Milan e Mr Li, i soldi partiti da Macao e da Hong Kong

Dalla Cina, da Macao, da Hong Kong: sono arrivati a Milano i documenti chiesti per rogatoria internazionale dalla Procura nell’ambito dell’indagine sulla contorta operazione finanziaria della cessione del Milan di Silvio Berlusconi all’imprenditore cinese Yonghong Li. Sono documenti bancari con cui i pm stanno cercando di ricostruire i passaggi dei soldi arrivati dall’Estremo oriente per comperare la squadra di calcio milanese. Di certo vengono da Cina, Macao e Hong Kong, ma il punto di partenza iniziale è ancora tutto da scoprire, visto che Yonghong Li non sembra avere affatto il peso imprenditoriale e finanziario per sostenere in proprio i flussi di denaro che hanno fatto diventare il Milan, almeno per qualche tempo, cinese. Li è per ora l’unico iscritto nel registro degli indagati, per false comunicazioni sociali: quelle diffuse dalla società A.C. Milan Spa nei mesi in cui era controllata da Li.

È dal gennaio 2018 che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Paolo Storari cercano di capire che cosa sia successo, dopo che sulle loro scrivanie erano arrivate le “sos”, ovvero le “segnalazioni di operazioni sospette” a proposito delle transazioni internazionali che avevano portato il Milan a uscire dalle proprietà di Berlusconi per entrare nel portafoglio di un uomo d’affari sconosciuto anche in Cina. Un’operazione da 740 milioni di euro, il prezzo dichiarato per comprare una squadra che, allora, non scoppiava di salute. Chi ce li ha messi, quei soldi? Nell’agosto 2016 Yonghong Li versa alla Fininvest una prima rata di 100 milioni. A pagare è Sino Europe Sports, una società nata un paio di mesi prima, il 26 maggio 2016. A fine 2016 ecco una seconda rata da 100 milioni, ma la chiusura dell’affare slitta di mese in mese perché non arrivano altri soldi. La vendita sembra quasi sfumare, quando entra invece in scena, nell’aprile 2017, il fondo Elliott che presta oltre 320 milioni, finanziamento a 18 mesi, interessi dell’11,5 per cento: 120 milioni al Milan, 200 a una società del Lussemburgo.

Si chiude finalmente la vendita, con un giro di società estere nelle migliori tradizioni berlusconiane: il Milan risulta controllato da una lussemburghese controllata da un’altra lussemburghese controllata da una società di Hong Kong controllata da una holding delle Isole Vergini britanniche. A ottobre 2018 però il prestito è scaduto, Li non ha pagato e il 10 luglio 2018 il Milan è diventato di Elliott.

Il fondo di Paul Elliott Singer è considerato la più grande centrale d’investimenti finanziari al mondo, dietro cui si muove una moltitudine di investitori anonimi.

Quali sono quelli che si sono mossi nell’operazione Milan? Secondo Report, a entrare in azione sono stati due italiani, Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo. Il fondo Elliott ha subito smentito con una nota: “Elliott Associates Lp ed Elliot International Lp hanno congiuntamente il completo controllo della holding a cui fa capo A.C. Milan. Elliott detiene il 96 per cento del club, mentre la restante quota è di pertinenza dei nostri partner”.

I giornalisti di Report, in un servizio andato in onda lunedì sera, hanno ricostruito sulla base di documenti lussemburghesi che Cerchione e D’Avanzo “detengono, attraverso Blue Skye, poco più del 50 per cento delle quote della Project Red Black, la società che a sua volta controlla la Rossoneri Sport Investment, la società usata dal cinese Li per acquistare il Milan. Cerchione e D’Avanzo hanno come soci nella Project anche due società anonime del Delaware”.

Cerchione, 49 anni, e D’avanzo, 45, entrambi originari di Napoli, risultano essere consiglieri del consiglio d’amministrazione della A.C. Milan Spa, di cui è presidente Paolo Scaroni, in passato amministratore delegato di Eni e oggi vicepresidente di Rothschild, la banca d’affari che aveva garantito “la completa affidabilità finanziaria” di Li. Previsione sbagliata. “Siamo andati presso la sede della sua società – ha raccontato a Report Sui-Lee Wee, corrispondente a Pechino del New York Times – Quello che abbiamo trovato è un ufficio abbandonato con un avviso di sfratto appiccicato all’ingresso e addirittura i vermi nei cestini dell’immondizia. Mi chiedo chi abbia fatto la due diligence sulle società di Li, ammesso che ce ne sia stata una”.

Paolo Gabriele non fu un “corvo”, ma un maggiordomo della verità

L’ex maggiordomo di Papa Benedetto XVI si è spento a 54 anni per un brutto male che ha tormentato gli ultimi anni della sua vita. I siti, le tv e le agenzie, all’unisono hanno titolato sulla morte del “Corvo” di

Vatileaks. Eppure non esiste definizione più fuorviante per definire chi è stato davvero Paolo Gabriele. Il “Corvo” evocato dai giornali nel 2012, quando fu arrestato, diffamava con lettere anonime il giudice Giovanni Falcone nel 1989.

Quel corvo ignoto si annidava nelle istituzioni e puntava probabilmente ad azzoppare la carriera di un concorrente. Nulla di più lontano dagli scopi e dagli atti di Paolo Gabriele. L’ex maggiordomo del Papa non ha mai scritto una riga di suo pugno e ha solo fotocopiato le prove di quella che considerava una deriva delle gerarchie vaticane, non certo di Papa Benedetto XVI. La consegna ai giornalisti dei documenti era per lui un atto doloroso ma necessario per scacciare i mercanti dal tempio. Non erano scoop per danneggiare qualcuno ma fatti di cui era testimone e che non voleva tenere per sé. Certo, Paoletto ha tradito la fiducia del Papa, ma a prevalere sul dovere di lealtà non fu la voglia di carriera o l’invidia. Non aveva interessi personali e sapeva perfettamente che la divulgazione di quelle carte non avrebbe favorito, ma distrutto la sua carriera. Altro che Corvo. Il suo tradimento fu un atto “folle” ma non determinato da calcoli egoistici o cattivi.

Quando durante il processo gli chiesero il perché, Gabriele rispose “Vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, ero sicuro che uno choc, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per riportare la Chiesa nel suo giusto binario. Pensavo che nella Chiesa questo ruolo fosse proprio dello Spirito Santo, di cui mi sentivo in certa maniera infiltrato”. Questa è la verità appunto “folle” che i giornali continuano a non vedere preferendo rappresentarlo come un burattino o un furbastro che ha accumulato carte per colpire per conto terzi l’anziano Pontefice. Quelli che si ostinano a chiamarlo corvo sono gli stessi che irridevano la sua ingenua ma pura auto-definizione di “infiltrato dello Spirito Santo’”. Paoletto, come lo chiamavano tutti, era entrato in Vaticano dalla porta di servizio sostituendo l’addetto alla pulizia dei bagni. Per la devozione e la lena mostrata negli incarichi più umili si fece apprezzare e in pochi anni divenne il “maggiordomo del Papa”.

Aveva un ottimo stipendio e i privilegi connessi: assistenza sanitaria e appartamento dentro le mura leonine. In più godeva del potere riflesso emanato dalla vicinanza al Pontefice. Paoletto era la sua ombra e tutti sapevano che se volevano entrare in contatto con il Papa, era lui l’uomo giusto per riuscire a raggiungerlo. In molti negli anni hanno contato sulla sua disponibilità disinteressata salvo poi rinnegarlo e chiamarlo “Corvo”.

Paolo Gabriele a poco più di 40 anni, da quell’osservatorio privilegiato vide cose che non gli sembravano giuste. A torto o a ragione ritenne che la massima del Vangelo di Matteo “

Oportet ut scandala eveniant” dovesse prevalere sul suo obbligo di fedeltà e segretezza.

Pagò duramente quella scelta. La pubblicazione del libro

Sua santità, basato sulle carte da lui consegnate, fruttò molti soldi giustamente all’autore e all’editore. Nemmeno un euro a lui. In compenso Paolo Gabriele fu perquisito e, dopo il ritrovamento di poche carte segrete (non gli 80 scatoloni di cui si favoleggia che contenevano altre carte) fu arrestato e poi licenziato. Perse stipendio, casa e privilegi con tre figli piccoli da mantenere e una moglie senza lavoro, che possono andare orgogliosi di lui. Altro che “Corvo”.

Benedetto XVI lo ha perdonato e il Vaticano di Papa Francesco non lo ha dimenticato. Prima assunto in una cooperativa vicina al Bambin Gesù e poi riassunto 4 anni fa in Vaticano alla Basilica di San Paolo. Prima della pubblicazione dei documenti da lui consegnati ai giornalisti la Chiesa sembrava avviata verso un percorso chiaro: Benedetto XVI si sarebbe dimesso aprendo la successione al predestinato, il cardinale Angelo Scola. Oggi invece c’è Papa Francesco. Forse Paoletto non c’entra nulla. Forse queste cose non le favorisce “un infiltrato dello Spirito Santo”. Di sicuro però non le fa un Corvo.

Matteo R. come papi Silvio B.: “Indagine Open via da Firenze”

Un paio di settimane fa aveva bollato i magistrati che indagano sulla fondazione Open come gente “in cerca di visibilità mediatica”. Oggi Matteo Renzi, per fuggire da quella Procura, chiede che il fascicolo passi ad altra sede.

Il leader di Italia Viva presenterà infatti istanza di trasferimento per “incompetenza territoriale”: secondo i legali dell’ex premier, non sarebbero i magistrati di Firenze a doversi occupare del caso dei finanziamenti alla sua fondazione – Renzi è indagato insieme agli ex ministri Maria Elena Boschi e Luca Lotti – bensì quella di Roma, o in subordine a quelle di Velletri o di Pistoia. Ovunque, insomma, e con le motivazione più disparate, ma non a Firenze.

Una mossa fa che tornare alla mente i fasti berlusconiani, quando il Cavaliere – che di solito si appellava alla legge Cirami approvata dal suo stesso governo – invocava il legittimo sospetto e chiedeva di trasferire altrove i propri processi – dallo Sme fino al caso Ruby – guadagnando pure mesi preziosi verso la prescrizione.

Ora Renzi chiede il trasferimento perché, nell’ordine, il Pd ha sede a Roma; le società protagoniste dei finanziamenti sospetti, ovvero la British American Tobacco e la Promidis, hanno sede a Roma e a Pomezia (che fa riferimento al Tribunale di Velletri); la fondazione Open fu creata a Pistoia e dunque pure quel Tribunale potrebbe avere più titolo – secondo l’ex premier – ad occuparsi della faccenda rispetto a Firenze.

Nel tripudio di omaggi a Berlusconi, non poteva allora mancare anche un simposio politico: ieri Renzi su Repubblica e Silvio su il Giornale hanno spedito analoghi messaggi agli alleati, bocciando l’uno la sinistra e l’altro la destra radicale: “Si vince al centro, da riformisti – è la ricetta di Renzi – senza il centro la sinistra radicale fa solo l’opposizione”. E così anche uno scontro istituzionale rischia di passare in secondo piano. Già, perché intervenuto ieri nella Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni – motivo per cui non si è presentato all’interrogatorio a Firenze – Renzi ha difeso il presidente egiziano Al Sisi (“Ha permesso una collaborazione che non è quella che sognavamo, ma è decisamente superiore a quella standard”), ricordando poi i momenti in cui, da presidente del Consiglio, fu informato del rapimento del ricercatore: “Se avessimo saputo prima, forse, avremmo potuto intervenire. Fummo avvisati solo il 31 gennaio”. Poche ore più tardi, però, ecco una nota del ministero degli Esteri a smentire l’ex premier: “La Farnesina precisa che le istituzioni governative italiane e i servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore dopo la scomparsa di Giulio il 25 gennaio 2016”.

Il ministero precisa pure che “tutti i passi svolti con le Autorità egiziane sono stati documentati e resi noti alle istituzioni” romane, come a dire che Renzi non poteva non sapere. E infatti in serata Renzi si limita a prendere atto, dichiarando di “non avere niente da aggiungere”. Può bastare così.

Riggio e la cellula segreta. Decifrati i nomi “criptati”

Per i suoi amici, gli agenti Porto e Peluso (il primo collaboratore esterno, il secondo appartenente ai servizi, come ha accertato la Mobile di Caltanissetta) con cui era stato detenuto a Santa Maria Capua Vetere, il suo nome in codice era “Cobra’’, o “Pedro’’, o ancora “Gabriel’’. Per la Dia era la “fonte Ugo’’, di fiducia degli ufficiali Pellegrini, Tersigni e Ferrazzano. Nel processo di appello della trattativa Stato mafia in corso a Palermo irrompono le dichiarazioni del pentito Pietro Riggio, ex agente della polizia penitenziaria con funzioni di sindacalista, poi affiliato alla famiglia mafiosa di Caltanissetta e più volte arrestato, che nel processo per la strage di Capaci ha parlato del coinvolgimento nell’attentato di una donna dei servizi segreti libici e di alcuni carabinieri e poliziotti gestiti da “zio Toni”, presunto agente della Cia, ora identificato dalla squadra Mobile di Caltanissetta per Antonio Mazzei. La sua attendibilità è al centro della verifica processuale e sui riscontri alle sue dichiarazioni ha deposto lunedi scorso il capo della Mobile di Caltanissetta Marzia Giustolisi che verrà contro-interrogata dalla difesa il 14 dicembre. Sono state due perquisizioni a casa della madre, il 26 giugno e il 3 luglio 2018, a portare a galla la corrispondenza cifrata tra i quattro agenti (il quarto è Pasquale De Nicola) con un alfabeto camuffato da loro stessi che è stato possibile decrittare grazie agli appunti su una delle lettere, con cui si sostituiva ogni consonante con una vocale corrispondente.

Nei verbali depositati ci sono le accuse di Riggio al generale Mario Mori (“aveva vietato che Provenzano fosse catturato’’) e quelle al generale delle guardie carcerarie Enrico Ragosa (“nelle carceri agiva con metodi nazisti, da Gestapo, una squadra di agenti, persone fidate, in mimetica, che arrivano all’interno delle sezioni, si prendono le chiavi e mandano tutti fuori’’), coinvolto, a suo dire, nell’omicidio del boss stragista Nino Gioè (“tutti sapevano che non si era suicidato’’). E poi l’indicazione che “una fonte istituzionale del tribunale di Caltanissetta’’ avrebbe dato l’ordine di uccidere Luigi Ilardo, il boss che aveva iniziato a collaborare anticipando che avrebbe parlato di patti segreti tra Stato e mafia legati alla stagione stragista. Nel silenzio della stampa nazionale, l’ultimo a deporre è stato l’ex capo della Criminalpol Luigi Rossi e la testimonianza dell’ex capo degli Affari Penali Liliana Ferraro è attesa per il prossimo 18 dicembre, poi inizierà la discussione. Nel frattempo, il 7 dicembre, è previsto l’approdo in Cassazione della prima tranche della trattativa, in cui è imputato l’ex ministro dc Calogero Mannino, assolto anche in appello.
Ecco cosa ha detto Riggio.

L’OMICIDIO ILARDO. “Angelo Ilardo (il cugino di Luigi, ucciso nel 1996, ndr) mi disse espressamente che il cugino era morto perché voleva parlare degli intrecci succeduti tra il 1992 e il 1995… tra cui la strage di Falcone, di via D’Amelio, della massoneria, della nascita di Forza Italia, di Dell’Utri…. Seppi che l’ordine di uccidere Ilardo partì da una fonte istituzionale del Tribunale di Caltanissetta che la diede ai carabinieri del Ros di Caltanissetta e che a sua volta la fecero sapere in giro. Ci fu un’azione ben precisa da parte del colonnello Mori che incaricò un suo uomo, un capitano che era in servizio in una caserma dei carabinieri di Catania e che era direttamente collegato a boss Zuccaro, della famiglia Santapaola, che da sempre era stato confidente dei carabinieri. Venne passata la notizia a lui affinché si facesse l’omicidio che non poteva essere più ritardato in nessuna maniera. Questo io lo apprendo da fonte mafiosa diretta: Alfio Mirabile”.

L’OMICIDIO GIOÈ. “Tutti sapevano che Gioè non si era suicidato. Aveva lasciato un’altra lettera, mai ritrovata, in cui parlava dei contatti con i Servizi segreti per le stragi, faceva dei nomi. In quel periodo ero a Roma operativo presso la commissione paritetica per i trasferimenti al ministero della Giustizia e lì appresi le modalità con cui si muovevano i miei ex colleghi. I detenuti venivano picchiati con metodi quasi da nazisti, e con Gianfranco Di Modugno parlai una sera dell’omicidio di Gioè. Quando uno iniziava a collaborare il comandante e il direttore chiamavano Ragosa, era colui che se c’era un problema veniva investito. Così avvenne anche con Gioè. E il metodo che utilizzavano era quello della ‘scala’, legavano al detenuto una corda al collo, tirando dal basso verso l’alto. Erano carceri in cui entravano esponenti dei Servizi suppongo non solo italiani”.

OCCHI CHIUSI SU PROVENZANO. “A Mezzojuso, il 31 ottobre 1995, i carabinieri non ricevettero alcuna direttiva operativa, solo l’ordine di scattare alcune fotografie. Me lo dissero due carabinieri che erano stati detenuti con me nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Mi dissero anche che alcuni colleghi, per non pagare i conti giudiziari come era capitato a loro, erano fuggiti in Costa Rica, dove non esiste l’estradizione’’.

Il CELLULARE DI TOTò RIINA. “Ero a Firenze, nel carcere di Sollicciano, il direttore Quattrone mi disse che a Rebibbia, nella sua cella, Riina utilizzava un cellulare’’.

“Addaura? messaggioIper ‘pizza connection’”

L’attentato dell’Addaura? “Il mio perdurante collegamento con i colleghi svizzeri in tema di indagini concernenti il riciclaggio rafforza ancora di più il sospetto che si sia inteso in qualche modo lanciare un avvertimento per rendere ‘meno pronta’ (le virgolette sono nel verbale, ndr) l’assistenza giudiziaria da parte della Svizzera’’. Gli esecutori? “Marino Mannoia mi ha detto di essere certo che non poteva essere estranea la famiglia Madonia, sarebbe interessante comparare l’identikit con la fotografia dei componenti della famiglia Madonia, e in particolare con Salvatore Madonia’’. È la mattina del 4 dicembre 1990 e il giudice Giovanni Falcone è seduto davanti al procuratore di Caltanissetta Salvatore Celesti, che lo interroga come parte lesa nell’inchiesta sul fallito attentato dell’Addaura.

Nel verbale – oggi acquisito agli atti del processo di appello della Trattativa –, le parole di Falcone rivelano per la prima volta le sue riflessioni, i suoi dubbi e le sue ipotesi investigative sul fallito attentato davanti alla sua casa di villeggiatura dell’Addaura, dopo oltre 30 anni di indagini ancora misterioso. “Visto il luogo ove era stata ubicata la borsa con l’esplosivo – dice il giudice ucciso a Capaci – sono sicuro che l’esplosione dell’ordigno avrebbe provocato effetti letali solo per le persone che stazionavano nei pressi, ma avrebbe provocato danni solo eventuali alla villa e ai suoi abitanti’’. Sentito come parte lesa dai suoi colleghi un anno e mezzo dopo il fallito attentato, Falcone inizia sottolineando la presenza dei colleghi elvetici Carla Del Ponte e Claudio Lemhan, a Palermo per una rogatoria sul riciclaggio dell’inchiesta “Pizza connection’’: “La coincidenza dell’attentato con la presenza dei giudici svizzeri che sarebbero rimasti sicuramente coinvolti nell’esplosione mi induce a una serie riflessione ove si consideri che le abitudini e metodi operativi di Cosa Nostra. Quasi sicuramente non sarebbero stati uccisi dei magistrati di un altro Paese ove ciò non fosse stato ritenuto opportuno e necessario’’. E dopo avere premesso che “ove si fosse voluto prendere di mira soltanto la mia persona avrei potuto essere oggetto di attentati in mille altri modi e in mille altri luoghi’’, Falcone spiega perché considera quei 58 candelotti Brixia trovati dentro un borsone sportivo appoggiato sullo scoglio un “avvertimento’’, aggiungendo che “proprio i colleghi svizzeri in quel periodo si stavano occupando di indagini soprattutto finanziarie riguardanti notissimi esponenti della mafia siciliana’’.

E aggiunge: “In quel procedimento, allora in corso in Svizzera, non tutto è chiaro circa i ruoli di Vito Roberto Palazzolo, Leonardo Greco, Salvatore Amendolito e Oliviero Tognoli’’. Su quest’ultimo Falcone è convinto che non abbia detto tutta la verità “sui suoi collegamenti con la mafia siciliana e su inquietanti vicende riguardanti la sua fuga da Palermo subito dopo l’emissione di un ordine di cattura nei suoi confronti’’. E cioè che “ha ammesso di essere stato avvertito da qualcuno che non può non essere un uomo delle istituzioni, ma sul punto Tognoli è ancora reticente’’.

E non è la sola stranezza rilevata da Falcone, che al suo collega Celesti rivela di avere “espletato una rogatoria internazionale’’ chiedendo il verbale di Tognoli reso ai colleghi svizzeri, “ma non ci viene trasmesso per l’opposizione del suo difensore per il timore palesato da Tognoli che le sue dichiarazioni vengano in qualche modo conosciute in Italia’’. “Per completezza’’, il giudice affida ai colleghi altre due valutazioni: e cioè che non gli sembrano ipotizzabili coinvolgimenti nell’attentato diversi da quelli comunque riferibili a Cosa Nostra’, e ciò perché “se avesse avuto una matrice diversa, in un modo o nell’altro l’organizzazione mafiosa avrebbe fatto sapere di essere estranea’’.

E l’esclusione di un possibile ruolo degli agenti Emanuele Piazza e Nino Agostino, il primo scomparso, il secondo ucciso, delitti sui quali la Procura di Palermo stava indagando: “Dalle indagini – dice Falcone – non è emerso nulla di particolare che possa far ritenere che i due fossero in qualche modo collegati con il mio attentato’’. “Devo registrare – aggiunge – che a livello di stampa questa ipotesi è ricorrente’’, e conclude: “Le indagini condotte con impegno e con scrupolo non hanno dato tuttavia alcun concreto riscontro a questi sospetti’’.

Revenge porn mille denunce in un anno

Il lockdown ha fatto crescere i maltrattamenti in famiglia contro le donne. La conferma arriva dai dati forniti ieri dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in diretta streaming con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la ministra per la Pari opportunità Elena Bonetti, per un bilancio del primo anno della legge Codice Rosso contro la violenza di genere e il revange porn. Tra il 1º gennaio e il 31 maggio 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, sono aumentati dell’11% i procedimenti aperti per maltrattamenti in famiglia contro donne. È un “trend – spiega il ministro – che può essere imputato alle misure di contenimento da lockdown, che hanno portato a situazioni di convivenza forzata”. In calo, invece, gli altri reati inaspriti da Codice Rosso, “addebitabile anche alle restrizioni di movimento e di relazioni sociali per il lockdown, violenza sessuale -4%, corruzione di minorenne -10%, violenza sessuale di gruppo -17%, stalking -4%”. E veniamo ai 4 nuovi reati introdotti da Codice Rosso: revenge porn, sfregi permanenti, violazione di misure di protezione per le vittime, costrizione al matrimonio. Tra il 1° agosto 2019 e il 31 luglio 2020 per questi nuovi reati sono 90 i processi che si sono già conclusi, di cui 80 con condanne (compresi i patteggiamenti e i decreti penali), altri 120 processi sono in corso. Quanto al revenge porn, diffusione di video intimi online per vendetta, ci sono state già oltre mille denunce in un anno, grazie proprio a Codice Rosso.

Quando uno stupro diventa stupro dell’informazione

Un giorno bisognerà chiedere a Massimo Giletti cosa gli è successo a un certo punto della vita. Come ci si possa autoproclamare paladino della legalità un giorno sì e l’altro pure, e dieci minuti dopo affrontare un caso delicato come quello di Alberto Genovese e lo stupro ai danni di una 18enne, con la superficialità pericolosa e imbarazzante cui si è assistito domenica a Non è l’arena. Dico solo che si occupava del caso anche Barbara D’Urso e al confronto pareva la Cnn. Basterebbe già solo descrivere il parterre degli ospiti esperti/moralizzatori: Nunzia De Girolamo, che ha sulla testa una richiesta di condanna a 8 anni per associazione a delinquere. Fabrizio Corona, ai domiciliari con più condanne che tatuaggi, e Hoara Borselli, il cui valore aggiunto è probabilmente quello di essere incensurata. Il perché Fabrizio Corona avrebbe qualcosa da raccontare sulle feste di Genovese è mistero fitto, visto che non solo non ci è mai stato, ma neppure frequenta feste milanesi da un bel po’, visto che nel 2013 è stato arrestato e da quel momento è entrato e uscito dal carcere avendo, al massimo, permessi per lavorare. Massimo Giletti si avvale di Corona come di una sorta di autore/consulente del programma. Corona gli propone storie e ospiti, e magari ci scappa anche la sua presenza in studio. È andata così con Mirko Scarcella, ci ha provato con una vittima di tentato femminicidio che ha gentilmente declinato l’invito, è andata così con la storia di Genovese. Sarebbe lo stesso Corona ad aver strappato Daniele Leali, l’amico di Genovese, alla concorrenza (la D’Urso) e ad averlo portato su La7. E da qui la promozione a moralizzatore: la volta scorsa accusava Briatore di parlare di economia e di non pagare le tasse, lui che teneva i soldi nel controsoffitto per pagarle con calma. Questa volta accusa questo mondo corrotto dei party pieni di droga, lui che in passato è uscito dal carcere per curare la sua tossicodipendenza (su cui aleggiano alcuni misteri). Attendiamo che Giletti lo inviti a darci lezioni anche nella giornata dedicata alla guida con prudenza.

Fin qui si potrebbe anche sorvolare, se non fosse che il siparietto è stato non solo sconcertante, ma anche volgarmente accusatorio nei confronti di persone perbene. Mentre tutti, conduttore compreso, continuavano a ribadire che l’amico di Genovese coraggiosamente in collegamento da Bali “non è neppure indagato”, Fabrizio Corona si permetteva di fare più volte il nome di Carlo Cracco accusandolo di “connivenza”. Non solo, aggiungeva che “la posizione di Carlo Cracco, del buttafuori e di Leali è la stessa”. Notare che Leali aveva invitato le ragazze alla festa incriminata e da molte è stato accusato di essere colui che girava con i vassoi della droga, il bodyguard piantonava la stanza dello stupro e Cracco era andato tre ore per offrire (pagato) un servizio di catering con moglie e collaboratori a un’unica festa di Genovese. Non la festa dello stupro, per giunta. Stessa posizione, identica. Ed era esilarante sentire Giletti che “Nomini ancora Cracco? Io mi dissocio!”, come se non fosse evidente che si dissocia da chi invita perché dica esattamente le cose da cui si dissocia. Tra parentesi, Carlo Cracco si è rivolto al suo legale e la puntata è stranamente sparita dal sito di La7 (ne sono rimasti alcuni estratti, in cui non appare Fabrizio Corona)

Ma non è solo questo il problema. L’amico di Genovese, convinto forse che andare in tv faccia bene alla sua immagine, dice una serie di cose sconcertanti, da “C’erano 30 persone, ma poche ragazze molto giovani, sotto i 20 anni solo 5 o 6 (il 20%)”. O: “Noi ritiravamo i telefoni agli ospiti perché così la gente socializzava” (come no, il proprietario di casa ci teneva così tanto a socializzare che si chiudeva in camera e riappariva la mattina dopo). O: “Se c’era la cocaina? È in tutte le feste, avete scoperto acqua calda”. E lì, mentre il conduttore ribadiva di avere rispetto per questo individuo “perché ci ha messo la faccia”, era tutto un “Come dice Corona”, “Come ha detto Corona”. Insomma, Corona maître à penser. E nel frattempo si univa al parterre l’avvocato della ragazza stuprata, tale Saverio Macrì, il quale desta qualche perplessità. Giovanissimo (ha 32 anni), iscritto all’Ordine degli avvocati dal 2019, un passato da calciatore e, come lo stesso Leali, nel giro dei locali e della notte: è infatti proprietario col padre (dentista dei vip) e altri soci di locali tra Milano e Formentera. Ovviamente, nessuno ci ha fatto caso. Tutti troppo coinvolti dall’edificante racconto su “Cracco il connivente” perché ha portato due tartine a una festa. Insomma, un modo di trattare una vicenda di stupro che è stata uno stupro all’informazione.

“L’Italia è autodistruttiva: investe sulla loro istruzione e le abbandona”

Per Linda Scott, professoressa dell’Università di Oxford, fondatrice del Forum delle donne dell’economia mondiale, i numeri valgono più delle parole: non impiegare le donne nel mondo del lavoro fa perdere agli Stati miliardi e miliardi ogni anno. Autrice della teoria “Economia doppia X” – quel potenziale femminile sprecato che aumenterebbe la ricchezza delle nazioni – spiega che “ogni anno la violenza di genere fa perdere, in media, ai Paesi il 5% del Pil. Le cause vanno rintracciate nel predominio e monopolio maschile, gli uomini controllano il capitale da secoli”.

Il Covid-19 ha peggiorato una situazione già critica.

Durante la pandemia le donne hanno subito gli stessi danni, in misure diverse, in ogni nazione. I Paesi in cui sono state più colpite sono quelli dove non esiste assistenza infantile e manca il sostegno alle madri. Quando sono state chiuse le scuole, e i bambini non potevano essere affidati agli anziani, nei nuclei familiari sono state le donne ad abbandonare il lavoro. A essere colpiti più profondamente degli altri sono stati proprio i due settori in cui erano più impiegate le donne: la scuola e il turismo. La perdita di entrate economiche vuol dire perdita dell’indipendenza, è un grande fallimento quello di cui stiamo parlando. In termini pratici: perdere soldi per le ragazze vuol dire perdere anche diritti. Il rischio è che più durerà la pandemia, più peggiorerà la condizione femminile. Voglio sottolineare che i governi, per la maggior parte costituiti da uomini e datori di lavoro, non hanno fatto niente per impedirlo.

La condizione femminile sta regredendo o sarà peggio che in passato?

I diritti delle donne dipendono dalla salute delle democrazie di cui sono cittadine. Mi ricordo il mondo degli anni 70, periodo in cui molte battaglie femminili sono state vinte, ma allora mancavano fattori oggi determinanti: autoritarismo, populismo e religione. In alcuni Stati europei come la Polonia si è tornati indietro fino a perdere il diritto all’aborto. La situazione in Ungheria e Ucraina, a causa dell’influenza della chiesa sul potere politico, è perfino peggiore.

E il caso Italia?

In Italia lavora circa il 40% delle donne: una cifra bassissima, le percentuali degli altri Stati sviluppati raggiungono dal 60 all’80%. Delle donne lavoratrici in Italia un terzo è part-time: troppo per una nazione ricca. Tra i Paesi G7 ha la percentuale più alta di gender gap salariale: circa il 44%. Eppure in Italia il livello di identificazione con gli ideali femministi è abbastanza alto: se per femministe intendiamo donne che chiedono pari opportunità, le italiane superano svedesi e americane, sono il 70%. Nel vostro Paese le ragazze frequentano l’università con una media del 35% superiore rispetto ai colleghi uomini. Si investe sulla loro istruzione, ma poi le si spinge fuori dal mercato del lavoro, rimangono potenziale – e dunque ricchezza – inespressi. Il modo migliore per far ripartire l’economia è farle rientrare nella forza lavoro. Dal punto di vista economico è uno spreco: l’Italia è autodistruttiva e, per usare un’espressione inglese, “si spara alle gambe da sola”.

Senza lavoro o in congedo: le donne ai tempi del virus

Il papà è al lavoro, la mamma è in casa con i figli. Guardando i numeri, l’emergenza Covid ha finito per fortificare questo fastidioso stereotipo che l’Italia non ha scrostato nemmeno dopo anni di (lenti) miglioramenti. Anzi, quei piccoli progressi sono stati polverizzati durante pochi mesi di lockdown. Durante i quali – spiega uno studio che oggi pubblicherà l’Istituto di analisi delle politiche pubbliche (Inapp), e che il Fatto può anticipare – il 90% delle lavoratrici ha usato per intero il congedo parentale, solo l’8% lo ha suddiviso con il partner. La crisi dovuta alle chiusure – ha fatto poi notare ieri la Svimez (l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) – ha colpito soprattutto le donne del Sud: la perdita di occupazione femminile nelle regioni meridionali (171 mila) è stata pari al doppio dell’aumento registrato tra il 2008 e il 2019 (89 mila). In undici anni, il Mezzogiorno aveva fatto un passo avanti; in soli tre mesi ne ha compiuti due indietro. Il dato nazionale è solo un po’ meno grave: a fronte di 602 mila posti di lavoro in più tra il 2008 e il 2019, il trimestre di inizio epidemia ne ha mandati all’aria 470 mila. Gli ammortizzatori sociali hanno protetto soprattutto gli uomini. Le donne, più coinvolte in lavori precari e deboli ne hanno tratto meno vantaggio. Il blocco dei licenziamenti ha messo al sicuro chi ha un posto fisso, ma nulla ha potuto contro i mancati rinnovi di contratti a termine.

Il problema non riguarda solo la perdita di posti. Il Covid ha anche peggiorato la qualità di chi il lavoro lo ha mantenuto, ma si è dovuta fare in quattro – più che in passato – per prendersi cura dei figli durante la chiusura delle scuole. Il dato sui congedi parla da solo, ma non è l’unico che mostra come certi doveri continuino a scaricarsi sulle donne. Secondo l’indagine Inapp, il rientro al lavoro in sede dallo smart working è stato molto più rapido per gli uomini che per le donne. Varie le ragioni, a partire dal fatto che l’occupazione maschile si concentra soprattutto in settori che richiedono la presenza in sede. Ma dalle risposte degli intervistati emerge anche una sorta di accordo familiare – che riguarda l’8% delle dipendenti e il 15% delle autonome – in base al quale la donna resta a casa perché ritenuta più idonea a seguire i bambini o perché, nella coppia, è generalmente quella con lo stipendio inferiore. Il 40% degli uomini ha detto che il tempo dedicato ai figli non ha inciso per niente sullo smart working; stessa percentuale per le donne che, invece, dicono che i doveri genitoriali hanno avuto un grande impatto sul lavoro da casa. “Questo sacrificio delle donne, per la tenuta del sistema familiare e la salvaguardia del reddito (maschile) più forte – ha spiegato il presidente Inapp Sebastiano Fadda – significa meno crescita e meno contributo al Pil e aumento del carico sulle politiche passive”.

In realtà non pochi lo avevano profetizzato fin dall’inizio: l’emergenza sanitaria l’avrebbero pagata soprattutto, e prima di tutto, le donne. E non solo per un sovraccarico di lavoro – famigliare e professionale – praticamente senza precedenti. Anche perché la crisi pandemica ha colpito duramente proprio i settori che tradizionalmente rappresentano un forte bacino di impiego femminile, come quelli dei servizi, a partire dal turismo e dalla ristorazione per arrivare all’assistenza sociale. L’industria, infatti, dove è prevalente il lavoro maschile, per ora ha retto di più. Il forte carico sulle mamme lavoratrici potrebbe anche aver contribuito a scoraggiare ulteriormente le donne in cerca di un’occupazione, visto che il tasso di inattività femminile nel secondo trimestre del 2020 è cresciuto dell’8,5% rispetto allo stesso periodo del 2019, con una impennata superiore al 20% tra le più giovani, quelle nella fascia d’età compresa tra i 30 e 34 anni. Significa che oltre 707 mila donne in più (in poco tempo), una occupazione hanno proprio rinunciato a cercarla, come ha rilevato una indagine della Fondazione studi dei consulenti del lavoro; e che la pandemia ha cancellato 10 anni di timidi progressi, visto che il tasso di attività femminile, contestualmente, è diminuito di tre punti percentuali. Praticamente nessuna regione è stata risparmiata da questa débâcle. Nemmeno quelle che storicamente vantano un tasso di occupazione femminile elevato, rispetto al resto del Paese, sono riuscite ad affrancarsi. In Emilia-Romagna, per esempio, sono andati in fumo in pochi mesi 52 mila posti di lavoro; in Lombardia 54 mila, in Piemonte 24 mila, in Veneto 38 mila. Con percentuali che oscillano tra il -2,8% della Lombardia e il -5,6% dell’Emilia-Romagna. Solo il Trentino è riuscito a mantenere praticamente stabile il tasso di occupazione delle donne. E questi numeri sono riferiti al Nord del Paese. Se ci si sposta al Sud, come abbiamo visto, si apre una voragine, con una flessione del 7,3%. In Calabria, che ha bruciato 19mila posti di lavoro, si arriva a un 9,6% in meno di donne occupate. La Campania, a sua volta, sfiora il 9; la Sicilia si ferma all’8,6. Quanto al Centro, per le donne sono sfumati 104 mila posti.

Regioni, Pd, Comuni e Tar: le biglie impazzite della scuola

Oggi c’è l’incontro con i sindaci delle città metropolitane per fare il punto. E anche il ritorno in aula in Campania degli alunni più piccoli. E poi le chiusure prorogate dai sindaci nonostante le decisioni dei tribunali amministrativi. A meno di dieci giorni dallo scadere del decreto che ha diviso l’Italia in fasce di rischio, la situazione sulla scuola è tutt’altro che omogenea nonostante miglioramenti un po’ ovunque. Il rischio è che nel dibattito sulla ri-apertura si ripeta quanto visto nelle ultime settimane: Regioni e Comuni pronti a far valere la loro autonomia, forti di una parte della maggioranza (soprattutto Pd) che non si è ancora espressa a favore del ritorno in classe mentre prende piede l’ipotesi che avvenga già a dicembre (il 9) con il minisro della Salute, Roberto Speranza, che ieri ha detto: “Faremo il possibile”.

A dimostrazione che le decisioni prese finora non sono quasi mai state supportate da dati effettivi, la corrispondenza che il ministero dell’Istruzione ha avuto con le Regioni. C’è, ad esempio, una lettera del 16 novembre con cui la ministra Lucia Azzolina chiede “leale cooperazione” al presidente della Basilicata nonché lumi sulla decisione di chiudere tutte le scuole. Una lettera analoga è stata inviato lo stesso giorno alla Calabria, a non dire di quella alla Puglia sull’ordinanza con cui Michele Emiliano dava alle famiglie la possibilità di scegliere tra didattica in presenza o a distanza, giustificando le assenze. A tutti viene chiesto sulla base di quali dati siano state prese le decisioni, le risposte sono spesso paradossali. Il presidente della Basilicata, le cui scuole sono ancora chiuse, adduce tra le varie precauzioni il fatto che “sia acclarato in letteratura scientifica che la scuola contribuisca a diffondere ogni tipo di malattia infettiva” ignorando l’esistenza di linee guida di sicurezza. I numeri che fornisce non aiutano: all’11 novembre, quando i contagi aumentavano ovunque in Italia, il tasso tra gli studenti lucani era pari a 0,35 nella fascia 0-10 anni, 0,57 nella fascia 10-13 e 0,88 nella fascia 13-18.

In Calabria, dove il Tar ha bocciato l’ordinanza di chiusura e quindi si sta rientrando in classe, il presidente facente funzioni Spirlì oltre a non rispondere ai quesiti, ammette che tra le principali motivazioni c’è stata la schiera di “ordinanze dei sindaci” con “chiusure a macchia di leopardo” nonché la notizia di non ben definiti “numerosi” casi.

Certo è che i Comuni fanno di testa loro: chi apre, chi chiude, chi resta a metà. Catanzaro, per dire, ha deciso di ripartire dal 30 novembre mentre Napoli dice che aspettera l’esito dello screening generale. Intanto il governatore della Campania Vincenzo De Luca (che non ha risposto né alle lettere né alle telefonate del Miur) ha dato il via libera alla riapertura fino alla prima elementare mentre, in nome della “gradualità” è stata bocciato dal Tar il ricorso di alcuni genitori che volevano fosse riaperto tutto e subito. Nonostante questo, i sindaci di Caserta, di Salerno e di Avellino non seguiranno il governatore, rinviando le aperture a data da destinarsi. In provincia, qualcuno si è già spinto al 2021. Caso a parte, la Puglia. Anche il governatore Emiliano non ha mai risposto alle richieste del ministero che gli contestava di non aver tenuto conto degli “effetti del provvedimento regionale sulla differente modalità di valutazione degli alunni in presenza rispetto a quelli a distanza” e “sul numero delle assenze utili per la validità dell’anno”. Tradotto: il governatore non dovrebbe intervenire sulla didattica, perché non gli compete. Qui, siamo in zona arancione, le scuole sono aperte (erano state chiuse a fine ottobre, ma poi c’è stato un passo indietro) fino alla terza media: in assenza di ricorsi, vale la bizzarra ordinanza sulle assenze giustificate. In Umbria lo scontro è sulla decisione di chiudere anche le scuole medie fino al 29 novembre, mentre in Abruzzo, nonostante la regione sia diventata zona rossa, il governatore Marsilio ha deciso di tenere aperte le elementari e l’infanzia. Diversa invece la dinamica che si è registrata con il Comune di Palermo: il sindaco Leoluca Orlando aveva annunciato di voler chiudere le scuole dal 16 novembre, salvo poi aver fatto un passo indietro dopo essersi consultato con la ministra (i dati, infatti, presentavano una incidenza di alunni contagiati, nelle varie fasce, dello 0,44). Il presidente della Provincia autonoma di Trento ha invece disposto le lezioni in presenza fino alla terza media anche nei Comuni zona rossa.

Dal lato politico, l’incognita è il Pd, non ancora convinto della necessità di dare priorità alla riapertura delle scuole. Il Comitato tecnico scientifico si è ormai più volte espresso in favore e ieri il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli, ha sottolineato che le scuole hanno un ruolo “marginale” nell’andamento dei contagi. Se dalla commissione Cultura del Senato i capigruppo di maggioranza hanno firmato un appello per il premier Conte, chiedendo che la riapertura sia una priorità, lo stesso non è riuscito alla Camera dove è mancato appunto proprio il sì del Pd.