Buoni fruttiferi. Debutta (in sordina) un nuovo prodotto per la pensione integrativa: forte garanzia

Mercoledì scorso, in sordina, è uscito un prodotto totalmente nuovo, che in un’ottica di sicurezza straccia tutte le altre soluzioni previdenziali sul mercato. Si tratta del Buono Fruttifero Postale Obiettivo 65. Il meccanismo di funzionamento non è lineare e a leggere il regolamento uno può perdersi. Ma la vera novità è semplice: mettendo soldi in questi buoni, ci si assicura all’età di 65 anni un capitale lordo almeno pari in potere d’acquisto a quanto versato.

Le imposte peggiorano un po’ il quadro, ma la sostanza del discorso resta.

Può sembrare poco, in realtà è una garanzia fortissima, non contemplata da nessun fondo d’investimento, nessuna gestione, nessuna polizza o forma di previdenza integrativa. Alcune di queste soluzioni proteggono dalle perdite nominali, però tutte espongono al rischio di perdite reali anche pesantissime.

Così a distanza di anni uno potrà trovarsi coi suoi risparmi falcidiati dall’inflazione. E quindi con una pensione di scorta massacrata. C’è molto impegno nel tenerlo nascosto, ma capitò per esempio con le polizze previdenziali sottoscritte a fine anni ’60, inizio anni ’70 del secolo scorso, con perdite reali nell’ordine del 65%.

Come dire? Chi si era fidato, recuperò solo un terzo dei risparmi investiti nel cosiddetto terzo pilastro. A chi sottoscrive Buoni Obiettivo 65 questo non può capitare.

In quanto a sicurezza, solo il Tfr regge il confronto con questa soluzione offerta dall’accoppiata Cdp-Poste. Invece coi fondi pensione e coi piani previdenziali si può andare incontro a una conclusione disastrosa, in assenza appunto di qualsiasi protezione del potere d’acquisto. Fa bene quindi un giovane a non mettere neanche un euro nella previdenza integrativa. Invece tutto sommato può sottoscrivere a cuor leggero questi buoni, che in nessun senso si possono definire una trappola. In qualunque momento infatti uno può riscattarli senza nessuna penalizzazione.

Con perdite del valore della moneta dal 70% al 98%, per ben tre volte nell’arco del Novecento l’inflazione devastò i risparmi degli italiani in liquidità, reddito fisso o polizze vita. Con l’euro il contesto è cambiato, ma la diffusione della pandemia conferma quanto il futuro resti imprevedibile. Soprattutto può andare incontro a brutte sorprese un giovane con davanti a sé decenni prima dell’età della pensione. Una fiammata inflattiva è improbabilissima nel giro di qualche mese, ma nell’arco di venti o quarant’anni chi lo sa?

Chi si preoccupa per la propria pensione, fa anzi bene a non indugiare. Non dimentichiamo per esempio il precedente di fine 2014 dei Buoni della serie JA1 del Piano Risparmiodisicuro Extra, molto convenienti ma ritirati dopo un paio di mesi.

 

 

 

Più che sussidi e investimenti il Recovery sostenga i consumi

Il dibattito sull’allocazione delle risorse europee, in qualsiasi forma arrivino, sembra rimanere generico, e in particolare ignorare le tre alternative fondamentali che si pongono e alle quali non si può sfuggire, almeno nel definire le priorità di spesa. Si tratta se dare priorità al sostegno dei consumi delle famiglie, al sostegno diretto alle imprese, o agli investimenti pubblici diretti. Poi all’interno di queste categorie si aprono scelte ulteriori, ma è utile partire dal livello più aggregato.

Alcune premesse: secondo l’Economist di un mese fa, la grande colpevole della bassa crescita ventennale, che in media concerne tutte le economie sviluppate, è l’insufficiente domanda, fatto che ha trasformato il vincolo della Bce di non superare il 2% di inflazione addirittura in un obiettivo, che inoltre non è stato nemmeno raggiunto. Questo ha messo in una luce del tutto nuova la spesa pubblica (anche il Fondo monetario internazionale concorda).

La crescita delle diseguaglianze in seguito alla pandemia, ha peggiorato la situazione: le categorie a reddito più basso sono quelle con la maggior propensione al consumo. I ricchi spendono poco, e i poveri non hanno soldi da spendere. È vero che con la pandemia i risparmi medi delle famiglie sono cresciuti, quindi occorre parlare di sostegno ai redditi bassi, cioè di quelli che sono stati erosi con la perdita del lavoro ecc. Certo questi consumi potrebbe indirizzarsi in parte all’estero (è successo), ma assai meno se ci si riferisce a consumi “di base”. Non vi sarebbero però stimoli particolari all’innovazione, trattandosi di consumi domestici.

Ma il sostegno diretto alle imprese, in un quadro di incertezza globale sulla domanda, rischierebbe che la risposta imprenditoriale in termini di investimenti sia inadeguata (se non “tesaurizzante”), e questo senza colpe: sarebbe fisiologica, ma con effetti sociali inaccettabili, aumentando ancora le diseguaglianze, e con scarso impatto sulla crescita.

Anche privilegiare gli investimenti pubblici diretti presenta problemi, soprattutto in Italia: il rischio di “cattura” dei decisori da parte di lobby tutt’altro che ispirate alla crescita e all’innovazione è molto forte (si pensi alle “grandi opere inutili” già adombrate in alcuni imbarazzanti documenti ministeriali). La pressione lobbistica poi, a cui parte del governo è sensibile (si veda la protezione a Mediaset in quanto “impresa italiana”), ridurrebbe la concorrenza, concetto già bandito dal lessico politico, che è pre-condizione di innovazione tecnologica (e di legittimazione dei profitti, che altrimenti divengono “regali dello Stato alle imprese amiche”). Da ultimo, lo Stato, nel definire strategie per l’innovazione incontra forti difficoltà tecniche a gestire l’informazione necessaria (problema noto come “picking the winner”). L’economista Mariana Mazzuccato, consigliera del governo, usa ricorrere come esempio di iniziativa pubblica con un forte grado di innovazione al “progetto Apollo” per portare americani sulla luna, di 50 anni fa, caso difficile da ripetere.

Un recente documento della fondazione Respublica (“Confronto europeo delle misure per la ripresa post-Covid”) fa emergere chiaramente le incertezze sulle strategie di spesa dei 5 maggiori paesi europei (Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito). Alcuni privilegiano il breve periodo e il sostegno diretto alle imprese (Germania), tutti l’elettrificazione del parco veicolare e l’agricoltura “verde”. Molti puntano sul sostegno alle famiglie, sulla sanità e sull’istruzione. L’Italia punta sull’informatizzazione della Pubblica amministrazione, mentre la Spagna a bloccare la “fuga dalle campagne”. A riprova della difficoltà di individuare tecnologie innovative, si segnala che la sola Francia di Macron ci si avventura, scommettendo sull’idrogeno.

Se una valutazione finale si può tentare, nel breve termine: il sostegno ai consumi delle famiglie a basso reddito potrebbe davvero essere una priorità relativa: risponde alla decennale scarsità di domanda attraverso la maggior propensione al consumo delle categorie meno abbienti, e per definizione lascia operare il mercato nell’allocare la spesa. Ma risponde anche alla crescita delle diseguaglianze, evita gli scogli di un’industria che può rimanere restia a investire con una domanda debole, e infine non postula un ruolo troppo impegnativo per le capacità tecniche dello Stato. Quello italiano potrebbe assumerne uno limitato sostenendo consumi famigliari con un buon contenuto tecnologico (informatizzazione, elettrificazione del parco veicolare, ecc). Nel medio periodo si potrà aggiustare il tiro, in un quadro internazionale più chiaro. Spesso il meglio è nemico del bene.

Class action. Slitta ancora l’entrata in vigore: ma nessuno lo sa

Ancora una volta continueremo a leggere paginate di giornali in cui dai politici alle associazioni dei consumatori millantano di ricorrere alla class action per ottenere finalmente giustizia. Peccato che per l’ennesima volta sia slittata l’entrata in vigore del baluardo giuridico dei Paesi anglosassoni. E che l’azione collettiva attualmente prevista in Italia non abbiamo mai funzionato: in 10 anni solo un caso su 7 è arrivato a risarcimento. L’ultima azione di classe dichiarata ammissibile da un tribunale nel febbraio 2017 è quella promossa da Altroconsumo. Da allora non si sa più nulla.

Questa volta a prevedere lo slittamento della nuova class action è l’articolo 26 del decreto Ristori bis. La grande rivoluzione per i consumatori sarebbe dovuta scattare lo scorso 19 novembre, ma il ministero della Giustizia non ha finito di realizzare il sito dedicato che servirà a dare notizia e pubblicità delle azioni collettive intraprese. Insomma, una disfatta anche per il ministro della Giustizia Bonafede, il papà della class action all’italiana che da deputato è stato il primo firmatario della proposta di legge.

La nuova class action si concretizza nel trasferimento dell’azione civile dall’articolo 140 bis del Codice del consumo a un titolo nuovo del Codice civile con la possibilità di esercitare un’azione di classe su tutti i diritti e non solo per chi rientra nella qualifica di consumatore. Poi ci sono l’eliminazione di paletti e limiti che garantirà a cittadini e associazioni di agire in giudizio più facilmente, fino alla previsione per cui il procedimento sull’ammissibilità dell’azione seguirà le norme sul rito sommario di cognizione. Inutile confrontare l’azione collettiva americana con quella italiana: nel sistema Usa vige il meccanismo dell’opt-out, vale a dire che vale per tutti e chi non vuole aderire deve specificarlo, mentre in Italia continua a restare l’opt-in e, quindi, l’adesione attraverso la pubblicità da parte degli enti promotori che non saranno più solo le associazioni dei consumatori ma anche i privati che potranno utilizzare i social per farsi pubblicità. Così per consentire alle vittime deboli e indifese di mettere spalle al muro imprese e potenti, imponendo risarcimenti milionari, bisognerà aspettare maggio 2021. Intanto troppe associazioni continueranno a lanciare comunicati per convincere i consumatori ad aderire all’attuale azione, magari solo per incrementare le casse con le spese legali. Del resto che fretta c’è?

 

L’anno nero di Airbnb: città vuote e conti fragili

Airbnb è pronta a sbarcare in Borsa, a dicembre, con il simbolo ABNB e una Ipo che per il momento sembra essere di 1 miliardo di dollari: la necessità di nuova linfa lo ha reso inevitabile. La settimana scorsa, il gigante degli affitti brevi ha depositato all’autorità del mercato Usa il suo prospetto finanziario che contiene però anche gli ultimi suoi risultati, impatto della pandemia incluso. E c’è ben poco da essere ottimisti.

Nei primi nove mesi del 2020 l’azienda ha perso 700 milioni di dollari su 2,5 miliardi di ricavi ma dai dati emerge che la crescita di Airbnb, costante nei ricavi anche se utili non ce ne sono mai stati, stava rallentando già prima del virus. Nel 2016, per dire, erano aumentati dell’80 per cento rispetto all’anno precedente a quasi 1,7 miliardi di dollari tanto che, mesi dopo, gli investitori hanno iniettato 1 miliardo di nuove azioni che hanno portato la società a una valutazione di 31 miliardi. Ma già nel 2019, Airbnb era al suo terzo anno consecutivo di rallentamento della crescita, con un aumento dei ricavi del 32 per cento rispetto all’anno prima, meno di Uber, che nei 12 mesi prima di sbarcare a Wall Street ha aumentato i ricavi in media del 42 per cento. In più, Airbnb è stata “accusata” di investire troppo, più di quanto potesse permettersi: nel 2019, per dire, ha speso 5,3 miliardi a fronte di 4,8 miliardi di entrate. Una perdita, aveva detto la società, dovuta a “investimenti significativi in iniziative di crescita e investimenti nella infrastruttura tecnica”. Ma quello che fino all’anno scorso poteva essere l’iter naturale delle eterne startup del digitale, inizia ad essere un lusso che poche possono permettersi oggi. L’età dell’ oro di Airbnb, insomma, sembra stia per finire.

L’arrivo in Borsa è però forte di un dato che ha conquistato i titoli completamente acritici di molti giornali: il ritorno degli utili nel terzo trimestre con 219 milioni dopo un secondo trimestre con un rosso di 576 milioni. Un risultato che va incastonato nel contesto dei ricavi, in calo del 18 per cento sull’anno a 1,3 miliardi. É insomma bastato il tenue recupero dei viaggi estivo (neanche globale) e dunque quella che all’azienda ora viene utile, magari anche giustamente, leggere come rapida resilienza del settore, a invertire la rotta? Non proprio. A favorire questi utili è stata infatti una pesante cura a colpi di tagli al personale, contributi esterni e risparmio sul marketing. Non più tardi di maggio, il ceo e cofondatore Brian Chesky con un messaggio pubblicato sul suo sito web aveva annunciato il licenziamento di 1.900 dipendenti in tutte le sedi (pur garantendo ai dipendenti statunitensi 14 settimane di stipendio più una settimana per ogni anno lavorato per l’azienda e a tutti l’assicurazione sanitaria per 12 mesi) che si sono tradotti, secondo il prospetto per gli investitori, in una riduzione del 25 per cento della forza lavoro. Nello stesso periodo sono stati chiesti due prestiti che in molte agenzie di stampa internazionali hanno quantificato in due miliardi di dollari totali. L’altra mossa ha invece riguardato la pubblicità: il marketing, in fase di lockdown, è stato messo in stand by. Un fragile profitto, dunque, che potrebbe non essere sostenibile sul lungo termine a meno che non si torni alla normalità e il comparto turismo non riprenda ovunque il suo splendore: è verosimile, infatti, che il timore dei contagi porti i viaggiatori a preferire un’abitazione privata rispetto a un albergo, ma potranno essere solo gli eventi a confermarlo.

I numeri e le dichiarazioni della stessa azienda dimostrano comunque che Airbnb – come sostengono albergatori e legislatori in ogni parte del globo – è ben lontana dall’essere una semplice piattaforma che fa incontrare domanda e offerta su singole notti e soprattutto che gli stessi host sono tutt’altro che persone e famiglie che mettono a disposizione, part time e quando capita, una stanza in più inutilizzata. Tra le principali preoccupazioni della piattaforma, infatti, c’è la sopravvivenza di tutti coloro che contavano sui ricavi provenienti dall’attività di affitto per pagare i mutui o comunque le spese in scadenza e le bollette. “Non è ancora chiaro quale impatto finanziario avrà la grave riduzione dei viaggi verificatasi durante la pandemia Covid-19 su queste persone – si legge nel prospetto – o se saranno in grado di mantenere le loro case o gestire le loro attività mentre i viaggi riprendono”. Tanto che Airbnb ha anche previsto un fondo di 250 milioni per rimborsare ai suoi host parte delle perdite generate dalla cancellazione di prenotazioni a causa del Covid-19.

Parallelamente, con il crollo del turismo i centri storici che già avevano registrato un fortissimo calo dei residenti per lasciare spazio a questo tipo di permanenza (a Firenze, il 70 per cento delle case nel centro storico sono in affitto sulla piattaforma, a Roma sono il 60 per cento di Trastevere) si sono praticamente svuotate: non ci sono più residenti, non ci sono più studenti e ora non ci sono più neanche i turisti.

Pininfarina, gli indiani ne mettono fuori 135 col trucchetto della srl

Alla faccia del blocco dei licenziamenti. Durante la pandemia, il 2 novembre, Pininfarina ha avviato la procedura di licenziamento per i 135 dipendenti della controllata Engineering per “cessata attività”. Peccato che, secondo i dipendenti e i sindacati, l’attività di ingegneria del gruppo di componentistica auto non sia affatto cessata.

È la seconda volta in meno di un decennio che Pininfarina licenzia. A ottobre 2011 lo stop alla produzione di auto portò alla chiusura dello stabilimento di San Giorgio Canavese, l’ultimo rimasto, e all’esodo di 127 lavoratori. Ma stavolta il padrone non è più la famiglia italiana erede di Battista Farina detto Pinin, che nel 1930 avviò lo storico marchio di carrozzeria a Torino. A licenziare sono gli indiani della Mahindra & Mahindra, multinazionale dell’auto che da dicembre 2015 è il nuovo azionista di maggioranza del gruppo quotato in Borsa, acquistato per 150 milioni. All’epoca il presidente Paolo Pininfarina parlò di “un passaggio fondamentale per tornare a investire, crescere, innovare ed essere competitivi sul mercato globale. Il tutto confermando il radicamento nel territorio in termini di governo societario, centro direzionale, competenze di stile e ingegneria, nonché marchio”.

Nonostante le parole roboanti e le dichiarazioni etiche diffuse sui social da Mahindra, le cose però in Pininfarina vanno male e il conto viene girato ai lavoratori. Al 30 settembre il valore della produzione consolidata era di 49,4 milioni, in calo di 19,4 sullo stesso periodo del 2019, con una perdita di 10,8 milioni rispetto ai 6,5 di 12 mesi prima e il patrimonio netto dimezzato da 55,6 a 28 milioni. Una nota spiega che “le attività della Pininfarina Engineering, nei primi nove mesi del 2020, sono calate di oltre il 30% rispetto al 2019, a conferma delle difficoltà di contrattualizzare iniziative con volumi e margini adeguati alla struttura dei costi. Negli ultimi due esercizi l’andamento economico e finanziario della società è andato progressivamente peggiorando, evidenziando la mancanza di prospettive reddituali”. Così “l’assemblea di Pininfarina Engineering il 26 ottobre ha deliberato la messa in liquidazione della società” e “il 2 novembre è iniziata la procedura di licenziamento collettivo per cessata attività riguardante 135 dipendenti”. Al 30 giugno Pininfarina Engineering aveva ricavi per 7,7 milioni, in calo di 4 milioni su base annua con una perdita netta di 100mila euro rispetto all’utile di 200mila del 30 giugno 2019. La semestrale scriveva tuttavia che non c’erano particolari problemi sull’unità “Ingegneria Italia” coincidente con le attività di Pininfarina Engineering: nonostante gli effetti del Covid19 la performance era “in linea con le aspettative di budget”.

Pininfarina Engineering Srl era stata costituita a luglio 2018 con il trasferimento dell’unità di ingegneria della capogruppo. Secondo fonti interne, il 30 settembre scorso però la controllante ha ricostituito al proprio interno un’unità di ingegneria e il primo ottobre ha richiamato a sé le commesse di lavoro già assegnate e in sviluppo alla Engineering, lasciandone senza lavoro i progettisti. Sempre a inizio ottobre la nuova unità di ingegneria di Pininfarina Spa ha ingaggiato progettisti esterni, nonostante i lavoratori della Engineering fossero in cassa Covid. Dopo la decisione di metterla in liquidazione, Pininfarina ha poi chiesto alla controllata il distacco di 54 dipendenti per portare avanti le attività riacquisite. “Senza entrare nel merito della ricostruzione” del Fatto, Pininfarina afferma che “fermo restando l’impossibilità di revocare la liquidazione della Engineering, conferma l’impegno a perseguire tutte le strade per la tutela dei lavoratori in questa fase. Il confronto con i sindacati prosegue e confidiamo che si possano trovare soluzioni per rendere meno traumatico possibile l’impatto sociale della procedura”.

Ma Ugo Bolognesi della Fiom di Torino non accetta la versione della società: “Non c’è stata alcuna cessazione di attività. Le operazioni continuano con 54 dipendenti della Engineering distaccati nella capogruppo e personale di aziende esterne. Questa operazione non è nient’altro che una riduzione di organico realizzata fuori della legge 223 del 1991. Domani incontreremo l’azienda. Pininfarina si dice disponibile a riassorbire una cinquantina di dipendenti nel gruppo o in società satelliti: guarda caso il numero dei distacchi. Vanno invece tutelati tutti i 135 lavoratori e siamo pronti a iniziative legali”.

Tu lavori pure in lockdown, io poi ti caccio: il caso Slim

Stefano Bucchioni ha vent’anni di Fiom alle spalle: “Sembra di essere tornati agli anni 50, mai vista una roba del genere”. Nessun riconoscimento delle organizzazioni dei lavoratori, relazioni azzerate, assemblee vietate, permessi negati, provvedimenti disciplinari a pioggia. E ancora: ritmi di lavoro mai visti, anche in pieno Covid. Mascherine? “Arrivate solo un mese fa”, racconta il funzionario della Fiom Brianza.

Nel cuore della Lombardia, dove sono arrivati i fondi speculativi, si lavora così. Nella storica fabbrica Gianetti, due stabilimenti a Carpenedolo (Brescia) e Ceriano Laghetto (Monza Brianza), con 300 operai, sembra essere tornata l’Italia pre Statuto dei lavoratori. È il primo tassello di una storia che attraversa il paese, passando per Veneto e Lazio, con eccellenze produttive oggi gestite da fondi speculativi.

L’equity found tedesco Quantum Capital Partners – una rete societaria riconducibile all’imprenditore di Monaco Steffen Görig – ha acquisito in Italia negli anni scorsi quattro poli della metallurgia. Oltre ai due stabilimenti Gianetti-Fad Wheels di Monza e Brescia (marchi storici specializzati in cerchioni), la Quantum ha ereditato da Alcoa la produzione di laminati del gruppo Slim di Venezia Fusina e Cisterna di Latina. Nelle due fabbriche oggi lavorano circa 600 addetti in tutto. Da quando il Covid ha scosso il sistema produttivo, il management dei due stabilimenti ha dichiarato una crisi di liquidità con tanto di apertura di un tavolo al Mise.

Eppure i ritmi di lavoro durante il lockdown non erano diminuiti, anzi: “Ci hanno fatto lavorare sempre, anche a Pasqua e il 25 aprile”, racconta un addetto della Slim di Cisterna di Latina. Una pressione che ha portato lo stabilimento in sovrapproduzione. “Cisterna ha fatto un lavoro favoloso durante il lockdown (…) Abbiamo prodotto e venduto più che mai”, scrive l’ad nominato dalla Quantum Thomas Witte in una email inviata alla Rsu. Tutto sembrava andare per il meglio, dunque, eppure i conti sono crollati: “Ci servirebbero 20-24 milioni di euro in banca”, scrive l’amministratore delegato della Slim in provincia di Latina. La stabilimento di Venezia – che pure ha mantenuto un livello di produzione consistente – ha addirittura chiesto il concordato preventivo e annunciato licenziamenti (intanto nel gruppo hanno iniziato a saltare i precari): “A febbraio i nostri assicuratori di credito commerciale hanno ridotto o cancellato in modo significativo la nostra linea di credito”, ha spiegato Witte. Tutta colpa del “mercato, che ha continuato a deteriorarsi drammaticamente”. Qualcosa, però, non torna.

I sindacati metalmeccanici di Venezia, chiamati a gestire la crisi, hanno esaminato i conti: “Bisogna accendere un riflettore su questo gruppo – spiega Michele Valentini (Fiom-Cgil) – gli amministratori hanno accumulato debiti in un settore che ha mercato: gli ordinativi ci sono, qualcosa non torna”.

Per capire meglio quello che accade la Fiom sè fatta aiutare dal ricercatore Matteo Gaddi della fondazione Sabattini: “Il prodotto della Slim Fusina, tra il 2018 e il 2019, ha avuto un calo di prezzo di circa 73 euro a tonnellata, con un decremento complessivo di 4,4 milioni di euro”, spiega Valentini. Eppure il prezzo medio della Borsa dei metalli di Londra (LME Index) tra il 2018 e il 2019 non ha visto un calo importante, ma fluttuazioni di prezzo che non giustificano questa riduzione. Il dubbio sull’operazione viene analizzando i clienti della Slim: alcune fonti interne all’azienda, che chiedono l’anonimato, riferiscono che una parte consistente della produzione nel Lazio è stata venduta alla Leichtmetall Aluminium GmbH di Hannover, controllata sempre da Quantum, a prezzi ridotti rispetto ai livelli normali di mercato, a causa della sovrapproduzione. Quel materiale, alla fine di una strana catena, poi torna alla Slim. Una sorta di partita di giro: un prodotto sottocosto che esce dagli stabilimenti italiani per arrivare nelle fabbriche tedesche e poi tornare al punto di partenza. Un calo nel prezzo che poi pesa nei bilanci delle fabbriche di Latina e Venezia e forse su quelli pubblici: per i sindacati, la Slim di Cisterna di Latina in estate ha ottenuto un consistente prestito garantito da Sace.

In Brianza, nello stabilimento Gianetti, la tensione in fabbrica intanto sale. Seguono quello che accade alla Slim: “Spero non ci troviamo di fronte all’ennesimo gruppo finanziario che viene a fare compere in Italia e porta via gli stabilimenti”, spiega Bucchioni della Fiom. Per ora i metalmeccanici hanno ottenuto una sentenza di condanna per comportamento antisindacale della società controllata dalla Slim. Ma la preoccupazione è forte: “Non stanno pagando i premi, hanno chiesto di dilazionare il pagamento della tredicesima, hanno usato la Cig durante la chiusura estiva: la Quantum deve capire che è in Italia e deve rispettare le leggi italiane”.

Il 2021 del lavoro

Il declino industriale italiano non è certo nato col Covid e, sicuramente, gli sopravviverà: forse però è questa la curva della storia decisiva per il Paese. Mentre l’Italia è immersa nella discussione mediatica su come salvare il cenone di Natale davanti a milioni di lavoratori si spalanca una prospettiva terrificante. Da febbraio (dati Istat) abbiamo 370 mila posti in un periodo in cui il governo ha bloccato i licenziamenti. Le storie della Slim Aluminium e della Pininfarina che leggete a destra sono solo due esempi di quel che può attendere i lavoratori nel 2021. Le furbizie e le meschinità sono solo la coda finale di uno spartito comune a migliaia di storie. Grandi e piccoli marchi in declino, proprietari, avventurieri esteri o italianissimi che non rispettano gli accordi; atteggiamenti antisindacali; licenziamenti.

Economisti gettonati e politici naif si scagliano contro il blocco dei licenziamenti, la “ristrutturazione” delle aziende – spiegano – è inevitabile. Per Confindustria serve addirittura “per assumere”, come se liberarsi di lavoratori con salari più alti fosse un sintomo di vitalità imprenditoriale e non la via maestra verso il disastro collettivo. Viene da chiedersi quali siano i fantastici nuovi lavori che si pensa saranno a disposizione delle migliaia di persone che perderanno il posto: più probabile ci siano solo molta disoccupazione di lunga durata e molto precariato.

Secondo il Fondo monetario internazionale, usciremo dalla pandemia con disoccupazione raddoppiata. L’Italia sconta decenni di scelte scellerate che hanno garantito salari medi tra i peggiori d’Europa, “volte a recuperare competitività di costo attraverso moderazione salariale, che producono bassa crescita, ristagno della base produttiva e dell’occupazione” per usare le parole della Fondazione Di Vittorio. La ricetta suicida oggi mostra il lato feroce delle multinazionali che non rispettano i patti: Embraco, Wanbao, Whirpool, Alcoa, Jindal, Jabil, Sirti, Blutec, Bekaert eccetera eccetera.

L’Italia è piena di storie di lavoratori che sanno già di perdere il posto finito il blocco dei licenziamenti. La pandemia passerà, ma la ferita sul lavoro può essere perenne. Il governo non deve dimenticarlo.

C’era una volta il teatro. Era bello, lo facevano gli attori, ve li ricordate? Una splendida razza

C’era una volta il Teatro Italiano, ve lo ricordate? Un luogo bellissimo dove si facevano spettacoli, dove c’era la cultura e spesso la si capiva. Un posto popolato da “attori”, una specie animale che ormai si è estinta.

Gli attori, rammentate? Erano una razza particolare, dalle sembianze umane e con un animo randagio, amavano stare in gruppo su un palcoscenico a giocare con i grandi testi. Questa razza si spulciava a vicenda come la scimmie, esplorava emozioni ed esaminava parole. La sopravvivenza delle parole e dei concetti all’interno della comunità era un bene prezioso, aveva una valenza sociale fondamentale perché faceva pensare.

Gli attori avevano caratteristiche simili a quelle umane, non pretendevano soldi, vivevano con le loro paghe, quando c’erano. A loro interessava interpretare e condividere con il pubblico, ascoltare il respiro della gente come il risucchio di un’onda che torna indietro.

“… Eccoci qua. Siamo venuti per niente, perché per niente si va. E ci inchiniamo ripetutamente. E ringraziamo infinitamente… siamo il padre e la figlia, l’amante e la sposa, l’attore e la sciantosa… siamo una grande famiglia. Abbiamo lasciato soltanto un momento la nostra vita di là. Nel camerino già vecchio, tra un lavandino e un secchio, tra un manifesto e lo specchio…”. C’è un signore che si chiama Francesco De Gregori che ha scritto questa canzone dedicata agli attori, e quei pochi sopravvissuti che ancora possono definirsi tali, dovrebbero ascoltarla spesso, perché parla della loro vita di adorabili poveracci.

D’altronde la povertà, come vuole il gran regista avanguardista Grotosky, è un segno fondativo e rivoluzionario del teatro, ci ha scritto un saggio: Per un Teatro Povero. Li mortacci sua. Povero va bene, ma adesso abbiamo esagerato.

 

“Contagio ebraico”. Il docente complottista: “L’arte è in mano ai giudei, Pollock un burattino della Cia”

Accadono fatti strani. Per esempio un uomo con le migliori ragioni di credibilità e di fiducia (almeno quanto alla piena coscienza del potere delle sue parole) vi dice, con la convinzione di fornire anche le prove: “Il Covid 19 io l’ho sempre attribuito al demonio. Ma ora mi rendo conto che è un progetto delle élite mondiali per ridurci a zombi. Lo scopo? Attuare un colpo di Stato sanitario”.

Questo è il messaggio di padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria. Attenzione alle parole: se volete crederci, dovete presumere un’élite mondiale, occulta, che vuole governare l’umanità. L’élite trae la forza del comando dalla sua odiosa estraneità alla natura (dunque a Dio) e ha come unico riferimento (il reverendo deduce) solo il male. Tutto ciò mi è venuto in mente leggendo l’ultimo, breve, perentorio testo di un protagonista della cultura contemporanea, Mario Costa, ordinario di Estetica all’Università di Salerno per molti anni, e docente in molte università del mondo. Il nuovo libro (alla fine di una affollatissima bibliografia dello stesso autore) si intitola Ebraismo e arte contemporanea (Mimesis editore) e offre una tesi che suscita dibattito: l’ebraismo ha deliberatamente distrutto l’arte contemporanea, perché affollata di immagini che negano cultura e religione, così come Mosè l’aveva dettata al popolo ebraico.

Cito dal libro di Costa (prime pagine):“È mia opinione che la storia dell’arte contemporanea sia stata, nella sua genesi e nei suoi sviluppi, radicalmente determinata dal divieto mosaico, rivolto al popolo ebraico, di non confezionare immagini per non incorrere nella idolatria…”. E poco dopo: “In questa vicenda il MoMA (Museum of Modern Art di New York) museo all’epoca filo-ebraico, e il Jewish Mjuseum di New York hanno svolto un ruolo fondamentale”.

Costa, ben informato, sa bene che il Moma è stato fondato, con due amiche, da una signora Rockfeller di famiglia protestante e presbiteriana. Così usa la stessa trovata adottata dalla destra americana contro i Roosevelt: in realtà si chiamano Rosenfeld ma fingono, per ragioni elettorali, di essere cristiani. E non finisce qui: “Il problema non era creare un’impossibile arte ebraica accanto alle altre, ma di trasformare l’arte stessa, tutta l’arte, in un’arte dall’essenza ebraica. Solo così gli ebrei, popolo prediletto da Dio, avrebbero potuto avere la loro arte, e solo così gli artisti ebrei avrebbero potuto manifestarsi senza trasgredire i divieti mosaici”. E ancora: “La Cia individuò un gruppo di artisti che poteva andar bene per costruire, dal nulla, una grande arte americana; edificò il mito di Pollock, fece affluire nelle casse del Moma una montagna di soldi e incaricò lo stesso Moma di promuovere ed esportare nel mondo l’Espressionismo astratto”.

Infine: “All’origine di questi movimenti artistici ci sono quasi sempre degli ebrei (…). Lo spirito dell’ebraismo era irrimediabilmente penetrato nell’arte e nella estetica, contagiò tutti”. Da discutere, no?

 

Ebraismo e arte contemporanea Mario Costa – Pagine: 166 – Prezzo: 12 – Editore:Mimesis

Addio Cav, Laura Ravetto va da Salvini “il liberale”: ma non era sovranista?

 

BOCCIATI

Quando la toppa è peggio del salto. Le ragioni del passaggio da Forza Italia alla Lega di Laura Ravetto, Federica Zanella e Maurizio Carrara, sono varie e lasciano perplessi. Ma due di esse spiccano su tutte. Il paradosso è che entrambe sono contenute nel comunicato stampa con cui i transfughi miravano a legittimare la scelta. “Abbiamo deciso di impegnarci in politica, in tempi e modi diversi, convinti che i valori e i programmi del centrodestra siano la risposta giusta per il Paese. Ringraziamo Silvio Berlusconi per averci dato la possibilità di tradurre le nostre competenze e il nostro ‘sentire’ in azioni politiche concrete. In qualità di eletti su collegi uninominali con i voti di tutto il centrodestra tuttavia viviamo con disagio le sempre più ampie aperture al governo e gli ammiccamenti con il Partito democratico. Prendiamo atto che Forza Italia ha altresì perso quella forza propulsiva che l’aveva portata ad essere luogo di aggregazione per tutto il centrodestra – aggiungono – e riteniamo che quel luogo di aggregazione sia oggi rappresentato dalla Lega di Matteo Salvini che crediamo possa essere il miglior interprete di quella rivoluzione liberale i cui valori sono più che mai attuali e necessari, nonché il partito con cui meglio portare avanti con coerenza quel programma unitario su cui abbiamo ‘messo la faccia’ in campagna elettorale, e che non vogliamo tradire”. Pessimo tempismo: se c’è un momento in cui “le aperture” e “gli ammiccamenti” hanno davvero una funzione costruttiva, promuovendo una maggior coesione tra forze politiche (necessaria in una fase d’emergenza), è proprio questo. La seconda ragione del salto sul Carroccio, se non avesse l’ambizione di essere seria, apparirebbe come una spiritosa boutade: definire la Lega di Matteo Salvini il miglior interprete di una “rivoluzione liberale dai valori attuali e necessari” (conoscendone l’ispirazione sovranista, l’attitudine nei confronti del mercato globale, le posizioni in termini di libertà individuali e diritti civili), equivarrebbe a definire i Cinque Stelle un movimento storicamente radicato sui territori, e di comprovata esperienza politica. Forse sarebbe stato meglio un bel salto di scranno, in silenzio.

voto 4

 

PROMOSSI

Attento a come parli. Un punto centrale, rispetto ai disguidi comunicativi in cui la scienza può incorrere in questa fase, l’ha centrato in pieno Anna Paola Concia: “Ai #virologi italiani: dopo mesi che siete tutti i giorni in tv, siete consulenti delle istituzioni, siete punti di riferimento di noi poveri disgraziati, quando parlate, ricordatevi che NON siete ad un convegno scientifico in cui vi scambiate dubbi e certezze. Parlate a noi! #covid”. Le perplessità da parte degli esperti, su temi importanti con molteplici sfumature, come i vaccini per esempio, sono sacrosante. Ma nel manifestarle bisogna tenere conto della platea che si ha davanti, e di come considerazioni opportune in un consesso tecnico possano essere accolte, e metabolizzate, in un contesto profano. Oggi come non mai lo scienziato è divulgatore, non può non tenerne conto.

voto 7