“I risultati ora si vedono”. Ma i numeri restano alti

n piccolo scatto in avanti del numero dei positivi sulle 24 ore, ma con molti più tamponi e dati su decessi e ricoveri che consentono una piccola boccata d’aria. Ieri i casi totali di contagio da SarsCov2 in Italia sono tornati ad aumentare, anche se di poco. Dai 23.232 su 189mila test registrati martedì si è passati ai 25.853 su 230.007 analisi comunicati ieri dal ministero della Salute: in testa alle Regioni per numero di nuovi positivi c’è la Lombardia (+5.173), seguita da Piemonte (+2.878) e Campania (+2.815), il Veneto (2.660), l’Emilia-Romagna (2.130) e il Lazio (2.102), mentre quella con il minor numero di nuovi casi è la Valle d’Aosta che ne registra appena 27. In controtendenza solo la Basilicata, dall’11 novembre classificata “arancione” in base al monitoraggio dell’Istituto superiore di sanità, che ieri ha dovuto annotare il suo nuovo record di positivi: 380 sui 2.585 tamponi. Numeri che hanno portato il governatore Vito Bardi a chiedere al commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri, uno screening di massa per le province di Matera e Potenza sulla scorta di quello realizzato lo scorso fine settimana in Trentino Alto Adige.

Con il tasso di positività (il rapporto fra contagi e tamponi effettuati) che scende, anche se di poco – ieri era all’11,24% quando martedì era al 12.31 –, su base settimanale la curva continua a declinare lenta ma costante: se il 18 novembre, infatti, i casi giornalieri erano stati 34.282 e la media mobile a 7 giorni era di 34.847, martedì quest’ultima era scesa a 30.993. Resta altissimo il numero delle vittime – 722 nelle ultime 24 ore – seppure in calo rispetto agli 853 di martedì, con gli esperti che da giorni spiegano che quello dei decessi sarà l’ultimo numero a diminuire e lo farà, se la diffusione del virus continuerà a rallentare, tra 10-15 giorni.

Le stime dell’Istat indicano che per il 7 dicembre il numero delle persone positive in Italia dovrebbe essere 801.000, quasi la metà rispetto al milione e mezzo che risultava dai calcoli fatti lo scorso 6 novembre. Gli stessi calcoli stimavano circa un milione di casi positivi per il 23 novembre, contro i 712.490 reali. “Sono dati che indicano che i provvedimenti adottati dal governo stanno funzionando, e bene – spiega Livio Fenga, ricercatore dell’Istituto nazionale di statistica – e lo scenario positivo che si delinea adesso potrà essere confermato a patto che non si allentino le misure e non si abbassi la guardia”. Una lieve schiarita riguarda anche le Regioni “rosse”: le stime elaborate fino al 24 dicembre indicano che in Valle d’Aosta la curva ha cominciato a scendere e che la tendenza alla decrescita è destinata a proseguire, “al punto da poter sperare in un declassamento ad arancione anche prima di Natale”, ha osservato Fenga. Analoga la situazione della provincia autonoma di Bolzano e quella della Calabria, “dove si prevede che la crescita prosegua ancora per poco, per cominciare a scendere nell’arco di tre settimane”. Diversa la situazione della Lombardia, dove “si osserva un buon tasso di decrescita” ma “i numeri restano alti”.

Negli ospedali per il secondo giorno di fila sono in calo i ricoverati con sintomi, passati dai 34.577 di martedì ai 34.313 (-264) di ieri. In calo anche il numero degli attualmente positivi (-6.689), risultato dell’aumento dei dimessi o guariti che in 24 ore sono stati 31.819, per un totale di 637.149 dall’inizio dell’epidemia. Tornano a salire, invece, le terapie intensive: 32 in più (3.848 in tutto), in aumento dalle +6 di martedì e dalle +9 di lunedì ma in calo rispetto alle +43 di domenica. “Dobbiamo tenere la massima prudenza – è l’invito del ministro Speranza –. C’è una pressione sul sistema sanitario ancora molto significativa e una circolazione del virus con numeri alti che non possono farci abbassare la guardia”. Oggi alle 13 Giuseppe Conte incontra i capidelegazione per mettere a punto le misure del nuovo Dpcm. Il ministro per gli Affari regionali Boccia ha convocato per le 16 Regioni, Anci e Upi: in collegamento anche Speranza, Arcuri e il capo della Protezione civile Borrelli. A un mese dal Natale l’attenzione deve restare massima, avverte il responsabile del Cts, Agostino Miozzo, perché “la terza ondata è una realtà dal punto di vista epidemiologico”. “Il movimento della popolazione è un fattore di grave rischio”, ha aggiunto parlando della possibilità di autorizzare la mobilità tra le Regioni per le feste. Occorre “mantenere rigorosamente le misure” restrittive.

Il Cazzaro in fuga

Nel Paese dei Senzamemoria, giornaloni e giornalini continuano a spacciare la fiaba del centrodestra che diserta l’Antimafia e chiede le dimissioni del presidente Nicola Morra per le inesistenti offese a Jole Santelli. E nessuno ricorda il vero motivo della guerra di Salvini&C. a Morra. La frase sulla defunta presidente della Calabria viene usata come pretesto (questo sì oltraggioso) per nascondere ben altro: il 5Stelle ha il grave torto di aver convocato Salvini in Antimafia ormai due anni fa, nel dicembre 2018, appena la commissione si insediò. All’epoca era per un’audizione di routine sulle strategie antimafia dell’allora ministro dell’Interno, ovviamente inesistenti (per fortuna se ne occupò il suo collega Bonafede). Poi la Lega, a furia di riciclare il peggio della vecchia politica, finì invischiata in vari scandali di criminalità organizzata. E Morra riconvocò più volte il Cazzaro Verde, non più come ministro, ma come capopartito. Lui il 12 giugno 2019 dichiarò: “Certo che andrò in commissione Antimafia”. Lo stanno ancora aspettando. Quel giorno era stato arrestato a Palermo Francesco Paolo Arata, ex deputato FI, consulente di Salvini che l’aveva candidato a direttore dell’Arera (l’autorità di controllo sull’energia), nonché padre di Federico, consulente di Giorgetti a Palazzo Chigi e organizzatore del viaggio di Salvini negli Usa: l’accusa era di corruzione in concorso col compare Vito Nicastri (pregiudicato per tangenti e indagato – e poi condannato in primo grado – per mafia come amico di Messina Denaro), mentre un’inchiesta della Procura di Roma gli contestava una tangente al sottosegretario Siri, poi cacciato da Conte.

Di questo Morra lo chiamava a rispondere, ma anche delle rivelazioni del pentito Agostino Riccardo sull’appoggio elettorale dato alla lista Noi per Salvini dal clan rom dei Di Silvio a Latina per le Comunali del 2016. Tra i politici non indagati ma citati nell’inchiesta per l’appoggio del clan Di Silvio c’erano Francesco Zicchieri, vice-capogruppo leghista alla Camera, e Matteo Adinolfi, eletto a Terracina, poi promosso coordinatore provinciale della Lega e ora eurodeputato. Figurarsi l’imbarazzo di Salvini a rispondere in Antimafia del sostegno degli odiati “zingari” ai suoi fedelissimi; a giustificare la scelta di un consulente come Arata per il programma energetico della Lega; e anche a spiegare perché non costituì parte civile il Viminale al processo Montante (l’ex presidente di Confindustria Sicilia poi condannato a 14 anni in primo grado). Infatti scappa dall’Antimafia da due anni: mai messo piede. E ora vuol farci credere che ce l’ha con Morra per una frase sulla Santelli. Come si dice dalle sue parti: ma va a ciapa’ i ratt.

La guerra degli Oscar: tra i due litiganti (Benigni e Loren) risorge il “Notturno”

È Notturno di Gianfranco Rosi il candidato dall’Italia ai 93esimi Oscar. Il documentario concorre per la shortlist, dieci titoli, della categoria “International Feature Film Award” che sarà resa nota il prossimo 9 febbraio. Per Rosi si tratta della seconda designazione a rappresentarci agli Academy Awards dopo Fuocoammare nel 2016: escluso dalla shortlist dell’allora film straniero, entrò nella cinquina del documentario.

Presentato alla Mostra di Venezia, dove Rai Cinema con l’ad Paolo Del Brocco si stracciò le vesti per la mancata inclusione nel palmares, Notturno ha partecipato ad altri 20 festival, tra cui Toronto, New York, Telluride, Londra, Tokyo e Busan, consegnando in un esterno notte girato nel corso di tre anni sui confini “psicogeografici” fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano un’umanità prostrata dalla guerra: i bambini yazidi sopraffatti dall’orrore, le madri yazide a cui l’Isis ha rapito le figlie, le combattenti curde, i carnefici di Daesh, il cantore di strada che loda Allah, il tredicenne cacciatore Alì. Non era il favorito della vigilia, tra i 25 – ridicolo! – titoli autocandidati sembravano più forti Pinocchio di Matteo Garrone, con Roberto Benigni Geppetto, e La vita davanti a sé, diretto da Edoardo Ponti e interpretato dalla madre Sophia Loren: ci si chiedeva, complice la proclamazione de La vita è bella miglior film straniero che proprio la Loren fece agli Oscar del 1999, quale dei due interpreti gareggiando in appeal hollywoodiano avrebbe ipotecato la nomina. Invece la commissione di selezione in seno all’Anica (Nicola Borrelli, Simone Gattoni, Paolo Genovese, Carlo Poggioli, Cristina Priarone, Gloria Satta, Baba Richerme) ha escluso dai giochi la signora Loren, e Netflix che distribuisce (quanto avrà pesato?), già alla seconda votazione. Nella prima, può raccontarvi il Fatto, l’adattamento da Romain Gary ha ottenuto due voti, al pari de Le sorelle Macaluso di Emma Dante, Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores, con La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek fermo a uno, dietro a Pinocchio (5 voti), Notturno (4) e Volevo nascondermi di Giorgio Diritti con Elio Germano Ligabue (3). Nella seconda votazione, Notturno è balzato in testa con tre, Pinocchio e Volevo nascondermi a due; la terza e la quarta hanno fissato il pareggio (3) tra Rosi e Diritti; la quinta ha laureato Notturno per quattro voti contro i tre dell’outsider Volevo nascondermi.

Lungi dall’essere di Pirro, la vittoria di Rosi, che proprio dal digiuno veneziano pare originare, è preliminare: sebbene Oltreoceano si contemplasse, o addirittura auspicasse, l’investitura di Notturno, a oggi l’Italia agli Oscar ha forse più chance con Sophia Loren, soprattutto se dovesse correre da non protagonista. Nel 2016 Paolo Sorrentino, che sedeva in commissione, si dissociò dalla designazione di Fuocoammare: “È un bellissimo film, ma andava candidato all’Oscar nella categoria dei documentari. Questa scelta è un inutile masochistico depotenziamento del cinema italiano che poteva portare agli Oscar due film…”. Qualcosa è cambiato?

“La violenza sulle donne si combatte (pure) sul palco”

“Smettiamola di pensare che la violenza sulle donne sia un problema delle donne: riguarda la società, ma soprattutto gli uomini, che dovrebbero parlarne tra loro, compiere azioni concrete e metterci la faccia”. E lui ha scelto di farlo: Vinicio Marchioni – attore di cinema, di teatro, di fiction e regista di opere da tutto esaurito come Uno zio Vanja – sta lavorando alla direzione di un monologo scritto interamente dalla moglie, l’attrice Milena Mancini (La terra dell’abbastanza, Bangla, solo per citare gli ultimi film). “Ogni giorno nel mondo muoiono 137 donne. In Italia ne muoiono 133 ogni anno. Nell’80 per cento dei casi l’aggressore è un uomo che ha le chiavi di casa”: questo il prologo dello spettacolo che vedrà la luce nel 2021, ma che non sarà una “tragedia”: “Sarò una donna di quarant’anni che ricorderà il suo passato – spiega Mancini al Fatto –, e il tempo in cui ci si relazionava agli altri in modo diverso. Attraverso una storia, spero di dar voce a tutte le donne che hanno subito violenza”.

La coppia, unita nella vita da molti anni, ha sentito l’urgenza di studiare ciò che stava accadendo in molte case: “Gli uomini percepiscono come una lamentazione qualsiasi frase femminile che riguardi la violenza – prosegue Marchioni –; e invece dovremmo pensare che sono azioni contro l’umanità. Vorremmo che lo spettacolo fosse un omaggio alle donne che hanno subìto violenza o sono state addirittura uccise. Quei volti che finiscono nei trafiletti dei giornali e che sui social si scrollano con facilità. Non sappiamo mai che fine fa chi ha commesso l’omicidio, come stanno i figli di queste donne, i loro genitori, i loro fratelli. Ed essendo una società che va velocissima e velocissimamente dimentica, è come se queste donne non fossero neanche esistite”. “Non dobbiamo pensare solo alla violenza fisica – commenta l’attrice –, esiste quella verbale, che viene dalla società, dalla famiglia, dagli amici. Si è perso il senso della ‘cura’ nei confronti dell’universo femminile. Noi ci siamo emancipate, abbiamo assunto ruoli importanti, siamo indipendenti; ma non per questo non ci piace ricevere fiori”.

Entrambi gli artisti sanno bene, dunque, che la violenza non si combatte soltanto con la repressione: “La cultura ha il compito di aprire gli occhi alle nuove generazioni – conclude Mancini – ed è per questo che non si deve fermare”. “La cultura è anche quello che insegniamo ai nostri figli – chiosa Marchioni –: partiamo dal rispetto, dalla galanteria (che non è un sostantivo preso da un romanzo di Tomasi di Lampedusa), dall’educazione nei confronti di una e quindi di tutte le donne. La famiglia e la scuola sono determinanti. Dovrebbero essere principi basilari, ma siccome proveniamo da una cultura patriarcale, sembra che la violenza ce la portiamo nel dna. Per non parlare della Chiesa e della sudditanza donna-uomo prevista dai testi sacri. Però, come oggi sta andando in crisi qualsiasi sistema, dovremmo avere il coraggio di scardinare anche questo. Come? Con la cultura, che è la grande arte di mettere in discussione le nostre vite. Altrimenti rimaniamo attaccati al concetto che la donna deve cucinare e l’uomo andare a zappare la terra”.

Troverete la versione integrale dell’intervista nella newsletter “A parole nostre” di oggi

Smontato il “mito” di Andrea. Quante sviste, Marcolongo

“Abbiamo tutta una vita/ da non vivere insieme”. La beffarda poesia di Manganelli apre il quinto capitolo del libro La lezione di Enea di Andrea Marcolongo. Tutti i nove capitoli (e anche la bibliografia) si aprono con una poesia di Manganelli e talvolta si chiudono con una di Caproni.

Fedele al successo del fortunato esordio (La lingua geniale, sempre Laterza, 2016), Marcolongo segue il solco classico spostandosi verso il mondo latino. Il punto da cui parte è la scarsa considerazione del lettore contemporaneo per l’opera di Virgilio dovuta – secondo l’autrice – a varie ragioni, in primis al momento storico in cui siamo immersi, anzi eravamo immersi. Se Ulisse ci può dare molto in tempi di pace – questa la tesi portante – Enea dà il meglio in tempi di guerra e in questo momento difficile può essere un riferimento. Siccome non è ancora prescritto come cura antivirale e sta arrivando il vaccino, ci sono le poesie di Manganelli e di Caproni. Se non bastasse tutto questo, ci sono le celebrazioni dantesche e l’amor patrio (il libro è dedicato “al mio paese, l’Italia”). In fondo Virgilio è conosciuto ai più come guida di Dante nell’Inferno e nel Purgatorio. Un po’ come per certe insegne milanesi dove si promette di tutto e di più: pizza, kebab e sushi.

Il parallelo è forse troppo spinto. Qui gli ingredienti sono sofisticati e non popolari, a partire dall’antiromanticismo manganelliano. E allora ben vengano titoli che parlano di antichi poemi da programma scolastico, inframmezzati da versi cupi, se per di più raggiungono un vasto pubblico pure all’estero? Leggendo La lezione di Enea si ha l’impressione che la pars destruens, lo svolgimento del presupposto, cioè il racconto della scarsa passione che il lettore comune ha per l’Eineide, vada oltre le intenzioni dell’autrice. Anche perché una prosa ripetitiva e a volte confusa, in cui si infila sempre di tutto come in preda all’horror vacui, contribuisce involontariamente a rafforzare l’effetto. La seconda parte del libro scorre meglio, ma bisogna arrivarci superando lo scoglio di frasi come questa: “‘No grazie, l’Eneide non la leggo, ho già letto l’Odissea’, mi hanno persino risposto una volta come se una escludesse l’altra. Un po’ come se l’aver letto Le correzioni di Johnatan Franzen esentasse dal leggere anche Il colibrì di Sandro Veronesi”. C’è dell’altro.

Già ghostwriter di Matteo Renzi e studentessa della Holden di Baricco, dunque non esattamente una nerd della papirologia, l’autrice tenta a più riprese di accreditarsi come militante di oscure cause perse, cultrice di lingue morte al limite della necrofilia iniziatica, indefessa molestatrice del prossimo in dialoghi sugli antichi dèi dell’Olimpo letterario. La posa è irritante e poco credibile, anche al netto dell’artificio retorico. “Il professore di lingue morte si suicidò per poterle parlare”. Non siamo a questo livello per fortuna, ma la battuta di Longanesi rende l’idea.

Fin qui l’impressione di un lettore comune. Resta la curiosità di sapere quale sia l’impressione di un latinista. “La lezione di Enea è un libro che lascia perplessi, e non certo perché a scriverlo sia stata un’autrice estranea alla cerchia dei classicisti di professione”, spiega Mario Lentano, docente all’università di Siena e membro del Centro di antropologia del mondo antico. “Il punto è che il saggio formicola di errori fattuali, indice di una lettura frettolosa dei testi che cita. Mi limito a tre esempi, che si potrebbero facilmente moltiplicare. Quando si scrive che Augusto era dittatore a vita, confondendolo con Cesare, quando viene attribuito a Lavinia un vivo amore per Turno che Virgilio riferisce invece a sua madre Amata, quando si vede in horresco referens (“Inorridisco nel raccontarlo”) un inesistente supino passivo si inganna il lettore, gli si vende merce contraffatta. E questo è qualcosa che l’autore di un libro non dovrebbe mai fare”. Lentano non contesta l’interpretazione che viene data dell’Eneide, opera che dovremmo affrettarci a riscoprire dopo avere deposto Iliade e Odissea , per la capacità di insegnarci a “resistere e sperare”, come spiega Marcolongo. “I classici sono di tutti, e così i protagonisti delle loro storie”, conclude il professore. “Specie quando quelle storie sono miti, e dunque racconti, per loro natura, esposti alla variazione, mai fissati in una forma definitiva. Magari si può trovare un po’ naïf l’idea che fosse necessaria un’epidemia globale per riscoprire Enea e un po’ pretenzioso che si elevino le proprie esperienze individuali a fenomeno epocale: suonerà sorprendente, ma Virgilio era letto e apprezzato anche prima che il lockdown inducesse la Marcolongo a riprenderlo in mano. Detto questo, il grande ritorno di Enea nel discorso culturale del nostro tempo significa che la sua vicenda intercetta temi forti e stati d’animo diffusi. E il volume della Marcolongo, con tutti i suoi limiti, è un segno di questa rinnovata presenza”.

Aspettiamo ora un saggio amoroso sul bosniaco, lingua che Marcolongo ha appreso avendo vissuto a Sarajevo – qui sì che si potrebbe atteggiare a “strana” (cit. La lingua geniale), a vestale di culti più marginali – partendo dal tatuaggio “Sarajevsko” che evoca la birra.

L’embargo della discordia: nave turca fermata dai tedeschi, Ankara protesta

Nonostante abbiano impedito per ben due volte all’Unione Europea di infliggere sanzioni contro la Turchia con il loro giudizio contrario, Italia e Germania sono ora accusate da Ankara di aver effettuato un’ispezione non autorizzata di una sua nave in violazione del diritto internazionale marittimo. A dimostrazione della furia del presidente Erdogan e di tutti i leader dei partiti nazionalisti, la Turchia ha quindi convocato l’ambasciatore italiano, il rappresentante diplomatico della Ue e l’incaricato d’affari tedesco. L’inedita reazione turca alla perquisizione realizzata dalla fregata tedesca “Hamburg” sulla nave cargo turca “Rosseline” mentre si trovava al largo del Peloponneso in navigazione verso il porto libico di Misurata – roccaforte del governo di accordo nazionale libico sostenuto e armato dai turchi – è frutto dell’insofferenza nei confronti della missione Irini.

L’operazione varata dalla Ue per bloccare i traffici di armi diretti in Libia in violazione dell’embargo decretato dall’Onu, è stata criticata da Erdogan fin dallo scorso marzo. Del resto è stato grazie ai droni e alle armi turche se Tripoli non è capitolata nel lungo assedio del generale Khalifa Haftar ed è grazie agli appalti ottenuti in cambio da Ankara se questa non vuole smettere di mandare armi a Tripoli. Erdogan però ribalta, come ben sa fare, la realtà e parla di “operazione di parte” degli europei. Il controllo, avvenuto nell’ambito della missione Irini, per Ankara è illegale poiché eseguito “senza il consenso della Turchia né del capitano”. La Germania, per mantenere gli scambi economici con Ankara e il trattato di respingimento dei migranti, temporaneamente sospeso dalla Turchia come ritorsione alla crisi dei migranti in Grecia 9 mesi fa, ha subito tentato di fare scarica barile e additare l’Italia. Il portavoce del ministero della Difesa tedesco, Christian Thiels, ha detto che l’ordine di salire a bordo del mercantile è arrivato dalla sede operativa della missione a Roma. Berlino poi ha corretto il tiro: “Tutto è avvenuto secondo le procedure, la nave tedesca ha cercato di ottenere il consenso da parte del capitano”. Consenso negato, ma la perquisizione è poi scattata comunque, rivelando però un carico di materiale umanitario ed edile, non di armi. Ma che si tratti di armi piuttosto che di materiale umanitario non ha importanza ai fini della legalità delle perquisizioni.

Le nomine di Biden: tante porte girevoli e consulenze militari

Il primo allarme era apparso sul New York Times con un appello di progressisti infastiditi per le nomine che Joe Biden, neo presidente eletto, stava per fare. L’ex vice di Barack Obama ha una lista di ex dirigenti di Amazon Web Services, Lyft, Airbnb, WestExec, società di consulenza in diversi campi, soprattutto quello militare. Una protesta contro le lobby con la richiesta di creare una maggiore separazione tra gli interessi privati e quelli pubblici. Le cose non stanno andando in questa direzione.

La WestExec mette in bella mostra sul proprio sito la pianta della strada da cui prende il nome, la West Executive Avenue collocata tra la Casa Bianca e l’Eisenhower Executive Building, il palazzo degli uffici governativi. Il motto dell’azienda sintetizza tutto: “Portare la Situation Room nella sala riunioni”. Dove per Situation room si intende la sala operativa della presidenza Usa per le questioni di Sicurezza nazionale.

Tra i suoi dirigenti ci sono due nomi di spicco, Michèle Flournoy e Anthony Blinken, che dopo aver servito nell’Amministrazione Obama sono ora Segretario di Stato, lui, e probabile Segretario alla Difesa, lei.

Liberatisi di Donald Trump si può guardare con più libertà all’entourage democratico che si appresta a “guidare il mondo libero”. Si scorgerà così la vecchia trama di interessi incrociati che spesso si nasconde dietro il mondo magico delle consulenze strategiche. Oltre a Blinken e Flournoy della WestExec ha fatto parte anche Avril Haines, oggi a capo della National Intelligence mentre il nuovo Consigliere alla Sicurezza, Jake Sullivan, è senior fellow presso la Carnegie Endowment for International Peace finanziata da Boeing, Northrop Grumman, US Navy, US Air Force e Defense Intelligence Agency.

“WestExec sostiene di non fare lobby”, spiega The American Prospect, il giornale progressista da cui sono riprese gran parte di queste informazioni. Più che lobbying, in effetti, sembra il collaudato meccanismo delle porte girevoli tra pubblico e privato. Flournoy, dopo i vari servizi alla Difesa nel governo di Obama, è entrata a far parte nel 2018 del consiglio di Booz Allen Hamilton, tecnologia informatica, dove ha firmato 61 contratti con il Pentagono. Con WestExec ha fatto triplicare il fatturato di Boston Counsulting Group partner della società che, a sua volta, è strategic partner di Pine Island Caital Partner di cui fanno parte sia Flournoy che Blinken e che investe in aziende con capitale dai 50 ai 500 milioni di capitale.

Il conflitto di interessi di queste posizioni incrociate è emerso quando, nel gennaio del 2019, Blinken e Flournoy hanno presieduto la riunione semestrale di Foreign Policy for America. Arrivati alla guerra nello Yemen e un orientamento diffuso per lo stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita, “una persona si è distinta” scrive il Prospect: “Flournoy ha cercato di persuadere il gruppo che un divieto assoluto sulla vendita di armi all’Arabia Saudita non sarebbe stata una buona idea”. E il giornale avanza l’ipotesi di una sua collaborazione segreta con una delle cinque grandi fornitrici del Pentagono, Raytheon.

Ora Biden ha vinto, Blinken è Segretario di Stato e Flournoy potrebbe guidare il Pentagono. E WestExec non ha alcuna intenzione di chiudere i propri uffici.

“Sui crimini di guerra c’era la cortina di fumo”

Prigionieri inermi ammazzati a sangue freddo, prove false per coprire le esecuzioni efferate. Hanno fatto il giro del mondo le conclusioni del rapporto Brereton sui presunti crimini di guerra delle forze speciali australiane in Afghanistan, a cui si è arrivati grazie al lavoro della sociologa militare Samantha Crompvoets. Ma prima della galleria degli orrori del rapporto Brereton, un whistleblower aveva denunciato tutto e ora la sua vita è in bilico. Si chiama David McBride, è un ex avvocato delle Forze speciali australiane.

Quale era il suo ruolo nell’esercito australiano?

Ero un maggiore, ero stato nell’esercito inglese, avevo esperienza, e poi ero un avvocato, assegnato a verificare le regole di ingaggio in modo da controllare che quello che accadeva sul campo di battaglia fosse compatibile con esse.

Quando fu inviato in Afghanistan?

Due volte: nel 2011 e poi nel 2013, come avvocato delle Forze speciali, per indagare sugli incidenti, ma soprattutto per le regole di ingaggio.

Quando venne a sapere per la prima volta dei crimini di guerra delle Forze speciali australiane?

Non fu una cosa ovvia, credo che siano stati insabbiati fin dall’inizio. Nel 2013, non ero stato testimone di crimini di guerra: avevo visto dei comportamenti sospetti che credo fossero tentativi di coprirli da parte del governo. Penso che nel 2013 il governo avesse iniziato a fare quelle che io chiamerei finte indagini su episodi che non erano davvero gravi, e la ragione per cui le facevano era: creare una cortina fumogena intorno a gravissimi omicidi, forse 20, dell’anno prima.

Intende dire che indagavano su episodi di poca rilevanza per coprire i veri crimini?

Sì.

Quando è stata la prima volta che lei li ha denunciati?

Ci sono voluti alcuni anni e le cose non erano chiare. Protestai con il governo, dicendo: mi sembra che stiate conducendo un’indagine su fatti che non sono reati e questo è veramente strano. Si arrabbiarono molto con me per le mie domande e mi dicevano: ‘stai zitto, non sono affari tuoi’. Presentai un esposto attraverso i canali interni nel 2014, ma lo ignorarono, a quel punto contattai un giornalista.

Che successe quando lei andò dai giornalisti della televisione australiana ABC?

Presero i documenti da me e pubblicarono una grande storia: gli Afghan Files, descrivendo le uccisioni, i comportamenti sospetti.

Quanto poi abbiamo saputo grazie al rapporto Brereton…

Sì, ma gli Afghan Files sono stati pubblicati tre anni fa: è probabile che abbiano contribuito a incoraggiare altri a farsi avanti e dire la verità per il Brereton report. Molti bravi soldati si sono fatti avanti per dire ‘avevamo visto ed è stato terribile’.

Lei rischia il carcere a vita per aver rivelato questi crimini?

Sì, perché sono incriminato per avere rivelato ‘informazioni sensibili per la sicurezza nazionale’. Un po’ come Julian Assange.

Era un problema endemico o solo poche mele marce?

Credo fossero poche mele marce, ma il problema era endemico da parte del governo. Voglio chiarire che c’erano molti soldati perbene che avevano denunciato, ma il governo non era interessato.

Crede che altre forze speciali siano coinvolte? Sappiamo che ci sono o ci sono state inchieste in Usa, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito, Olanda, Danimarca…

Si dice che gli australiani abbiano imparato dagli americani e dagli inglesi.

Ha mai sentito del coinvolgimento delle forze speciali italiane?

Sinceramente, non ne ho idea. Suppongo che, avendo visto quello che ho visto, quasi tutti gli eserciti siano gli stessi: hanno gente molto perbene e gente terribile.

Lei crede che questi gravi atti siano stati fatti per sottomettere la popolazione afghana?

Sì, credo che il ragionamento debba essere stato del tipo: è troppo difficile combattere i Talebani, non sappiamo chi siano, la popolazione locale teme più loro che noi, quindi dobbiamo far sì che ci temano, così non aiutano i Talebani. E quindi ammazziamo a caso.

La popolazione afghana si trovava schiacciata tra il terrore dei Talebani e quello dei soldati americani e dalla coalizione?

Non mi spingerei così lontano: si trattava di appena tre mele molto marce nell’esercito australiano, ma sì, quelle tre erano terribili come i Talebani: ammazzavano per instillare paura.

Dopo 19 anni di guerra in Afghanistan, che idea si è fatto?

È un disastro. Ed è stato un disastro fin dall’inizio, perché non siamo mai stati lì per la ragione giusta. Siamo andati lì per vendetta dopo l’11 settembre, non credo che ci sia mai stato un piano.

Lei rischia la prigione a vita per aver rivelato crimini di guerra, esattamente come Julian Assange la rischia per la stessa ragione. Non è un segnale di allarme per le nostre democrazie?

Sì. Sono un grande sostenitore di Julian Assange. Credo che andiamo verso un mondo distopico e spero di fare tutto quello che posso per impedirlo.

Dateci il vaccino anti-comparsate tv

L’infodemia aspetta ancora il suo vaccino, così si diffonde un consiglio da amico al giorno. Si è appena spento l’eco di Flavio Briatore che per abbassare la febbre consiglia di prendere la tachipirinha (la risposta del Billionaire al moijto del Papeete), ed ecco Andrea Crisanti mettere in guardia gli italiani sui vaccini: “Senza i dati non mi vaccino. Troppa velocità, fasi saltate, conoscenze insufficienti. Per fare un vaccino, io personalmente, voglio che sia approvato e voglio vedere i dati.” Una dichiarazione urbi et orbi (specialmente orbi), che fa tornare alla mente quella di Mimmo Craig nell’indimenticabile Carosello di un olio d’oliva extravergine: “Matilde! La pancia non c’è più! La lattina la voglio qui, sul tavolo.”

Anche Crisanti, lui personalmente, il vaccino lo vuole lì sul tavolo, ma allora qualche dubbio sorge spontaneo. La prima cosa che viene da pensare (facendo peccato, s’intende) è che l’inconscio di Crisanti tema che i vaccini funzionino presto e bene, e allora lui personalmente non possa più andare in tv un giorno sì e l’altro pure. Il secondo dubbio, a dire il vero, è una certezza: assistiamo alla tracimazione dell’ego tra gli uomini di scienza, che, in mancanza delle famose evidenze, mettono in evidenza loro stessi. Rete, radio e tv sono a caccia di dichiarazioni da trasformare in titoli, ogni giorno bisogna sfornarne di nuove, spararne di più grosse, e pazienza se si rischia di passare per negazionisti o no vax, tanti nemici tante opinioni, l’importante è non uscire dal giro dei collegamenti. Prima del Covid immaginavamo gli scienziati chiusi nei loro laboratori e nelle corsie degli ospedali; ora li vediamo pronti a collegarsi h24 e nelle corsie degli studi televisivi. Il virus dell’infodemia fa male; trasforma tutti in divi, o almeno illude di poterlo diventare. Se Flavio Briatore studia da popstar mediatica la situazione è grave ma non seria; ma se studia Crisanti la situazione è grave, e soprattutto seria.

“Tuttolomondo” è paese: storia di un fattorino

Ha un cognome che è tutto un programma. E una storia che in questo anno terrificante ci fa sperare. Marco Tuttolomondo, 49 anni di Palermo, è stato assunto. Embè direte voi, che c’è di tanto importante? La notizia è una grande notizia perché Marco è un rider, uno di quelli che va su e giù per la città a consegnare pizze per una grande piattaforma. Alla fine del 2018 Marco aveva cominciato a lavorare per Glovo: circa dieci ore al giorno in sella, pagato con tariffe “a consegna”. A cottimo, cioè per quanti pasti effettivamente consegni e non per quanto tempo sei a disposizione. Marco, che è diventato un sindacalista della Nidil-Cgil, si è battuto perché l’azienda fornisse ai fattorini i dispositivi di protezione individuale durante la pandemia: a marzo, nel pieno del lockdown, aveva rilasciato dichiarazioni alla stampa siciliana che evidentemente non erano piaciute ai suoi datori di lavoro. Era stato congedato come usa adesso, senza troppe cerimonie. Marco è stato “disconnesso” dalla piattaforma, e arrivederci. Lui si è opposto, ha presentato ricorso al Tribunale di Palermo contro il licenziamento discriminatorio. Perché, come ha spiegato a Repubblica Palermo, “io con quei soldi ci mangio, ci pago l’affitto e le bollette”. È così vero che dopo la “disconnessione” aveva dovuto lasciare l’appartamento in cui viveva. Solo per aver iniziato la causa l’azienda lo aveva “riconnesso”, permettendogli di tornare a lavorare. La causa però è andata avanti e poche settimane fa, come il nostro giornale aveva anticipato, la giudice del lavoro aveva proposto a Glovo di assumere Marco in sede di tentativo conciliazione. Ma non c’è stato nulla da fare: proprio non volevano cedere. Così lunedì si è arrivati a una sentenza che definisce “inefficace” il licenziamento. Marco sarà assunto e risarcito con circa 13 mila euro.

È un precedente che non fa primavera, ma è molto importante. La decisione di Palermo ha fatto cadere il velo dell’ipocrisia a proposito della condizione di autonomi di questi lavoratori, tanto celebrati durante il lockdown di primavera, che dunque hanno diritto a stipendio fisso, un orario di lavoro, ferie pagate, congedi per malattia e Tfr. Per molti rider non cambierà nulla, la sentenza di Palermo non vale per tutto il mondo, solo per Marco Tuttolomondo. Ma è la prima volta che succede. Un anno fa, a Torino, un gruppo di rider di Foodora aveva vinto una causa simile e si era visto riconoscere l’applicazione del contratto di commercio, distribuzione e servizi. Poche settimane fa, poi, la piattaforma Just Eat, ha annunciato di voler assumere come dipendenti i propri fattorini. In maggio, a seguito di un’inchiesta della Procura di Milano, un’altra importante piattaforma, Uber Italy, è stata commissariata per caporalato. Nel decreto che disponeva l’amministrazione giudiziaria, si poteva leggere che “la paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora”. Le mance? Sparivano. I fattorini spesso erano migranti e richiedenti asilo, appositamente reclutati in situazioni di “emarginazione sociale”. Dunque, approfittando di uno stato di estremo bisogno. Approfittarsi deriva da profitto: sarà ora di ri-stabilire limiti di umanità e dignità a quanto profitto si può fare sfruttando il lavoro altrui. Attraversiamo una fase difficile anche dal punto di vista economico: la pandemia ha creato migliaia di nuovi poveri. Abbiamo imparato a un prezzo altissimo che la salute è un diritto non negoziabile, ed è verosimile che nessun governo proverà a ridurre i fondi per la Sanità. Il lavoro non è un diritto meno rilevante, anche dal punto di vista costituzionale. Sarà bene ricordarlo ai molti commentatori che si stracciano le vesti per la proroga del blocco ai licenziamenti fino a marzo: in primavera sarà un’ecatombe (già iniziata, peraltro), l’argine non possono essere i tribunali.