Diego Armando Maradona divenne dio a Napoli, il paradiso abitato da diavoli secondo la lezione di don Benedetto Croce. Non sarebbe potuto accadere altrove, in alcuna parte del globo. E ora che il mito ha infilato il tunnel buio della morte, senza ritorno, El Pibe de Oro davvero vivrà per sempre. L’amore cominciò una notte di giugno. Il trenta, precisamente. Napoli si ritrovò in festa per un annuncio che valeva una vittoria. La squadra di Corrado Ferlaino, il presidente di quegli anni, ufficializzò l’acquisto di Maradona dal Barcellona. Il giocatore più forte del mondo. Tredici miliardi e mezzo di lire, con l’apporto decisivo del Banco di Napoli. Diego calpestò per la prima volta l’erba del San Paolo il 5 luglio. Settantamila spettatori per la sua presentazione. “Buonasera napolitani”. Palleggi e ovazioni. E fu subito una canzone: “Maradona è megli’e ‘e Pelé”. Maradona è meglio di Pelé, eterno secondo del Novecento calcistico.
Napoli s’indovinò argentina e un argentino si riscoprì napoletano. Qui Maradona è stato santo, eroe, rivoluzionario e lazzaro felice. Masaniello e San Gennaro, i suoi predecessori più scontati da citare. E fu santo nonostante i peccati, gli eccessi con la droga e con le donne, l’amicizia con i camorristi della famiglia Giuliano. Era affamato di vita, fuori dal campo. A dire il vero, il tormento con la cocaina era cominciato a Barcellona, dove prese l’epatite e dove un macellaio di Bilbao, il cui nome è da dimenticare in un oblio perenne, gli spezzò una gamba. Il Napoli vinse il primo scudetto della sua storia grazie a lui, era il 10 maggio del 1987, e sul muro di un cimitero scrissero: “Che cosa vi siete persi”. Quando arrivò, in quel 5 luglio inondato di sole e con un pallone da calciare alto nel cielo azzurro, già capì tutto: “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, poiché loro sono come ero io a Buenos Aires”. Ché Diego sulla sua faccia aveva dipinto il pianeta della miseria, come vergò il maestro Mimì Rea. Epperò da leader politico seppe unire tutta la città, la borghesia e la plebe, gli onesti e i corrotti, i padroni e gli operai, gli ultrà e i professionisti seduti in tribuna, comunisti, democristiani e fascisti, senza distinzioni. Evento rarissimo in questa città di passioni manichee, monche di sfumature e zeppe di luoghi comuni. Segnò generazioni distanti e diverse e ancora oggi ci sono bimbi battezzati con il nome di Diego (è anche il caso di chi scrive).
Il Napoli dell’era maradoniana è passato alla storia per la rivalità con il nascente Milan berlusconiano di Arrigo Sacchi. Ma il vero nemico, senza offesa per i rossoneri, è sempre stata la Juve degli Agnelli. Pure questo comprese ad horas il rivoluzionario Diego. Da castrista, anticapitalista e terzomondista ha sempre rivendicato con orgoglio: “Agnelli offrì cento miliardi a Ferlaino, ma io non sarei mai andato alla Juve”. In un calcio metafora e visione totalizzante della società, come sovente accade a Napoli, giusto o sbagliato che sia, Maradona fu riscatto sociale e politico. Appunto. Contro i bianconeri scolpì tre trionfi indimenticabili. Il primo, quando gli scudetti e il mondiale vinto con la maglia dell’Argentina erano di lì a venire.
Era il 3 novembre 1985 e la Juve scese a Napoli da capolista a punteggio pieno. Otto vittorie consecutive. Al San Paolo c’era il diluvio e Diego fece Noè con un gol sovrannaturale, rimasto unico nella mitologia della pelota. Calcio di punizione a due, nell’area bianconera. Undici metri dalla porta, sul lato sinistro di Tacconi, e cinque dalla barriera. Accanto a lui, Eraldo Pecci col numero sei. Pecci dice a Diego: “Ma davvero vuoi tirare?”. Maradona si prepara e dalla barriera si staccano due juventini addosso a lui. Sembra tutto impossibile. Invece. Invece Diego ricama un sinistro che si infila a destra del pipelet bianconero. La palla si alza e si abbassa in una traiettoria cortissima. Napoli uno, Juve e leggi della fisica zero.
Indi l’uno a tre di Torino, il 9 novembre del 1986, la stagione del primo tricolore; e il tre a zero casalingo nel marzo 1989, che valse il passaggio alle semifinali di Coppa Uefa (l’attuale Europa League), trofeo che il Napoli conquistò in finale con lo Stoccarda.
Ovviamente, a fronte di tanto amore, il destino prevede sempre un mare d’odio. E Diego fu odiato in tutta Italia, da comandante di tifosi che quasi ovunque venivano “invitati” a lavarsi col fuoco della lava vesuviana. L’acme di questo odio esplose ai mondiali italiani del Novanta. Maradona fu insultato e fischiato sin dall’inizio, a Milano contro il Camerun. Disse: “Grazie a me i milanesi hanno smesso di essere razzisti e hanno tifato per gli africani”. La semifinale persa dall’Italia a Napoli con l’Argentina fece il resto. Complice la gigantesca fake news che lo stadio tifò per Diego contro la Nazionale azzurra.
L’ultima vittoria di Maradona a Napoli fu il secondo scudetto nella stagione 1989-1990. Ma lui voleva già andare via, a Marsiglia. Ferlaino, che lui chiamò “Giuda” per questo, lo costrinse a rimanere e a onorare il contratto. La resa finale il 17 marzo 1991. Doping. Al termine di Napoli-Bari. Cupo epilogo al San Paolo.
Era arrivato sette anni prima accolto come un salvatore. Andò via da solo, come un dio in fuga.