riavere il malloppo, ché è una questione di principio – dicono – o di status, ma pur sempre di vil danaro. E che importa se il Parlamento che eroga i trattamenti abbia voluto dare un segnale al Paese con una stretta imposta per ragioni di equità sociale.

Per la verità c’è chi neppure dovrà attendere perché è già andato all’incasso: ieri, ad esempio, gli uffici di Montecitorio sono tornati ad allargare i cordoni della borsa con 26 tra ex deputati o loro superstiti che godono dell’assegno in regime di reversibilità. Questo dopo aver fatto richiesta di un incremento con il quale hanno limitato i danni del taglio subito al vitalizio. E così Giorgio Lainati (foto a sinistra, in basso), giornalista del Biscione promosso capo ufficio stampa di Forza Italia e poi all’inizio degli anni 2000 eletto a Montecitorio dove ha trascorso 4 legislature, ha ottenuto un incremento del 40 per cento più il riconoscimento di sei mesi di arretrati. Del 39,19 per cento è il ritocco che si è visto accordare invece Alfredo Meocci (foto a sinistra, in alto), che il deputato l’ha fatto poco, ma in compenso è stato valorizzato per anni dal Cavaliere in tutti i modi e in tutte le caselle che contano: prima fatto direttore generale in Rai in cui era stato assunto come giornalista fin dal 1982, poi catapultato nell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nelle vesti di consigliere. Carica che dovette però abbandonare per la quisquilia dell’incompatibilità con il ruolo ricoperto in precedenza: poco male, di lì a poco darebbe stato nominato consigliere all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici. Prima di loro, all’inizio di questo mese, erano stati baciati dalla fortuna con un incremento del vitalizio anche Gianni Alemanno, Rosa Russo Jervolino e diversi altri ex deputati che hanno presentato tutte le carte per dimostrare di essere indigenti o affetti da patologie particolarmente gravi, ché da giugno scorso non serve più dover dimostrare di versare in entrambe le condizioni. Ma ora i 1.400 che hanno fatto ricorso e che attendono con trepidazione la sentenza del consiglio di Giurisdizione non si accontentano di fare secco l’uno o l’altro requisito richiesto: rivogliono quanto hanno sempre incassato e neanche un centesimo di meno, a prescindere.