La lezione sui principi della bioemergenza

Ormai è chiaro che la pandemia ci abbia colti impreparati. Tutti hanno le loro responsabilità. L’Oms non ha poi agito in perfetta coerenza con le sue raccomandazioni. I suoi interventi hanno subito i ritardi che in tema di bioemergenza sono inaccettabili. Tutti i governi non hanno mai programmato i loro piani secondo la cultura della prevenzione, spesso estranea a un uomo-donna di partito. È chiaro che investire per qualcosa che non accada è troppo rischioso in termini di consenso politico, soprattutto quando si è in regime di tagli per disavanzi economici che, sappiamo, sono spesso fatti a carico della sanità. Dobbiamo voltare pagina. Questa pandemia non sarà l’ultima e, contrariamente al passato, in un mondo globalizzato, le prossime saranno molto più ravvicinate nel tempo. Ci troviamo nella possibilità di imparare un’importante lezione. Affinché “successi” e “insuccessi” diventino lezione appresa, sarà necessario applicare i principi, forse poco noti, in materia di bioemergenza. Lo schema è agire, annotare ogni azione, annotare i risultati, valutarli in debriefing periodici degli esperti e amministratori responsabili. Spero che tutto questo si stia facendo. Sarà materiale prezioso per il nostro futuro. Quando la crisi sarà superata, sarà necessario costituire un Comitato per le Bioemergenze (non solo naturali, ma anche provocate), nominato seguendo parametri meritocratici (sarà possibile in Italia?), tenendo conto dei curricula e dell’esperienza maturata nel settore, costituito dai rappresentanti di vari settori-chiave dell’emergenza, ivi compresa la comunicazione, non scordiamolo! Il Comitato dovrà riunirsi periodicamente con una calendarizzazione che risponda all’esigenza dell’aggiornamento e non alla necessità contingente. Va ripensato un piano pandemico che venga, al momento dell’emergenza, applicato e non approntato. Necessario un costante contatto a livello internazionale, ora più che mai. È acclarato che il cambiamento climatico, la deforestazione e il movimento delle popolazioni ci porranno davanti a emergenze non più confinate e la sfida sarà proprio il coordinamento globale.

 

Zinga abbocca alla linea (suicida) di Molinari. E Renzi sogna

C’è un nuovo gioco in città. Che assomiglia tanto a quelli vecchi. Il direttore di Repubblica, travestendosi da “consigliori” della sinistra, avverte del nuovo asse tra la presidenza americana di Joe Biden e il leader del Labour inglese, Keir Starmer. Entrambi, fiuta l’abile Molinari, hanno capito che le elezioni si vincono al centro e che “la riconquista del ceto medio operaio passa per posizioni incompatibili con quelle della sinistra estrema”. Bye bye Bernie Sanders, bye bye Jeremy Corbyn. Anche se non è chiaro cosa stia facendo Starmer, senza alcuna vittoria elettorale da esibire e con una rivolta interna in corso proprio su Jeremy Corbyn, è proprio lui a indicare Biden e Kamala Harris come il duo che offre la possibilità “di riempire il vuoto di leadership globale”.

Chi poteva abboccare a simili visioni? Ieri il buon Nicola Zingaretti ha scritto a Repubblica (ancora?) per dire che il Pd non è da meno. La sinistra italiana non si fa certo prendere alla sprovvista, se c’è da “vincere al centro” e isolare le ali estreme mica deve spiegarcelo Molinari, noi siamo qui.

A parte il fatto che, secondo i dati forniti dalla “socialista” Alexandria Ocasio Ortez, i deputati statunitensi che hanno difeso le posizioni radicali hanno riconquistato il seggio, gli smemorati dell’ulivo globale fanno finta di non vedere che nel 2016 Trump ha vinto le elezioni proprio contro il centrismo dei Dem e che la storia dimostra che importare “modelli”, tra l’altro inventati, non ha mai portato bene. Al massimo può solleticare la fantasia di chi, Matteo Renzi, sogna di celebrare l’anniversario della scissione comunista del 1921 a Livorno invitando… Tony Blair. Che è come celebrare la Rivoluzione francese invitando Maria Antonietta.

Mail box

 

Sulla sanità calabrese bisogna dire la verità

È possibile che in Italia ogni qualvolta una persona dice la verità venga attaccata in forma violenta? Il senatore Morra con parole chiare e precise ha rappresentato lo stato di sfascio sanitario e politico-amministrativo in cui versa la Calabria. La sorpresa è che il M5S non ha sostenuto subito un suo esponente di punta e che presiede egregiamente una commissione importante con competenza e oggettività.

Natale Russo

 

L’idea della Tamaro: una “banconota poetica”

In questo tempo di pandemia, Susanna Tamaro ha trovato il modo di rallegrare l’umanità. Ha scritto su una banconota da 10 euro versi poetici tratti dal suo “Anima Mundi”: “L’amore è attenzione. Anima Mundi. Susanna Tamaro”. Chi entrerà in possesso della banconota potrà anche fare a meno di apprezzare questo fondamentale e rivoluzionario gesto di “ribellione” poetica, e se veramente vorrà trovare conforto e poesia vera, con i 10 euro della Tamaro potrà comprare, ad esempio, un’edizione economica dei Canti Orfici di Dino Campana.

Marcello Buttazzo

 

Aboliamo i paradisi fiscali per vincere la crisi

Mi sono letto due pagine del Fatto Economico. Nei due articoli si diceva che il peso del rapporto debito/Pil è esploso in tutto il mondo. I rimedi sarebbero la cancellazione del debito emesso durante la crisi Covid, l’emissione di eurobond o di titoli perpetui a cedola fissa. Non sarebbe più semplice recuperare le immense ricchezze sottratte all’economia reale e nascoste nei paradisi fiscali?

Ernesto

 

I troppi anglicismi del giornalismo italiano

Caro Marco, al contagio del virus è associato il contagio lessicale. Gli anglicismi, nel linguaggio corrente, hanno raggiunto livelli intollerabili e i giornalisti sono gli untori. Al prossimo programma televisivo presentati con un cartello con su scritto “no anglicismi”. Mi auguro che questo “vaccino” funzioni.

Mario A. Querques

 

Il “Zingasconi” andrà in porto, ne sono certo

Egregio direttore, a conclusione del suo editoriale del 21 novembre, dopo aver elencato tutti i politici del Pd che si sono prostrati finora ai piedi di Berlusconi, si chiede chi sarà il prossimo. Faccio una mia previsione e azzardo, senza tema di sbagliare, il nome di Nicola Zingaretti.

Francesco Fiorino

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, in merito all’articolo dal titolo “Bertolaso pigliatutto in conflitto di interessi”, pubblicato sul Fatto domenica, si precisa che, contrariamente a quanto lasciato intendere e indicato nella titolazione, Pirelli non è in alcun modo coinvolta nel business immobiliare della “Città della Salute”. La partecipazione di Pirelli in Prelios, già Pirelli Re, è stata ceduta nel 2017 e ogni legame di Pirelli con la suddetta iniziativa è privo di fondamento.

Ufficio Stampa Pirelli

Nell’articolo è ben specificato che Prelios, che cura il project management dell’iniziativa, è “la ex Pirelli Re” e Pirelli non viene in alcun modo legata alla suddetta iniziativa.

V. Bis. e M. Pas.

 

Scrivo a nome del Dott. Massimo Pulin, in proprio e quale legale rappresentante pro-tempore della Orthomedica Srl di Padova, in relazione all’articolo di Gianni Barbacetto, pubblicato venerdì sul Fatto, dal titolo “La vera storia dei Dpi mai arrivati”. 1) Dalla ricostruzione della vicenda processuale – ancora in corso – operata dall’articolo, si legge: “Il ministero pubblico elvetico proscioglie Balossi dalle accuse di riciclaggio e truffa. Bacchetta invece Pulin, a cui contesta la ‘denuncia mendace’ e l’inganno astuto: perché ha denunciato Balossi per truffa mentre contemporaneamente raggiungeva un accordo transattivo con lui”. 2) La verità processuale (non quella giornalistica) è tutt’altra, giacché il pubblico ministero di Lugano ha preannunciato l’adozione del decreto di abbandono della denuncia a carico del signor Pulin (l’equivalente in Italia dell’archiviazione della denuncia penale) con facoltà per questi di formulare pretese di indennizzo e torto morale. 3) Quindi il signor Pulin non è stato mai “bacchettato” dal pubblico ministero svizzero e la sua denuncia non è stata giudicata mendace e tanto meno ha mai messo in atto un “inganno astuto” a danno del signor Balossi. 4) È evidente che vi è stato un mancato approfondimento circa la verifica della verità dei fatti oltre a quella relativa all’attendibilità delle fonti, tanto da aver esposto i miei assistiti a un ingiusto discredito che ne ha gravemente minato l’immagine personale e aziendale. A questo proposito, si consideri che la Orthomedica Srl è stata fondata e opera ininterrottamente dal 1927: di certo non può essere considerata una di quelle “comete imprenditoriali” che sono apparse durante la fase emergenziale della pandemia e sul cui operato la Magistratura sta doverosamente indagando.

Avv. Domenico Pio Riitano

Prendiamo atto che il procedimento elvetico per “denuncia mendace” a carico di Pulin sia stato chiuso. L’articolo del “Fatto” spiega però come e perché sia stato aperto, sulla base della “sentenza” della stessa magistrata svizzera, il suo “decreto d’abbandono” del 22 giugno 2020.

G. B.

41-bis “Il carcere duro va mantenuto. Anche per rispetto di noi vittime”

Gentile Direttore, ho seguito con attenzione gli ultimi scambi sulle pagine del Fatto riguardanti il regime detentivo previsto dal 41-bis. Nei medesimi spazi viene auspicata la nascita di un dibattito tra “addetti ai lavori”. Quale presidente dell’Associazione di volontariato Vittime del Dovere – costituita da circa cinquecento famiglie di appartenenti alle Forze dell’ordine, Forze armate e Magistratura, caduti o rimasti invalidi perché colpiti da criminalità comune, organizzata o terrorismo – ho ritenuto importante farle pervenire un nostro contributo.

L’osservazione che spesso ci viene mossa è quella di avere una “visione univoca e di parte”, tanto che in alcuni articoli noi vittime siamo state definite in modo spregiativo “erinni vendicatrici”. Tuttavia, ciò che peroriamo nelle sedi istituzionali, stante l’assoluta carenza di attenzione da parte dei mass media, è quello di poter aver una voce: in questi ultimi anni, infatti, abbiamo chiesto sia al ministero dell’Interno sia a quello della Giustizia la necessità di istituire un tavolo di lavoro per le vittime, ma finora i nostri appelli sono stati inascoltati. È sconfortante prendere atto che la posizione delle vittime è percepita come ingombrante: in questo clima di assoluto disinteresse, ho pensato di fare un tentativo con voi.

La nostra associazione presta particolare attenzione a questa sorta di azione erosiva, compiuta a piccoli passi, che sta interessando il “carcere duro”: tutto ciò ci ha condotti più volte a intervenire, anche sul nostro sito. Partendo dalle iniziali obiezioni (nel 2016) all’utilizzo di Skype al 41-bis, definito da noi provocatoriamente “teleworking”, siamo passati a intervenire presso le commissioni Giustizia di Camera e Senato, per proseguire con proposte, relazioni, interrogazioni parlamentari e anticipazioni su probabili criticità. Oggi, in piena pandemia, quanto da noi sostenuto 4 anni fa su Skype appare pura preveggenza: infatti tale mezzo è stato usato nella prima ondata del Covid per placare le rivolte nelle carceri, insieme ai provvedimenti del decreto Cura Italia che hanno consentito un’emorragia penitenziaria senza precedenti, una vera e propria catastrofe penitenziaria. Ciò che più spaventa è che le rivolte oggi tornano con rinnovato vigore, a seguito della seconda ondata di contagi. Questi fermenti sono evidentemente strumentali alle richieste, purtroppo moltiplicatesi negli ultimi giorni, di concessione di amnistia o indulto che andrebbero ignobilmente a vanificare il concetto di certezza della pena.

Emanuela Piantadosi, Presidente Associazione Vittime del Dovere

Non esiste un “caso Morra”: è solo fumo negli occhi da destra

Il “caso Morra”, che in realtà esiste solo nella testa di Gasparri (dunque non esiste), è un inno all’ipocrisia italiana. Il senatore M5S ha le sue colpe. Colpisce come nelle prime ore non sia stato minimamente difeso dai suoi colleghi grillini: deve stare davvero antipatico a un sacco di deputati e senatori 5 Stelle, altrimenti non si spiega. Chi lo descrive come egoriferito, chi come troppo polemico, chi come “bravo solo lui”. Da qui, al primo inciampo dialettico, questo fuoco amico che si è placato solo dopo il caso della censura Rai, che ha tardivamente compattato i 5 Stelle attorno a Morra.

Il senatore, che conosce la Calabria come pochi e si batte per essa come pochissimi, sta verosimilmente pagando il suo approccio antipatizzante nei confronti di Di Maio e certi attacchi “gilettiani” a Bonafede. A proposito di Giletti, tra gli errori di Morra c’è anche la telefonata di due sere fa a Non è l’Arena. Cercare di intervenire al telefono in un programma di Giletti e uscirne bene senza chiamarsi Salvini e Meloni è una perversione ben strana, che mesi fa aveva contraddistinto pure Bonafede. Morra ha poi sbagliato a vantarsi per essere diventato “trend topic su Twiitter”, perché per divenire trending (non trend) topic in quel social morto e sepolto chiamato Twitter bastano poche decine di tweet vomitati dai soliti imbecilli fascisti (e derivati). Soprattutto: Morra ha sbagliato nel definire la Calabria “irrecuperabile” e nel citare Jole Santelli nella famigerata intervista a Radio Capital. Ha sbagliato non certo perché abbia insultato calabresi, Santelli e malati oncologici: non lo ha mai fatto, e chi asserisce il contrario o è scemo o intellettualmente disonestissimo. Ha sbagliato perché ha prestato il fianco alle polemiche becere dei Mulè e dei Tajani, dei Salvini (che lo ha definito “cretino”) e delle Meloni (che ha attaccato la classe dirigente grillina dimenticandosi dei non pochi esponenti d Fratelli d’Italia con pendenze giuridiche).

Ciò detto, il (non) “caso Morra” è oltremodo avvilente. Morra ha insultato Jole Santelli? No: ha detto che la rispettava umanamente, ma che politicamente erano agli antipodi. Aggiungendo, ed è vero, che i calabresi che l’hanno votata sapevano quanto fosse purtroppo malata. Morra ha insultato tutti i calabresi? No: ha detto che chi ha votato Tallini, ora agli arresti domiciliari con accuse devastanti, non può certo lamentarsi. Affermazione sacrosanta: è ora di finirla con queste analisi sempre autoassolutorie degli elettori. Se voti Tallini, Spirlì o chi volete voi, poi non puoi certo prendertela con la politica cattivona. Proprio Morra si sgola da anni nel raccontare chi sia Tallini, ritenuto “impresentabile” dalla Commissione antimafia pochi giorni prima delle elezioni regionali. Con quali risultati? Nessuno. La destra ha fatto finta di nulla (Sgarbi ne celebrò le lodi attaccando proprio Morra) e Tallini a Catanzaro è risultato il candidato più votato. Morra ha insultato i malati oncologici? No: è la ’ndrangheta a voler lucrare sui farmaci antitumorali. Quella ’ndrangheta che, stando alle intercettazioni, di Tallini non pare aver disistima.

Davvero: di cosa diavolo stiamo parlando da giorni? Che colpe avrebbe Morra? Ci rendiamo conto che, se lui è ritenuto “moralmente indegno” al punto da non poter andare in Rai, Sgarbi andrebbe internato e Berlusconi spedito in Siberia? Ci rendiamo conto che, per molti, sono più gravi due parole (forse) sbagliate da un senatore incensurato che gli arresti e i crimini di un’impresentabile classe politica purtroppo al potere? Siamo messi male.

 

Netanyahu e Bin Salman, i danni del “patto” tra due estremisti

Avvertivo fin da subito un che di blasfemo nel definire “Patto di Abramo” – richiamandosi alla Genesi, il primo libro della Bibbia – l’accordo tra Israele e le petromonarchie del Golfo formalizzato nel settembre scorso alla Casa Bianca con la benedizione di Trump. Lo hanno sottoscritto Paesi che in realtà non si sono mai fatti la guerra, se non a parole, e che già da tempo avevano instaurato una solida collaborazione militare e tecnologica.

Ma ora, con la visita-lampo di domenica in Arabia Saudita del premier Benjamin Netanyahu accompagnato dal capo del Mossad, Yossi Cohen, si manifesta la scommessa temeraria di un matrimonio di convenienza che si pretende di nobilitare addirittura sul piano teologico. Bibi e Yossi sono volati sulla costa saudita del Mar Rosso (pare all’insaputa degli alleati di governo) per concordare un fatto compiuto col principe reggente Mohammad bin Salman. Sensale presente all’incontro – avvenuto subito dopo la chiusura del G-20 di Ryad – il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, impegnato al fianco di Trump nel tentativo di ipotecare la futura politica estera dell’Amministrazione Biden.

Un gioco sporco, come dimostra anche il trucco di far trapelare ufficiosamente la notizia lasciando poi che la diplomazia saudita ne desse una timida smentita. Stiamo parlando di un Paese che si pretende custode dell’ortodossia islamica, dove una versione reazionaria della legge coranica viene tutt’ora applicata severamente, e nel quale fino a poco tempo fa era addirittura vietato l’ingresso agli ebrei. Che vi abbia messo piede il capo del governo israeliano rappresenta dunque la violazione di un tabù, anche se già era stato concesso alla compagnia aerea El Al di sorvolarlo per raggiungere Dubai e Abu Dhabi.

Se l’uomo forte del regno saudita ha deciso di correre questo rischio è perché trova in Netanyahu un partner altrettanto spregiudicato nel tentativo estremo di boicottare una ripresa dei negoziati fra gli Usa e l’Iran. Altro che Patto di Abramo: si manifesta, tra il despota della corrente wahhabita, la più reazionaria dell’islam, e la destra israeliana, un minaccioso ma fragile accordo di potere che al Medio Oriente non promette né pace né armonia, ma impiego di una forza che potrebbe sfociare in nuove guerre.

L’incontro di domenica sera a Neom si configura come un vero e proprio schiaffo in faccia all’amministrazione democratica che si insedierà prossimamente a Washington. Gli spericolati estremisti che lo hanno orchestrato, scommettono di riuscire a legare le mani a Biden, nel timore che riprenda la politica del dialogo di Obama. Di più. Evidentemente calcolano che la supremazia militare, finanziaria e tecnologica di cui si sentono certi, riesca a provocare in tempi ravvicinati l’umiliazione e di seguito la caduta del regime degli ayatollah a Teheran. La storia ci insegna che calcoli di questa natura – la scommessa di sottomettere con la forza una vasta regione insanguinata e destabilizzata – spesso hanno esiti imprevedibili. Rovinosi.

Quand’anche si realizzasse l’improbabile ambiziosa prospettiva storica di una riconciliazione fra mondo islamico sunnita ed ebraismo, col riconoscimento del diritto all’esistenza dello Stato d’Israele da parte di chi finora l’ha considerato un corpo estraneo da debellare, ciò dovrebbe compiersi mettendo a tacere con la forza componenti nazionali (i palestinesi, i curdi, altre minoranze) e religiose (gli sciiti libanesi, iracheni, yemeniti) che non si possono tenere a bada a lungo sotto un tallone di ferro.

Ancora una volta, dietro alla retorica del Patto di Abramo, riconosciamo l’indicibile convinzione che certi popoli, certe regioni, possano essere governati solo col bastone perché inadatti all’indipendenza e tanto meno alla democrazia. Domenica sul Mar Rosso si è profilata una pace fra guerrafondai che non promette niente di buono.

 

Le aperture al Caimano giovano a lui, non al Pd

Non posso dire di conoscere Goffredo Bettini, anche se fummo colleghi alla Camera e, ricordo, un giorno mi fece cortese omaggio di uno scritto di Pietro Ingrao, uno dei leader più carismatici del vecchio Pci. Bettini si è forgiato alla sua scuola, ma di quel partito è stato anche dirigente attivo, guadagnandosi la fama di dominus in quel di Roma, nonché di regista delle operazioni politiche che hanno portato al Campidoglio i sindaci Rutelli, Veltroni, Marino. Dunque, uomo dotato di intelligenza politica e abilità manovriera.

Da qualche tempo, Bettini si è ritagliato un nuovo protagonismo, accreditandosi come principale consigliere politico di Zingaretti. Ci ha preso gusto. Forse un po’ troppo. Ai miei occhi, Bettini ha un merito: quello di avere scommesso su un rapporto strategico tra Pd e M5S, come, per esempio, Zingaretti e Franceschini, ma mettendoci di suo “un di più” di visione e di elaborazione politica per le quali egli è versato. Mi spiego: considerando con lucido realismo di marca comunista i rapporti di forza tra destra e sinistra e la condizione di un Pd attestato sul 20 per cento e di un M5S che, per quanto in crisi e diviso, è stimato intorno al 15 per cento; interpretando la conclamata “vocazione maggioritaria” del Pd come cultura e ambizione di governo che, a un partito del 20 per cento, prescrive una politica delle alleanze (l’opposto della presunzione dell’autosufficienza dentro un velleitario assetto bipartitico coltivata prima da Veltroni – di cui in verità Bettini fu braccio destro – e poi da Renzi); la consapevolezza delle marcate differenze tra Pd e M5S e tuttavia, insieme, la convinzione, di più, la fiducia che un serrato confronto politico-culturale, dentro e attraverso la collaborazione di governo, possa sortire lo sviluppo di una positiva, reciproca contaminazione. Insomma una visione dinamica della politica intesa come iniziativa, dialogo, cooperazione che cambia le cose, ma anche gli attori politici. Specie quando si ha a che fare con partner “giovani” – segnatamente i 5 Stelle – la cui identità è ancora in via di definizione e si va forgiando dentro il vivo della dialettica politica e dell’esperienza di governo.

Una prospettiva, quella di Bettini, non da tutti condivisa dentro il Pd, ma la cui forza sta nella circostanza che, al momento, non si vedono alternative. Salvo quella di chi si attarda a interpretare la parola d’ordine della vocazione maggioritaria come autosufficienza, cioè in un senso che paradossalmente si risolve nel suo contrario (come non fosse bastata la disfatta del 2018): e cioè in una condizione minoritaria preludio di sicura sconfitta nella contesa con un centrodestra che, a dispetto delle sue scaramucce interne, si presenta puntualmente unito nelle prove elettorali.

Qui Bettini fa male i conti. Quando, esondando e non facendo un buon servizio alla sua stessa causa, propone l’ingresso di FI nella maggioranza e un rimpasto di governo. Abbiamo imparato a conoscere Berlusconi. Per quanto egli abbia recitato parti diverse nella sua lunga avventura politica, al dunque, negli snodi cruciali, si è mostrato un irriducibile concretista. Anche in queste ore: davvero vogliamo credere che, ai suoi segnali di fumo a maggioranza e governo, sia estranea la norma pro Mediaset? Che egli, in prospettiva, sia disposto a dissociarsi dal centrodestra per sostenere il governo? E circa il rimpasto domando: un uomo scafato come Bettini immagina che, aprendo il vaso di pandora del ricambio della squadra dei ministri, ne sortirebbe il governo dei migliori e non una destabilizzante fiera delle aspettative e delle ambizioni, tra i partiti e dentro di essi? Ancora: le due proposte – coinvolgimento di FI e rimpasto – sono di aiuto al premier Conte, che, allo stato, è l’insostituibile perno dell’equilibrio sul quale si regge la maggioranza e, a monte, quell’alleanza strategica Pd-M5S sulla quale Bettini ha scommesso?

Se per davvero si volesse raccogliere il sacrosanto appello di Mattarella all’unità nazionale per fronteggiare il dramma che ci ha investito, non mancherebbero i luoghi, a cominciare dal Parlamento, e le occasioni. Penso alla prossima legge di Bilancio e allo scostamento che dovrà essere votato da una maggioranza qualificata. Si vorrà negare, quel voto, da parte di chi ogni santo giorno lamenta che le misure di sostegno a chi non ce la fa sono briciole?

Da ultimo, un rilievo, diciamo così, stilistico. Sicuro Bettini che sia utile a Zingaretti accreditare l’idea che egli abbia bisogno di un suggeritore?

 

Le speculazioni di mia zia e della sua vicina di casa: le gatte di Wall Street

Mia zia e la sua vicina, una borgatara che si dà delle gran arie e parla con un accento straniero, come se venisse da qualche parte, sono in buoni rapporti diretti, ma nemiche sul piano finanziario, dove tentano di affermare la propria egemonia attraverso le loro società di revisione: una legge demenziale le autorizza a controllare i bilanci delle società cui fanno consulenza, con conflitti di interesse che sono giganteschi quanto i loro ricavi. Il bello è che non solo non debbono mai rispondere dei loro errori, ma più sbagliano più guadagnano, la classica gallina dalle uova sode. Le multe? Ridicole, dunque convenienti.

Mia zia, che per le sue speculazioni al ribasso viene chiamata la Samara di Wall Street, mi illustra la regola del tre: “Se leggi tre volte il bilancio di una società e non riesci ancora a capire come fanno i soldi, di solito c’è trippa per gatti. Noi siamo i gatti”. Vent’anni fa, zia fu tra i pochi a scommettere sul crollo della Enron, il gigante Usa dell’energia, in apparenza solidissimo, e guadagnò una fortuna quando la Enron implose in un gigantesco scandalo contabile. La società di revisione, di proprietà della vicina, chiuse i battenti. “La Enron derubò la banca”, dice zia, con una nota di sherry nell’alito, “ma la società della vicina fece da palo e fornì la mappa delle fognature”. Da allora, fra la zia e la vicina è in corso una guerra senza quartiere: in due, controllano la stragrande parte del business mondiale della revisione dei bilanci societari. In Italia si dividono l’88 per cento del mercato (ricavi per un miliardo all’anno, multe Consob per 2 milioni e mezzo in sei anni: una pacchia). Anche se avevano l’obbligo di farlo, non hanno visto i buchi di Parmalat, Cirio, Giacomelli, Italease, Carige, Banca Etruria, Banca Marche, Popolare di Vicenza, Mps e Popolare di Bari. Del resto, nel Cenacolo di Leonardo, solo dopo che ti hanno detto chi è Giuda gli vedi una faccia da canaglia.

Comunque, anche se due milioni di risparmiatori hanno perso un centinaio di miliardi, e fioccano i ricorsi, la zia e la vicina restano sulla cresta dell’onda. In Germania, per esempio, la società della vicina non s’è accorta dei trucchi contabili di Wirecard, il gigante dei pagamenti digitali che è finito in bancarotta dopo la scoperta dell’ammanco di 1,9 miliardi di liquidità nei suoi conti bancari; ma la vicina ha ottenuto lo stesso, dal prossimo anno, la revisione di 7 delle principali società tedesche quotate. “La supervisione europea è lenta, non ha risorse, e non è coordinata”, mi spiega zia, mentre le ciuccio le poppe (è ancora una strafiga, e facciamo sesso da quando mi svezzò, fra lenzuola ruvide, ma immacolate, in una casa colonica circondata da ortiche: avevo 15 anni, lei aveva appena cambiato sesso; fu indimenticabile, come la prima volta che vidi Shining) “cosicché i nostri pastrocchi passano spesso inosservati. Gli Stati potrebbero dotarsi di un proprio organo di revisione, ma non lo fanno. Che idioti!”. Nel 2015, zia e vicina misero da parte i dissapori per creare il cartello con cui conquistarono un maxi-appalto Consip da 66,5 milioni di euro, spartendosene i lotti. Multa dell’Antitrust: solo 23 milioni. Quanto fatturano con la pubblica amministrazione italiana? 300 milioni. L’anno prossimo ci sarà un nuovo appalto per altri cinque anni. “Tu e la vicina parteciperete di nuovo, zia?”. “Secondo te?”.

Ultim’ora. Da domenica prossima, cambia il Padre Nostro: il versetto “non indurci in tentazione” diventa “non abbandonarci alla tentazione”; e “ma liberaci dal male” diventa “ma da quando ci sei Tu, tutto questo non c’è più”.

 

Rep. Docet: se ti licenzio è per farti un favore

È ammirevole l’ostinazione con cui gli opinionisti liberisti si sforzano di dimostrare che perdere il lavoro non sia una sciagura o un danno irrimediabile. Anzi, può essere una buona occasione. Oscar Giannino in questa pratica si impegna da una vita e ora che Repubblica è affidata alle sapienti mani di suoi vecchi amici, può farlo anche dalle colonne dell’inserto economico del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Poco male, non è che in passato certe tesi mancassero nel quotidiano “progressista” anche se Giannino si esibisce in perle come questa: “Più si blocca per tutti la facoltà di licenziare e ristrutturare, peggio è”. Peggio per chi? Lo sforzo dell’ideologia, in senso marxiano, cioè “falsa coscienza” è sempre quello: convincerti che lasciare mano libera alle aziende, permettere loro di ristrutturare a piacimento, licenziare per poter siglare nuovi contratti che invece sono impediti dal blocco dei licenziamenti sia un vantaggio. Fino a scrivere che è meglio licenziare e fare nuovi contratti che tenere in piedi i posti di lavoro. Magari per spuntare condizioni contrattuali più favorevoli? Capiamo gli sforzi di vendere la sabbia nel deserto, ma abbiate il coraggio di scriverla com’è.

Caso Bismuth, la première di Sarkozy da imputato in aula

Nicolas Sarkozy compare in tribunale per corruzione. Il processo, iniziato ieri e previsto fino al 10 dicembre, è definito dai media francesi “una prima sotto la V Repubblica”: in altre parole, un fatto mai accaduto. Solo un altro presidente, Jacques Chirac, ha dovuto infatti rendere conto alla giustizia, nel 2011, per degli impieghi fittizi al comune di Parigi. Ma Chirac, poi condannato a due anni con la condizionale, già malato all’epoca, non era stato presente in aula. Sarkozy, 65 anni, è arrivato invece ieri verso le 13.30 al Tribunale di Parigi, in abito scuro e mascherina, circondato dai fotografi. Da tempo denuncia “uno scandalo che resterà negli annali”. L’ex presidente (dal 2007 al 2012) compare nel caso detto delle “intercettazioni Bismuth”, scoppiato nel settembre 2013. All’epoca, e già da aprile, gli inquirenti stavano indagando su Sarkozy per ben altri motivi: i presunti finanziamenti illeciti da parte del dittatore libico Gheddafi della campagna per le presidenziali del 2007, vinte contro la socialista Ségolène Royal (inchiesta in cui Sarkozy è indagato tra l’altro per corruzione passiva). A quel punto gli inquirenti decidono di intercettare il cellulare di Sarkozy e scoprono che l’ex presidente comunicava con il suo avvocato, Thierry Herzog, utilizzando una linea telefonica segreta e il nome in codice “Paul Bismuth”. Dalle conversazioni è emerso che Sarkozy-Bismuth ha tentato di corrompere un magistrato della Corte di Cassazione, Gilbert Azibert, promettendogli un posto ambito a Montecarlo, in cambio di informazioni segrete al centro di un’altra inchiesta, quella sui finanziamenti illeciti di campagna da parte della miliardaria Liliane Bettencourt (in cui Sarkozy ha poi ottenuto un non luogo a procedere). Ieri, in neanche mezzora, l’udienza è stata sospesa, fino a giovedì, per permettere ai giudici di esaminare la perizia medica effettuata su Azibert. Per Sarkozy è il primo di altri processi. Sarà in tribunale anche in primavera per il caso detto “Bygmalion” sulle spese di campagna per l’elezione del 2012.