Stallo sulla legge elettorale: Iv vuole riforma del Senato

Un’altra giornata di stallo sulle riforme all’interno della maggioranza. L’ennesima. Ma stavolta lo scontro dopo la riunione tra i capigruppo giallorosa e il ministro dei Rapporti col Parlamento Federico d’Incà è alla luce del sole: “Il nulla di fatto nella riunione di maggioranza è grave – dicono infuriati i capigruppo Pd Andrea Marcucci e Graziano Delrio – vanno portati a conclusione i correttivi costituzionali già in agenda alle Camere e la legge elettorale”.

Il tavolo per stabilire la tabella di marcia delle riforme istituzionali era stato deciso dopo il vertice del 5 novembre a Palazzo Chigi dei leader dei partiti, ma ora è tutto fermo. Chi ha partecipato alla riunione di ieri racconta di tensioni e schermaglie e l’incontro si è concluso con un nulla di fatto. Lo scontro è soprattutto sulla legge elettorale che rischia di slittare in primavera, alla vigilia del semestre bianco (i sei mesi che precedono l’elezione del Presidente della Repubblica): Italia Viva lega il “sì” al proporzionale e al voto ai 18enni per il Senato solo con una riforma del bicameralismo paritario e del titolo V che, fanno sapere dal partito renziano, non è più rinviabile (oggi Renzi riunirà la cabina di regia per stabilire le prossime mosse). Ma Pd, Leu e M5S vogliono portare a casa il prima possibile il Brescellum, legge che potrebbe piacere anche a Forza Italia. Poi M5S e Iv vorrebbero le preferenze, ma non il Pd. Insomma, è tutti contro tutti.

“Non possiamo accontentarci del taglio dei parlamentari e di qualche piccolo correttivo”, dice il renziano Marco Di Maio. Freddi il M5S e LeU che vorrebbero andare avanti per gradi e con riforme “ben circoscritte”, sul modello del taglio dei parlamentari: “No a fughe in avanti”, dicono dal M5S. E anche Marcucci e Delrio mandano un messaggio ai renziani: “Che improvvisamente le lancette dell’orologio tornino di nuovo al punto di partenza non è accettabile”.

“Glovo assuma il rider come dipendente”. A Palermo la sentenza storica sui fattorini

Dopo anni di conquiste a metà, una vittoria piena per i rider: il Tribunale di Palermo ha obbligato Glovo ad assumere un fattorino come dipendente, a tempo indeterminato e con il contratto del Terziario. La sentenza fa a pezzi il modello applicato finora dalle app, fatto di cottimo e lavoro autonomo, scolpendo un principio: gli addetti i bicicletta sono subordinati e vanno pagati a ore, non a consegna. La causa era nata da un rider, sindacalista Nidil Cgil, che era stato “disconnesso” dopo un’intervista a una tv locale. Messo alla porta dopo aver detto cose sgradite all’azienda, che si difendono parlando di un “disguido tecnico”. Gli avvocati del sindacato (De Marchis, Bidetti, Vacirca e Lo Monaco) parlano invece di di licenziamento discriminatorio. Poche settimane fa, come anticipato dal Fatto, la giudice aveva proposto a Glovo di assumere il lavoratore in sede di conciliazione, per evitare di arrivare a sentenza. Nulla di fatto. Il provvedimento di ieri definisce “inefficace” il licenziamento; Glovo dovrà reintegrarlo e risarcirlo con circa 13 mila euro.

“Un deposito ogni 20 mila cittadini. Già spesi 94 mln”

“Ci sarà un punto di conservazione e somministrazione” dei vaccini anti-Covid ogni 20mila cittadini”. Lo ha annunciato ieri alla Camera il commissario per l’emergenza coronavirus Domenico Arcuri illustrando in commissione bilancio il piano che si sta mettendo a punto e che dovrà essere pronto nelle prossime settimane. “Poiché ci saranno diverse tipologie di vaccino – ha spiegato Arcuri – il piano dovrà sostanzialmente tener conto di quattro variabili: distribuzione a carico dell’azienda produttrice o dello Stato acquirente, temperatura di conservazione, modalità di somministrazione, intervallo temporale tra la prima e la seconda dose. E considerando le quattro variabili stiamo organizzando un piano che prevede il coinvolgimento delle Regioni e dei Comuni alle quali ho già chiesto di indicarmi i punti di somministrazione all’interno di ospedali e Rsa”. Un piano “che terrà conto delle scelte del Parlamento sulle categorie che prioritariamente saranno oggetto della somministrazione”.

“Abbiamo già speso 94 milioni – ha continuato Arcuri – che è la quota che l’Unione europea ha chiesto all’Italia per acquisire la quantità di vaccini che sono stati finora predisposti col meccanismo di acquisizione e contrattualizzazione dei vaccini che avviene all’interno di un pool – un consorzio creato ad hoc – dell’Unione europea e che raggruppa tutti i Paesi che hanno sottoscritto l’accordo”. All’interno di questo accordo, ha spiegato Arcuri, “ogni paese ha diritto a una quota percentuale dei vaccini e quella dell’Italia è del 13,5%”.

“Terza ondata possibile. Per evitare lo tsunami a Natale parenti stretti”

“La terza ondata sarà un piccolo scalino o un nuovo dramma, un altro tsunami: dipende da noi”. Ranieri Guerra – direttore generale aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità e membro del Comitato tecnico scientifico di supporto al governo Conte – mette in guardia: “L’andamento epidemiologico di questo coronavirus è ciclico, sappiamo perfettamente come si comporterà”.

Siamo o no al picco della seconda ondata?

Il picco si ha quando la curva inizia a scendere in maniera sostenuta. Siamo ancora in decelerazione. Per fortuna sta calando la pressione su terapie intensive e reparti. Purtroppo per i decessi ci vuole più tempo. Ma i numeri danno ragione alle chiusure mirate decise dal governo.

La terza ondata è scontata?

Dipende da quel che faremo durante le feste di Natale. Tra quindici, venti giorni avremo una sostanziosa diminuzione dei contagi. Le terapie intensive si svuoteranno e ci saranno molti meno ricoveri. Ma SarsCov2, appunto, è ciclico: la curva ritornerà a crescere, di poco o di tanto. Dobbiamo lavorare e impegnarci per far sì che sia di poco.

La sua collega dell’Oms, Maria Van Kerkhove, invita a non fare pranzi e cenoni di Natale in famiglia.

La Svizzera in questo momento è l’epicentro europeo della pandemia. A Ginevra le terapie intensive sono sature. E sono una comunità più internazionale che coesa di residenti. Qui in Italia a Natale, ma parliamo di familiari stretti, credo che si potranno fare pranzi e cene, non credo che nessuno voglia fare brutti scherzi ai propri parenti. La disciplina individuale sarà fondamentale: chi avrà il minimo sintomo rinuncerà volontariamente.

Siamo in piena polemica su settimane bianche e impianti sciistici.

Vogliamo ritrovarci nella stessa situazione della passata estate che ci ha portati dove siamo ora? I danni a tutto il sistema Paese non sarebbero più gravi rispetto al danno per un solo settore che poi potrà beneficiare degli opportuni ristori? Che facciamo, riapriamo ora le piste da sci e poi richiudiamo tutto il Paese? Un nuovo lockdown, scuole comprese, nella peggiore delle ipotesi?

La Federazione di oncologi, cardiologi ed ematologi ha lanciato l’allarme: con la chiusura di intere terapie intensive cardiologiche convertite a Covid rischiamo nelle prossime settimane più morti di infarto che di coronavirus.

Hanno ragione, ci sono già evidenze, a livello globale, non italiano, che i morti per eventi cardiaci acuti stiano raddoppiando. E non parliamo dell’oncologia: siamo totalmente in assenza di screening, questo si pagherà dopo. Prima gli ospedali possono ritornare alla normalità, più evitiamo di farli piombare nell’incubo per la terza volta, meglio sarà per tutti.

In Europa chi sta peggio? Chi meglio? E perché?

In questo momento Svizzera, Olanda e Est europeo se la passano male. Chi ha preso misure solide, più mirate come le nostre, o più generalizzate come la Francia, adesso sta meglio. Purtroppo a non agire tempestivamente man mano che le situazioni peggiorano tutti devono prendere misure.

Vaccini: ha seguito la polemica innescata dalle parole del professor Andrea Crisanti?

Chiariamo: Crisanti ha ragione a dire “non mi vaccino perché ho visto solo annunci sui giornali e non i dati”. Sono sicuro, però, che le agenzie del farmaco americana ed europea, Fda ed Ema, non si faranno scappare nulla con l’attenzione mondiale addosso che hanno in questo momento. Quindi, direi, aspettiamo di vedere cosa diranno le due agenzie e poi la discussione si chiuderà. E, comunque, sono ottimista, anche le case farmaceutiche non si sarebbero lasciate andare a tali trionfalismi in una situazione come quella attuale: in caso di fallimento sarebbero le prime a pagare.

Vaccini Covid: 1 regione su 2 è ancora senza piano

Dopo i due vaccini anti-Covid messi a punto negli Stati Uniti dalla partnership Pfizer-Biontech e da Moderna, nella corsa agli annunci (e a chi ce la farà prima), arrivano anche i risultati preliminari dei testi clinici condotti in Regno Unito e Brasile arrivati in fase 3 del vaccino europeo, quello sviluppato da Irbm – il gruppo di Pomezia specializzato nella ricerca farmaceutica – insieme all’Università di Oxford e alla multinazionale britannica AstraZeneca.

Il nuovo vaccino, per il quale la commissione dell’Unione europea ha pattuito con la big pharma inglese l’acquisto di 300 milioni di dosi per tutti i Paesi Ue (con una opzione per altri 100 milioni), ha una efficacia media intorno al 70%, che però può arrivare al 90: dipende dal dosaggio. La sperimentazione ha dimostrato che la somministrazione di due dosi genera una protezione del 62% ma quella di una mezza dose, seguita da una intera, la porta al 90. Certo, si tratta di una soglia inferiore a quella può essere raggiunta dai vaccini targati Pfizer-Biontech e Moderna (rispettivamente 95 e 94,5% di efficacia). Ma quello di AstraZeneca offre altri vantaggi, come il fatto di poter essere conservato e trasportato a una temperatura che oscilla tra i 2 e gli otto gradi, a differenza del preparato di Pfizer che richiede una refrigerazione di 70-80 gradi sotto zero. Inoltre il prezzo sarebbe decisamente più conveniente. Il vaccino AstraZeneca costa 2,80 euro, richiamo compreso, contro i 16-20 euro a dose degli altri due vaccini americani, per i quali in questi giorni sarà depositata la richiesta di autorizzazione di emergenza alla Food and Drug Administration, l’agenzia del farmaco Usa.

Fin qui tutto bene. I problemi, però, arrivano quando si va a verificare la rapidità della risposta dei sistemi regionali alla predisposizione di un piano nazionale di stoccaggio e somministrazione dei vaccini alla popolazione, a partire dagli operatori sanitari e dagli ospiti delle residenze per anziani, i più esposti al contagio.

Entro venerdì scorso tutte le Regioni avrebbero dovuto inviare a Domenico Arcuri, il commissario straordinario per l’emergenza pandemica, un piano dettagliato, con l’individuazione dei luoghi più idonei per stoccaggio e somministrazione. Una richiesta fatta il 17 novembre. E alla quale, alla scadenza, hanno risposto solo dieci Regioni: una su due. Non ce l’hanno fatta, a rispettare il termine del 20 novembre, né al Nord né al Sud. Dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia, per arrivare alla Campania. Nonostante le ripetute sollecitazioni di Arcuri – e la concessione di uno slittamento della scadenza – ieri alle 16 mancavano all’appello ancora sette regioni. Questo a poche ore dal termine ultimo della proroga, fissato proprio a ieri: le 24. In vista della probabile disponibilità dei vaccini a partire dai primi mesi del prossimo anno, Arcuri ha chiesto alle Regioni, per “definire il piano di fattibilità in questa prima fase di somministrazione”, di individuare “in ogni provincia le idonee strutture”, capaci di rispettare alcuni vincoli. Vincoli che riguardano la conservazione e la somministrazione del vaccino Pfizer, “il cui iter di validazione sembra essere, ad oggi, il più avanzato” e di cui l’Italia già da gennaio potrebbe disporre di 3,4 milioni di dosi per vaccinare 1,7 milioni di persone. Vale a dire, celle frigorifere a meno 75 gradi per la conservazione di sei mesi; nelle apposite borse del fornitore per 15 giorni.

Il ritardo si somma ad altri ritardi, soprattutto se confrontato con altri Paesi europei. La Germania già i primi di novembre aveva previsto l’attivazione di 60 centri per la vaccinazione, dando mandato agli Stati federali di individuarli e comunicarli entro il 10 dello stesso mese al ministero della Salute. In Italia tutto si inserisce nel quadro di un sistema nazionale dei trasporti e della logistica molto fragile. “Le imprese del settore non sono preparate per affrontare lo stoccaggio e il trasporto dei vaccini – spiega Dario Balotta, presidente dell’Osservatorio liberalizzazioni trasporti e infrastrutture –. Non lo erano nemmeno per quelli antinfluenzali. Sono arretrate, poco digitalizzate, come del resto conferma la gestione della logistica dei prodotti farmaceutici affidata a operatori stranieri”.

L’aeroporto di Bruxelles ha già messo le mani su una fetta sostanziosa del mercato del trasporto dei vaccini anti-Covid: sulla piattaforma a temperatura controllata è stato già sperimentato il trasporto di carichi aerei altamente termosensibili nei 30mila metri quadrati del Bruxelles Pharma Center. Con la simulazione di due spedizioni, una con temperatura di -70 gradi, è riuscito a mantenere le condizioni prescritte, grazie anche all’uso di ghiaccio secco sia all’interno del magazzino, sia durante il carico sui veicoli industriali. A Malpensa l’Italia può contare sull’area PharmaZone, che però si estende su una superficie di soli 600 metri quadrati ed è divisa in diverse aree a temperatura controllata, da -25 gradi a +8, con strutture inadeguate. “Il che equivale a dire – osserva Balotta –, che siamo nudi alla meta”.

Lo sci come le discoteche: il governo frena le Regioni

Dalle discoteche alle piste da sci. L’ultimo scontro tra il governo e le Regioni ricorda quel che accadde quest’estate, quando l’esecutivo dovette imporre la chiusura dei locali nonostante le resistenze di alcuni governatori. Il ricordo di quei giorni – e di come siano esplosi i contagi dopo l’estate – suggerisce ora al governo la massima prudenza in vista delle feste di Natale, arrivando a non consentire l’apertura degli impianti sciistici.

Le Regioni però non ci stanno, tanto che ieri gli assessori al Turismo e allo Sport dei territori dell’arco alpino – Martina Cambiaghi per la Lombardia, Daniel Alfreider per Bolzano, Luigi Giovanni Bertschy per la Val d’Aosta, Sergio Bini per il Friuli Venezia Giulia, Federico Caner per il Veneto, Roberto Failoni per Trento e Fabrizio Ricca per il Piemonte – hanno inviato a Palazzo Chigi un protocollo su come il settore dello sci potrebbe ripartire in sicurezza, tra ingressi limitati e misure anti-contagio.

Si tratta di linee guida che prescrivono “il distanziamento interpersonale di un metro” in tutte le fasi, dal trasporto dei turisti fino al relax nei rifugi. Il presupposto è una limitazione degli skipass giornalieri in base alle dimensioni dell’impianto, così da poter evitare guai anche nella gestione delle code per funivie e seggiovie. Le novità riguarderebbero poi l’après ski, ovvero la parte dedicata agli aperitivi, consentita “solo con posti a sedere e nel rispetto delle regole già definite nei protocolli sulla ristorazione”. Il tutto, come ovvio, solo nelle zone arancioni e gialle, ovvero quelle in cui ci si può muovere anche senza esigenze di stretta necessità, in un contesto paradossale per cui invece, già adesso, nella vicina Svizzera tutti gli impianti sono aperti.

All’appello delle Regioni hanno poi aderito anche sciatori illustri, come Alberto Tomba e Federica Brignone, così come la Federazione Italiana Sport Invernali, tutti convinti che “nello sci il distanziamento non è certo un problema” e che le piste vadano aperte “perché altrimenti il danno sarebbe irreparabile”. Il governo però – memore anche delle scene da liberi-tutti negli impianti a inizio marzo – è netto. Giuseppe Conte a 8 e mezzo esclude riaperture: “Non possiamo concederci vacanze indiscriminate sulla neve. Ciò che ruota attorno alle vacanze è incontrollabile”. Così anche il ministro Francesco Boccia: “Le Regioni ci hanno consegnato delle linee guida su cui ci confronteremo quando ci saranno le condizioni per riaprire. Oggi non ci sono”.

In pressing sul governo, oltre alle Regioni del Nord, c’è però un intero settore che teme conseguenze nefaste. Giuseppe Cuc, presidente del Collegio Nazionale dei Maestri di Sci, parla di “danno enorme” e di “15 mila maestri e 380 scuole” in difficoltà.

I numeri della crisi li aveva messi nero su bianco a fine ottobre Skipass Panorama Turistico, il centro di ricerca specializzato sul mercato del turismo e degli sport invernali: anche se si lasciassero le piste aperte a Natale, la stagione 2020/21 per il comparto sciistico segnerebbe un calo del 30,6% sugli introiti del 2019/2020. Senza dimenticare che l’ultimo bilancio aveva già risentito delle misure anti-Covid (il 10 marzo chiusero tutti gli impianti), dunque il confronto con due anni fa segnerebbe un -42%. Tradotto: da circa 11 miliardi si arriva a poco più di 6.

Dati drammatici che diventerebbero letali con la rinuncia delle feste natalizie, considerando pure che gli impianti devono attrezzarsi per risolvere il problema della mancanza di neve: “L’anno scorso a quest’ora ce ne era più di un metro”, ha detto ieri Ferruccio Fournier, che rappresenta le società degli impianti di risalita.

Meno positivi, ma più casi al Sud. Ospedali in affanno

Per la prima volta dall’inizio della seconda ondata le persone attualmente positive al nuovo Coronavirus, in Italia, scendono: ieri erano 796.849, 9.098 in meno rispetto a domenica (805.947). Non è abbastanza per essere certi di aver superato il tanto atteso picco nei contagi rilevati, che peraltro ha un’attendibilità relativa perché nessuno sa quante altre persone, specie asintomatiche, abbiano contratto il virus senza che nessuno lo certificasse, tanto più che il sistema di tracciamento dei contatti è in crisi. Ieri era lunedì, meno tamponi registrati e quindi meno contagi rilevati: 22.930 contro 28.337, a fronte di 148.945 tamponi contro 188.747. I tamponi positivi erano il 15,39% e domenica 15,01%. Su base settimanale, considerando i contagi dal 17 novembre a ieri e quelli dei sette giorni precedenti (10-16 novembre), il calo è di quasi l’8%: la media giornaliera è scesa a 32.275 da 35.075 ma con circa duemila tamponi in meno, un dato preoccupante. La percentuale di positività comunque scende al 14,9% dal 16,3%.

Gli esperti parlano di “stabilizzazione” dei casi e non ancora di “discesa”, avvertendo comunque che questa sarà lunga. Ma soprattutto non si registra ancora un sufficiente alleggerimento della pressione sugli ospedali, che hanno superato le soglie d’allerta in quasi tutte le Regioni: in totale ci sono 34.697 persone nei reparti dell’area medica (da dieci giorni oltre il picco di aprile: 29.010) e 3.801 nelle rianimazioni (a un passo dai 4.068 di aprile). Ieri altri 418 ricoveri nei reparti ordinari, nove persone in più nelle terapie intensive. Sono però 630 i decessi registrati ieri, più di domenica (562) ma meno della media degli ultimi sette giorni (674). I morti saranno gli ultimi a diminuire perché riflettono contagi anche di tre settimane prima. L’Italia supera in totale i 50 mila morti da febbraio, sono 50.543 di cui circa 15 mila nella seconda ondata. Dopo il Belgio siamo il Paese dell’Europa occidentale, dopo il Belgio, con più decessi per abitante.

La situazione è estremamente variegata a livello locale, proviamo a ricostruirla con l’aiuto delle elaborazioni di Giorgio Presicce, analista della Regione Toscana. In Lombardia il calo dei contagi è consistente. Oltre 60 mila nella settimana fino a domenica 15 novembre, poco più di 50 mila nella successiva: circa il 20% di casi in meno. Però nelle terapie intensive, dove ieri si sono c’erano 5 posti liberi in più rispetto a domenica, da lunedì scorso i pazienti sono aumentati da 855 a 945, cioè un 10 per cento in più. Il calo apparente dei contagi, ammesso che non dipenda dalla crisi della diagnostica e del tracciamento, non si vede ancora negli ospedali.

Situazione simile in Piemonte, l’altra grande Regione segnata da una forte incidenza del Covid-19 e dichiarata “rossa”, come la Lombardia, dal 5 novembre: i contagi scendono (da 27.687 a 24.110, meno 12,9%), ma nelle terapie intensive ci sono 21 pazienti in più, da 378 a 399 (5,5%).

Ci sono Regioni abbastanza stabili come la Toscana (zona rossa dal 14 novembre), il Lazio (gialla), il Veneto (giallo) e la Campania (rossa), ma con un aumento variabile di pazienti gravi nelle rianimazioni. L’Emilia-Romagna è stabile, da una settimana all’altra, anche nelle terapie intensive. In altre Regioni, invece, il virus corre molto più di prima, soprattutto al Sud. In Calabria (altra Regione rossa dalle prime ordinanze) i nuovi casi da una settimana all’altra sono passati da 2.686 a 3.803, più 44,7%. Le terapie intensive sono rimaste ai livelli di occupazione di prima, da 45 a 47 pazienti, ma è probabile che nelle prossime settimane saranno necessari altri letti. Un discorso simile interessa anche la Sicilia (arancione), da poco più di 10 mila a oltre 11 mila 500 contagi da una settimana all’altra e da 224 a 243 ricoverati in terapia intensiva. E la Sardegna, altra regione gialla: in sette giorni è passata da 2.922 contagi a 3.310 e da 63 a 72 pazienti nelle rianimazioni. Ma vale soprattutto per il Friuli-Venezia Giulia (arancione): da 4.209 a 5.721 (più 35,9%) nuovi casi da una settimana all’altra e da 47 a 55 nelle terapie intensive.

“Avanti così, nessuna zona rossa a fine mese. Natale misure ad hoc”

La convocazione è per questa mattina alle 9. Una capidelegazione fiume, allargata ai ministri Gualtieri, Amendola e Di Maio, in cui all’ordine del giorno ci sono i due punti su cui il governo dovrà ancora lavorare nelle prossime settimane: misure economiche e Covid.

A una settimana dalla scadenza del Dpcm in vigore, il governo riprova a pensare a cosa resterà dopo le restrizioni. L’orizzonte di fine febbraio, insomma, quando a palazzo Chigi sperano che ci sia una copertura vaccinale sufficiente a far dire che il peggio è passato: “Io lo farò e raccomando di farlo”, ha detto ieri sera in tv il premier Giuseppe Conte, a proposito del vaccino. Ma l’attesa non consente passi falsi, tantomeno a Natale, quando si rischia il replay del “liberi tutti” di quest’estate. “Un altro Ferragosto che non possiamo permetterci”. Per questo i due argomenti – soldi e virus – riprendono a viaggiare sullo stesso binario: perché il sistema messo a punto con i 21 parametri consente al governo di limitare la discussione sulle chiusure, che ormai viaggia più o meno in automatico. Ma non permette purtroppo di fermare l’altra grande pandemia che ha colpito l’economia nazionale.

A Palazzo Chigi il refrain è “a Natale bisogna spendere”. Non basteranno gli auspici, certo. Per questo Conte ha annunciato un allungamento degli orari dei negozi e ricordato che nella manovra “è previsto uno scostamento di 8 miliardi” perché “sappiamo quanto vale il Natale”. Che quest’anno, è ormai certo, non avrà settimane bianche ad accompagnarlo. “Non ce lo possiamo permettere”, ha ripetuto il premier, rispondendo al “contributo propositivo” che le Regioni ieri mattina avevano portato al tavolo con il governo. Un protocollo per le piste da sci, che il ministro Francesco Boccia ha rispedito al mittente invitando i governatori a fare rapido ritorno alla realtà: “A Natale molti italiani non ci saranno più”. Dovrebbe bastare a chiudere la discussione su panettoni e skipass, ma la moratoria pare ancora lontana. Non solo perché quello in corso tra governo e Regioni è, per dirla col vicesegretario del Pd Andrea Orlando, “un deprimente gioco delle parti per strizzare l’occhio al comprensibile malessere di alcune categorie”.

Ma pure perché sulla questione “neve” anche Italia Viva rialza la testa, sostenendo sia “un errore gravissimo non credere che si possa governare il flusso delle persone: evitiamo di condannare interi settori economici”.

Sulle misure nulla si saprà fino a fine mese, quando – è la speranza del premier – “non avremo più zone rosse”. Si tratta delle restrizioni più dure, che al momento riguardano 7 regioni e la provincia di Bolzano. Nel monitoraggio di venerdì alcune potrebbero venire “promosse” ad arancioni, permettendo così lo spostamento tra Comuni: resterebbe invece ancora vietato il superamento dei confini regionali, sia in entrata che in uscita. Una restrizione, spiegano a Palazzo Chigi, che non ammetterà deroghe natalizie, a meno che – come ovvio – non si parli delle regioni gialle dove la libertà di movimento è già garantita. In ogni caso, ha ribadito il premier non sarà “possibile consentire tule occasioni di socialità tipiche del periodo natalizio”.

Resistere altri tre mesi, almeno fino a febbraio, è il mantra di governo. Sarà allora, ha sostenuto ieri Conte – che ci informa di non voler fare il capo dei 5 Stelle e relega a “dialogo con l’opposizione” il rapporto con Forza Italia – che arriverà anche “il piano nazionale italiano per il Recovery fund”. Sperando sia “sicuro e testato” come l’altro vaccino che aspettiamo.

Sci-muniti

Il Covid-19 ci ha regalato due ondate e, se tutto va male, a gennaio arriva la terza. Invece la cosiddetta informazione sforna un’ondata alla settimana. Ma non di virus: di cazzate. C’è la settimana del governo Draghi (la prima di ogni mese), quella del Mes (la seconda), quella del rimpasto, quella delle troppe scarcerazioni (colpa di Bonafede), quella delle troppe carcerazioni (colpa di Bonafede), quella del governo senza “anima”, quella di Conte che decide sempre tutto da solo, quella di Conte che non decide mai niente neanche in compagnia, quella che le scuole che non riapriranno mai (colpa della Azzolina), quella che riaprire le scuole è stato un errore (colpa della Azzolina), quella che devono decidere le Regioni, quella che deve decidere il governo, quella che ci vuole il lockdown, quella che meno male che non s’è fatto il lockdown, quella che i vaccini arrivano troppo tardi (colpa di Arcuri), quella che i vaccini che arrivano troppo presto (colpa di Arcuri), quella di Salvini europeista liberale, quella di B. che è diventato buono. La settimana scorsa era quella del “salviamo il Natale”. Ieri, altro giro di giostra: “Salviamo le vacanze sulla neve”.

Un’allegra combriccola di buontemponi che si fan chiamare “governatori” e “assessori” di alcune fra le Regioni peggio messe (le zone rosse Lombardia, Piemonte, Alto Adige, Val d’Aosta, l’arancione Friuli-Venezia Giulia e le gialle Veneto e Trentino), chiede di riaprire la stagione sciistica. Con 600-700 morti al giorno e molti ospedali in overbooking, gli sci-muniti pensano alle “linee guida per l’utilizzo degli impianti di risalita nelle stazioni e nei comprensori sciistici da parte degli sciatori amatoriali”. Gli assessori lombardi Caparini e Sertori, in rappresentanza di una giunta che non riesce nemmeno a comprare i vaccini antinfluenzali per medici, anziani e malati, spiegano spensierati che chiudere gli impianti di sci è stata addirittura “una scelta scriteriata e incomprensibile da parte di un governo disorientato” (loro invece sono lucidi). Intanto i giornaloni raccolgono gli appelli di Alberto Tomba e di altri cervelli in fuga. Tutti a strillare che lo sci “è uno sport all’aperto e individuale” (come se gli assembramenti si verificassero sulle piste e non prima e dopo le discese, cioè negli hotel, negli impianti di risalita, nei rifugi e nei locali serali di “après ski”) e bisogna “dare un segnale positivo” (al Covid-19). È la stessa demenza collettiva che prima voleva “salvare la Pasqua”, poi “il ferragosto”, “la movida”, “le discoteche”. La stessa follia che ancora a metà settembre, mentre i contagi risalivano, portò la Conferenza delle Regioni a chiedere di riaprire gli stadi fino al 25% della capienza. Quando arriva il vaccino contro i cretini?

“Sì, ho fermato la Leosini, quell’intervista è offensiva”

Questa volta, per una volta, non è una storia maledetta, ma un pasticciaccio. Sempre con Franca Leosini nel mezzo e con tutti i profumi del giallo, tra tv di Stato, politica, telefonate, accuse, passi indietro. E imbarazzo.
Tutto ha inizio così. Ieri alle 14.47 un’ Ansa pubblica un comunicato Rai: “Il palinsesto della Domenica Con in onda su Rai Storia dalle 14 alle 24 e curato da Franca Leosini è dedicato, a pochi giorni dalla ricorrenza della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (e giù una serie infinita di parole senza arrivare al dunque. Qui tagliate)… all’interno di questo palinsesto, Rai Storia e Franca Leosini avevano deciso di inserire anche l’intervista da lei realizzata nel 2016 per Storie Maledette a Luca Varani”.

“Varani condannato come mandante dell’aggressione di Lucia Annibali, sfregiata con l’acido tre anni prima”. E aggiunge il comunicato, come a chiarire: “Un’intervista senza sconti e senza nessun tipo di compiacimento, che ribadiva tutta la gravità e la gratuità di un gesto criminale. Tuttavia…”

Tuttavia, niente. Cancellato. E all’ultimo secondo, anzi quattro minuti dopo la prevista messa in onda e la stessa Leosini avvertita nei medesimi attimi, e le medesime spiegazioni. Che, in sostanza, l’intervista a Varani non andava bene: la vittima, l’onorevole Lucia Annibali si era risentita, e negli ultimi giorni si era mossa per annullare la trasmissione.

Lucia Annibali conferma: “Il suo racconto l’ho trovato a tratti profondamente inopportuno e anche tendenzialmente offensivo. Già lo avevo detto quattro anni fa (la prima messa in onda in Storie Maledette)”.

Quindi via alle telefonate della Annibali a Silvia Calandrelli, direttrice di Rai Storia, poi si è mossa la politica. Ed è stato lo stesso leader del partito della Annibali, Italia Viva, ad alzare la voce. “La decisione di mandare in onda l’intervista a Varani è una vergogna. Spero che qualcuno si scusi. Io sto dalla parte di Lucia Annibali”, afferma Matteo Renzi. E con Iv si allinea il Pd. “Davvero inopportuna la scelta di Rai Storia di dare nuovamente voce all’aguzzino di Annibali”. E si accodano pure Andrea Romano e Valeria Valente, senatrice dem presidente della commissione sul femminicidio.

Pressioni forti, come scamparla?

Si tratta del terzo pasticciaccio in altrettanti giorni, per mamma Rai, visto che ancora non si placano le polemiche per l’annullamento della partecipazione di Nicola Morra, presidente pentastellato della commissione antimafia, venerdì sera a Titolo V; ora della vicenda si occuperà la Vigilanza, dove è stato convocato il direttore di Rai3 Franco Di Mare, già impegnato con l’epurazione di Mauro Corona dal programma condotto da Bianca Berlinguer.

Ma ieri gli stessi pentastellati, forse per allontanare i sospetti di aver avuto un ruolo nella storia, sono tornati all’attacco della tv pubblica. “Gravissimo lo stop a Morra. La Rai ha commesso un grande sbaglio”, afferma il presidente della Camera Roberto Fico. “Non vedo l’ora di vedere Morra in Rai rispondere alle domande dei giornalisti”, Luigi Di Maio. Mentre Elio Lannutti (M5S) su change.org ha lanciato una petizione per chiedere le dimissioni di Salini e Di Mare.

In attesa di risposte, questa è la versione della stessa Annibali. “È un’intervista che non ho mai apprezzato e credo di avere il diritto di esprimere se apprezzo o pure no. A suo tempo sul Corriere avevo scritto di non averla guardata”.

Poi l’ha vista?

Sì, perché dai commenti sui social questa trasmissione… è molto facile in questi casi scegliere delle parole con superficialità.

Non si è sentita protetta dal programma.

Non mi devo sentir protetta dalla trasmissione, ci mancherebbe. I processi si fanno naturalmente in tribunale. Per fortuna. Però il tema è che si rischia, si entra nell’intimità delle persone, si può essere superficiali, o non rispettosi della sensibilità, intimità dei sentimenti. E in queste storie è molto facile cadere in un giudizio e aprire delle porte…

La Leosini è sempre stata considerata una professionista molto attenta.

Lei sarà anche considerata così, ma io sono la persona interessata e ho vissuto il mio processo e conosco le carte. E il suo racconto l’ho trovato a tratti profondamente inopportuno e anche tendenzialmente offensivo.

Quando lo ha scoperto?

Su Internet, quando cerco notizie che mi riguardano.

Sì, ma quando?

Un paio di giorni fa; non si può raccontare la propria storia intima con questa facilità, e non credo che piaccia alle donne. O magari a qualcuna piace.

Il passaggio che le ha dato più fastidio?

No.

Il temine o il messaggio insopportabile?

No, perché queste modalità aprono le porte a giudizi esterni che sono offensivi. Le donne non hanno bisogno di essere giudicate e offese nelle loro sofferenze. Ma il tema centrale è la costruzione di un palinsesto.

È stata offesa.

Anche sui social, ma sono gli effetti collaterali, resta la voglia di soddisfare lo spettacolo.

È stato complicato convincere la Rai?

La Rai poi ha preso questa decisione e credo sia giusta. Ma ripeto, la questione è il suo palinsesto.

Sì, ma è stato faticoso?

Non lo so, ho espresso la mia opinione.

E l’opinione della politica e della vittima è stata ascoltata. Con un però: proprio nella puntata su Varani, la Leosini era stata particolarmente dura con il suo intervistato.