Il santo e il ribelle, Diego. Un culto mai tramontato

Diego Armando Maradona divenne dio a Napoli, il paradiso abitato da diavoli secondo la lezione di don Benedetto Croce. Non sarebbe potuto accadere altrove, in alcuna parte del globo. E ora che il mito ha infilato il tunnel buio della morte, senza ritorno, El Pibe de Oro davvero vivrà per sempre. L’amore cominciò una notte di giugno. Il trenta, precisamente. Napoli si ritrovò in festa per un annuncio che valeva una vittoria. La squadra di Corrado Ferlaino, il presidente di quegli anni, ufficializzò l’acquisto di Maradona dal Barcellona. Il giocatore più forte del mondo. Tredici miliardi e mezzo di lire, con l’apporto decisivo del Banco di Napoli. Diego calpestò per la prima volta l’erba del San Paolo il 5 luglio. Settantamila spettatori per la sua presentazione. “Buonasera napolitani”. Palleggi e ovazioni. E fu subito una canzone: “Maradona è megli’e ‘e Pelé”. Maradona è meglio di Pelé, eterno secondo del Novecento calcistico.

Napoli s’indovinò argentina e un argentino si riscoprì napoletano. Qui Maradona è stato santo, eroe, rivoluzionario e lazzaro felice. Masaniello e San Gennaro, i suoi predecessori più scontati da citare. E fu santo nonostante i peccati, gli eccessi con la droga e con le donne, l’amicizia con i camorristi della famiglia Giuliano. Era affamato di vita, fuori dal campo. A dire il vero, il tormento con la cocaina era cominciato a Barcellona, dove prese l’epatite e dove un macellaio di Bilbao, il cui nome è da dimenticare in un oblio perenne, gli spezzò una gamba. Il Napoli vinse il primo scudetto della sua storia grazie a lui, era il 10 maggio del 1987, e sul muro di un cimitero scrissero: “Che cosa vi siete persi”. Quando arrivò, in quel 5 luglio inondato di sole e con un pallone da calciare alto nel cielo azzurro, già capì tutto: “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, poiché loro sono come ero io a Buenos Aires”. Ché Diego sulla sua faccia aveva dipinto il pianeta della miseria, come vergò il maestro Mimì Rea. Epperò da leader politico seppe unire tutta la città, la borghesia e la plebe, gli onesti e i corrotti, i padroni e gli operai, gli ultrà e i professionisti seduti in tribuna, comunisti, democristiani e fascisti, senza distinzioni. Evento rarissimo in questa città di passioni manichee, monche di sfumature e zeppe di luoghi comuni. Segnò generazioni distanti e diverse e ancora oggi ci sono bimbi battezzati con il nome di Diego (è anche il caso di chi scrive).

Il Napoli dell’era maradoniana è passato alla storia per la rivalità con il nascente Milan berlusconiano di Arrigo Sacchi. Ma il vero nemico, senza offesa per i rossoneri, è sempre stata la Juve degli Agnelli. Pure questo comprese ad horas il rivoluzionario Diego. Da castrista, anticapitalista e terzomondista ha sempre rivendicato con orgoglio: “Agnelli offrì cento miliardi a Ferlaino, ma io non sarei mai andato alla Juve”. In un calcio metafora e visione totalizzante della società, come sovente accade a Napoli, giusto o sbagliato che sia, Maradona fu riscatto sociale e politico. Appunto. Contro i bianconeri scolpì tre trionfi indimenticabili. Il primo, quando gli scudetti e il mondiale vinto con la maglia dell’Argentina erano di lì a venire.

Era il 3 novembre 1985 e la Juve scese a Napoli da capolista a punteggio pieno. Otto vittorie consecutive. Al San Paolo c’era il diluvio e Diego fece Noè con un gol sovrannaturale, rimasto unico nella mitologia della pelota. Calcio di punizione a due, nell’area bianconera. Undici metri dalla porta, sul lato sinistro di Tacconi, e cinque dalla barriera. Accanto a lui, Eraldo Pecci col numero sei. Pecci dice a Diego: “Ma davvero vuoi tirare?”. Maradona si prepara e dalla barriera si staccano due juventini addosso a lui. Sembra tutto impossibile. Invece. Invece Diego ricama un sinistro che si infila a destra del pipelet bianconero. La palla si alza e si abbassa in una traiettoria cortissima. Napoli uno, Juve e leggi della fisica zero.

Indi l’uno a tre di Torino, il 9 novembre del 1986, la stagione del primo tricolore; e il tre a zero casalingo nel marzo 1989, che valse il passaggio alle semifinali di Coppa Uefa (l’attuale Europa League), trofeo che il Napoli conquistò in finale con lo Stoccarda.

Ovviamente, a fronte di tanto amore, il destino prevede sempre un mare d’odio. E Diego fu odiato in tutta Italia, da comandante di tifosi che quasi ovunque venivano “invitati” a lavarsi col fuoco della lava vesuviana. L’acme di questo odio esplose ai mondiali italiani del Novanta. Maradona fu insultato e fischiato sin dall’inizio, a Milano contro il Camerun. Disse: “Grazie a me i milanesi hanno smesso di essere razzisti e hanno tifato per gli africani”. La semifinale persa dall’Italia a Napoli con l’Argentina fece il resto. Complice la gigantesca fake news che lo stadio tifò per Diego contro la Nazionale azzurra.

L’ultima vittoria di Maradona a Napoli fu il secondo scudetto nella stagione 1989-1990. Ma lui voleva già andare via, a Marsiglia. Ferlaino, che lui chiamò “Giuda” per questo, lo costrinse a rimanere e a onorare il contratto. La resa finale il 17 marzo 1991. Doping. Al termine di Napoli-Bari. Cupo epilogo al San Paolo.

Era arrivato sette anni prima accolto come un salvatore. Andò via da solo, come un dio in fuga.

“La va a tocar para Diego… Siempre Maradona! Goool…”

“ …la va a tocar para Diego, ahí la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del fútbol mundial, y deja el tendal y va a tocar para Burruchaga… Siempre Maradona! Genio! Genio! Genio! ta-ta-ta-ta-ta-ta… Goooooool… Gooooool…

Quiero llorar! Dios Santo, viva el fútbol! Golaaaaaaazooooooo! Diegooooooool! Maradona! Es para llorar, perdónenme… Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos… barrilete cósmico… de qué planeta viniste, para dejar en el camino a tanto inglés! Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina! Argentina 2 – Inglaterra 0… Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona… Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2 – Inglaterra 0”.

“ … la tocca per Diego, ecco, ce l’ha Maradona. Lo marcano in due, tocca la palla Maradona, avanza sulla destra il genio del calcio mondiale. Può toccarla per Burruchaga… sempre Maradona… genio, genio, genio… c’è, c’è, c’è… goooooooooool… voglio piangere… Dio Santo, viva il calcio… golaaaaaazooo… Diegooooooool… Maradona… c’è da piangere, scusatemi… Maradona in una corsa memorabile, la giocata migliore di tutti i tempi… aquilone cosmico… Da che pianeta sei venuto, per lasciare lungo la strada così tanti inglesi? Perché il Paese sia un pugno chiuso che esulta per l’Argentina… Argentina 2, Inghilterra 0… Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona… Grazie, Dio, per il calcio, per Maradona, per queste lacrime, per questo Argentina 2, Inghilterra 0”.

(telecronaca di Victor Hugo Morales per Argentina-Inghilterra del Mondiale del 1986)

È morto Maradona il 10 di dio

L’ultimo tango di Diego. Anche se non improvviso, un colpo al cuore: in tutti i sensi, per tutti i sentimenti. Per chi lo ha amato, dall’Argentina a Napoli, per chi lo ha, semplicemente, ammirato. E per i tanti Amleti in perenne in bilico fra l’immensità del campione e la fragilità dell’uomo.

Il 30 ottobre aveva compiuto 60 anni. L’avevamo celebrato con il calore che dedichiamo, spesso, alle ricorrenze tonde e con l’ansia che, dalla sua Camelot, le notizie sulla salute agitavano. Sembrava depresso, venne operato d’urgenza al cervello. E poi, ieri, lo strappo. Forte crisi respiratoria. Si è spento come una candela, lui che è stato fuoco: sempre, fino alla fine.

Diego ha vissuto cento vite in una. Si è speso e spremuto sino all’ultima goccia, ci ha regalato molto meno di quanto non si sia tolto con la droga, anche se a noi sembra comunque un’enormità. È inutile chiedere o chiederci cosa avrebbe fatto se si fosse fatto di meno. Gli “eletti”, e lui lo è stato, considerano la banalità del bene una camicia di forza, ed è così che si perdono, a volte, dopo averci sedotto e frequentato.

Ho avuto la fortuna e il privilegio di seguirlo ai tempi del Napoli e dell’Argentina “campeon”. Le opinioni sono soggettive, e mai vanno considerate giudizi universali: a maggior ragione, se legate a epoche diverse, a pianeti lontani. In attesa che Leo Messi e Cristiano Ronaldo concludano la carriera e si presentino in sala “peso”, Diego per me è stato il più grande. Più grande addirittura di Pelé, che pure ha vinto tre Mondiali (a uno) ed era più completo. Maradona era più “totale”: leader, uomo-chiave e uomo-squadra, etichette che non sempre combaciano. Senza Nilton Santos, Didì o Garrincha a reggergli lo strascico.

Fidatevi: sul campo era un esempio. In caso contrario, i primi a ripudiarlo sarebbero stati i compagni. La punizione indiretta contro la Juventus al San Paolo, la ladrata di mano e l’esplosione atletica, estetica e tecnica contro gli inglesi in Messico: se dovessi tracciare dei confini, sceglierei questi.

Nacque povero e povero crebbe a Villa Fiorito, periferia di Buenos Aires. Povero ma ricco, dentro, della grazia di un Dio dissipatore. I campioni hanno bisogno di una squadra; i geni, come Diego, di un pallone. Chi scrive, ha sempre avuto un debole per i numeri dieci, a cominciare da Omar Sivori, “papà” del Pibe e “nonno” di Messi. Uomini di sinistro. Iniziò nei campetti oscuri e polverosi di Baires, palleggiava negli intervalli delle partite, diventò simbolo e bilancia. Lo chiamavano il Pelusa.

Argentinos Juniors, Boca Juniors, Barcellona, Napoli e poi il tramonto, Siviglia, Newell’s Old Boys, ancora Boca. Maradona è stato fuoriclasse assoluto, “fuori” da tutto e da tutti, persino da Sepp Blatter e i suoi maneggi, puntualmente denunciati in largo e chiassoso anticipo sui blitz dell’Fbi. E Napoli, il Napoli: due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa con la ciliegiona del 5-1 alla Juventus maifrediana. Un capo, sì, e un megafono. Con il popolo, e per il popolo: che fece felice a patto che lo lasciasse vivere e un po’ morire ai suoi ritmi, ai suoi eccessi.

Beccato all’antidoping del Mondiale ’94, anche perché avrebbe “rischiato” di vincerlo, lo usammo, si lasciò usare. Troppo generoso, e troppo imponente, per essere misurato con i nostri mediocri aggettivi, con le nostre ambigue classifiche. Di Maradona serbo un ricordo nitido. Era il maggio 1980, amichevole Inghilterra-Argentina a Wembley. A un certo punto, Diego dribblò un paio di “maestri” e disegnò la tela che avrebbe poi dipinto nel 1986, all’Azteca. Il tiro non gonfiò la rete: sfiorò il palo. E per questo, paradossalmente, gonfiò lo stadio. Tutti in piedi. Come se avesse segnato, come se avessimo sognato.

La differenza era proprio lì, tutta lì: segnare, far segnare e far sognare. Diego, a un prezzo che gli sfuggì dal sabba che fu la sua esistenza, ci è riuscito. E per andarsene ha scelto il 25 novembre. Come George Best, come Fidel Castro. Beato fra i ribelli.

“La Spagna è depressa, Sánchez un vanitoso e la movida un ricordo”

“I numeri della pandemia migliorano, soprattutto a Madrid, ma la situazione resta difficile: tutti in giro con le mascherine, un Natale con molte restrizioni, anche se con la speranza del vaccino”. Manuel Villas, scrittore spagnolo che con il suo Espana ha illuminato la società iberica, non sa dire come il Paese uscirà da questa crisi “mai vista che ha fatto crollare tutte le certezze politiche”, ma teme che “ci vorranno almeno dieci anni perché si possa tornare alla normalità pre-Covid”, a quell’idea di “sicurezza che la politica ci aveva trasmesso e che si è dimostrata falsa. Non credo si ripeterà l’allegria della movida della fine della dittatura di Francisco Franco. Lo spagnolo medio è depresso, disincantato. Comanda la scienza: è dio, la nuova fede”.

Parlando di generazioni, argomento del suo intervento al festival “Pazza idea”, quella dei 30-40enni eterni precari, iniziava a risollevarsi dalla crisi del 2008, e ora deve superare anche questa.

Certo, passata l’emergenza sanitaria, la crisi economica sarà devastante e l’Europa la risolverà con gli strumenti del capitalismo. Non cambierà molto.

Pedro Sánchez ha inserito in Manovra investimenti per un’economia verde.

Potrebbe nascere un pensiero economico alternativo dal coronavirus. Ma per quello che vedo le soluzioni sono investimenti pubblici e sostegno alle imprese, cioè schemi vecchi.

Nella Manovra ci sono più tasse alle grandi imprese e una patrimoniale. Non è un cambiamento?

È la correzione socialdemocratica del capitalismo. La redistribuzione della ricchezza. Netflix in Spagna paga 3.000 euro di tasse l’anno e guadagna 1,6 miliardi. Sánchez fa ciò che un governo di sinistra può fare. Non vedo però un cambiamento di mentalità sulla produzione e il consumo. Si parla di tasse in cambio di servizi: sanità e scuola. Il modello socialdemocratico europeo.

Con la pandemia è venuta meno anche l’idea che sanità e scuola funzionino.

È crollato il mito della sanità pubblica spagnola eccellente. Scopriamo che era mediocre. Della scuola già sapevamo. Questo ha provocato una depressione morale nei cittadini.

Qual è la situazione politica in Spagna?

La natura della politica spagnola si può capire solo attraverso il surrealismo cinematografico di Buñuel o Berlanga. C’è un premier che governa la Spagna con l’appoggio di gruppi politici che vorrebbero che la Spagna non esistesse. È comico. Dall’altra parte la destra non aiuta. Sánchez è un politico peculiare: credo che sia un uomo di grande vanità, con un’idea molto alta di se stesso. Quei patti politici che si facevano durante la Transizione non esistono più. C’è quasi odio. Il cittadino medio contempla questo spettacolo preoccupato perché vede disaccordo anche nella coalizione di governo. Sánchez e Iglesias lottano per un pezzo di potere. Al premier pesa Iglesias perché sposta l’equilibrio a sinistra, ed è noto che gli spagnoli votano casomai il centrosinistra, ma mai la sinistra. Quindi lo mette all’angolo per conservare l’immagine di socialdemocratico e progressista che fa patti con le grandi imprese, ma anche con i lavoratori.

L’estrema destra di Vox cresce sempre di più.

È vero. È l’estrema destra irrazionale, caduta nel dimenticatoio alla morte di Franco, rinata in risposta al nazionalismo catalano. Eppure lo spagnolo medio aborre il franchismo.

Cosa pensa della riesumazione di Franco dal Valle de Los Caidos?

È stato un atto pubblicitario perché il franchismo in Spagna è morto e sepolto. Abbiamo spostato un paio di ossa, ma continuiamo a essere poveri come prima. Felipe González, il trasformatore della società spagnola, fissò obiettivi più importanti come l’ingresso in Europa.

A proposito di gesti, ha colpito quello del re emerito Juan Carlos di abbandonare la Spagna.

Juan Carlos ha commesso un errore enorme. Doveva restare e affrontare la giustizia.

E Felipe VI?

Ha ereditato gli errori del padre ed è terrorizzato. Ma Sánchez l’ha salvato con un’operazione intellettuale, consigliato forse da un filosofo: distinguere tra l’istituzione monarchica, intoccabile, e gli errori di chi la incarna.

Gli spagnoli cosa pensano della monarchia?

Se la gente pensasse che passando alla Repubblica ci si salva dalla crisi, destituirebbe il re in quattro giorni. Ma il conto corrente degli spagnoli non cambia.

Nel castello della giustizia impazzita tra trojan e vanità

Ne Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, alcuni viandanti, attraversando un bosco raggiungono un castello dove si fermano a banchettare; qui si avvedono di aver perso l’uso della parola, e decidono di raccontarsi le reciproche avventure facendo ricorso a un mazzo di tarocchi. Poggiando sul tavolo le varie carte in sequenza si ottengono diverse narrazioni0 per diverse disposizioni. Tutti i racconti sono legati gli uni agli altri dalle stesse carte già posate sul tavolo e s’intrecciano narrando eventi, luoghi e storie completamente distinti.

Immaginiamo adesso che Magistropoli, il libro che state per leggere, sia anch’esso costruito come un castello: il castello della Giustizia Impazzita. Che i suoi abitanti siano un centinaio di magistrati tra i più potenti e influenti. E che al posto del mazzo di tarocchi calviniani vi sia il trojan, il virus delle intercettazioni ambientali, che installato nei cellulari o nei computer, agisce come gli achei celati nel mitico cavallo di legno progettato da Ulisse. La nostra guida, colui che attraverso una minuziosa e informatissima ricostruzione delle migliaia di carte (quelle di carta vera) in sequenza è riuscito a ricomporre le diverse narrazioni in un’unica grande narrazione (che compone un quadro senza paragoni e senza precedenti nella storia della magistratura italiana), io la conosco bene. E non soltanto perché fin dal primo giorno, Antonio Massari ha fatto parte della squadra che ha dato vita alla splendida avventura del Fatto Quotidiano. Avete presente infatti gli implacabili sceriffi che in Butch Cassidy non danno tregua a Paul Newman e Robert Redford, in fuga dopo l’assalto al treno? Be’, se fossi qualcuno che ha qualcosa da nascondere non vorrei essere braccato da lui e da Marco Lillo. Ti inseguono, ti incalzano, non ti mollano mai. È quello che Antonio ha fatto con Luca Palamara, un nome e un cognome dai molti significati. Il magistrato in carriera: già membro del Consiglio superiore della magistratura nonché il più giovane presidente dell’Associazione nazionale magistrati dal maggio 2008 a marzo 2012. L’uomo dei superpoteri, il Batman delle toghe a cui un numero imprecisato di suoi colleghi devono carriera, promozioni, ambizioni soddisfatte. L’amico che ognuno vorrebbe avere, quello che si fa in quattro, che non ti dice mai di no, che risponde sempre al cellulare (e in tanti se ne accorgeranno poi, a loro spese). Nell’incredibile “Diario” di Palamara c’è il naufragio progressivo e inarrestabile di un mondo, oltre che di un uomo. Assistiamo alla deriva di un sistema nevralgico nell’assetto costituzionale, di un’istituzione fondamentale, di un’idea di giustizia che Massari osserva e analizza con la necessaria distanza. Senza i compiacimenti di quel giornalismo che si arroga preventivamente il diritto di pontificare su chi meriti l’inferno e chi il paradiso. Antonio non giudica, non sentenzia ma vuole “capire”, approfondire, per meglio guidarci nei corridoi e nelle segrete del castello, là dove agisce il potere nascosto, e vanno in scena l’umana e la disumana commedia.

Infine, ci siamo noi che leggiamo sgomenti. Noi lettori, noi cittadini, noi persone. Naturalmente intimiditi dalla severa solennità dell’istituzione, sempre timorosi nell’accostarci a quelle aule cupe, in quei palazzi marmorei dove uomini paludati sono chiamati a decidere sul destino di altri uomini. Noi, fiduciosi quando ci siamo affidati alla magistratura, e abbiamo fatto bene, perché sanasse i torti che malgoverno e corruzione avevano inflitto sul corpo vivo della nostra democrazia. Noi, che abbiamo come simboli Falcone e Borsellino, e con essi tutti coloro che vivono blindati sotto la minaccia mafiosa. Noi, che condotti per mano in un luogo della realtà irreale, dove come formiche impazzite “quei” magistrati passano le loro giornate a brigare, complottare, inciuciare in un qualche hotel Champagne, in allegra compagnia con “quei” politici ammanicati, ci domandiamo: ma questi qui quando lavorano? Magistropoli è nello stesso tempo un giallo, un noir e un trattato di psicologia. Lascerà il segno.

In casa a pedalare: l’ultimo lockdown della nostra cyclette

Riportiamo alcuni brani del libro “Gli immutabili” di Veronica Gentili, edito da “La nave di Teseo”, diario semiserio di una pandemia.

Giovedì 2 aprile – giorno 22 di lockdown

Intanto in isolamento ho riscoperto la cyclette. Mentre gli aggiratori sono ancora alle prese con gli ultimi scampoli interpretativi rimasti dopo la conferenza stampa, come il grande dubbio se il jogging faccia parte delle attività ludico-ricreative o di quelle motorie, o se esista una particolare velocità oraria che lo faccia saltare da una categoria all’altra, io alzo le mani e rinuncio all’esegesi del Dpcm. Così, scelgo di ripiegare sull’attività poco ludica ma parecchio motoria della bicicletta finta.

Una bicicletta senza ruote è come un aereo senza cielo: una promessa tradita. Pedali come un forsennato senza arrivare da nessuna parte: una specie di Sisifo da salotto, destinato a ripetere la stessa spinta di piede a vuoto in eterno. Nessun paesaggio, nessuna meta, solo movimento fine a se stesso: una bella metafora della quarantena in effetti. Ma di questi tempi, se vuoi evitare le piaghe da decubito, non puoi andare tanto per il sottile: così ho ritirato fuori una vecchia cyclette, un trabiccolo che avevo comprato in un momento chiaramente maniacale e che poi avevo lasciato ad ammuffire in un angolo della casa per anni, occupando spazio inutile e suscitando le imprecazioni di Massimo.

Adesso troneggia tronfia al centro del salotto, di fronte al televisore, protagonista indiscussa della casa. Questa convivenza è diventata una sorta di ménage à trois: lui, lei, l’altra.

Eh sì, anche lui che inveiva contro l’occupatrice abusiva di spazio, ora la guarda con gli occhi del desiderio. Ogni sera all’ora del telegiornale si rischia un incidente diplomatico per capire chi s’accalappierà l’oggetto, quella tra le 20.00 e le 21.00 è la fascia più ambita per pedalare: si cerca di aggrapparsi all’utilità delle notizie per narcotizzare il vuoto di senso della pedalata sul posto. Purtroppo a quell’ora non posso nemmeno spedire il Cacciatore a procurarsi il cibo, visto che il supermercato ha appena chiuso e mi trovo costretta a condividere i comfort della caverna. Allora tento l’occhio languido, lo sguardo supplice, ma questa regressione all’uomo primitivo ha degli effetti collaterali: si è convinto che un maschio alfa debba mostrare la sua natura dominante ventiquattro ore su ventiquattro. Possesso della cyclette compresa. (…)

Inizio ottobre – giorno X

Se nella scorsa primavera la componente tragica c’era è perché non conoscevamo Covid e ci siamo fatti incantare dalla sua velocità, che correre quello corre non gli si può dire niente, dalla sua irruenza e dalla sua indefinibilità. Ha goduto di quella che i giocatori chiamano la fortuna del principiante: quella sensazione di onnipotenza, dalla quale io per esempio mi sono fatta fregare in pieno, che si sviluppa ai casinò, quando cominci a sederti ai tavoli e ti succede di vincere quasi sempre; allora ti convinci che vincere sia la cosa più semplice del mondo, e ne resti convinto fino a quando una sera ti arriva la tranvata e perdi tutto quello che avevi guadagnato.

Poi però è cominciata la Fase 2, quella in cui dovevamo imparare a convivere col virus, così ci hanno detto. E uno dei vantaggi o degli svantaggi, a scelta, della convivenza è imparare a conoscere alla perfezione il tuo convivente: allora abbiamo cominciato a guardare Covid con occhi diversi, a scoprirne i punti deboli, a conoscerne le mediocrità. Ci siamo progressivamente assuefatti a uno stato d’eccezione che non ha più nulla di eccezionale. E in qualche settimana dall’epica siamo passati al dramma borghese: la grandiosità del morbo sconosciuto che potrebbe decimare l’umanità ha lasciato il posto alle nostre tragedie domestiche d’insofferenza, irrequietezza, malattia, tristezza, povertà.

Gruppo di famiglia distanziato in un interno.

Non a caso a raccontarvi la nostra odissea, minuscolo, non c’è Omero ma, in questo caso, ci sono io; al posto della nave c’è la cyclette, al posto di Itaca c’è il vaccino, al posto di Polifemo c’è Donald Trump, al posto di Tiresia c’è mio fratello Alessandro e al posto dei Proci c’è un virus bulimico e caratteriale che fino a ieri viveva in un pipistrello.

M5S, Di Battista adesso ha scelto: senza “garanzie” non si candida alla segreteria

Se lo chiedono più o meno tutti, dentro (e non solo) il M5S. Alessandro Di Battista correrà per la segreteria a cinque del Movimento, quella che verrà eletta entro fine anno? E la risposta è no, se prima il M5S non si impegnerà a dare seguito alle sue “garanzie politiche”. Ossia alle sei richieste che l’ex deputato ha elencato nel suo intervento negli Stati generali del 15 novembre. Tradotto: Di Battista si aspetta che Crimi metta in votazione sulla piattaforma web Rousseau punti come l’intoccabilità della regola dei due mandati, “senza deroghe”, e l’impegno del M5S a votare una nuova legge elettorale solo a patto che preveda le preferenze. Fino alla garanzia che il Movimento si presenterà da solo alle prossime elezioni. Altrimenti l’ex parlamentare resterà fuori ad aspettare le prossime Politiche, nelle quali potrà candidarsi senza problemi avendo svolto un solo mandato da deputato.

Così la pensa Di Battista, stando a quanto ha spiegato nei colloqui riservati degli ultimi giorni. Ergo, l’ipotesi di una sua candidatura si complica, e parecchio, visto che la prima delle richieste di Di Battista è “la revoca delle concessioni autostradali ai Benetton”. Obiettivo che chiama in causa tutto il governo, tutt’altro che facile da ottenere. “Ma ho apprezzato che Luigi Di Maio sia tornato a parlare di revoca dopo il mio intervento”, ha confidato l’ex deputato. Come a dire che dal ministro è arrivato un segnale positivo. E anche l’ennesimo no del Movimento al Mes, nella capidelegazione di governo di martedì, è stato notato da Di Battista. Non a caso in questi giorni ha sentito l’ex capo politico, più volte. Ma ha chiamato anche Nicola Morra, per esprimergli la sua vicinanza dopo lo stop della Rai alla sua partecipazione a Titolo V. E proprio Morra è un altro big che potrebbe correre per l’organo collegiale. Di certo la linea di Di Maio e degli altri maggiorenti è di tenerlo dentro la segreteria, perché lasciarlo fuori potrebbe essere rischioso.

Ma Di Battista, assicurano, rimane fermo sulla sua posizione: “Accetterà un ruolo solo dietro impegni precisi”. Perché teme innanzitutto fughe in avanti sui due mandati, “e in particolare che qualche parlamentare voglia candidarsi governatore”, spiegano. Altrimenti, resterà fuori “da semplice attivista”. E senza velleità di scissioni, giura. “Non ho mai pensato a scissioni o cose del genere, sono sciocchezze” ripete anche in questi giorni Di Battista. La prima variabile, nella partita a 5Stelle.

Altri 2 femminicidi. E intanto la Rai fa la “spesa sexy”

Proprio nella giornata della lotta alla violenza contro le donne, la Rai incappa in un incidente che ha suscitato una pioggia di polemiche. Giorno, quello di ieri, dove tra l’altro si sono riscontrate altre due vittime di femminicidio, una donna in provincia di Padova e un’altra vicino Catanzaro. Mentre il premier Conte ha assicurato che ai figli di Marianna Manduca, altra vittima della violenza di un uomo, arriverà il risarcimento dello Stato dopo l’assurda battaglia legale.

Ma cosa è successo in Rai? L’episodio risale a martedì pomeriggio quando, nella trasmissione pomeridiana di Rai2 Detto Fatto, condotta da Bianca Guaccero, viene presentato uno sketch in cui una pole dancer, o ballerina che dir si voglia, Emily Angelillo, mostra come una donna può fare la spesa in modo sexy, con tanto di ammiccamenti e pose provocanti mentre prende i prodotti sugli scaffali. Il caso, però, è esploso ieri, con tweet di protesta da parte di esponenti di Pd e Italia Viva. “Per quanto tempo dovremo continuare a raccontare le donne in modo finto, stereotipato, con i tacchi a spillo, le movenze sexy?”, twitta la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Ma parole indignate arrivano da più parti, da Valeria Fedeli (Pd) alla consigliera d’amministrazione Rita Borioni, dalla giornalista Myrta Merlino alla forzista Mariastella Gelmini, fino a Laura Boldrini. Dura anche la nota dell’Usigrai. A quel punto si decide di bloccare la puntata di ieri, mentre arrivano le scuse di Rai2. “Il programma è incappato in un gravissimo errore, non certamente voluto, di cui io per primo mi scuso con tutti e tutte”, afferma il direttore Ludovico Di Meo. E ora forse la trasmissione verrà cancellata. O comunque ripensata. “Episodio gravissimo che nulla ha a che vedere con lo spirito del servizio pubblico e con la linea editoriale della Rai”, osserva l’ad Fabrizio Salini, annunciando un’istruttoria per “accertare responsabilità e fare valutazioni sul futuro del programma”.

Sgomberato a Roma il Cinema Palazzo, Campidoglio: “Ora apriamo confronto”

Sarebbe dovuto diventare un casinò. L’ennesima sala da gioco negli anni della crisi. Dal 2011 a oggi, invece, ha ospitato concerti, eventi culturali, dibattiti di livello, un centro d’ascolto per i ludopatici, ma mai un appuntamento a scopo di lucro. Il passaggio di consegne “condizionato” con la proprietà era in dirittura d’arrivo, ma la Prefettura di Roma ieri ha deciso di sgomberare l’ex Cinema Palazzo, a San Lorenzo, occupato 9 anni fa dai centri sociali del quartiere. “Un fallimento”, lo definisce il vicesindaco Luca Bergamo, secondo il quale si tratta di una “ricchezza” che va difesa. Un punto di riferimento per la città, che nel 2016 aveva anche ospitato Virginia Raggi in campagna elettorale. La sindaca ieri è stata travolta dalle polemiche, per un tweet in cui ringraziava le forze dell’ordine accomunando il Cinema Palazzo allo Skull pub, la birreria abusiva di Forza Nuova sgomberata negli stessi minuti. Nel pomeriggio il distinguo di Raggi, in un post dove auspica un dialogo istituzionale con la proprietà per la destinazione dello stabile.

“Di Mare” in peggio: ora si ospita da solo

In questi giorni di anniversario del terremoto dell’Irpinia (sono passati 40 anni), giornali e tv fanno a gara per accaparrarsi l’ospite più illustre e l’intervista più esclusiva. In realtà tanta fatica appare sprecata se si dà un’occhiata a quel che è successo lo scorso lunedì sera su Rai3, quando è andato in onda il meritorio documentario Il terremoto – Irpinia 1980. Piccolo dettaglio: anche sforzandosi non poco, gli autori non hanno trovato miglior esperto che l’onnipresente Franco Di Mare, accidentalmente direttore della stessa rete che ha mandato in onda il documentario, ovvero Rai3. E allora ecco ampi spezzoni di un emozionato Di Mare che confessa i suoi ricordi (“Ero uscito a prendere della legna, e poi tutto è crollato”) e mostra indulgenza nei confronti della Democrazia Cristiana (“che seppe anche stare vicina al territorio”). Il direttorissimo fa capolino anche nei titoli di coda finali, confuso tra gli altri autori: “Ha partecipato anche Franco Di Mare”. La scritta è persino un po’ malinconica, forse meritava di più: mica è da tutti ospitarsi da solo nella propria rete.