Sputnik V I Russi esultano: “Vaccino efficace al 95%”. Ma Putin non lo fa

Il vaccino russo Sputnik V ha un’efficacia “superiore al 95%” se si prendono in esame “i dati preliminari dei volontari ottenuti 42 giorni dopo la prima dose” (ovvero 21 giorni dopo la somministrazione della seconda dose). Lo ha reso noto ieri, nello scetticismo della comunità scientifica occidentale, l’istituto di ricerca Gamaleya. “Dopo il completamento degli studi clinici di Fase 3 del vaccino Sputnik V, il Gamaleya fornirà l’accesso al rapporto completo degli studi clinici”, si legge sul sito dedicato allo Sputnik V. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha spiegato: “Non abbiamo ancora iniziato la vaccinazione di massa. E naturalmente il capo dello Stato Vladimir Putin non può partecipare alla vaccinazione come volontario, non può usare un vaccino non certificato”. Tra i volontari c’è un italiano: il presidente della camera di commercio italo-russa Vincenzo Trani, “fondatore – riporta il sito Sputnik Italia – del primo servizio di car-sharing in Russia, partito da un solo parcheggio nel centro di Mosca nel 2016 con 10 auto e oggi è presente in tutta la Russia, più Kazakhstan, Bielorussia e Repubblica Ceca, con una flotta di 12.000 vetture”. Qualche giorno fa ha dichiarato: “Mi sento assolutamente in forma e bene. I medici mi avevano preavvisato possibili mal di testa, stanchezza o febbre. Non ho avuto nessun effetto collaterale”.

La Sanità in Calabria al prefetto o al manager

Un manager della sanità o un prefetto “esperto” di dissesti finanziari. Quando questo giornale andava in stampa, il consiglio dei ministri stava ancora discutendo della nomina del commissario alla Sanità calabrese. O meglio: era ancora in corso l’interlocuzione con la Regione, da parte del premier Conte e dei ministri Roberto Speranza e Roberto Gualtieri, che hanno gestito insieme la partita. Stando alle indiscrezioni, la scelta sarebbe ricaduta su Narciso Mostarda, direttore della Asl Roma 6 (che gestisce la sanità dell’area dei Castelli Romani e del litorale romano Sud), neuropsichiatra, già commissario dell’ospedale israelitico di Roma. È al fotofinish con l’avvocato Luigi Varratta, già prefetto di Crotone e di Reggio Calabria (ma anche di Firenze), che nella sua carriera si è occupato anche della gestione di diversi comuni in dissesto. Sono alcuni dei nomi della “rosa” che il premier Giuseppe Conte ha consultato dopo le dimissioni di Eugenio Gaudio, il commissario che il governo aveva nominato una settimana fa (dopo i due rocamboleschi addii di Saverio Cotticelli e Giuseppe Zuccatelli) e che dopo ventiquattr’ore si era ritirato perché pare che la moglie non volesse trasferirsi a Catanzaro. Chiunque la spunti, gli va riconosciuta una certa dose di coraggio: raccontano che la situazione dei conti della sanità calabrese abbia fatto fuggire molti a gambe levate. Dai bilanci delle aziende sanitarie provinciali ai numeri complessivi del dissesto: solo capire quale sia il reale stato dell’arte, pare sia un’impresa non da poco. Dopo undici anni di commissariamento, insomma, la luce sembra ancora piuttosto lontana. Va meglio sul fronte “operativo”: nei prossimi giorni verrà allestito il primo ospedale da campo della Calabria, a Crotone. A gestirlo sarà Gino Strada con Emergency.

Altro che Natale: ennesima rissa giallorosa sul Mes

La pandemia morde senza pause e Regioni e governo litigano sui colori che fanno rima con chiusure e divieti. Eppure è ancora sul Mes che si scaricano le tensioni nella maggioranza. Al punto che la capidelegazione di ieri, dove si sarebbe dovuto discutere anche delle misure contro il Covid, diventa uno scontro che si dilata sino al pomeriggio, tutto sul fondo salva-Stati. Una battaglia, sostengono fonti trasversali, più a uso interno che sul merito. Su cui peserebbero anche le resistenze di parte del M5S sul dl Sicurezza, che hanno irritato il Pd.

In mattinata il premier Giuseppe Conte riunisce i capidelegazione (Alfonso Bonafede, Dario Franceschini e Teresa Bellanova), ma con loro ci sono anche il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola e quello dell’Economia, Roberto Gualtieri. Perché all’ordine del giorno non c’è il ricorso ai 37 miliardi della nuova linea di credito sanitario, ma la riforma del Mes di cui si discuterà lunedì all’Ecofin: congelata dal dicembre 2019 per le resistenze dei Cinque Stelle, ma alla quale il ministro dell’Economia si è deciso a dire sì. Però le risorse del Mes restano una faglia che divide i giallorosa. Con i dem e Italia Viva che ripropongono l’esigenza di utilizzarle. Mentre Bonafede e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio fanno muro: “La nostra posizione non cambia, rimaniamo contrari”. E si mostrano freddi anche sulla riforma del fondo. “La linea del governo – sostengono – era sempre stata un’altra, ossia che la riforma del Mes dovesse essere collegata all’Unione bancaria e al Bicc (uno strumento di bilancio per finanziare riforme e investimenti, ndr)”. Dal Mef ricordano una risoluzione dell’ 11 dicembre 2019, con la quale il Parlamento impegnava il governo a iscrivere le riforme dell’Unione in una revisione della governance economica europea. Cosa, sostengono, di fatto avvenuta con le novità introdotte per contrastare l’emergenza Covid-19. Attraverso una logica di pacchetto: la funzione del Bicc sarebbe stata assorbita dal Next Generation Ue, mentre è stato creato lo strumento di un titolo obbligazionario sicuro (ad esempio gli Eurobond, che hanno preso la forma dei prestiti Sure), ed è stato escluso qualsiasi meccanismo che implichi la ristrutturazione automatico del debito pubblico.

Ma dietro alle obiezioni dei grillini c’è soprattutto il sospetto che il sì alla riforma del Mes sia un cavallo di Troia per spingere poi l’Italia a farvi ricorso. Così Bonafede chiede e ottiene l’audizione del titolare del Tesoro davanti ai presidenti delle Commissioni Finanze e Bilancio. E Gualtieri fa sapere che l’avrebbe fatta comunque. Mediatore obbligato in mezzo al fuoco incrociato, Conte ci tiene a chiarire che per passare dall’ok politico alla firma (a fine gennaio) occorre che il Recovery Fund sia sbloccato. Prova a smussare, il premier. Ma un paio di grillini di governo sbuffano: “Rispetto a qualche settimana fa Conte pare più ambiguo sul tema”. E sussurrano un aneddoto curioso, ossia che alla riunione avrebbe fatto capolino l’eurodeputato di En Marche Sandro Gozi, ex dem.

Sul tavolo, Gualtieri mette l’accordo che prevede l’anticipazione al 2021 del cosiddetto “backstop”, il paracadute per il Fondo unico di salvataggio bancario, strumento caro all’Italia, da dove prendere le risorse necessarie per “salvare” banche di interesse per l’intera Ue. Questo punto dovrebbe aiutare a far ingoiare l’altra parte della riforma che prevede il salvataggio di interi paesi: i critici sostengono che renderebbe più facile la ristrutturazione del debito. I Paesi frugali chiedono delle condizioni sulle regole bancarie che l’Italia rifiuta. Per cui, può essere che lunedì non ci sarà alcun accordo. Ma Gualtieri alle Commissioni dirà che sarebbe suicida ora porre un veto come quello dell’Ungheria di Orban, dopo che l’Europa ha messo in campo un nutrito pacchetto di aiuti, che l’early backstop è vantaggioso per l’Italia, che se si chiude lunedì verrà approvato un documento secondo cui quasi tutte le banche europee e tutte quelle italiane hanno passato il test e sono sicurissime.

Ma mentre Gualtieri continua a cercare di abbassare i toni, dal Nazareno fino a sera parlano dell’ennesima grana che il governo non è in grado di risolvere.

Covid: record di morti e primo calo dei ricoveri Natale con restrizioni

C’è un dato che conferma il calo dei contagi in corso da una decina di giorni: per la prima volta dall’inizio della seconda fase della pandemia in Italia, ieri sono diminuiti i pazienti ricoverati nei reparti di Malattie infettive, Pneumologia e Medicina interna. Meno 120. È solo lo 0,3%, nei reparti cosiddetti ordinari ci sono ancora 34.577 persone – ben più delle 29.010 del 4 aprile – e questo rende molto difficile curare altre malattie. Ma l’inversione di tendenza rassicura chi teme che dietro l’apparente calo dei contagi ci sia soprattutto la crisi della diagnostica, testimoniata da migliaia di persone che aspettano giorni e giorni per un tampone. Da lunedì a martedì sono aumentate di poche unità, sei, le persone in terapia intensiva: sono 3.816, sempre più vicine alle 4.068 del 3 aprile, mettono ancora a rischio malati e traumatizzati gravissimi, ma fino a pochi giorni fa aumentavano al ritmo di diverse decine ogni 24 ore.

È però drammatico il conto dei morti. Ieri ne hanno registrati 853, mai così tanti dal 27 marzo, quando in Lombardia non riuscivano nemmeno a contarli (li ha contati poi l’Istat: ce n’erano 10 mila in più). Erano stati 753 il 18 novembre e la media settimanale, fino a lunedì, era 674. Il totale è 51.306, l’Italia ha al momento il maggior numero di morti ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni di tutta l’Europa occidentale (14,4) dopo il Belgio (20,2). “È un dato che non avremmo mai voluto commentare”, ha detto ieri il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità, che ha incontrato i giornalisti con il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero della Salute. “Ci sarà un numero di morti in questo ordine di grandezza ancora per 10-14 giorni, poi dovremmo vedere un calo”, osserva Locatelli. Questo perché i morti riflettono contagi fino a due/tre settimane fa. Secondo l’Istituto superiore di Sanità, il tempo mediano tra insorgenza dei sintomi e decessi è di 12 giorni.

Ciò non toglie che i contagi rilevati scendano: ieri 23.232, ieri l’altro 22.930. La media settimanale ieri era a 30.993 secondo i calcoli di Paolo Spada, il chirurgo dell’Humanitas di Milano che gestisce la pagina Facebook “Pillole di ottimismo” insieme all’immunologo Guido Silvestri; una settimana fa era a 35 mila. È sceso, ieri, anche il rapporto fra positivi e tamponi: 12,3% contro il 15,4% di lunedì. Era aumentato vertiginosamente dal 3% dei primi di ottobre fino al 17 registrato a novembre. È bene segnalare , però, che negli ultimi sette giorni sono stati fatti meno tamponi rispetto ai sette precedenti, ma questo non preoccupa Locatelli e Rezza. Venerdì, secondo i dati arrivati dalle Regioni, la Cabina di regia dovrebbe farci sapere che Rt, il tasso di trasmissione del virus, è sceso sotto 1. Naturalmente non va allo stesso modo in tutte le Regioni. E soprattutto l’incidenza è altissima: 781 casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni; solo l’Austria, nell’Europa occidentale, ha un dati peggiori. Rezza ieri l’ha detto chiaramente: “Continuiamo a fare qualche sacrificio, i contagi diminuiscono solo grazie alle misure”.

In questa situazione si affronta il tema delle riaperture che il governo ha promesso per il 3 dicembre, alla scadenza del Dpcm in vigore, quello delle zone rosse, arancioni e gialle. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che a ottobre aveva resistito ai primi tentativi di chiudere da parte del ministro della Salute Roberto Speranza e del Pd, ha assicurato che a dicembre non ci saranno Regioni rosse (attualmente Lombardia, Piemonte, Calabria, Val d’Aosta, Toscana, Campania e Bolzano, quest’ultima confermata ieri insieme all’arancione per Lçiguria, Basilicata, Umbria). Ma ha anche ha escluso la riapertura degli impianti da sci e sugli spostamenti tra Regioni per Natale e Capodanno.

Su questo ieri si è espresso, in termini nettamente contrari, anche l’Istituto superiore di Sanità, seguito da Speranza: “Bisogna evitare spostamenti che non sono strettamente necessari”, ha detto il ministro. Uno sforzo si farà per riaprire le scuole. Per i tecnici il “liberi tutti” per Natale sarebbe pericolosissimo, Palazzo Chigi lavora a un accordo europeo per limitare il turismo durante le festività di fine anno, non solo quello sciistico. Il governo dovrà elaborare un nuovo dispositivo efficace e farlo digerire alle Regioni, preoccupate per le imprese e il territorio. Serviranno, come sempre, dei soldi.

Il nipote di Al Sisi

Siccome domenica aveva annunciato “ci difenderemo nel processo e non dal processo perché noi facciamo come quelli seri, cresciuti alla scuola democristiana”, ieri l’Innominabile non si è presentato all’interrogatorio fissato dalla Procura di Firenze che lo accusa di finanziamenti illeciti alla fondazione Open, accampando un improrogabile “legittimo impedimento”. Doveva presidiare il Senato (dove ha appena il 41,69% di presenze) per difendere l’amico Al Sisi su Regeni: “La non collaborazione egiziana è un falso. Al Sisi ha permesso una collaborazione giudiziaria che non è quella che sognavamo, ma è decisamente superiore a quella standard”. L’intervento, decisivo per le sorti del caso Regeni e soprattutto per i consensi di Italia Viva, richiama quelli di Previti che, appena iniziarono i suoi processi, si trasformò da assenteista a stakanovista dell’aula, dissertando su tutti i temi dello scibile umano: dall’“adeguamento ambientale della centrale termoelettrica di Polesine Camerini” all’“impiego delle giacenze del bioetanolo nelle distillerie” all’“esecuzione dell’inno nazionale prima delle partite del campionato di calcio”.

Il processo di emulazione-identificazione con la banda B., sempre per difendersi nei e non dai processi, prosegue con un altro cavallo di battaglia del Caimano e dei suoi cari: le eccezioni di incompetenza territoriale a raffica. B.&C. per vent’anni tentarono di trasferire i loro processi da Milano a Brescia, o a Perugia, o a Roma. Il nostro, siccome Open aveva sede a Firenze, ritiene che la Procura di Firenze sia incompetente a giudicarlo e pretende che l’indagine plani morbidamente a Roma (dove ha sede il Pd, che non c’entra nulla), o a Pistoia (dove nacque la fondazione prima di spostarsi a Firenze), o a Velletri (tribunale competente a giudicare i reati di Pomezia, dove ha sede uno dei primi finanziatori di Open, la Promidis, che però non è indagata diversamente da lui e dagli altri amministratori di Open). Inoltre, non disponendo più della Rai e dei giornaloni come ai bei tempi per sparare sui pm, ha aperto il sito guerraarenzi.it per seguire “processi, indagini e accuse” ai politici perseguitati come lui. Scopriremo presto che i magistrati che osano dargli noia indossano calzini turchesi. Che Carrai è uno stimato igienista dentale. Che Lotti, con Palamara e Ferri, faceva solo cene eleganti. Che l’avvocato Bianchi merita la Consulta o, almeno, il ministero della Giustizia. Che urge un lodo Bianchi per congelare i processi agli ex premier e depenalizzare il finanziamento illecito. Che lui non può farsi interrogare perché ha l’uveite. Che la Boschi è la nipote di Al Sisi e, processandola, si rischia un incidente diplomatico con l’Egitto.

“Colpa di Alfredo” ma merito di Targa, l’etichetta che si fidò di Vasco e del “negro”

Merito di Santino, se ancora discettiamo della Colpa d’Alfredo. Santino aveva una marcia in più, in tutti i sensi: a Modena cuccava sempre le migliori. Compresa la ragazza che aveva accettato la corte di Vasco, dj allo “Snoopy” e dragatore di fine serata in quegli anni 70. Solo che quella volta Rossi indugiò con l’amico Alfredo giocando a Space Invaders. La ragazza sparì nella notte con Santino. L’indomani il beffato rievocò lo smacco con il fido Massimo Riva (l’iconico chitarrista dei tempi ruggenti) sputando una battuta intinta nel veleno della trivialità: “È andata a casa con il negro, la troia!”. Che divenne il centro incandescente della canzone Colpa d’Alfredo.

Razzismo? Una sortita politicamente scorretta? Macché, un fraintendimento goliardico. Santino il playboy non era black, però le sue prestazioni suscitavano lo scorno della compagnia. In ogni caso il verso incriminato indusse i discografici, che del brano volevano fare il primo singolo dell’album omonimo, a muoversi con cautela. Anche se l’etichetta Targa era indipendente, e il responsabile, Mario Rapallo, si fidava talmente di Vasco da accoglierne a scatola chiusa le creazioni, si puntò sul 45 giri Non l’hai mica capito/Asilo republic. In una major, Colpa d’Alfredo sarebbe stata censurata. “Vasco disse: ‘mi è andata bene’”, ricorda Tania Sachs, storica press agent del cantautore. Il giornalista Marco Mangiarotti aggiunge: “Ci furono dei problemi. Ma la canzone fu trasmessa dalle radio milanesi, con grande successo. E la fama di Vasco superò i confini emiliani”. Mangiarotti è autore del cospicuo libro-intervista con il rocker che è uno degli elementi preziosi del cofanetto realizzato dalla Sony per il quarantennale di Colpa d’Alfredo. Roba per vaschisti ultraortodossi. Il piatto forte è il video animato per Anima fragile (l’unica ballata per voce e piano dell’eroe di Zocca, ultima performance di Gaetano Curreri prima di formare gli Stadio trasferendosi da Dalla). Il corto, realizzato con la regia di Arturo Bertusi e il disegno a mano di Rosanna Mezzanotte, evoca un inseguimento sentimentale per mezzo di un anello e di un nastro rosso: in tempo di pandemia acquista ulteriori sfumature poetiche. Per il resto, il box deluxe (85 euro) comprende l’album in vinile, cd, musicassetta più il 45 giri di Non l’hai mica capito e in copertina lo scatto l’epoca di Mauro Balletti: Vasco con occhio nero e volto tumefatto, come dopo un pestaggio. Nel 1980 la foto finì sul retro della cover, per un’altra scelta prudenziale.

“Queste canzoni erano proprio cazzotti”, nota Balletti. Ne conviene l’ingegnere del suono Maurizio Biancani, che dal master originale ha ora tirato fuori, con un lavoro filologico, l’anima ruspante dei brani: “Vasco all’epoca ascoltava gli Stones e il punk, e qui cominciava la sua avventura rock”. Niente inediti, tuttavia: a dire dei curatori non ce n’erano, dunque il box potrebbe deludere quanti si aspettavano uno scavo pompeiano dal terzo episodio nella rivisitazione della discografia del Nostro. Appuntamento nel 2021 per il cruciale Siamo solo noi. Ma anche, in estate, per il nuovo album di inediti, con il singolo (“una canzone d’amore”, rivela Vasco) già il primo gennaio. Chissà come finirà il derby tra vintage e attualità. Un pareggio non sarebbe male.

 

Lo zingaro che stregò Tabucchi

Ma allora che cosa significa per uno scrittore come me, cosa significa raccontare?

Raccontare, naturalmente, è un’attività con due aspetti, con due facce, nel senso che l’attività del raccontare presuppone un’altra attività, che è quella dell’ascoltare…. Un narratore, almeno nel mio caso, è principalmente un ascoltatore, un ricettore, e dunque funziona come un’antenna ricetrasmittente, nel senso che fornisce ad altri, ampliandola con il megafono della scrittura, un’informazione che gli è giunta. Di che natura è questa informazione che gli è giunta?

Può essere un’informazione che gli giunge dal suo profondo, che riguarda unicamente lui stesso. Che riguarda lui stesso nel senso che riguarda la sua privata maniera di essere uomo, le pieghe della sua coscienza, diciamo pure della sua anima.

Poi c’è l’informazione che arriva allo scrittore dal mondo esterno: e può essere un’informazione che non ha niente a che vedere con la sua coscienza, ma che ha a che vedere solo con il suo particolare modo di guardare il mondo esterno. Un mondo esterno con il quale lo scrittore non ha intrecciato nessuna forma di complicità, ma che egli restituisce in un modo del tutto personale…

Infine, l’informazione che lo scrittore fornisce può essere un risultato, un connubio: può essere il risultato di un’informazione che viene dal mondo esterno e che si incontra con un’informazione dal profondo dello scrittore; e in questo caso il risultato è una reazione o un incrocio…

Questo incontro di secondo livello si verifica col lettore. Quindi a questo punto si verifica un altro passaggio. Perché? Perché lo scrittore, che è il ricettore di una storia – sia che questa storia venga dal mondo esterno, dal profondo dello scrittore o dall’incontro del mondo esterno col profondo dello scrittore – lo scrittore, dicevo, non avrebbe senso se la sua operazione si arrestasse a questo punto. Dunque, se è vero che una storia per esistere ha bisogno di essere raccontata, è anche vero che per esistere deve essere ascoltata… Quando una storia viene scritta è una storia univoca, è vissuta da una sola persona; allorché viene letta viene caricata di altri sensi.

La letteratura possiede questa curiosa caratteristica: dà la possibilità agli uomini di aggiungere strati di senso a ciò che all’origine aveva un senso molto più povero. Ciascuno di noi carica di senso una narrazione con la sua esperienza privata; ma la carica anche in quanto persona che appartiene a una determinata epoca, a una determinata società, a una determinata tradizione, a una determinata cultura e a una determinata classe sociale. La letteratura dunque è un organismo che cambia, una creatura della quale le storie letterarie registrano le modifiche subìte nel corso della sua esistenza. La figura di Don Chisciotte non è più la figura che concepì Cervantes, così come la figura di Amleto non è più la figura che concepì Shakespeare; è qualcosa di più e di diverso; ogni epoca, ogni società e ogni lettore hanno caricato queste figure di sensi, di certezze o di incertezze, di nuovi dubbi o di nuove verità.

A questo punto dovrei dire che raccontare, e cioè praticare questa ambigua attività dotata di due direzioni, mi pare un’attività complessa che ci induce al sospetto o perlomeno ci induce a riflettere sulla precarietà e sulla relatività della letteratura – o perlomeno che tale sospetto ci può fornire una salutare auto-ironia sul nostro modo di scrivere.

Mi rendo conto che ciò che dico può sembrare illogico, ma in fondo perché dovrei essere logico? Sono uno scrittore, e la logica non è il mio dovere.

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“La storia me la raccontò alcuni anni fa un vecchio zingaro, disse Marlowe, e io ve la racconto tale e quale, nessuno pretenda che sia vera, ma solo che mantenga la stessa verità con cui mi fu raccontata”.

Ci eravamo interrogati molte volte sulle storie che Marlowe ci raccontava. Da dove le tirava fuori? Ce lo chiedevamo, ma dopo tutto non ci interessava troppo, quello era un inverno un po’ speciale, davvero, chissà perché avevamo scelto Guido e Lapo e io di ritirarci in quella casa isolata in quella valle remota e bellissima circondata dai boschi e confinante a Sud con una regione di laghi e di stagni, per dedicarci a cacciare la beccaccia.

Ma perché la beccaccia? Perché la beccaccia ha un volo obliquo, come dice un poeta, un volo che non puoi presupporre, è come la vita, la beccaccia, fa delle schivate improvvise, ti viene incontro e poi ti evita, un batter d’ali e già il suo volo è altrove, e come prenderla, accidenti, è impossibile, il suo volo si prende gioco di te, noi ci eravamo detti senza dircelo che bisognava sparare alla beccaccia, colpirla finalmente nel suo volo obliquo, stenderla, buttarla a terra, ecco, che il cane ansante e ubbidiente ce la portasse tra i denti, azzannata là fra i cespugli della brughiera. Per questo, quell’inverno ci ritrovammo in quella valle, ed era un luogo remoto, lontano dal mondo e dalla vita che avevamo vissuto. E Marlowe (perché lo chiamavamo così), la sera raccontava storie. Storie lunghe, che ci tenevano vicino al fuoco del caminetto, del resto nessuno di noi aveva voglia di andare a letto, sapevamo che sarebbero state notti difficili, a occhi aperti, a ripensare a ciò a cui non si doveva pensare più.

“La storia me la raccontò alcuni anni fa un vecchio zingaro, disse Marlowe, e io ve la racconto tale e quale, nessuno pretenda che sia vera, ma solo che mantenga la stessa verità con cui mi fu raccontata. Allora ero marinaio, perché nella mia vita sono stato anch’io marinaio, ma uso la parola in senso lato, per dire vagabondo, e giravo per il mondo, ero inquieto, come voi, la mia gioventù stava finendo, lo sentivo, ed ero capitato a Lisbona…”.

Per gentile concessione degli eredi Tabucchi

Far parlare i carnefici per capire il male senza mai banalizzare

La decisione della Rai di cancellare dal palinsesto l’intervista a Luca Varani, aguzzino di Lucia Annibali, “per non urtare la sensibilità delle vittime e dei telespettatori” apre una questione importante, che non si può liquidare con l’asciuttezza dell’argomento “al carnefice non va concessa alcuna intervista”. Si può, eventualmente, comprendere l’aspetto dell’inopportunità di mandare in onda l’intervista proprio in occasione della giornata dedicata alle donne che hanno subito violenza, ma questa è una questione di sensibilità (che condivido), mentre la sostanza è altrove. Ed è molto più complessa e ricca di sfumature.

La violenza sulle donne non è, come molti lasciano intendere in questi giorni, un orrore di semplice lettura. I meccanismi, i contesti, le vittime e perfino i carnefici sono diversi, raccontano (spesso) storie oscure e intricate in cui si fondono molti elementi: il retaggio culturale, l’educazione, le figure di riferimento, il contesto sociale, la psicologia dei protagonisti, il momento storico e una serie di aspetti che raccontano la storia di entrambi, della vittima e del carnefice. Se questo non contasse, la violenza sulle donne seguirebbe sempre un copione prevedibile e prestampato, e non è così.

Intervistare il carnefice ha una funzione fondamentale: serve a non ridurre la figura del- l’uomo violento a uno stereotipo. All’idea del cavernicolo che chiude la donna nella stanza delle scope o di un rapporto in cui lo spettro della violenza aleggia dal primo bacio. All’idea che l’uomo che uccide, molesta, perseguita sia un prototipo che dissemina indizi, che corrisponda a un identikit e che sia facile individuarlo e scappare per tempo. Ecco perché far parlare questi uomini è importante. E non vuol dire né giustificare (ci mancherebbe), né concedere altri punti di vista, né mettere vittima e carnefice sullo stesso piano. Significa, come ha sempre detto Franca Leosini, “interpretare” una vicenda. Certo, bisogna essere rigorosi e inflessibili, non si deve concedere lo spazio per capovolgere i ruoli, per colpevolizzare la vittima, per gettare ombre, ma stabilire preventivamente che chi commette un reato seppur odioso debba tacere per sempre, è una posizione spaventosa. Perché se il male non lo racconti, non lo conosci. E se non lo conosci, non lo riconosci quando ci inciampi.

Ho raccontato molte storie di violenze e femminicidi e quello che mi ha sempre colpita è che lo schema è sempre simile, ma gli elementi che lo compongono hanno una variabilità impressionante. Penso al ricco dermatologo Matteo Cagnoni che uccise la moglie Giulia perché lei aveva un altro e voleva separarsi senza che qualcuno avesse mai sospettato un’indole così violenta. Penso a Manuel Piredda, un ragazzo di umili origini che già poco più che adolescente aveva perseguitato la fidanzata del liceo e anni dopo ha dato fuoco alla sua ex moglie Valentina. Penso all’ex militare Salvatore Parolisi, che uccise la moglie Melania con spietatezza per poter vivere la sua storia d’amore con l’amante. Penso a Jessica Notaro, vittima di un uomo feroce e di una dipendenza affettiva che racconta sempre con estrema efficacia. Penso a un uomo sadico, ma anche intelligente e abile manipolatore, ovvero Angelo Izzo, assassino e stupratore del Circeo, che scontata la sua colpa tornò a uccidere due donne. Penso alla galleria di uomini insospettabili o sospettabilissimi che hanno commesso violenze orribili sulle donne e non riesco a individuare né un identikit, né un movente valido per tutti.

Raccontare questi uomini significa non banalizzare il male, non metterlo in una casella di certezze. Significa raccontare alle donne che l’aguzzino può essere il marito mite, il padre oppressivo, l’amante altolocato, il fidanzato con la terza media, il compagno padrone, l’uomo ossessionato dal controllo, quello spietato e anaffettivo, quello per cui la donna è una proprietà, quello cresciuto in famiglie normali, quello cresciuto in contesti violenti, anche quello che agisce per vigliaccheria, incapace di intravedere vie di uscite in relazioni di dipendenza.

E se “la storia” non fosse importante, ma contasse solo “l’azione”, perfino i processi sarebbero inutili. Non esisterebbe neppure un capolavoro come A sangue freddo, perché la violenza è violenza, non va interpretata. Non bisogna indagare nelle teste e nelle vite di chi uccide, nella società, nell’ambiente, nella condizione. Certo, Lucia Annibali ha tutto il diritto di sentirsi ferita e di ritenere alcuni passaggi dell’intervista una violazione della sua intimità. Ha ragione quando dice che queste operazioni possono turbare le vittime, che bisogna fare attenzione a evitare la vittimizzazione secondaria. Bisogna però ricordare che la cultura di genere affonda le sue radici negli stereotipi. E gli stereotipi si abbattono raccontando la violenza nella sua complessità, mai semplificandola.

Fumo, forni e caldaie kaputt: ma il cemento non si tocca…

Il Consiglio comunale di Milano ha approvato pochi giorni fa il nuovo regolamento per la qualità dell’aria. Settanta pagine, ma quasi tutti si sono limitati a commentare le poche righe del divieto di fumo all’aperto a meno di dieci metri da altre persone (si stima che il fumo di sigaretta sia tra le prime cinque fonti emissive di PM10 in città). In realtà c’è molto di più nel documento che ha come obiettivo migliorare la salubrità dell’aria che respiriamo. A partire dal divieto di installazione di nuovi impianti di riscaldamento a gasolio, e – dall’ottobre 2022 – perfino la messa al bando delle caldaie già esistenti con obbligo di conversione ad altre fonti come gas o apparecchi elettrici, approfittando degli appositi incentivi governativi e comunali. In questo caso, oltre che sull’abbattimento di polveri e ossidi di azoto, gli effetti positivi ricadono pure sul clima. Ad esempio, a parità di contenuto energetico il gas metano inquina circa il venti per cento in meno del gasolio in termini di emissioni di CO2 fossile, inoltre l’adozione di nuovi dispositivi moderni e più efficienti garantisce un ulteriore risparmio di combustibile e un minor rilascio di gas climalteranti. Se poi si opta per un impianto di riscaldamento a pompa di calore e alimentato a elettricità da fonte rinnovabile autoprodotta (con pannelli fotovoltaici), il risparmio di emissioni è quasi totale. Anche se responsabile solo dell’1-3% del consumo energetico in ambito commerciale, tenere aperte le porte dei negozi per incentivare l’ingresso dei clienti sarà finalmente vietato dal 1° gennaio 2022: si taglieranno così le gambe a una cattiva abitudine troppo radicata in città, simbolo di un atteggiamento scioccamente dissipativo, ma perché aspettare ancora un anno? Applicatelo subito! Compare poi l’obbligo di installazione di colonnine per la ricarica di auto elettriche presso ogni distributore di carburante fossile, annullando così uno dei principali elementi di scetticismo del pubblico – ovvero la diffusione ancora modesta dei punti di rifornimento – verso questa categoria di veicoli a emissioni quasi-zero. Soprattutto nelle grandi città come Milano, dove il traffico rappresenta la principale fonte di emissioni di particolato e ossidi di azoto, e le percorrenze medie giornaliere di pochi chilometri rendono già ora l’autonomia delle auto elettriche perfettamente consona alle esigenze di spostamento. I forni a legna delle pizzerie milanesi sono secondi per emissioni di PM10 solo al traffico veicolare: ecco perché non è fuori luogo puntare, nel giro di qualche anno, all’obbligo di utilizzo di biomassa di qualità certificata e ben secca (la legna umida scalda meno e libera più particolato nocivo) e al monitoraggio delle caratteristiche dei fumi, senza così dover rinunciare al piacere di una tradizionale pizza cotta alla fiamma, mentre vecchie stufe e caminetti da appartamento saranno fuorilegge dall’ottobre 2023. Altri provvedimenti riguardano il divieto di utilizzo di generatori di elettricità con motori a combustibili fossili da parte dei commercianti ambulanti, le cui emissioni saranno pur poco rilevanti nell’insieme della città, ma i loro effetti negativi su qualità dell’aria e salute non sono trascurabili nei mercati, dove questi mezzi si concentrano. Ci sono poi i cantieri, in cui si richiede attenzione alle buone pratiche per limitare il risollevamento delle polveri (lavaggio periodico di strade, piste e ruote dei veicoli) e il rinnovamento dei macchinari con mezzi moderni e meno inquinanti. Le nuove norme milanesi sono in sintonia con il rapporto “Air quality in Europe — 2020” diramato proprio ieri dall’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA): nonostante il generale miglioramento della qualità dell’aria nell’ultimo decennio grazie all’efficientamento di caldaie, automobili e centrali elettriche, e una riduzione del 13 per cento della mortalità per esposizione a livelli eccessivi di PM2,5 rispetto al 2009, l’inquinamento uccide ancora troppo, 417.000 persone all’anno nell’Unione (dati 2018) considerando solo questo fattore nocivo. Una strage silenziosa che supera i dati del Covid-19 (per ora, circa 370.000 vittime da coronavirus nel continente): servono dunque ulteriori sforzi collettivi per giungere ad ambienti ed ecosistemi più sani a lungo termine, obiettivo peraltro importante per ridurre la probabilità di insorgenza futura di nuove pandemie. Ma alla fine nel perseguire la sostenibilità ambientale ciò che più conta è la coerenza: a poco servirà disciplinare le emissioni dei mezzi da cantiere se poi questi servono a consumare prezioso suolo e ad aumentare un’edificazione che a sua volta farà crescere i consumi energetici, il traffico e i rifiuti. Forza Milano, attendiamo le prossime 70 pagine per finire il lavoro e diventare veramente una città verde.

Palinsesti Rai e il “sequestro” della politica

Fuori i partiti dalla Rai, come una barzelletta rancida non fa ridere nessuno. La Rai dentro i partiti non diverte lo stesso, ma almeno è cronaca vera. Nelle puntate precedenti i politici nominano presidente e cda, che nominano i direttori di rete e di tg, che nominano i loro sottoposti, che distribuiscono appalti e collaborazioni, in ossequio ai desiderata dei politici. Un gioco del domino perfettamente circolare, fallace come tutte le vicende umane, tuttavia pur sempre emendabile. Attraverso, per esempio, la famosa “telefonata” che suggerisce l’intervistina in video all’onorevole ics, o il contrattino alla signorina molto cara all’onorevole ipsilon (“Boris” docet). Un sistema collaudato al 90% che, come i vaccini per il Covid può essere perfezionato fino al 95%. In che modo? Affidando direttamente ai partiti la parola definitiva sui palinsesti del Servizio pubblico. Esempio? Il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra (quello delle frasi infelici sulla presidente della Calabria, Jole Santelli), invitato a Titolo V su Rai3 e rispedito a casa quando stava per entrare in studio. “Sembra che siano stati l’Ad Salini e il direttore di Rai3 Di Mare a dividersi i numeri di telefono per chiedere ai referenti politici che cosa sarebbe stato meglio fare (La Stampa)”. I referenti dissero niente Morra, e niente Morra fu. Altro esempio? Le interviste su Rai Storia di Franca Leosini a Luca Varani (condannato come mandante dell’aggressione con l’acido dell’ex fidanzata Lucia Annibali), e quella ad Angelo Izzo (uno degli autori della strage del Circeo). Saltano all’ultimo per “ragioni di opportunità” dopo le vivaci proteste del senatore Matteo Renzi, e degli onorevoli Andrea Romano e Valeria Valente (Pd) perché la programmazione avviene nella giornata contro la violenza sulla donne. “Si grida allo scandalo, si chiama in causa l’Ad Fabrizio Salini reo di aver permesso che fosse recato a Lucia Annibali ulteriore dolore” (La Stampa). Infatti, cambio repentino di programma. Nella Rai che non esiste la scelta di trasmettere o di non trasmettere, giusta o sbagliata, sarebbe stata presa da chi ne ha la responsabilità aziendale e funzionale, ed è pagato per questo: l’ad, i direttori di rete, i capistruttura. Nella Rai che invece c’è, i palinsesti li fanno Renzi, il Pd ma anche l’opposizione in quello spirito di condivisione tanto auspicato. A questo punto la Rai appare talmente consustanziata nei partiti che una domanda sorge spontanea: a cosa servono i plotoni di direttori e vicedirettori irrobustiti da continue infornate? Non bastano i “referenti”? Infatti.