Bashagha vuol essere premier: dopo Ankara s’ingrazia Parigi

Per accreditarsi a guidare l’atteso, ma non imminente, governo ad interim incaricato di portare alle elezioni la Libia il 24 dicembre del 2021, il ministro degli Interni Fathi Bashagha non poteva non recarsi in Francia. Nonostante Parigi abbia sostenuto neanche troppo segretamente il generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, rivale del Governo di Accordo Nazionale di cui fa parte Bashagha, per le aspirazioni del ministro il suo appoggio è comunque di grande importanza. Il supporto dei francesi gli permetterebbe di emergere definitivamente come figura pluralista e democratica in una Libia drammaticamente spezzata in tre (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan) più aree tribali a sé lungo i confini. Il problema è che Bashagha e tutto il governo tripolino sono sotto l’influenza del movimento islamico dei Fratelli Musulmani di cui la Turchia è la colonna assieme al Qatar. E la Francia da mesi è ai ferri corti con la Turchia, non solo per la questione libica ma per l’invio di imam turchi nelle principali banlieu francesi allo scopo di istigare giovani emarginati al radicalismo islamico. Ma Francia e Turchia sono acerrime nemiche in territorio libico per questioni economiche: entrambe mirano ai pozzi petroliferi e agli appalti per la sicurezza e la ricostruzione.

Per “restituire” il favore dell’ottima accoglienza ottenuta dal vertice della République, Bashagha ha dato il consenso all’apertura di negoziati tra la compagnia petrolifera nazionale libica e il gigante petrolifero francese Total. Se la Total riuscirà ad aumentare le attività in Libia, sarebbe inevitabilmente dannoso per gli interessi italiani (Eni).

Inoltre è stato firmato un memorandum d’intesa molto vantaggioso per la Francia. Bashagha ha dato l’appalto della sicurezza del paese alla società Idemia esperta in sistemi di identificazione biometrica: rilevamento facciale e in generale identificazione. Ciò consegnerà a Parigi i proventi dell’appalto pubblico e i dati sensibili di migliaia di libici. Tripoli ha del resto un bisogno vitale di accrescere la sicurezza. E i francesi hanno vinto la gara.

Grosso guaio in Al Qaeda: il terrore è senza un regista

Morto di polmonite, d’asma o di problemi renali. Questa pare sia la fine spettata ad Ayman al-Zawahiri, 69 anni, leader di Al Qaeda, numero due di Osama bin Laden, che prese il testimone nel 2011, dieci anni dopo gli attentati dell’11 settembre, quando il nemico numero uno dell’America venne eliminato nel suo covo in Pakistan – mentre seguivano l’operazione in diretta dal Pentagono Hillary Clinton e Barack Obama – da una squadra dei Navy Seals. A dare la notizia del probabile decesso, in circostanze molto meno ‘gloriose’ del predecessore, è il giornalista Hassan Hassan, il quale sostiene che l’egiziano a capo dell’organizzazione terrorista sia deceduto per l’impossibilità di accedere alle cure di cui aveva bisogno: altra beffa per un medico come lui.

Eppure qualche dubbio circa l’attendibilità della sua fine, già annunciata in altre occasioni, resta. Tant’è che Hassan specifica che, anche se vivo, Al Zawahiri sarebbe comunque fuori gioco, proprio perché malato. Niente di trascendentale se l’organizzazione terroristica avesse pronto e forgiato il suo sostituto, quell’Abu Muhammad al-Masri fatto fuori in agosto dagli agenti israeliani del Mossad in trasferta in Iran. Con lui, colpito da due motociclisti armati di pistole con il silenziatore per le strade di Teheran, città in cui viveva, è morta anche sua figlia, vedova di uno dei figli di Osama bin Laden. Dunque, che ne sarà di al-Qaeda dopo Zawahiri? Se lo chiede mezzo mondo islamico, quello che in lui aveva visto un leader capace di non far franare l’organizzazione malgrado l’erosione del potere derivante dalla nascita dell’Isis, proprio evitando la trappola di imitare lo Stato islamico nella costruzione di un territorio con tanto di confini, per finire poi distrutto dalla reazione della coalizione internazionale e dalle forze curde, e mantenendosi agganciato ai talebani afgani, vecchi alleati, seppur irriconoscenti. Ma se lo chiedono anche i più critici con Zawahiri, quelli che lo ritenevano pedante e senza carisma, incapace di condurre attacchi spettacolari negli Usa o in Europa e colpevole di aver perso il controllo sul più importante teatro del jihad, la Siria, dove si era fatto rimpiazzare dall’Isis. Chi verrà dopo Zawahiri – ammesso che sia morto – che tipo di movimento troverà e dove lo traghetterà? Secondo le fonti del giornalista Daniel Byman, esperto di Medio Oriente e terrorismo, “Non c’è un ovvio successore”, sebbene potrebbe venire dagli “affiliati dello Yemen, del Nord Africa e di altri Paesi in guerra da decenni con leader credibili e testati in battaglia” e quindi con “maggior carisma di Zawahiri”. Secondo l’analisi di Byman, il nuovo capo “beneficerà del crollo dell’Isis rispetto all’auge del 2014-2015”, ma per far prosperare Al Qaeda dovrà anche “garantire lealtà agli affiliati locali” e così far risalire le quotazioni dell’organizzazione terroristica ora debole e limitata ad Afghanistan, Pakistan e zone dell’Africa. Qui entrano in gioco ipotesi inquietanti: per farsi conoscere il nuovo capo “potrebbe cercare di condurre un attacco terroristico di alto profilo contro l’Occidente”, sostiene il giornalista, cosa che potrebbe “aiutarlo anche a fidelizzare i miliziani e a racimolare denaro utile alla causa”. Compito improbo se si pensa alla caccia che in Pakistan, Siria e Yemen si dà ai terroristi di al-Qaeda, il cui unico modo di sopravvivere, proprio dopo l’esperienza di Bin Laden, è stato seminare il terrore mantenendo però un basso profilo.

“Altro che star dell’Nba: con un ‘no’ al regime a Minsk ti giochi la vita”

È la stella del Wnba, la lega femminile di basket più importante al mondo: si chiama Yelena Leuchanka, è bielorussa ed ha patito il carcere per aver manifestato il suo dissenso al regime del presidente Lukashenko, in sintonia con le proteste che proseguono dal 9 agosto. I suoi colleghi di colore della Nba hanno fatto lo stesso criticando i provvedimenti di Trump e le violenze della polizia verso gli afroamericani; ma negli Stati Uniti, le star del basket non sono finite in galera. Yelena appare in video dalla Grecia dove si è rifugiata dopo essere stata scarcerata ed esclama: “Dall’inizio delle proteste in Bielorussia sono state arrestate 27 mila persone”.

Tra quelle migliaia di manifestanti a contestare la rielezione del presidente Lukashenko c’era anche lei. Hanno ammanettato davanti a tutti la sportiva più famosa della nazione.

Avrebbero potuto arrestarmi in casa mia, ma hanno preferito farlo in pubblico, all’aeroporto. Tutto è stato fatto col proposito di dare spettacolo, intimidire gli altri atleti per far recepire un messaggio: ‘possiamo toccare tutti, ovunque’. Non pensavo di ottenere questa attenzione, quando l’Nba e la Wnba, la Cnn e il Washington Post hanno scritto del mio arresto, ho capito di averla avuta.

Nelle celle bielorusse sono finiti altri due giocatori di basket, Katsiaryna Snytsina e Yahor Meshcharakou, la nuotatrice Aliaksandra Herasimenia, la lanciatrice Nadzeya Astapchuk.

Per fortuna stanno per essere rilasciati due olimpionici medagliati: il kickboxer Ivan Ganev, e il ginnasta Andrey Kravchenko. Altri atleti bielorussi, che stanno zitti e continuano a gareggiare sotto la bandiera di un Paese che viola i diritti umani, hanno firmato un documento ‘per la pace’: ma che vuol dire? Anche in Nord Corea c’è la pace.

Anche i giocatori dell’Nba negli Usa non si sono tirati indietro nel criticare il presidente Trump.

Quegli atleti sono diventati la voce delle persone quando il Paese ne aveva più bisogno; il movimento Black Lives Matter, mi ha ispirato, ma c’è una differenza. Gli Usa sono ancora una democrazia. Non dico che sia stato facile, ma è diverso: in Bielorussia viviamo in una dittatura dove vieni picchiato solo perché hai un’opinione. Nessuno di noi atleti si sente inattaccabile, altrimenti non ci scriveremmo sul braccio il numero dell’avvocato ogni volta che andiamo alle marce. Noi abbiamo messo in gioco la nostra vita, è un altro livello.

Lei è finita nella tristemente famosa prigione di Minsk, l’Okrestina.

Se allargavo le braccia, potevo toccare le pareti della minuscola cella in cui ero rinchiusa con altre cinque detenute. Il primo giorno un secondino ci ha detto di restituire i materassi e per 15 giorni non li abbiamo mai più riavuti. Abbiamo dormito sulle assi di latta dei letti, facendo a turno sul tavolo. Tutta la notte il neon batteva sulle nostre facce. Non c’era acqua calda, né funzionava lo scarico del bagno. A nessuna donna della prigione hanno concesso di fare la doccia per settimane e molte avevano le mestruazioni. Usavamo una bottiglia di plastica che ci scambiavamo per farci la doccia con l’acqua gelida del rubinetto.

Le altre detenute erano sorprese nel vedere la stella del basket chiusa in cella con loro?

Alcune sono rimaste a bocca aperta. Una volta ero sul gabinetto del bagno condiviso, che è senza porte, e quando una ragazza è arrivata ha gridato: ‘Mio Dio! Sono in cella con Yelena Leuchanka, è la cosa migliore che poteva capitarmi!’. Ecco, questo è lo spirito positivo del mio popolo. Volevamo tutte piangere, ma alla fine nessuna di noi lo ha fatto. Le donne bielorusse sono fantastiche. È facile rispondere alla violenza con la violenza: è difficile continuare a protestare in maniera pacifica, vestirsi di bianco e avere fiori tra le mani come abbiamo fatto noi.

La sua carriera è stata fulminea: a 14 anni era nella squadra olimpionica di Minsk, a 15 in nazionale e a 17 è stata selezionata dagli americani.

Non ho belle memorie d’infanzia, mi deridevano tutti: ero la più alta della scuola e del vicinato. Poi ho iniziato il basket e il mio 1,95 di statura è diventato una forza. Speravo un giorno di giocare nell’Nba: nessun atleta, uomo o donna, del mio Paese lo aveva fatto prima e mi dicevano tutti che non potevo riuscirci. Li ho smentiti perché non ho mai lasciato andare il mio sogno. E adesso non lo farà neppure il mio Paese.

Il piscio di Socrate, l’ambrosia degli dèi e i flauti proprio lì

Questo platano, coi suoi rami robusti, non è meno ombroso di quello contro cui svuotò la sua vescica Socrate, nel Fedro di Platone; platano che, secondo gli agiografi, diventò immenso proprio grazie a quel rigagnolo maieutico: lasciamo dunque che gli antichi comici greci e latini continuino a pisciarci addosso il loro sapere, in modo che la nostra arte diventi altrettanto maestosa. Regole e teorie, comunque, non servono a niente, se manca la predisposizione naturale. La comicità è un destino: “Comici si nasce” (Danny Simon).

LA FORZA DEGLI ARGOMENTI

L’argomento incompatibile. Un tale vende del miele. Un cliente si avvicina e lo assaggia: “È il miele più buono che abbia mai mangiato in vita mia!” E il tale: “Infatti non lo venderei, se non ci fosse caduto dentro un topo.” (Ierocle, V sec. a. C.)

La prodezza argomentativa. Un tizio su un asino passa accanto a un orto. Vede un albero pieno di fichi. Allora si alza in piedi sulla groppa della bestia e si allunga verso un ramo per coglierli, ma l’asino gli sguscia via da sotto e lui resta appeso. Dopo un po’ arriva il padrone dell’orto: “Cosa ci fai lì attaccato?” E quello: “Sono caduto dall’asino.” (Ierocle)

SIRO: Ho tanta di quella astuzia che dicendo la verità riuscirò a fregarli entrambi. (Heaut., 710)

PSEUDOLO: Se il tuo silenzio parlasse, padrone, e mi dicesse quale miseria ti macera così miseramente, io sarei lieto di risparmiare il fastidio a due persone: a me di chiedere, a te di rispondere. (Pseu., 3-6)

La giustificazione economica. Paola vuole sposarmi, ma io no, perché è vecchia. La sposerei volentieri, se fosse più vecchia. (Epigr., X, 8)

La giustificazione bislacca. METONE: Voglio misurare l’aria per dividerla in lotti. (Orn., 995-96)

Ritroviamo questa bizzarria nel film Un ettaro di cielo (1957, sceneggiatura di Aglauco Casadio, Tonino Guerra, Elio Petri & Ennio Flaiano), dove un giovane ciarlatano da fiera di paese (Mastroianni) convince un gruppo di vecchietti ingenui che a Roma vendono a lotti appezzamenti di cielo, e quelli gli danno i loro risparmi perché gliene acquisti uno ciascuno.

L’oscenità. SERVO: Di’, devo darle da mangiare, a questa? TRIGEO: Cosa credi, che si adatti a mangiare croste di pane, abituata com’è a ciucciare ambrosia tra gli dèi? SERVO: Le daremo da ciucciare anche noi. (Eir., 851-55)

CORO: Un Oreste ubriaco, furioso, gli spacchi la testa; e lui, volendo tirargli un sasso, nel buio prenda in mano un pezzo di merda appena cacato, scagli questo proiettile luccicante, ma sbagli bersaglio e colpisca Cratino. (Ak., 1169-72)

LIBANO: Cazzo! (Asin., 600)

TEBANO: E voi, flautisti, che mi scocciate da Tebe: andate a soffiare con i vostri cannelli nel culo di un cane! (Ak., 862-63)

La sentenza. Lo stile è reso efficace dall’uso di sentenze:

LEONIDA: Vabbè, se vuoi regalare qualcosa, devi solo prestarla a un amico. (Asin., 446)

GORGIA: Contro la violenza ha la legge che lo difende; contro la persuasione, il suo carattere. (Dys., 253-54)

MISIDE: Noi? Come si dice, stiamo come si può, dato che non si può come si vuole. (Andr., 804-05)

SOSIA: La cortesia ti fa gli amici, la sincerità i nemici. (Andr., 68)

MENEDEMO: Cremete, i tuoi affari ti lasciano così tanto tempo libero da poterti impicciarti nei fatti altrui e in ciò che non ti riguarda?

CREMETE: Sono un uomo: nulla di ciò che è umano ritengo mi sia estraneo. (Heaut., 75-77)

PARMENONE: Se uno ama chi non l’ama, fa due stupidaggini in una volta: spreca la sua fatica, e dà fastidio agli altri. (Hec., 343-44)

L’ORDINE DEGLI ARGOMENTI

La concessione che aumenta la dismisura. Un avvocaticchio è rauco a furia di parlare. Granio gli consiglia di bere vino mielato freddo. L’avvocaticchio protesta che così perderà la voce. E Granio: “Meglio quella che il cliente!” (Quintiliano)

CLITIFONE: O Siro, anche questa doveva capitarmi, il pericolo di essere alla fame! SIRO: Fin che c’è vita c’è speranza.

CLITIFONE: Che speranza?

SIRO: Di non aver troppa fame. (Heaut., 980-81)

A Curio che mentiva sull’età, Cicerone disse: “Per Ercole! Declamavamo insieme e tu non eri ancora nato!”

La confutazione anticipata (excusatio non petita). Un tale, che si trova all’estero, scrive a un amico di comprargli dei libri. Questi se ne dimentica, ma un giorno lo incontra, e allora subito gli dice: “Non ho ricevuto quella tua lettera sui libri.” (Ierocle)

Un legato chiede a Fulvio Propinquo se il documento da lui esibito è autografo. Fulvio Propinquo: “Sì, ed è anche autentico!” (Quintiliano)

EUCLIONE: E la dote? Io non ho nulla da darle. Te lo dico perché tu non creda che ho trovato dei tesori. (Aul., 238-240)

L’anti-climax. DISCEPOLO: Ieri notte, Socrate stava studiando i corsi e i ricorsi della luna. E mentre guardava in su a bocca aperta, un geco dal tetto ci ha cacato dentro. (Ne., 171-73)

PAFLAGONE: Perdio, con l’abilità che mi ritrovo, lo allargo e lo restringo come voglio, il Popolo.

SALSICCIAIO: Questo lo sa fare anche il mio culo. (Ipp., 719-721)

DISCEPOLO: D’accordo, ma queste sono rivelazioni da Misteri: bada di tenerle segrete. Dunque, proprio oggi Socrate voleva sapere da Cherefonte quanto è lungo il salto di una pulce in rapporto alle zampette. (Ne., 143-47)

PRIMO SERVO: “Come faccio, ad arrivare direttamente da Zeus?” chiedeva. È tornato con uno scarabeo enorme. (Eir., 68, 73)

LISISTRATA: Amiche, vogliamo obbligare gli uomini a fare la pace? Allora, dovremo rinunciare al cazzo! (Ly., 120-121, 124)

(31. Continua)

Anm, dopo il caso Palamara è psicodramma. Salta ancora l’elezione di giunta e presidente

Non era mai accaduto, almeno nell’ultimo decennio, che l’Anm non riuscisse ad eleggere presidente e Giunta a un mese dall’elezione del suo “parlamentino”, il Cdc. Ma non c’era mai stato, dai tempi della P2, neppure uno scandalo così travolgente, quello sulle nomine, il caso Palamara, che ha fatto precipitare nell’abisso il Csm e la credibilità della magistratura. Neppure ieri il sindacato delle toghe è riuscito a votare i suoi vertici: finite in un nulla di fatto ore di dibattito, che è stato in sostanza la replica di quello di sabato 7 novembre sulle diverse posizioni dei gruppi rispetto a questione morale, carichi esigibili di lavoro, emergenza Covid. Ad aumentare lo stato confusionale del Cdc anche una presidenza dell’assemblea a tratti decisamente incerta. Risultato? L’Anm ci riprova di nuovo oggi perché ieri sera non ha trovato la quadra neppure il gruppo ristretto creato con l’unico no dei nuovi entrati, i 4 magistrati di articolo 101, gli “anti sistema”, per cercare di formare una giunta unitaria.

Per dare il senso di come per l’Anm la strada sia in salita e pure ripida, basta dire che ci sono volute quattro ore per decidere che era necessario un “tavolo tecnico” per trovare punti di intesa in modo da poter votare presidente e 9 componenti della Giunta. D’altronde, la matematica è una certezza e la maggioranza minima, di 19 voti, continua a non avercela nessun raggruppamento possibile. Lo ha detto Aldo Morgigni di Autonomia e Indipendenza con franchezza all’inizio dell’assemblea: “Possiamo anche votare il presidente ma non si sa con quale maggioranza e con quale programma”. Concetto ribadito da Roberta D’Onofrio di Unicost: “Nessun gruppo basta a se stesso”. E Alessandra Maddalena, sempre di Unicost, prima ancora aveva chiamato in causa i due gruppi vincenti, l’ala progressista e quella conservatrice: “A voi di Area e Mi la responsabilità delle sorti dell’Anm”. La contrarietà di articolo 101 al gruppo ristretto l’avevano spiegata Andrea Reale e Giuliano Castiglia: “Non per sterile opposizione, ma per tensione etica. Si discute dentro al Cdc”. Dissente, però, la loro collega Ida Moretti, che non partecipa al gruppo trasversale di 8 toghe, due per gruppo, “solo per coerenza con la linea di articolo 101”. Comunque, il gruppo ristretto che avrebbe dovuto “quagliare” entro le 17, ora prefissata della ripresa dell’assemblea, si presenta dopo un’ora e senza intesa. Stefano Celli, di Area, portavoce del gruppo, indora la pillola: “Abbiamo trovato dei punti in comune e altri che potrebbero diventarlo, dobbiamo riunirci ancora per scriverli”. Tradotto: niente maggioranza. Dunque, un altro sabato finito con fumata nera e non è detto che la domenica ne produrrà una bianca.

L’eurocasta esulta: torna a incassare la diaria da 323

Gli europarlamentari da domani torneranno a intascare il gettone di presenza anche se i lavori del Parlamento di Bruxelles continueranno a distanza. Con sette giorni di anticipo rispetto al previsto. Dal 2 al 30 novembre, infatti, il presidente dell’Europarlamento David Sassoli aveva deciso di chiudere – per ridurre la possibilità di contagi – l’ufficio dove gli eletti devono registrarsi per ottenere la diaria giornaliera da 323 euro (oltre ai 6.600 di indennità più i rimborsi): negli ultimi due mesi, infatti, nonostante i lavori siano telematici da marzo, circa 200 europarlamentari ogni giorno si registravano per ottenere la diaria e andavano a seguire i lavori delle plenarie o delle commissioni dal proprio ufficio. All’ultima plenaria di ottobre si erano registrati addirittura in 350. Mettendo a rischio se stessi, i propri collaboratori e i tecnici che lavorano all’Europarlamento. Ma la decisione di Sassoli di chiudere l’Ufficio registri (quindi di bloccare la diaria) aveva scatenato le polemiche di una decina di europarlamentari, tra cui il tedesco del Ppe Markus Ferber, che in una mail diretta all’Ufficio di presidenza aveva accusato Sassoli di “ostacolare” il lavoro degli europarlamentari e di far perdere “legittimità” all’istituzione o il “frugale” finlandese Nils Torvalds che non voleva rinunciare al gettone “perché molti di noi hanno preso casa a Bruxelles”. Mercoledì, alla Conferenza dei presidenti, tutti i gruppi politici hanno chiesto espressamente la riapertura dell’Ufficio registri e così nelle ultime ore gli europarlamentari hanno ricevuto sulla propria casella di posta una mail dalla presidenza che annunciava la riapertura da lunedì vista la “significativa diminuzione dei nuovi casi al Parlamento a partire dalla fine di ottobre” e il “recente miglioramento della situazione pandemica” in Belgio (circa 5 mila casi giornalieri di Covid-19). E così gli europarlamentari possono esultare: da lunedì potranno tornare a intascare la diaria.

Consulmarketing: i lavoratori licenziati avevano ragione, ma la reintegra non c’è

Dopo lunghe battaglie, un po’ di giustizia per i lavoratori della Consulmarketing licenziati nel maggio del 2017. Almeno per alcuni tra i 350 messi alla porta dopo anni passati a subire false collaborazioni autonome e contratti pirata. Il Tribunale di Milano ha condannato la Nielsen, committente delle ricerche di mercato della Consulmarketing, a risarcire gli addetti vittime dell’allontanamento che fu un pretesto per non rispettare gli accordi. La storia è iniziata nel 2009, quando sono stati assunti come co.co.pro. Nel 2012 la Consulmarketing, costretta per legge, li ha “regolarizzati”, ma applicando contratti collettivi di sindacati non rappresentativi (con bassi stipendi). Nel 2014, la Filcams Cgil ha strappato un accordo: l’azienda si è impegnata a passare gradualmente il contratto dei Servizi entro il 2018, ma quando avrebbe dovuto riconoscere gli aumenti, li ha licenziati. La Filcams (con i legali De Marchis e Correnti) ha fatto causa e i giudici hanno accertato la violazione dell’accordo, condannando la Nielsen, poiché Consulmarketing è fallita.

Mail box

 

La parabola dei musei: da essenziali a svalutati

La chiusura dei musei decretata sottolinea il programma attuale del ministro Franceschini che tuttavia, nel 2015, emanò un provvedimento in cui il museo era equiparato ad un servizio essenziale. Con la frase “dobbiamo fare sacrifici”, passa drasticamente ad una svalutazione dei luoghi della cultura. I musei sono poco frequentati, eppure sono unici per il “ristoro” della conoscenza, migliorano il benessere della collettività, rappresentando le radici della nostra memoria. Questa forma di svalutazione è deprimente, mentre ci sarebbe la soluzione per rilanciare la loro funzione, anche per la didattica.

Luisa Martorelli

 

DIRITTO DI REPLICA

L’articolo del Fatto Quotidiano di venerdì, intitolato “Eni, quote in Congo per nascondere tangenti”, a firma di Gianni Barbacetto, merita alcune precisazioni. 1) Le indagini, effettuate da una primaria società indipendente per conto degli organi di controllo di Eni, hanno confermato che Petroservice ha effettivamente fornito i servizi per i quali è stata pagata e che tali servizi sono stati richiesti nel rispetto sostanziale delle procedure di procurement in vigore nel gruppo senza procurare svantaggi a Eni o indebiti vantaggi al fornitore. 2) Dalle indagini interne non è emerso nulla che possa smentire l’Amministratore delegato che ha dichiarato di non essere a conoscenza di eventuali interessi del coniuge in Petroservice. D’altra parte, il reato di “omessa dichiarazione di conflitto di interessi” si dà quando vi è conoscenza del conflitto e quando tale conflitto reca un danno all’azienda, eventualità che non si è mai verificata. 3) Eni non è mai stata in alcun modo coinvolta nelle presunte attività corruttive legate alle licenze Marine VI e Marine VII in Congo. Gli accordi con la società Aogc, indicata come partner dal governo, sono presi da Eni e da un’altra compagnia internazionale. Il negoziato per il Sector Sud è stato addirittura condotto dall’altra compagnia. Eni si è poi associata. La correttezza di Eni è confermata dalle indagini interne, effettuate per quasi due anni dai suoi organi di controllo, attraverso legali e tecnici indipendenti. Indagini mai smentite nel merito. 4) Eni non conosceva né era tenuta a conoscere i dettagli della transazione con cui nel 2013 la società World Natural Resources avrebbe ottenuto una partecipazione nel permesso Marine XI. Eni lo ha saputo dal decreto di perquisizione notificato a due suoi dipendenti nell’aprile del 2018 dalla Procura di Milano.

Quanto all’articolo titolato “Ora il governo di Abuja vuole 1,7 miliardi da JPMorgan”, per quanto di sua competenza Eni chiarisce che il pagamento a Malabu, effettuato da JPMorgan su ordine del ministero delle Finanze nigeriano venne espressamente autorizzato in sei diverse occasioni, su richiesta di JPMorgan stessa, dalla competente autorità antiriciclaggio e anti-corruzione inglese, Soca. La relativa documentazione, acquisita al procedimento Governo Federale della Nigeria-JP Morgan, è stata richiesta da Eni ai tribunali inglesi che l’hanno consegnata riconoscendo il diritto e l’interesse di Eni a ottenerla ai fini delle proprie difese.

Stupisce che il vostro articolo non riporti questa informazione, disponibile dal 14 maggio 2019, quando la documentazione venne depositata in pubblica udienza presso il Tribunale di Milano. La rilevanza delle decisioni delle Corti Inglesi ai fini di un’informazione non distorta non poteva non essere nota al Fatto Quotidiano dato che, fin dal 2013, queste corti avevano escluso qualsivoglia ipotesi corruttiva nel procedimento EVP-Malabu che ha riconosciuto Emeka Obi come l’agente di Malabu da remunerare come tale da parte di Malabu.

Erika Mandraffino, Direttore Comunicazione Eni

 

I NOSTRI ERRORI

A corredo dell’intervista a Camilla Assi uscita ieri a pagina 7, dal titolo “Ma quali ospedali pieni! Ho filmato una sala, era vuota!”, abbiamo pubblicato la foto della sorella dell’intervistata. Ce ne scusiamo con le interessate e con i lettori.

Fq

Mercato dei vaccini, s.o.s. ’ndrangheta

Hanno fiutato subito l’affare. Le loro voci sono state intercettate in diverse indagini. Tutti a parlare di mascherine (chirurgiche, facciali filtranti Ffp2/Ffp3), guanti in lattice, camici monouso, occhiali protettivi e flaconi disinfettanti. Come se fossero esperti del settore. Sono aumentate in modo esponenziale anche le truffe che promuovono kit di test e trattamenti per il coronavirus, come ha spiegato l’Europol, segnalando pure un aumento degli acquisti di prodotti farmaceutici e sanitari contraffatti quali appunto mascherine, antivirali o gel a base di alcol.

Il 28 marzo 2020, funzionari dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli di Gioia Tauro, unitamente ai militari della Guardia di Finanza del comando provinciale di Reggio Calabria, hanno intercettato due importanti carichi di materiale medico e sanitario, contenenti 364.200 paia di guanti sterili per uso chirurgico provenienti dalla Malesia e 9720 dispositivi endotracheali, provenienti dalla Cina, utilizzati per l’intubazione di pazienti con difficoltà respiratorie. Truffe del genere sono state scoperte in diverse località: da Bari a Perugia, da Roma a Lecce. Spesso, a muoversi in situazioni del genere sono le “teste di paglia”, i prestanome. È stata un’imbarcata che ha coinvolto moltissima gente che ha intuito la possibilità di facili guadagni, a scapito della collettività. Una sorta di “tana libera tutti” che ha consentito, ancora una volta, ai furbi di uscire allo scoperto.

Durante il lockdown la richiesta di medicinali e di dispositivi di protezione individuale ha registrato una notevole impennata in tutto il mondo. La domanda è stata in parte soddisfatta rivolgendosi a fonti alternative, spesso non autorizzate e illegali, gestite o finanziate da organizzazioni criminali. Oltre al rischio di trovarsi in mano prodotti contraffatti, ancora una volta è emersa la capacità di adattamento dei faccendieri dell’emergenza, come dimostra l’operazione “Pangea XII”, che ha portato all’arresto in varie parti del mondo di 121 persone e al sequestro di farmaci potenzialmente pericolosi per un valore di oltre 14 milioni di dollari, tra cui più di 34.000 mascherine contraffatte e scadenti, “anticorona spray” e “medicine contro il coronavirus”. Secondo l’Interpol, tra marzo e aprile 2020, le mascherine sono state il prodotto sanitario maggiormente oggetto di truffe. A Istanbul, in Turchia, ne sono state sequestrate circa 1 milione con l’arresto di cinque persone sprovviste di autorizzazione che producevano in condizioni di totale insicurezza. In India, la polizia ha smantellato una fabbrica illegale e sequestrato più di 27.000 mascherine contraffatte nelle aree di Bangalore e nel Kerala. Gli autori della truffa avevano già venduto circa 75.000 unità a diversi ospedali e istituzioni statali. In Thailandia, la polizia ha perquisito una fabbrica che nella provincia di Saraburi vendeva mascherine usate come nuove.

Da tempo le mafie hanno messo le mani anche su importanti risorse della sanità pubblica. Ha fatto il giro del mondo, per esempio, la notizia pubblicata dal Financial Times secondo cui alcuni privati, nell’impossibilità di farsi liquidare da aziende sanitarie pubbliche calabresi, avrebbero venduto i loro crediti a banche e società estere. Secondo il noto quotidiano britannico, i titoli venduti a investitori internazionali tra il 2015 e il 2019 ammonterebbero a circa 1 miliardo di euro. In un caso, i titoli commerciali e le obbligazioni legate ad aziende sospettate di avere legami con la ’ndrangheta sarebbero stati acquistati da una delle banche private più importanti d’Europa. Scrive Gaetano Mazzuca sulla Gazzetta del Sud: “Ancora una volta, è il buco nero della sanità calabrese a trasformarsi in un lucroso affare per la ’ndrangheta”. Della vicenda si è occupato anche l’Ufficio investigativo della Banca d’Italia, che avrebbe individuato un pacchetto finanziario, del valore di 400.000 euro, riconducibile a un’azienda coinvolta nel settore delle apparecchiature acustiche, degli articoli medici e ortopedici. Il nome dell’azienda era già comparso nel voluminoso fascicolo dell’inchiesta “Quinta Bolgia”, con cui la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha scoperto l’infiltrazione dei clan lametini nella sanità pubblica, tanto da far decidere al ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, lo scioglimento dell’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro. L’azienda coinvolta era riuscita a mettere le mani sul servizio delle autoambulanze sostitutive del servizio pubblico, delle onoranze funebri, della fornitura di materiale sanitario, del trasporto del sangue, escludendo dal mercato le altre ditte mediante un’illecita concorrenza e cercando di turbare, tramite atti illeciti, la regolarità delle gare di affidamento.

Quello dei debiti della pubblica amministrazione, soprattutto nel settore della sanità, rischia di diventare terreno fertile per l’infiltrazione della criminalità mafiosa. “La criminalità organizzata, grazie alla complicità di apparati burocratici contigui o compiacenti”, spiega Domenico Guarascio, magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, “condiziona sempre più le gare d’appalto. Le forniture di beni e servizi verso le Asp sono spesso gonfiate anche grazie all’emissione di fatture false o all’erogazione di prestazioni di valore inferiore rispetto al normale”. C’è anche il rischio concreto che le mafie possano appropriarsi del mercato dei vaccini, come ha avvertito nel giugno 2020 lo stesso capo della polizia, Franco Gabrielli, nel suo intervento in videoconferenza con i vari Paesi che aderiscono al progetto I-Can (Interpol Cooperation against ’ndrangheta). In particolare, Gabrielli ha spiegato come la ’ndrangheta punti alla possibilità di entrare in società che gestiscono la produzione di farmaci e vaccini. Quello dei cosiddetti “equivalenti”, ovvero i farmaci generici, è un mercato in continua crescita. In Nord America organizzazioni criminali riconducibili alla Russia e alla Georgia hanno cominciato a mettere le mani su aziende che riproducono farmaci con la copertura brevettuale scaduta. Negli Stati Uniti, dove non esiste l’assistenza sanitaria garantita dallo Stato, sono proprio le assicurazioni a incentivare il consumo dei farmaci generici, che costano molto meno. Ci sono poi nuovi canali di distribuzione come il dark web, dove è possibile acquistare di tutto e dove i farmaci più richiesti sono l’anticolesterolemico atorvastatina e quelli volti a migliorare le prestazioni fisiche e sessuali.

© 2020 Mondadori Libri Spa, Milano

 

Irpinia 1980: il terremoto che unì l’Italia e poi la divise

Il 23 novembre 1980 il terremoto colpì quella che uno studioso del mondo agrario definì “terra dell’osso”. Lo studioso si chiamava Manlio Rossi Doria e al tempo della ricostruzione lucidamente indicò la strada da seguire. Ovviamente non fu ascoltato. E ora ci troviamo paesi sguarniti. La ricostruzione è finita, tranne qualche esempio di incompiutezza che in Italia non manca mai, e sembrano finiti pure i paesi. Quello che non si è visto è lo Sviluppo. Era la parola magica dei dirigenti democristiani di allora. Governavano a Roma e nei paesi colpiti. Provarono a portare le industrie nelle montagne. Tentativo riuscito in minima parte. La prova è il fatto che l’emigrazione è ripresa con grande vigore. E ora i paesi ricostruiti sono in gran parte vuoti. Alla dispersione urbanistica che ha svuotato i centri antichi e ha portato molta gente a vivere nelle periferie, si è aggiunto il crollo del sentimento comunitario dovuto a un modello economico che privilegia i consumi, non gli affetti. Qui il passato oscura il presente. Senti che la cosa che doveva succedere è successa, sono paesi belli e postumi.

Oggi che non ci sono più macerie e non ci sono più dibattiti, sembra che il futuro di questi paesi sia affidato all’inerzia. Che accada quello che può accadere, questo è il motto non scritto. Come spesso succede in Italia, non si riesce a fare buon uso delle sventure. Sta accadendo anche col Covid. Ma a pensarci bene qualcuno ci ha guadagnato dal terremoto irpino. È stata la Lega. Forse molti non se lo ricordano, ma la sua crescita ebbe una grande impennata a seguito delle polemiche suscitate negli anni novanta dalle inchieste sulla ricostruzione. Il Nord, che tanto generosamente era sceso ad aiutare un pezzo di Sud, si sentì tradito. L’unione delle Italie ancora una volta non si è lasciata fare e i presidenti delle Regioni adesso ce lo ricordano ogni giorno.

 

Questa sera alle 23 e 25 su Rai1 lo “Speciale Tg1” con il documentario dell’autore