Una notizia dei giorni scorsi, forse i lettori l’avranno già sentita, sembrerebbe aver messo in discussione la possibilità di affermare che “Rimini ha un mare di merda” o meglio di affermarlo senza conseguenze penali. Un 40enne lombardo è stato infatti condannato a un mese di reclusione, convertito in 1.225 euro di multa, proprio per aver associato sui social le limpide acque della riviera romagnola alle deiezioni solide: “Adesso giù il cappello e rispettate il nostro mare”, è andato in iperventilazione il sindaco Andrea Gnassi. In realtà, approfondendo la vicenda si scopre che l’uomo aveva espresso, per così dire, un’opinione più articolata: partendo da una notizia locale che riguardava i campionamenti Arpa e i divieti di balneazione, aveva sancito non solo che “Rimini ha un mare di merda”, ma anche insultato i locali albergatori (“fannulloni”, “porci arraffoni”, “vi arricchite grazie a un mare sporco di batteri, lavorate solo 3 mesi all’anno”). È stata proprio la presidente degli albergatori, Patrizia Rinaldis, a presentare querela contro il detrattore, ora oggetto di un decreto penale perché quelle frasi “sono evidentemente diffamatorie”: insomma i diffamati sono gli albergatori, non il mare di Rimini. Vicenda secondaria? Forse, ma allude a qualcosa di assai più grande. Diciamo che è il perfetto esempio di come le leggi, laddove ricorrano i presupposti, sono sufficienti a tutelare diritti anche sul web: niente censure preventive di Facebook e soci, niente commissioni politiche, niente super-poteri all’Agcom o all’ennesimo ente indipendente. Bastano le leggi e fra queste non certo solo quelle sulla diffamazione: anche la concentrazione di potere e mercato in mano a poche OTT (Over The Top), interessate solo ad aumentare le interazioni online dei loro utenti mentre li vendono agli investitori pubblicitari, è materia largamente assoggettabile alle normative antitrust. In attesa che i nostri cervelli non in fuga passino dai tentativi di censura alla regolazione del mercato (essì, non c’è solo Mediaset vs Vivendi), il nostro amico sa che il suo diritto di insultare e dire cazzate costa 1.225 euro a botta e noi che gli albergatori di Rimini sono parecchio permalosi. E il mare? Be’, insomma, magari di merda no, però…
Le incertezze dell’Oms
In questo fragile momento nel quale persino la scienza vacilla, con tecnici ed esperti che spesso asseriscono teorie tra loro opposte, avremmo bisogno di un punto di riferimento solido e coerente. Si potrebbe replicare che, al di sopra delle parti, c’è l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se certamente molti suoi interventi sono stati davvero importanti – come la lotta alla Polio e all’Ebola – non è comprensibile il comportamento assunto durante questa pandemia. Troppe dichiarazioni ufficiali, smentite poco dopo, a cominciare dalle mascherine, prima necessarie solo per i sanitari e poi raccomandate per tutti. Non ci aspettavamo simili incertezze. A giugno il Comitato per i medicinali per uso umano (Chmp) dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) ha adottato parere positivo, raccomandando la concessione dell’autorizzazione all’immissione in commercio, su Remdesivir destinato al Covid-19 in adulti e adolescenti sopra i 12 anni con polmonite, che richiedono ossigeno supplementare. Il parere è stato seguito da quello della Commissione europea, che ha firmato con l’azienda farmaceutica Gilead un contratto per la fornitura di Veklury (il nome commerciale del remdesivir), fino a 500.000 cicli di trattamento e oltre. Abbiamo tutti tirato un respiro di sollievo. Se ancora non si aveva una terapia mirata contro il Covid, si era riusciti almeno a disporre di un farmaco con buone possibilità di impiego. Ebbene, è proprio di qualche giorno fa una dichiarazione dell’Oms, che lo sconsiglia. Allo stesso tempo, però, si sostiene anche “l’arruolamento continuato negli studi che valutano il remdesivir”. Remdesivir è dannoso o no? Si deve smettere di usarlo o no? Il farmaco è in uso in 50 Paesi e lo troviamo anche nelle indicazioni terapeutiche per Covid, delle linee guida dell’ISS. Oms che ha denunciato il fenomeno della “infodemia”, forse ne è rimasto vittima.
Milano, Scalo Farini: bisogna ricontare quanto verde sarà
La riqualificazione degli scali ferroviari di Milano? È l’arrivo del paradiso in terra, o poco meno: così racconta la narrazione del sindaco, dell’assessore all’urbanistica, degli operatori pubblici e privati coinvolti nella partita (Fs e Coima) e della stampa loro megafono (quasi tutta). Fiumi verdi, foreste urbane, latte e miele e zucchero filato. Diciamo la verità: davvero è una grande occasione per Milano – città ad alto consumo di suolo e ad altissimo inquinamento atmosferico – poter ridisegnare la bellezza di 1 milione e 250 mila metri quadrati di superficie urbana, un’area immensa disposta a corona attorno al centro: quella dei sette scali delle Ferrovie dello Stato (Farini, Romana, Porta Genova, Lambrate, Rogoredo, Greco-Breda, San Cristoforo), un tempo occupate dai binari, dagli scambi e dai depositi dei treni, oggi diventati terreni preziosi da riqualificare. Preziosi per chi volesse ridare a Milano verde, servizi e spazi pubblici, facendola diventare la città più green d’Europa. Ma preziosi anche per chi volesse farci la più grande speculazione immobiliare urbana d’Europa. Indovinate su quale delle due strade si è incamminata Milano? Ferrovie dello Stato, invece di restituire ai cittadini aree che erano state concesse per fare trasporto pubblico, non residenza privata, si sta comportando da immobiliarista, all’opera per “valorizzare” i suoi terreni, insieme a Manfredi Catella di Coima, diventato ormai il nuovo Ligresti, presente in tutte le grandi operazioni immobiliari della città. Hanno ottenuto dalla giunta guidata da Giuseppe Sala un trattamento speciale, una sorta di piano regolatore su misura: a Milano l’indice d’edificazione è 0,35: così dice il Piano di governo del territorio. Ma questo vale per i comuni mortali. Per Fs e Catella, invece, l’indice d’edificazione medio degli scali ferroviari è 0,65 (allo scalo Farini, il più “pregiato”, arriva anche allo 0,80, che permetterà di costruire edifici per 1 milione di metri cubi). Un regalo che rende gli scali Fs un affare da almeno 2,5 miliardi di euro e che porterà soltanto 50 milioni nelle casse del Comune; che – peggio ancora – rinuncerà alla regia pubblica e lascerà decidere a Fs e Coima che cosa fare di quelle aree che potrebbero cambiare la faccia di Milano.
Sono pochi quelli che osano contrastare le magnifiche sorti e progressive. Tra questi, un gruppo di cittadini che abitano nei pressi dello scalo Farini e che, assistiti dall’avvocato Danilo Daniel, hanno presentato un ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato contro l’Accordo di programma che concede privilegi a Fs e Coima. Hanno calcolato, insieme all’urbanista Sergio Brenna, gli standard urbanistici (cioè le aree a verde e servizi) previsti dal piano per lo scalo Farini e si sono accorti che mancano ben 125 mila metri quadrati di standard. Dovrebbero essere 17,5 metri quadrati per abitante, ma i progettisti (e il Comune di Milano) hanno dimenticato – spiegano l’avvocato Daniel e l’architetto Brenna – la “popolazione fluttuante e degli addetti”, cioè quelli che non vivono nell’area, ma vi giungono ogni giorno per lavoro o per utilizzarne i servizi. Ora la Sezione quarta del Consiglio di Stato ha dato ragione ai ricorrenti e ha disposto il riconteggio degli standard. Ha dato l’incarico al direttore del Dist (Dipartimento di Scienze, progetto e politiche del territorio) del Politecnico di Torino che ha 60 giorni per stilare una relazione in cui rispondere a queste semplici domande: quali sono gli standard urbanistici (verde e servizi) previsti nel Programma di governo del territorio del Comune di Milano approvato il 22 maggio 2012? Quali sono quelli previsti nello scalo Farini? Sono stati calcolati correttamente, o hanno dimenticato la “popolazione fluttuante”? Tra 60 giorni sapremo se a vincere sono il Comune e Catella, oppure i cittadini.
Le Regioni vanno subito abolite e ridotte a meri “enti di servizio”
In un recente articolo su Repubblica, il professor Zagrebelsky ha denunciato la natura divisiva e paralizzante delle Regioni e la difficoltà per tutti i governanti, ai tempi del Covid, di assumere decisioni giuste, ma impopolari, per non perdere consensi nei sondaggi e nei continui turni elettorali: parlare ai cittadini in spirito di verità e agire di conseguenza equivarrebbe per loro a un suicidio politico.
L’analisi sconsolata dell’eminente studioso va condivisa, salvando tuttavia un briciolo di speranza. Sulle Regioni. La loro istituzione rispose a un’impellenza che appare più coerente a un pirandelliano “non si sa come” che a esigenze reali di rappresentanza. Sin dal loro nascere quegli enti hanno manifestato insofferenza per le procedure che premiano il merito e per ogni forma di controllo. Il quadro, già notevolmente dissestato, è peggiorato con il titolo V della Costituzione, manifesto della dottrina favorevole all’istituzione regionale e generatrice di riforme improvvide e perfino funeste: dal decreto legislativo in materia di sanità (1992) alle leggi Bassanini del 1997 che hanno sancito, con la scusa dell’ammodernamento, la soggezione alla politica di ogni atto pubblico. Si sono così estese a tutte le pubbliche amministrazioni le metodiche imperanti all’interno delle Regioni, rinforzandole con innesti all’amatriciana.
Gli effetti deleteri sono sotto gli occhi di tutti: si sono eliminati i controlli, si osteggia con fastidio la selezione dei migliori e si consegnano gli apparati pubblici nelle mani di improvvisati e spesso incompetenti demiurghi: i commissari straordinari, i superdirettori, i manager. La sottostante concezione antropologica, riconducibile agli esponenti di quella dottrina che passano per democratici, implica una riedizione della nostalgica teoria dell’uomo forte. Alle gestioni “manageriali” non si può neppure riconoscere qualche progresso, perché tutti gli indici di funzionalità, democraticità e miglioramento economico-sociale risultano negativi proprio dall’entrata in vigore di quelle leggi: un processo di estrema decadenza celebrato in un tripudio di grossi emolumenti, arbitri indotti dal patron politico e spudorate concessioni al diritto di satrapia.
Nella tragedia Covid tutto questo sta emergendo. Lo testimonia, ad esempio, un articolo di Domani sulla proliferazione abnorme di commissari straordinari, assolutamente incongrua per un ordinamento democratico; lo testimonia lo scarso credito guadagnato da molti “governatori” tanto per incrementare il disgusto per lo scandalo sulle spese private pagate con soldi pubblici; lo testimonia la débâcle del sistema sanitario regionale con la chiusura di circa 200 ospedali e la contrazione della medicina territoriale mentre si elargivano notevoli risorse alla sanità privata. Qui s’innesta la nota ottimistica. Superata la bufera, s’imporrà una rimodulazione dell’istituto regionale e, a cascata, una riforma delle pubbliche amministrazioni. L’abolizione delle Regioni sarebbe eccellente. Bisogna essere realisti. Dopo aver creato al loro interno una quantità industriale di poltronissime, poltrone, posti, posticini e strapuntini, sarebbe illusorio chiedere alla classe politica di privarsene del tutto. È indispensabile comunque una limitazione degli appetiti, attraverso una disciplina costituzionale che determini economicità, funzionalità, omogeneità, acquisizione di competenze nonché continui controlli. Si tratta di rimodulare l’istituto regionale in ente di servizio e decentramento, spogliandolo delle appariscenti e confuse caratteristiche di soggetto politico. È necessario che i cittadini facciano sentire forte e chiara la loro voce. Le energie ci sono: negli ultimi 14 anni il popolo ha respinto due tentativi, nel 2006 e nel 2016, di trasformare la democrazia in democratura.
Basta paradisi fiscali, tassa minima sui profitti
Speravamo davvero che il club dei Paesi ricchi, che è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), potesse offrire soluzioni per porre fine agli abusi fiscali delle multinazionali? Sette anni dopo aver ricevuto dal G20 il mandato per rivedere il sistema fiscale internazionale, l’istituzione ha rivelato una serie di proposte tanto complesse quanto deludenti.
All’inizio dell’anno, per la prima volta, i Paesi avevano concordato che le aziende devono pagare le tasse a seconda di dove si trovano i loro clienti, le fabbriche e i dipendenti, e non dove acquistano una casella postale nei paradisi fiscali. Ma alla fine delle trattative, la montagna ha partorito un topolino. Non è una sorpresa. L’Ocse aveva creato un “quadro inclusivo” che coinvolgesse i Paesi in via di sviluppo. In realtà, delle 137 nazioni che siedono attorno al tavolo delle trattative, solo i Paesi del G7 hanno voce in capitolo. Alla fine, le soluzioni limitano pochissimi flussi finanziari ai paradisi fiscali e le scarse risorse recuperate andrebbero principalmente a beneficio dei Paesi ricchi.
Già scandalosa in passato, questa situazione è semplicemente intollerabile in un momento in cui il pianeta è devastato dall’epidemia di coronavirus. I servizi pubblici di tutto il mondo stanno lottando per far fronte all’emergenza, dopo decenni di tagli al bilancio. E questo anche se ogni anno i governi perdono più di 362 miliardi di euro a causa dei paradisi fiscali, come rivela il recente report pubblicato da Tax Justice Network.
Il primo a stimare, Paese per Paese, la perdita di risorse causata da abusi fiscali, il rapporto è agghiacciante. A livello globale, queste deviazioni corrispondono al 9,2% dei bilanci sanitari, pari agli stipendi di 34 milioni di infermieri. L’impatto è ancora più devastante nei Paesi in via di sviluppo, dove il deficit rappresenta il 52,4% della spesa sanitaria. L’Italia, ad esempio, perde ogni anno il 9% del budget sanitario del Paese che pagherebbe circa 380.000 infermieri all’anno.
Gli ospedali hanno bisogno di più risorse. Il sistema educativo ha bisogno di più risorse. Le piccole imprese, che sono sull’orlo del fallimento, hanno bisogno di più risorse. E qualcuno dovrà pagare il conto. Ecco perché è urgente andare a prendere i fondi dove sono, nei paradisi fiscali. E poiché l’Ocse non è in grado di imporre una riforma, è giunto il momento che l’Unione Europea vada avanti, in particolare introducendo un’imposta minima effettiva sugli utili delle imprese.
Nella Commissione indipendente di cui sono membro, insieme a economisti come Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e Gabriel Zucman, calcoliamo che dovrebbe essere almeno del 25%. Anche il presidente eletto degli Stati Uniti, Joseph Biden, sostiene un’aliquota minima globale del 21%. Sostenere un livello più basso alimenterebbe di fatto la corsa al ribasso causando un ulteriore calo del gettito fiscale.
Se però puntiamo facilmente il dito contro le piccole isole dei Caraibi è per far dimenticare che il Vecchio continente è pieno di paradisi fiscali. Ogni anno, ad esempio, i Paesi Bassi rubano l’equivalente di 10 miliardi di dollari ai vicini dell’Ue. Lussemburgo, Irlanda, Cipro o Malta non fanno molto meglio.
Questo gruppo di Stati blocca da anni qualsiasi riforma, approfittando dell’unanimità. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha però a disposizione un’arma formidabile per andare avanti. L’articolo 116 del Trattato, relativo all’uguaglianza delle regole di concorrenza tra gli Stati – violata da questo dumping fiscale – consentirebbe di aggirare il requisito dell’unanimità e di porre fine al saccheggio delle risorse fiscali da parte di alcuni Stati.
Ursula von der Leyen ha la forza politica per farlo e dovrebbe essere sostenuta dalla Germania, che detiene la presidenza del Consiglio europeo fino alla fine dell’anno ed è uno dei Paesi più colpiti dagli abusi fiscali sulle imprese.
Un’iniziativa della Commissione sarebbe l’ideale, soprattutto perché avrebbe un impatto globale. Ma se ciò non avvenisse, Francia, Germania, Spagna, Italia e altri Paesi della regione potrebbero avviare questa riforma fiscale grazie al meccanismo di cooperazione rafforzata che può essere istituito con un gruppo di almeno nove Paesi e che ha già permesso, ad esempio, la creazione di una Procura europea. Nel momento in cui la seconda ondata del coronavirus sta mettendo in ginocchio l’intera Europa, lo status quo non è più accettabile.
Quei tanti fratacchioni ossessionati dalla sacra eiaculazione maschile
Nella puntata di ieri, Mario Parascandolo ha parlato della rabbia e dell’angoscia provocatagli dal vedere che, senza il suo consenso, altri avevano seppellito il suo profilattico usato “sotto una croce, simbolo cristiano che non mi appartiene, e con su scritto il mio nome. Tutto senza il mio consenso e senza che io ne fossi minimamente a conoscenza”. Eppure, la norma al riguardo precisa che per la dicitura sulla targhetta serve una richiesta esplicita: l’esposizione del nome di un uomo su una lapide pubblica senza il suo consenso costituisce infatti la violazione di un dato sensibile, secondo quanto stabilito, tra l’altro, dall’articolo 9 del regolamento europeo sulla protezione dei dati di chi sborra in un goldone. Per capire in che modo siano state possibili delle sepolture con lapide, in alcuni casi accompagnate da vere e proprie cerimonie, sempre senza il consenso di nessuno, è necessario cercare di capire come funzionano queste cose in Italia.
Il regolamento. La sepoltura dei goldoni farciti è consentita in Italia fin dal 1990, ed è normata dall’articolo 7 del decreto del presidente della Repubblica numero 2850 sul regolamento di polizia mortuaria. Il decreto fa tre distinzioni in base alla quantità di sborra: da 0,1 a 5 millilitri; da 6 a 10 millilitri; da 11 millilitri a mezzo litro. Per i primi e i secondi la sepoltura è facoltativa e avviene su richiesta, per i terzi si stabilisce l’obbligo di sepoltura. Al primo comma il regolamento si occupa di questi ultimi, rimandando a un regio decreto del 1939. In sostanza, il goldone contenente più di 10 millilitri segue gli stessi procedimenti che autorizzano la sepoltura di una persona defunta (registrazione anagrafica e sepoltura). I commi 2 e 3 aggiungono che i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale. L’ultimo comma precisa che nei casi previsti dai commi 1, 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’eiaculazione nel goldone, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale, con un certificato medico che indichi la quantità di sborra presunta. Il regolamento, dunque, stabilisce e tutela la libertà di scelta per quanto riguarda la sepoltura. In assenza di esplicita richiesta di quelli che il regolamento definisce “papà”, i goldoni farciti continuano a essere trattati come rifiuti speciali sanitari. Almeno in teoria.
Le sepolture a insaputa dei maschi che hanno eiaculato. La sepoltura è una scelta personale: ha a che fare con il lutto, se l’esperienza dell’eiaculazione viene vissuta come tale, con il proprio modo di elaborarlo e, spesso, con il proprio credo religioso. Il problema è quando questo rituale avviene senza che ne venga data alcuna chiara comunicazione al maschio e alle altre persone direttamente coinvolte; e se il tutto viene affidato ad associazioni ultracattoliche che si fanno carico della sepoltura e dei riti religiosi: alcune Regioni, facendo propria l’ossessione confessionale sulla sacralità dello sperma, hanno infatti introdotto nel regolamento delle modifiche, stabilendo che anche in assenza di esplicita richiesta si proceda alla sepoltura del goldone farcito: l’autodeterminazione dei maschi, faticosamente raggiunta con le lotte degli anni 70, viene così conculcata da narrazioni e pratiche (spesso avallate dalle istituzioni) che colpevolizzano e criminalizzano chi sborra. “Dio esiste! Dio esiste!” tuonava un fratacchione della mia infanzia, con una voce che usciva da dentro una gran lana di barba bianca. Per un po’ credetti anch’io, poi capii che mi aveva impressionato la barba.
Mail box
Non possiamo definire le ciarle da bar “notizie”
Il cretino prevalente meriterebbe una seconda puntata. Purtroppo non è quello che troviamo al bar, ma lo incontriamo quotidianamente sui giornaloni e a discettare dallo schermo dei nostri televisori pressoché a reti unificate. Ora al centro del “barstampubblica & associati” l’argomento sono le piste da sci, su cui si riapre lo stesso dibattito rancido (direbbe Padellaro) già avvenuto per ristoranti, cinema, scuole superiori… Le chiacchiere da bar vorremmo trovarle di nuovo, il più presto possibile, in quell’ambiente di socialità che almeno ha il pregio di non prendersi troppo sul serio. Non confezionate come fossero notizie vere da coloro che dovrebbero essere i professionisti dell’informazione.
Melquiades
Guai a vanificare tutti gli sforzi fatti finora
Caro Travaglio, capita spesso che ritrovo nei tuoi editoriali considerazioni identiche a quelle che faccio io, poi se accendo la tv mi accorgo che il senso comune non è né il tuo né il mio. Io vorrei poter regalare un po’ di riposo a medici, infermieri, ambulanze, ecc., e il pensiero di questi geni è stipare gli alberghi, le piste, i ristoranti di possibili asintomatici e di rendere vacui tutti gli sforzi fatti fino ad oggi, per poi dire che il governo non ha fatto niente per la terza ondata?
Francesca Della Pietra
È giusto anteporre l’economia alla salute?
Caro Travaglio, mi ha stupito, nell’ennesimo talk show su La7, dove i soliti politici berciavano insulsaggini sul virus, sul lockdown, sulla necessità di salvaguardare la vita degli italiani, la profondità di pensiero di uno che di professione fa solo il cantante, Enrico Ruggeri. Ha detto che se nella storia tutti avessimo sempre e solo pensato ai rischi di certe attività e a salvaguardarsi la vita, ora l’umanità non sarebbe al livello di conoscenza e di benessere a cui si trova. E l’Italia non esisterebbe neppure se carbonari e patrioti non si fossero immolati a milioni. D’altra parte se milioni di italiani chiedono a gran voce di riaprire le attività bloccate, dimostrano che poi più importante di qualche vita singola reputano il Paese, la società e la sua futura economia.
Enrico Costantini
Caro Costantini, io preferisco che si tuteli “qualche vita singola”. Soprattutto mentre piangiamo 700–800 morti al giorno.
M. Trav.
Sono contrario a ogni tipo di obbligo dall’alto
Durante l’intervista di venerdì 20 novembre, alla domanda “il governo dovrebbe rendere obbligatorio il vaccino?”, lei ha risposto “assolutamente no”. Mi trova assolutamente d’accordo. Però sono tornato indietro con la memoria, quando fui intervistato da un giornaletto locale e mi fu chiesto cosa ne pensassi della obbligatorietà delle cinture in auto. Anch’io risposi “assolutamente no”, ma fui contestato per il fatto che l’obbligo “doveva” esserci ché altrimenti la sanità nazionale avrebbe dovuto sopportare tante spese, a carico di tutti, per far fronte alla indisciplina di coloro che avrebbero avuto degli incidenti. Non vede qualche somiglianza fra le due situazioni?
Bruno Castagnoli
Caro Bruno, io sono contrario anche all’obbligatorietà delle cinture di sicurezza: nella mia auto, se non metto in pericolo la vita altrui, vorrei fare quello che mi pare.
M. Trav.
La sindrome del Pd ha un nome: suicidio
In merito all’ennesimo suicidio del Pd che intende aprire a Berlusconi, Travaglio scrive: “il demenziale fenomeno dei vertici Pd che leccano i tacchi a Berlusconi in psicologia si chiama coazione a ripetere” o fissazione patologica. Trattasi di un disturbo che si manifesta negli individui o nei gruppi che subiscono una forte frustrazione. Esiste un rimedio molto efficace per questo grave disturbo che impedisce di affrontare in modo flessibile i problemi della vita e della politica: l’ippoterapia. Forza Zingaretti non perdere questa opportunità. Datti all’ippica.
Maurizio Burattini
La destra ormai emula la mantide religiosa
Ciao Marco Travaglio, per molti anni a seguire il 1961 in Italia non si raccontava niente, non solo della copula tra noi umani, ma neppure quella tra gli insetti. Posso crederci che quella tra gli insetti mantidi l’ho scoperta solo verso il 1980? Sei stato fenomenale ed eruditissimo nel raccontarmi anche che la femmina comincia a mangiarlo dalla testa, così da permettere che gli organi sessuali maschili finiscano di compiere l’atto. È da molto tempo che vedo quello che vuole ancora definirsi sinistra fare il mantide maschio.
Elli Mazzolini
Diritto di replica
Con riferimento all’articolo pubblicato il 20 novembre circa le “Mascherine Exor”, ci permettiamo di segnalare che il signor Massimo Pulin non riveste la carica di Presidente di Confapi Sanità già a far data dal 9 aprile e che questi, viceversa, figura essere il Presidente della ben distinta Confimi Sanità della ben distinta Confederazione datoriale denominata Confimi.
Giuseppe Nigro, Ufficio stampa Confapi
Massimo Pulin era presidente di Confapi Sanità all’epoca dei fatti raccontati nel nostro articolo.
G.B.
Da un 18enne “Io ho ancora fede nella bellezza che salverà il mondo”
Caro “Fatto quotidiano”, sono sempre più tempi bui e difficili; basta guardarsi attorno e la consapevolezza di ritrovarsi in un deserto arido, senza né luce né speranza, diventa vivida e forte. Sarebbe tortuoso andare a capire come e quando la nostra società si sia inoltrata in questo mondo spoglio e triste e, ancor di più, sarebbe inutile cercare i colpevoli. Dobbiamo prendere atto solamente di una cosa: passo dopo passo la bellezza e la cultura svaniscono, pur tentando di resistere come la ginestra leopardiana su questo terreno arido e infecondo. Prende inevitabilmente piede, silenziosa e inosservata, l’ignoranza più pericolosa, che come un virus entra nella società, si radica nel profondo e provoca conseguenze e danni irrimediabili. Non possiamo ancora dire se il punto di non ritorno sia già stato superato. Quel che è certo è che per fondare un mondo nuovo, e migliore, sia necessario partire da un’istituzione trascurata da decenni: la scuola. Non la scuola di oggi, ma una scuola rinnovata, riformata profondamente da persone competenti, capaci e responsabili; una scuola in cui la bellezza e la cultura potranno ritornare al centro, senza basarsi più su parametri futili; una scuola che forma menti nuove, critiche, aperte; una scuola come palestra di vita, educativa e appassionante. Il resto poi verrà da sé.
Un cittadino istruito e critico è capace di scegliere cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Oggi invece l’ignoranza ha appiattito e ridotto il nostro senso critico, ci ha resi inermi e privati di tutte le armi e le potenzialità che possedevamo per cambiare e migliorare. Siamo una società che si accontenta di tutto e non si affligge: l’ingiustizia quotidiana, il politico incompetente di turno, le disuguaglianze, le sofferenze altrui e ciò che è legato alla sfera empatica e sensibile. Stiamo diventando cinici e aridi, corrosi dall’individualismo e dalla più terribile ferocia. Dovremmo trovarci nel secolo del progresso, delle avanguardie, delle sperimentazioni, della più vasta apertura mentale; rimaniamo invece ad affannarci e a dimenarci nella sabbia del deserto arido e non ce ne rendiamo conto.
Uno dei più grandi scrittori russi, Fëdor Dostoevskij, scriveva che solamente la bellezza sarà in grado di salvare il mondo. Bellezza e cultura sono inscindibili, ed è proprio di questo che dobbiamo cibarci in questi tempi bui e difficili: ascoltare buona musica, leggere libri, ammirare un tramonto; solo così potremo salvarci, solo così potremo finalmente, come scriveva il Sommo Poeta, “riveder le stelle”.
Giacomo Casabianca, 18 anni
I partigiani dello skilift per la libertà
Bisogna dare atto alla destra dattilografa e televisiva di avere sempre contrastato la dittatura sanitaria imposta, con la scusa della pandemia, dal bieco governo Conte. Lo scriviamo con qualche apprensione, ma senza sarcasmo, perché ritrovare oggi in quei dibattiti e su quei giornali le stesse considerazioni sul Natale abolito che ascoltavamo e leggevamo cinque mesi fa sul Ferragosto scippato (indimenticabile il balletto della Santanchè per la riapertura delle discoteche) dimostra se non altro una granitica coerenza nella scelta del nemico, costi quel che costi. Costoro, infatti, non potendo negare il virus e le sue tragiche conseguenze, accusano chi ne percepirebbe fraudolentemente i dividendi politici decretando una serie infinita di limitazioni, divieti, segregazioni, condite da abbondante terrorismo psicologico.
Insomma, un terrificante gulag collettivo, espressione di un’odiosa cultura sinistrorsa, edificato dall’avvocato-premier con la fattiva complicità di alcuni utili idioti della virologia. Per cui, sospettiamo, se le stesse misure anticontagio fossero state imposte da un governo a loro affine, probabilmente questi combattenti per la libertà si trasformerebbero nei più fanatici agit-prop della mascherina e del lockdown. Oggi, però, i partigiani dello skilift
hanno finalmente il loro manifesto ideologico, apparso su La Verità, con il titolo: “Chi osa desiderare lo svago è un peccatore”. Ancora più evocativo di torture e Santa Inquisizione il sommario: “Il governo non si limita a negare le vacanze, bensì punta il dito: bramare (sic) un abbraccio o una cena con i propri familiari è da egoisti e da irresponsabili”. Segue adeguato pezzo che spaziando da Savonarola a Susan Sontag affronta e sviluppa la pregna tematica della “malattia come colpa”. Un’altrettanta vivace protesta sale dalle pagine di Libero che denuncia: “Il Belgio ordina i raid contro il Natale in casa”. Leggiamo che il Paese considerato più noioso al mondo, autorizzando le “pattuglie di agenti a fare irruzioni nei luoghi dove si festeggia”, si segnala come un luna park della repressione e del raccapriccio. Denuncia infatti lo scioccato estensore che “solo in Corea del Nord e in qualche territorio governato da fondamentalisti islamici, finora, si finiva dietro le sbarre per aver celebrato la Natività”. Devo confessare che pur non bramando particolarmente abbracci e cenoni, un certo spirito libertino tende ad allontanarmi dai predicozzi iettatori delle fate turchine. Per cui, dovendo scegliere, m’imbarcherei volentieri con Lucignolo per un bianco Paese dei Balocchi, attrezzato per gli sport invernali. Sapendo che, purtroppo, ci toccherebbe prima una sosta nel villaggio degli Acchiappacitrulli.
No, il dibattito no Gualtieri va da solo in commissione
Per ora la maggioranza butta la palla in avanti: sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) non si dovrà dibattere, né votare nelle aule parlamentari ma solo nelle commissioni competenti (presumibilmente Finanze e Affari Ue). Il centrodestra ha provato il colpo in Senato per far emergere le contraddizioni giallorosa, ma non ci è riuscito: la richiesta di Forza Italia di far riferire il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri nell’aula di Palazzo Madama è stata bocciata dalla stessa aula. In vista dell’Eurogruppo del 30 novembre il dibattito si terrà nelle meno esposte commissioni di merito: niente imbarazzo, niente blitz per votare mozioni o simili che avrebbero potuto spaccare Pd (favorevole alla riforma) e M5S (contrario), tutto rinviato di circa un mese. Il 9 dicembre, infatti, in Parlamento arriverà Giuseppe Conte per parlare della linea italiana al Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre e lì sì che si potrà votare: non sulla riforma del Mes, però, che sarà probabilmente all’ordine del giorno del vertice dei capi di Stato e di governo dell’Ue della fine di gennaio e ignorata dalla risoluzione di maggioranza. Il governo ha dunque quasi due mesi di tempo su un tema che può scatenare una crisi probabilmente fatale alla maggioranza giallorosa: anche se fossero pochi i grillini a dichiararsi contrari al vecchio fondo Salva-Stati sarebbero comunque sufficienti a mandare in minoranza l’esecutivo. Intanto ieri il premier è tornato ad allontanare lo spettro se non altro della linea pandemica del Mes richiesta dal ministro della Salute Roberto Speranza (“uno strumento a cui bisogna guardare con assoluta serenità”): “C’è un piano di rafforzamento della sanità e faremo in modo che le risorse siano adeguate: il problema non è nello strumento per finanziarlo, ma nelle risorse”.