Il Tesoro sfrutti la Bce per un grande piano di assunzioni nella Pa

La surreale discussione sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), la sua riforma e i suoi 37 miliardi di prestiti “sanitari” non solo lasciano all’Italia il triste primato di unico Paese d’Europa che litiga sul tema: distraggono milioni di persone dal vero dibattito in corso sulle sfide future. La nuova normalità non potrà essere affrontata con idee e strumenti antiquati. Secondo il Fmi, la disoccupazione raddoppierà e la crescita globale sarà inferiore del 6,5% rispetto al periodo pre-virus. La ferita può lasciare cicatrici perenni.

Su Project Syndicate, l’ex premier laburista Gordon Brown e il grande economista keynesiano Robert Skildesky hanno lanciato un appello affinché la Gran Bretagna mantenga un grande stimolo fiscale per evitare di bruciare un decennio – e una generazione – di crescita. C’è un solo modo, spiegano, per farlo: coordinare l’attività della Banca centrale con quella del ministero dell’Economia. Non come soluzione temporanea, ma anche in futuro per far fronte all’alta disoccupazione che ci sarà.

Com’è noto, i trattati europei vietano il finanziamento monetario del deficit, ma chi pensa che sia fantascienza ignora che esso si sta già realizzando. Per fronteggiare la crisi, l’Italia ha varato uno scostamento di bilancio di 100 miliardi. Da febbraio a fine agosto il debito pubblico è salito di 134 miliardi, l’80% del quale è stato però assorbito dalla Banca d’Italia, come risultato dei programmi acquisto della Bce lanciati prima (PSPP) e dopo la pandemia (PEPP) per evitare l’esplosione degli spread. Bankitalia restituirà al Tesoro i proventi dal rendimento dei titoli stessi (al netto di alcuni costi finanziari). L’Eurosistema (Bce e banche centrali nazionali) ha acquistato finora 143 miliardi di titoli pubblici italiani. I tassi d’interesse offerti sulle nuove emissioni decennali, che a marzo avevano sfiorato il 3%, oggi si attestano al di sotto dello 0,6%. La quota del debito in mano alla Banca d’Italia è passata dal 5% del 2015 al 20% di oggi. Il costo complessivo del debito sta scendendo grazie al calo dei tassi delle nuove emissioni: oggi è al 3,4% rispetto al 5,2% del 2012, un risparmio annuo di 24 miliardi. Calerà ancora: è previsto che la Bce annunci un aumento degli acquisti a dicembre. Quando i pasdaran del Mes magnificano i 300 milioni di “risparmi” presunti su crediti iper-vincolati di un’istituzione pensata per prestare soldi a Paesi insolventi, fingono di non vedere che la realtà lo ha archiviato.

La Gran Bretagna è fuori dall’eurozona, ma la sua Banca centrale è, come la Bce, ancorata al solo mandato di contenere l’inflazione, non di combattere la disoccupazione. “La creazione di posti di lavoro – spiegano Brown e Skidelsky – deve diventare la priorità assoluta”. L’idea è che la politica fiscale deve mirare a sostituire “l’esercito di riserva dei disoccupati” di Karl Marx con una riserva di posti di lavoro creati dallo Stato (specie per i giovani) e programmi di formazione che si espandono o contraggono a seconda del ciclo economico. Una cosa simile serviva farla già prima del Covid. La Pubblica amministrazione italiana ha perso 200mila lavoratori negli ultimi 10 anni e con oltre 54 anni di età media è la più vecchia d’Europa. La cosa non è indolore come si è visto negli ospedali e nelle scuole. Il Forum Disugualianze, insieme ad altre associazioni, ha chiesto ieri alla Camera di sfruttare l’occasione di un grande piano di assunzioni nella Pa.

Il quasi finanziamento monetario del disavanzo fino a raggiungere i livelli di domanda da piena occupazione dovrà essere la nuova normale conduzione della politica macroeconomica. Non ha più senso ragionare in una pura logica ragionieristica: la timidezza con cui il Tesoro affronta i necessari scostamenti di bilancio o l’obiettivo rigido di riduzione del deficit previsto in manovra. La sfida è cambiare questa impostazione e battersi affinché prevalga anche quando ci sarà da reintrodurre un coordinamento fiscale tra gli Stati dell’euro. Il governo dovrebbe guardare con interesse al dibattito internazionale nell’impostare la politica di bilancio dei prossimi anni. Altro che Mes.

La riforma del Mes: una pessima vecchia idea

Quando il Meccanismo europeo di stabilità, il famigerato Mes, sembrava nei fatti solo un pessimo ricordo del passato, eccolo che resuscita. E non solo e non tanto perché continua la litania di quanti, nonostante nessun altro lo abbia fatto, chiede che l’Italia acceda ai prestiti della linea pandemica (ieri il ministro Roberto Speranza), quanto per la cosiddetta “riforma del Mes”, tema caldo della politica italiana nel 2019, che ora torna improvvisamente al centro dell’agenda. La cosa più incredibile è che – impantanato il Recovery Fund, lontano anni luce un bilancio comune, in mente Dei la riforma del Patto di Stabilità e finalmente in campo la Bce – il ministro dell’Economia si appresti a dire di sì all’Eurogruppo del 30 novembre (la firma sul nuovo Trattato dovrebbe invece metterla Giuseppe Conte al Consiglio europeo del 27 gennaio).

Questa accelerazione avviene proprio mentre un bastione europeista come l’Istituto Jacques Delors propone ufficialmente di smontare il vecchio fondo “salva-Stati” e portare la sua capacità di intervento sotto l’egida della Commissione europea. Una scelta, quella che il governo si appresta a fare (appoggiata da Pd e renziani e invisa a larga parte del M5S) peraltro strategicamente naïf: l’Italia approverebbe una riforma cara al blocco dei Paesi del Nord (e quanto a noi “non significativa né nel bene, né nel male” secondo lo stesso Gualtieri) senza prima aver ottenuto alcunché sulla riforma del Patto di Stabilità, il bilancio comune, un’unione bancaria non penalizzante, la mutualizzazione dei rischi (eurobond). Cerchiamo di riassumere di cosa si parla.

Cos’è. Il Mes – organo tecnico con 160 dipendenti, legibus soluto e politicamente irresponsabile – è l’ente a solida guida tedesca chiamato a intervenire quando un Paese europeo non è più in grado di accedere ai mercati per finanziarsi: concede prestiti onerosi, detti a volte pudicamente “aiuti”, in cambio di programmi di aggiustamento macroeconomico che dovrebbero servire a ripagarli. In sostanza ripropone, in piccolo e in un continente ricco, l’armamentario mefitico che il Fondo monetario internazionale usa per i Paesi poveri: il fatto che non abbia funzionato pressoché mai non pare un ostacolo a questo andazzo.

Cosa cambia/1. Se passasse il nuovo Trattato, il Mes sarà abilitato a concedere prestiti precauzionali a Paesi colpiti da choc esogeni il cui debito è “sostenibile” (a parere del Mes, sentita la Commissione Ue) che rispettino i requisiti del Patto di Stabilità (deficit, debito, etc) e altri a chi non lo rispetta in cambio della sottoscrizione di un Memorandum of understanding (cfr. Troika). La novità sostanziale è la prima linea di credito e vedremo perché è importante.

Cosa cambia/2. Siccome l’assistenza finanziaria può essere concessa solo dietro pagella positiva sulla sostenibilità del debito (non basata su parametri automatici, com’era stato proposto, ma comunque oscuri e discrezionali), l’intervento del Mes può essere condizionato a una ristrutturazione parziale del debito: un default. A questo fine vengono introdotte le cosiddette Cac single-limb, cioè – senza entrare troppo nei tecnicismi – clausole che consentono proprio una gestione più facile del default coi creditori. Questo in accordo con “l’adeguata e proporzionale forma di coinvolgimento del settore privato in accordo con le pratiche del Fmi” predicata fin dai preamboli del nuovo Trattato.

I rischi/1. Gli addetti ai lavori, anche insospettabili, ne hanno sottolineati in sostanza due (anche se la loro voce s’è ormai affievolita fino a venire a mancare senza che la riforma abbia subito alcuna modifica di sostanza dall’estate 2019). Il primo rischio è questo. Mentre nei fatti si indica la strada della ristrutturazione a chi è in difficoltà, si concede una linea di credito a chi ha i conti in ordine: si tratta, disse in audizione parlamentare a settembre Giampaolo Galli dell’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, di “una rete di sicurezza per evitare il contagio rispetto al Paese costretto a ristrutturare”. Una cortina di ferro finanziaria che lascerà poca capacità negoziale a Stati già col cappello in mano.

I rischi/2. Banche o cittadini italiani detengono circa i due terzi del debito circolante, un default si scaricherebbe soprattutto su di loro: “Sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori” (sempre Galli prima della conversione). Quello che segue è invece il governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel novembre scorso: “I piccoli e incerti benefici di un meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l’enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena. Dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato nella risoluzione della crisi greca a Deauville” (il riferimento è alle parole con cui Sarkozy e Merkel nel 2010 condannarono Atene a una crisi infinita). Tre settimane dopo, Visco ci ripensò, disse che stava citando uno studio di un anno prima e che invece nel frattempo s’era stabilito che la ristrutturazione del debito non era affidata a parametri fissi, solo una svista: non si sa se sia peggio la pezza o il buco.

Backstop. La riforma assegna al Mes un nuovo compito e cioè la possibilità di fungere da backstop, cioè di supporto, del Fondo di Risoluzione Unico. Insomma ci saranno fino a 70 miliardi destinati a salvare le banche europee in difficoltà.

La “logica di pacchetto”. È la formuletta con cui il governo Conte-2 ha tentato di portare avanti la riforma del Mes: secondo una risoluzione approvata in Parlamento, il nuovo fondo salva-Stati dovrebbe andare avanti di pari passo con il completamento dell’unione bancaria attraverso una garanzia comune sui depositi (Edis, nell’acronimo inglese) e un nucleo di bilancio comune dell’Eurozona (il cosiddetto Bicc). L’ardita tesi che Gualtieri tenta di vendersi è che in realtà abbiamo già tutto: il bilancio comune è il Recovery Fund, l’Edis è lo stesso Mes, gli eurobond il Recovery e Sure. Che siano, se andrà tutto bene, provvedimenti temporanei non pare rilevi per il ministro.

Open, per Matteo l’esempio è la Lega

L’obiettivo è chiaro: spostare l’inchiesta sulla fondazione Open, dove Matteo Renzi è indagato con Luca Lotti e Maria Elena Boschi e l’avvocato Alberto Bianchi per concorso in finanziamento illecito, da Firenze ad altre procure d’Italia. Roma, Velletri o, in ultima sede, Pistoia.

A costo di citare, come “precedente” giuridico, un’altra inchiesta che riguarda un partito acerrimo nemico del leader di Italia Viva: la Lega. Sembrerebbe un paradosso ma quando si tratta del diritto penale le divergenze politiche scompaiono.

E allora succede che nell’istanza di trasferimento per “incompetenza territoriale” presentata martedì dai legali di Renzi, gli avvocati Federico Bagattini e Giandomenico Caiazza, ai pm di Firenze si chiede di passare il fascicolo a un’altra procura perché la competenza sarebbe “radicata nel luogo in cui ha sede la società che ha effettuato l’erogazione”. E per sostenere questa tesi gli avvocati di Renzi fanno leva sull’inchiesta della Procura di Milano in cui è finito a processo il tesoriere del Carroccio Giulio Centemero, accusato di finanziamento illecito.

L’indagine milanese riguarda un’erogazione da 40 mila euro che la Esselunga, catena di supermercati della famiglia Caprotti, ha fatto alla “Più Voci”, associazione che i magistrati considerano “articolazione politico-organizzativa” della Lega. Secondo le accuse quel denaro non sarebbe rimasto alla onlus, ma sarebbe stato triangolato per dare ossigeno alle casse di Radio Padania. A L’Espresso – che per primo parlò di questa erogazione – la catena di supermercati aveva spiegato che quella somma era “stata destinata a Radio Padania nell’ambito della pianificazione legata agli investimenti pubblicitari su oltre 70 radio”.

Così è in base a questo precedente che gli avvocati di Renzi hanno chiesto di trasferire il fascicolo sulla Fondazione Open: come nel caso di “Più Voci” l’inchiesta era passata a Milano perché il bilancio di Esselunga è depositato nel capoluogo lombardo, allo stesso modo i legali dell’ex premier chiedono il trasferimento da Firenze a Roma o Velletri.

Perché? Perché, sostengono i legali, è nella Capitale che ha approvato il bilancio la “British American Tobacco” che il 13 novembre 2014 aveva erogato a Open un contributo da 25 mila euro. La “Promidis” (che aveva versato altri 25 mila euro) invece ha sede a Pomezia e quindi, secondo i legali, in secondo luogo l’inchiesta va trasferita a Velletri. Nessun rappresentante delle due società risulta indagato. L’obiettivo sembra quindi quello di far spacchettare l’indagine.

Inoltre, nell’istanza gli avvocati sostengono infine anche che debbano indagare i pm di Roma perché è qui che ha sede il Partito democratico – di cui Open è considerata “l’articolazione politica” – o infine Pistoia dove la fondazione ha la sede legale. Il tutto per allontanare l’inchiesta da Firenze, la città che ha regalato a Renzi molte gioie ma anche molti dolori.

Regeni, il buco di sei giorni nella ricostruzione di Renzi

Ricostruendo i drammatici giorni della scomparsa di Giulio Regeni, l’ex ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, lo dice chiaramente: “Di tutte queste azioni (parla di fatti avvenuti tra il 25 e il 27 gennaio 2016, ndr) dello stato della situazione, ho tenuto costantemente informate le nostre autorità a Roma, in particolare la Farnesina e la Presidenza del Consiglio”. Eppure Matteo Renzi – che mentre scoppia il caso è premier – martedì durante la sua audizione alla Commissione d’inchiesta Regeni ha sostenuto di non aver saputo nulla fino al 31 gennaio di quell’anno. Sei giorni nei quali Massari si attivava, parlava con ministri egiziani e andava pure a depositare una denuncia. “Se avessimo saputo prima del 31 gennaio, avremmo potuto agire prima sicuramente”, ha detto Renzi.

Un’affermazione talmente abnorme che la Farnesina ha diramato una nota per smentirlo, sia pure in maniera implicita: “La Farnesina precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio il 25 gennaio 2016. Il ministero degli Esteri ricorda inoltre che tutti i passi svolti con le più alte Autorità egiziane sono stati ampiamente documentati e resi noti alle Istituzioni competenti a Roma dall’Ambasciatore Massari nelle sue funzioni di Ambasciatore d’Italia al Cairo”. La domanda quindi è: possibile che con tutti i funzionari informati, tra Farnesina e Palazzo Chigi, oltre ai servizi segreti, nessuno abbia detto nulla a Renzi (come lui peraltro sostiene)?

Fonti vicine al dossier, sentite dal Fatto, spiegano che già il 25 gennaio, quando viene a sapere della scomparsa di Regeni, Massari attiva i canali d’informazione interni alla sede diplomatica. Nello specifico, il “responsabile dell’intelligence (Aise) e del ministero dell’Interno presenti in ambasciata”. Ma informa direttamente anche la Farnesina e la Presidenza del Consiglio. Magari non direttamente il premier, ma di certo il suo consigliere diplomatico, Armando Varricchio (oggi ambasciatore negli Usa).

Cosa sia avvenuto in quei giorni lo ha ricostruito Massari in Commissione: viene informato il 25 gennaio della scomparsa di Regeni “con una telefonata alle 23.21 del professor Gennaro Gervasio, professore di economia presso l’Università britannica del Cairo, con il quale Giulio aveva appuntamento quella sera stessa”. Il giorno dopo, il 26, Massari interessa ufficialmente della questione, tramite una nota formale, il ministero degli esteri egiziano e pure il ministro di Stato egiziano per la produzione militare Mohamed El-Assar. Nella notte tra il 26 e il 27 proprio su disposizione di Massari un funzionario dell’ambasciata si reca presso il commissariato di polizia di Dokki per sporgere formale querela. Il 27 vengono informati i genitori di Regeni che arriveranno al Cairo tre giorni dopo. Nel frattempo le autorità interpellate da Massari escludono che Regeni fosse stato fermato o arrestato e ribadiscono di non avere alcuna notizia. Tutti passaggi sui quali l’allora Ambasciatore al Cairo sostiene di aver informato costantemente Farnesina e Presidenza del Consiglio.

Gentiloni invece viene informato il 26: “Io fui informato dalle strutture della Farnesina il 26 gennaio”, dice l’allora ministro degli Esteri in commissione Regeni il 3 settembre scorso. E solo il 2 febbraio Massari viene ricevuto dal ministro dell’Inter Ghaffar. E forse è troppo tardi: l’esame autoptico ha dimostrato le torture subite da Regeni ma anche il fatto che il giovane probabilmente fosse morto il primo febbraio.

Tutto questo senza che Renzi fosse informato neanche dal suo ministro degli Esteri? Nessuno dei personaggi direttamente coinvolti all’epoca dei fatti vuole o può tornare su quei giorni. Dallo stesso Gentiloni in giù. Ma c’è un altro passaggio dell’audizione in cui l’ex premier è quanto meno confuso: “Dicemmo alla Guidi (allora ministro dello Sviluppo economico, ndr) il 31 gennaio: ‘Vai da Al Sisi’”. In realtà la missione in Egitto della titolare del Mise era prevista da tempo. Durante l’audizione, più volte il presidente della Commissione, Erasmo Palazzotto, mostra insofferenza. “Renzi è venuto a fare un comizio, ha confuso le date, non si era preparato”, commenta poi. Possibile che sia stata solo una gaffe? O forse la gaffe è stata funzionale a cercare di scaricare le responsabilità?

Prove d’inciucio: i dem e Iv graziano Gasparri e Bernini

Il patto c’è, ma non si dice. Anche se la maggioranza paga già pegno a Silvio Berlusconi, pronto ad assicurare una navigazione sicura alla legislatura in corso, a quanto pare non proprio gratis. Prima l’emendamento salva Mediaset. Ieri, poi, alla vigilia del voto sullo scostamento di bilancio al Senato, in cui sarà fondamentale anche l’apporto di una parte dell’opposizione, la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha graziato due senatori di Forza Italia di primissimo peso. Maurizio Gasparri e Anna Maria Bernini, quest’ultima per le sue invettive contro un magistrato con cui Berlusconi ha un conto aperto: Antonio Esposito, quello che in Cassazione confermò la condanna a 4 anni all’ex Cav. “Nemmeno ci sarebbe stato bisogno dell’aiutino di Pd e Italia Viva, dato che in Giunta l’opposizione ha già la maggioranza. È evidente che hanno proprio voluto dare un segnale a Berlusconi”, denuncia Mattia Crucioli dei 5Stelle, unici a votare no all’insindacabilità per i due azzurri graziati dalla Giunta, di cui peraltro Gasparri è presidente. E che nelle ultime due settimane, mentre l’abboccamento tra maggioranza e Berlusconi si faceva più insistente, ha preteso che lo stesso organismo arrivasse a un allargamento delle maglie dell’immunità di cui egli stesso ora beneficia.

La denuncia di Rosanna Calzolari, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Milano che l’azzurro aveva strapazzato sui social, non gli costerà neppure una tirata d’orecchi: la Giunta ha riconosciuto il “nesso funzionale” tra il suo tweet al vetriolo (“Cosa aspetta il Csm per radiarla dalla magistratura? Chiedo pubblicamente che la cacci su due piedi”) e la sua attività di parlamentare. Pure a costo di buttare alle ortiche la giurisprudenza costante della Consulta, assai meno di manica larga sull’insindacabilità da riconoscere agli eletti: la prerogativa può essere accordata solo se c’è corrispondenza sostanziale tra le opinioni espresse dentro e fuori le aule parlamentari, mentre Gasparri solo dopo aver perso la frizione sul web si era poi peritato di depositare un’interrogazione e ovviamente di tenore ben diverso.

Stesso spartito quello adottato dalla Giunta con Anna Maria Bernini, che aveva messo sulla graticola il giudice Antonio Esposito, finito al centro di una campagna di stampa finalizzata, secondo quanto ha denunciato, a gettare discredito sulla sentenza adottata nel 2013 dal collegio di Cassazione che presiedeva e che aveva definitivamente condannato Berlusconi per frode fiscale. La capogruppo degli azzurri, ospite in tv di Nicola Porro, aveva usato il tirapugni mettendo in discussione la terzietà del magistrato con parole durissime: “Quello che la sinistra non è riuscita a fare per 24 anni, cioè battere Berlusconi, lo si è fatto per mano magistratuale, questa è la vergogna, questo è lo sconcio che noi dobbiamo raccontare con una commissione d’inchiesta”. La Giunta nel suo caso ha riconosciuto pienamente e convintamente il nesso funzionale che le garantiscono lo scudo contro la denuncia del magistrato che insieme al suo collega Claudio D’Isa si era sentito diffamato dalle sue parole e da quelle degli altri ospiti della trasmissione Quarta Repubblica: Bernini – è l’argomento avallato dai commissari dell’organismo – da sempre ha difeso l’ex Cav. a spada tratta depositando anche una proposta di legge volta all’istituzione di una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia. Vittoria insomma su tutti i fronti, con l’avallo di Pd e renziani, che equivale a una medaglia al valore per B. che tutti (o quasi) ora vogliono riabilitare.

“Io e Bassolino sfidiamo il Pd, ma a Sandra dico: vai da Conte”

Clemente Mastella prepara l’ennesima battaglia. Si ricandida a sindaco di Benevento in solitudine: il Pd, pronto a sposare l’alleanza con i Cinque Stelle in Campania, non vuole sostenerlo. Mastella non si scoraggia, è carico a pallettoni: sfida i dem, annuncia loro sventure locali e nazionali, promette di sabotare ogni accordo con i grillini a Napoli. Piuttosto che far vincere un Fico qualsiasi, dice, è pronto ad allearsi con l’altro grande vecchio della politica campana, Antonio Bassolino.

L’altra metà del cielo su Ceppaloni – il feudo sannita dei Mastellas – è la moglie Sandra Lonardo. Lei è a Roma. Meno irruente del marito, fiuta l’aria in Parlamento. Eletta con Forza Italia, è diventata una sostenitrice convinta del governo Conte. Insieme a una sporca decina di senatori del Misto – ex forzisti ed ex grillini – si dice voglia far nascere un gruppo parlamentare autonomo per sostenere il premier a Palazzo Madama, dove la maggioranza balla sempre. Lonardo smentisce il retroscena in modo non proprio categorico: “Non ho incontrato Conte, non ho chiesto nulla. Ma è chiaro che se nasce qualcosa di nuovo in Parlamento, qualcosa di concreto e migliorativo, io sono qui. C’è questo sentore, questa necessità, questa voglia”.

È l’eterna pastorale mastelliana. Clemente e Sandra sono due certezze assolute nelle mutevoli vicende della politica nazionale. Loro sono sempre lì. Nel mezzo.

Nel pomeriggio Mastella si concede volentieri per una chiacchierata sulle sue campagne belliche. E conferma: “Io a Napoli vado con Bassolino, così quegli altri vedono”. Ma come con Bassolino? “Certo: mica il Pd napoletano può decidere di fare alleanze coi Cinque Stelle e pretendere che stiamo tutti a dargli retta”. La foga tradisce il malanimo dell’amante tradito. In questa fase Mastella aveva sposato provvisoriamente il campo del centrosinistra, ma il Pd ha deciso di ostacolare il suo secondo mandato a Benevento. E questo è intollerabile. “Guardi che non è mica una ripicca, è un’alleanza”, sottolinea. Ma presto si smentisce: “Mi tolgo uno sfizio, tutto qui. Perché mai dovrei andare con Pinco Pallo e non con Bassolino. I Cinque Stelle mettono solo veti, sono contro Bassolino, contro De Luca, contro Mastella. Sono singolari”.

L’idea di Roberto Fico sindaco sembra provocargli un’ulcera: “Le ricordo un fatto. Quando De Magistris vinse le elezioni a Napoli, quasi 10 anni fa, mi candidai a sindaco anche io. Lo feci per una questione personale, per uscire dalla palude nella quale mi aveva precipitato la magistratura. Non avevo alcuna velleità di vittoria, presi il 2%. A quelle elezioni si presentò anche un certo Fico, raccolse l’1,3%. Io a Napoli non contavo nulla, ma prendevo il doppio di lui”.

L’amarezza di Mastella si trascina dal locale al nazionale: “L’alleanza Pd-Cinque Stelle non ha senso, farà male a entrambi. Guardi pure il governo, ha perso slancio, non decide più nulla, sopravvive solo grazie alla paura del voto e alla paura del Covid”.

E qui, in teoria, l’armonia di casa Mastella si dovrebbe incrinare. Ma come, Clemente demolisce il governo Conte mentre Sandra si prepara a sostenerlo con un nuovo gruppo politico al Senato? Mastella non si scompone, anzi si lascia sfuggire una mezza frase: “Ma no, avevo chiesto io a Sandra di valutare questa ipotesi…”, poi se la rimangia. “Lei non ha mai conosciuto Conte, è stata contattata da alcuni senatori, le hanno chiesto di far nascere un gruppo di appoggio al premier. Ma non è successo nulla, per mia esperienza le novità che nascono in Parlamento funzionano solo se hanno radici solide nelle realtà locali. E non è questo il caso”.

Sandra Lonardo, da Roma, conferma: “Non sono entrata in nessun nuovo gruppo, sono nel Misto da luglio. Continuo a sostenere il governo in ogni votazione, perché andare alle elezioni in questo momento storico sarebbe una follia. Non ho incontrato Conte, ma se nascesse qualcosa di nuovo e ci fosse un modo per dare un contributo ed essere protagonisti… sarebbe interessante”.

Clemente e Sandra non sono né contiani, né bassoliniani: sono mastelliani. La collocazione la spiega lui: “Dove ci sta Salvini, non ci stiamo noi”. È un’altra mezza contraddizione: la sua sfida con Bassolino al Pd può far vincere la destra a Napoli. “Temo di sì. Ma a Benevento vinco io. Non è vanità, ho una certa esperienza”.

Il pensionato in corsia: “Ho visto i miei colleghi in faccia e sono tornato”

Sono anestesisti, internisti, infettivologi, pneumologi. Dall’inizio della pandemia hanno risposto in quasi 21.700 ai bandi della Protezione civile in cerca di sanitari da destinare agli ospedali sotto organico, e sottoposti a una fortissima pressione, o alle unità preposte al tracciamento dei contatti. Tra di loro anche tanti pensionati. Medici che dopo aver appeso il camice hanno deciso di rientrare in servizio per aiutare i colleghi. In 543 solo all’ultimo appello del 20 novembre, su un totale di 3.657 candidature. Prima ancora, in Campania, su 160 medici che avevano presentato domanda, ben 76 avevano già lasciato gli ospedali ma erano pronti a riprendere l’attività.

Proprio come Marco Chiarello, 65 anni, per vent’anni primario del reparto di Anestesia e rianimazione dell’ospedale marchigiano di Camerino-San Severino, in provincia di Macerata. Uno che sa bene come l’anestesista-rianimatore “sia l’ultimo baluardo di speranza per un paziente che sta rischiando la morte, lo specialista che entra in gioco quando gli altri non sanno più che fare. E allora ci metti tutto l’impegno che puoi per salvarlo”. Uno al quale non è mai fregato nulla della narrazione collettiva che, in primavera, aveva fatto di tutti gli operatori sanitari, medici e infermieri, degli eroi, degli angeli: “Ci hanno targato così, allora, con frasi del tutto inutili. Noi abbiamo sempre fatto il nostro lavoro. Chiedendo solo che venissero ascoltate le nostre richieste, chiedendo alla Regione e al governo di passare dalle parole ai fatti”.

Chiarello, che è di Tolentino, sempre nel Maceratese, ha affrontato, da medico in pensione rientrato in corsia, tutte e due le ondate epidemiche. Ha lasciato il servizio il primo febbraio, è tornato il 23 marzo. E non è stata una scelta facile. “Ma ho guardato in faccia i colleghi in servizio – ricorda –. Erano mortalmente stanchi, molto provati, non riuscivano più a reggere turni massacranti. Per questo mi sono deciso, anche se non è semplice a 65 anni correre come un disperato quando c’è un paziente che sta rischiando di morire”. La stessa scelta l’hanno fatta nelle Marche altri 14 anestesisti su 30 di quelli già andati in pensione. Così fino al 31 luglio, quando l’epidemia è sembrata essere ai più solo un bruttissimo ricordo. “Sono tornato a casa e mi cascavano le braccia – dice – a vedere le persone che si accalcavano come se niente fosse successo. Tutti quegli assembramenti, le discoteche piene…”.

Con la seconda ondata di nuovo il rientro, con un contratto dall’1 novembre fino al prossimo aprile. “E a quel punto non potevamo fare altro che ricordare a tutti: noi ve l’avevamo detto”, spiega Chiarello, che è anche presidente regionale di Aaroi-Emac, sindacato degli anestesisti. “C’è voluto il virus per aprire gli occhi a una classe politica alla quale da dieci anni dicevamo che bisognava aumentare le borse di studio per gli specializzandi, che la sanità è stata saccheggiata dai tagli iniziati con l’aziendalizzazione. Perché non basta avere i respiratori, servono anche i medici e gli infermieri che li fanno funzionare. E senza il personale i posti letto non si attivano”.

Chiarello, in realtà, è uno che in pensione avrebbe voluto starci ma non ce l’ha fatta. “A chi pensa che adesso facciamo del terrorismo psicologico dico: venite a vedere un reparto di rianimazione, venite a parlare con i parenti di chi muore. I negazionisti? Non rientra nell’ambito della mia sfera mentale dialogare con loro”.

Vaccini: stop alla malattia, ma il virus circolerà ancora

La Commissione Ue ha annunciato l’accordo con Moderna, la company di Cambridge (Massachuttes) che si prepara a presentare alla Fda Usa i risultati del suo studio di fase 3 sul vaccino contro il Covid-19. È il sesto dopo i contratti, tutti segreti, firmati con AstraZeneca, Sanofi-Gsk, Pfizer-BioNTech, Johnson & Johnson e CureVac. Moderna dichiara il 95% di efficacia nella gara degli annunci cominciata con il 90% di Pfizer/Biontech e passata per il 70/90% di AstraZeneca/Oxford. Però chiede cautela. “Bisogna stare attenti a non sopravvalutare i risultati – ha detto Tal Zaks, direttore medico di Moderna al sito Axios –. Quando inizieremo la distribuzione di questo vaccino, non avremo dati concreti sufficienti per dimostrare che questo vaccino riduce la trasmissione. In assenza di prove, penso sia importante non modificare i comportamenti solo sulla base della vaccinazione”.

Insomma, mascherine e distanziamento non finiranno con il vaccino, non subito almeno. L’ha detto chiaramente Ilaria Capua, direttore del One Health Center of Excellence for Research and Training dell’università della Florida, l’altro ieri sera a Di Martedì su La7: “Se lei, Giovanni Floris, si vaccina contro il Covid, non si ammala. Ma può infettarsi e trasmettere quell’infezione”. Le abbiamo chiesto di spiegarcelo meglio: “L’infezione è una cosa e la malattia un’altra. Il virus quando infetta una persona si replica nelle prime vie respiratorie, per esempio dieci particelle virali possono diventare molte centinaia o migliaia. Il vaccino impedisce che entrino nel sangue diventando 100 mila o un milione. La persona non si ammala ma il virus c’è, quindi può trasmetterlo. Così sarà fino al raggiungimento dell’immunità di gregge (il 60/70% di popolazione vaccinata secondo il ministero della Salute, ndr). È un problema di molti vaccini, pochissimi danno immunità sterile”.

Non la vede esattamente allo stesso modo Giuseppe Pontrelli, epidemiologo, ex Istituto superiore di Sanità: “Un vaccino previene l’infezione, la malattia, o più frequentemente entrambe le cose. I protocolli sperimentali dei vaccini anti-Covid in studio hanno come obiettivo primario la prevenzione della malattia, cioè per prima cosa si sono contati i casi con malattia da Covid 19 tra i volontari che avevano ricevuto il vaccino o il placebo, in gran parte polmonite. Non sono stati ancora comunicati – osserva Pontrelli – i dati sugli obiettivi secondari, quali la prevenzione dell’infezione, andando quindi a contare anche i pazienti infetti e asintomatici, in grado di propagare l’infezione. È dunque necessario rendere al più presto disponibili tutti i dati, anche alla comunità scientifica”.

L’Europa a cinque del virus Il contagio rallenta ovunque

Chi ha chiuso prima e chi dopo, chi più e chi meno, chi ha avuto più contagi e chi più decessi. Ma al di là dei numeri, la “vecchia Europa” ha dovuto fare con la seconda ondata del Covid gli stessi conti. Un po’ dappertutto, adesso, cominciano a raccogliersi i frutti delle restrizioni.
Francia.A metà settembre si contano già 10-15 mila nuovi contagi al giorno, ma l’epidemia è ufficialmente “sotto controllo”. Poi, il 27, Marsiglia diventa zona di “allerta massima”, seguita a ruota da Parigi e altre città. Quindi, il 12 ottobre, con più di 40 mila casi al giorno, il premier Castex conferma: “La seconda ondata è iniziata ed è forte”. Il 23 in tre quarti del Paese entra in vigore il coprifuoco dalle 21 alle 6, quando ormai la Francia è il paese più contagiato d’Europa (record il 25 ottobre con 52 mila nuovi casi, oltre 2 milioni in tutto). Il nuovo lockdown scatta il 30 ottobre tranne che per scuole e fabbriche, fino al picco dell’epidemia raggiunto nella settimana del 9-15 novembre. Da allora l’epidemia rallenta. L’indice Rt è sceso sotto l’1. Ieri meno di 10 mila contagi, ma la soglia dei 50 mila morti di Covid è superata. Da sabato riaprono tutti i negozi, la fine del lockdown è prevista per il 15 dicembre. Musei, teatri e cinema potranno riaprire, mentre bar e ristoranti dovranno aspettare il 20 gennaio.

Germania. Qui la curva dei contagi non è ancora ufficialmente invertita, ma c’è una stabilizzazione intorno ai 20.000 nuovi casi al giorno da 10 giorni, ancora troppo alta per il governo di Berlino. Il picco massimo 5 giorni fa con 23.648 casi. La seconda ondata comincia il 2 ottobre (2.600 casi). Poco dopo, il 7, scattano le prime misure di contenimento: divieto di pernottamento fuori dalla propria regione, in caso di provenienza da zone a rischio (sopra i 50 nuovi casi ogni 100.000 abitanti alla settimana). Ma il vero lockdown parziale scattato il 2 novembre, intorno a quota 15.000 nuovi contagi. Un lockdown del tempo libero: bar e ristoranti chiusi. Musei, teatri, cinema, sale concerto sbarrati. Palestre, piscine e parchi di divertimento serrati, così come impianti sciistici e attività sportive all’aperto. E poi divieto di incontrarsi in più di due nuclei familiari a casa. Unica boa difesa da Merkel: scuole e asili aperti. Ieri i casi erano scesi a 18.633 su un totale di 961.320 infezioni e 14.771 morti dall’inizio della pandemia (ieri il record di decessi: 410). Ma sono previste nuove misure dal primo dicembre.
Spagna. Nelle ultime settimane la curva dei contagi di Covid è scesa costantemente dal picco delle 25 mila infezioni quotidiane raggiunto ai primi di novembre alle 10 mila di ieri, con una percentuale dell’8.3% di casi ogni 100 mila abitanti. Miglioramento particolare si è registrato nella regione della Capitale, in testa ai contagi fin dalla prima ondata di coronavirus. A influire sono state le ultime decisioni del governo del 25 ottobre, come il coprifuoco – nella maggior parte delle regioni – imposto dalle 24 alle 6 del mattino – e i mini-lockdown per i quartieri e i municipi a rischio. Sono rimasti aperti bar, ristoranti e negozi, ma con restrizioni orarie. La regione di Madrid si prepara a chiudere i confini per il tradizionale ponte della Costituzione, per dieci giorni, dal 4 al 14 dicembre, come già accaduto durante il ponte dei morti. La pressione sugli ospedali tuttavia non è ancora del tutto esaurita: in 13 regioni le unità di terapia intensiva occupate da pazienti Covid sfiorano il 25%. I morti, in tutto 44 mila da marzo, martedì hanno raggiunto un nuovo record quotidiano, di 537, per poi ridiscendere a 367 ieri. Per il Natale e Capodanno, il governo spagnolo pensa di proibire riunioni con più di 10 persone e a un coprifuoco alle 1:30.
Gran Bretagna. Alla fine di agosto riaprono le scuole e il pm Boris Johnson si impegna a chiuderle solo come extrema ratio. Il 21 settembre gli scienziati chiedono un nuovo lockdown di 2 settimane per contrastare una catastrofica seconda ondata in arrivo. Appello ignorato dal governo, che però rafforza le restrizioni locali in vaste aree e impone la chiusura dei pub alle 22. Il 12 ottobre Downing Street annuncia un nuovo sistema di restrizioni su tre livelli, dall’1 al 3 in ordine di gravità crescente, ricevute con ostilità dalle amministrazioni locali coinvolte. Le misure non bastano e il 5 novembre viene imposto un secondo lockdown nazionale, con negozi chiusi ma scuole sempre aperte. L’11 novembre il Regno Unito supera la soglia dei 50 mila decessi (ieri 696, mai così tanti da maggio). I dati aggiornati: i decessi entro 28 giorni da un test positivo sono in aumento del 4% su base settimanale, ma i nuovi contagi, ieri 11.299, sono in calo del 27.6%, e i nuovi ricoveri, 11.581, in calo del 5.5% negli ultimi 7 giorni. Il governo sta approntando 42 centri di vaccinazione e, sempre che il regolatore approvi, intende distribuire le prime dosi già a dicembre.

Lega tra sci e retorica: “Salvate le Feste”

Ancora poco si sa di come passeremo il Natale, anche se il buon senso dovrebbe bastare a suggerire il tenore dei decreti che verranno. Il governo ne discuterà oggi insieme ai capi delegazione di maggioranza, ma intanto la destra sembra già avere una certezza: Giuseppe Conte ci tapperà in casa rovinando la festa, non senza sadismo, a milioni di bambini.

C’è molto di semplicistico e sentimentale nella narrazione che in queste ore la Lega di Matteo Salvini sta portando avanti in vista del periodo natalizio, tra richieste di aperture tout court degli impianti sciistici e grida d’allarme sulla festa mancata.

E così, nell’attaccare il governo, il leader leghista arriva al paradosso. Due sere fa, al Maurizio Costanza Show, è apparso terrorizzato: “Spero sia il Natale dei bambini, mi rifiuto di pensare a un Natale via Skype, via Zoom, al Black Friday”. Un calderone di termini inglesi scanditi con tono sprezzante per entrare nel cuore degli spettatori che poco familiarizzano con la tecnologia, e a cui magari sfugge pure che il Black Friday, essendo una giornata di sconti prevista in novembre, non c’entra nulla col Natale.

Ma pazienza, Salvini continua: “Nessun pensa ai cenoni, ma almeno poter rivedere la mamma, il papà, i cugini”. Ovvero anche 10-15 persone insieme, visto che allarghiamo a zii e cugini. Poi il leghista si fa prendere la mano: “Invito chi va in tv a evitare di seminare disperazione dicendo ‘niente Natale, niente famiglia, niente albero (sic), niente regali’”.

Ieri mattina, la scena si ripete in Senato. Salvini si presenta in conferenza stampa e torna sul suo cruccio peggiore: “Negare ai bimbi il sogno del Natale è indegno e ingeneroso. Se la situazione sanitaria sarà sotto controllo fra dicembre e gennaio non si capisce perché tutti i Paesi confinanti debbano aprire e l’Italia no”. La risposta più ovvia sarebbe da ricercare nelle cronache di quest’estate, quando proprio Salvini e alleati gridavano allo scandalo perché il governo aveva imposto lo stop alle discoteche.

Adesso i locali sono chiusi, la temperatura è calata e così a destra serve un nuovo mantra. Perciò pure Giovanni Toti, presidente della Liguria, si accoda a Salvini: “Quello che stupisce è chi ancora, nonostante i dati e le evidenze, continua a demonizzare il Natale”. Dati ed evidenze che raccontano del record di vittime di due giorni fa e di ricoveri in terapia intensiva ancora in aumento (+32 ieri), seppur in maniera molto inferiore ai ritmi di crescita precedenti alle restrizioni di inizio novembre.

Un quadro che consiglia prudenza, ma nel quale invece – oltre alla retorica sul Natale – avanza la battaglia per riaprire le piste da sci. Beninteso: la preoccupazione per la enorme crisi del settore è più che legittima. Ma qualcuno, più che riconoscere la necessità di trovare un equilibrio tra salute ed economia, tratta il tema come se la chiusura fosse un capriccio del governo: “Paola De Micheli – è l’accusa del capogruppo di FdI alla Camera Francesco Lollobrigida, in risposta alla ministra dem – strumentalizza le vittime del Covid per giustificare l’incomprensibile decisione di tenere chiusi gli impianti sciistici fino a fine 2020”. Come se le decisioni sulle riaperture non dipendessero proprio dai numeri dei contagi e dei morti.