Rudy, una lacrima (nera) sul suo viso

La goccia di nera tintura che solca la guancia di Rudolph Giuliani è il trionfo della letteratura sulla politica. Viene dritta dalla spiaggia di “Morte a Venezia” – Thomas Mann, 1912 – dove l’imminenza della fine del protagonista si frantuma dentro la luce abbagliante della giovinezza. È l’anziano Aschenbach, accasciato sulla sedia a sdraio del Lido che guarda il giovane Tadzio mentre si immerge nel controluce dell’acqua. Non parla, suda, respira a fatica, desidera: e intanto il sole gli sta sciogliendo la tintura dei capelli in lacrime nere di addio.

È l’indimenticabile immagine della vita – quel giorno sotto il cielo indifferente di Venezia, equivalente a tutti i giorni del mondo – che continuerà, nonostante gli occhi innamorati di chi guarda si stiano spegnendo. Impossibile fermare quella goccia di patetica tintura che ieri scioglieva l’ultima illusione di Aschenbach, e oggi sconcia quella dell’anziano avvocato Giuliani. Anche lui aggrappato alla vita che dilegua. Ma ancora di più a quei succulenti 20 mila dollari al giorno di onorario che da un mese estrae dalle tasche esentasse del miglior truffatore d’America, per una volta truffato. Vale un racconto, purché post romantico.

“Nun succede, ma se succede…”. Scalera, lo stadio e Mr Friedkin

Qualche anno fa nella curva della Roma si diceva “Nun succede, ma se succede…”. S’intendeva la vittoria dello scudetto, poi effettivamente sfumata. È nello spirito di quel motto che vorremmo mettere in fila alcuni fatti che in questi giorni incrociano la telenovela “stadio della Roma”. Com’è noto, l’iter si perde nella notte dei tempi: ora mancano un paio di voti in Regione e in Comune (non scontati) per l’ok al progetto faraonico nell’area dell’ex ippodromo di Tor di Valle. Ebbene, ieri su diversi giornali abbiamo letto che in realtà il progetto di Tor di Valle non interessa più ai nuovi proprietari della Roma, i Friedkin: troppo grande, troppo incerto, pare con un problema di ipoteche sui terreni venuto fuori solo un mese fa. Non sappiamo se l’addio a Tor di Valle sia certo, ma seguiteci. Nel ddl Bilancio 2021 c’è un articolo che stanzia 25 milioni per sanare il contenzioso tra l’università di Tor Vergata e la Vianini, cioè Caltagirone (che peraltro ha da poco visto a cena i Friedkin). L’area di Tor Vergata, quella dove doveva sorgere la “Città dello Sport”, è una di quelle di cui si parlò proprio per lo Stadio della Roma ed è tornata di moda giusto di recente insieme ad altre come il vecchio Flaminio o la zona di Fiumicino. E qui veniamo alla manovra: la norma voluta dal ministero dell’Economia assegna la proprietà dell’area all’Agenzia del Demanio. Proprio del Demanio fu direttore fino al 2014 Stefano Scalera, attuale vicecapo di gabinetto del ministro Gualtieri. Ancora per poco: da gennaio Scalera cambierà lavoro, andrà alla As Roma per occuparsi dei rapporti istituzionali, competenza entro la quale rientra anche il progetto dello stadio. Ecco, nun succede che lo fanno a Tor Vergata, ma se succede sarà imbarazzante.

Paure. Non dobbiamo temere il futuro: l’Apocalisse non è affatto apocalittica

Alla fine della narrazione della Bibbia c’è una grande immagine che apre prospettive nuove alla nostra visione della storia diventata sempre più meschina e chiusa in se stessa. Intendiamoci, la nostra generazione europea ha più di un motivo per vivere nel disincanto: i numerosi e drammatici fallimenti delle utopie politiche del Novecento, la crescita prepotente delle economie asiatiche che rendono sempre più marginali i nostri sistemi produttivi e quindi anche il nostro ruolo nel mondo, l’avvicinarsi del punto di non ritorno della crisi climatica di cui iniziamo a prendere coscienza e, infine, questa lunga pandemia che ha dato un colpo mortale alle nostre sicurezze sanitarie. Così crescono rabbia e rancore contro un nemico indistinto – o falsamente distinto dai predicatori dell’odio – che vorrebbe portarci via anche quel poco che ci è rimasto. In sostanza: abbiamo paura del futuro.

Ma ecco l’immagine che troviamo alla fine della Scrittura cristiana, un’immagine adatta anche a noi o proprio per noi che sentiamo di non avere più un futuro. La troviamo nel libro dell’Apocalisse, ma è assai poco “apocalittica”, cioè violenta e terrorizzante: “Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio… Udii una gran voce dal trono, che diceva: ‘Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate’. E colui che siede sul trono disse: ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’. Poi mi disse: ‘Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere’”.

Giovanni, il veggente dell’Apocalisse, vede già il mondo nuovo preparato da Dio e lo vede avvicinarsi. Non è ancora giunto a sostituire il vecchio mondo, ma c’è, è lì. Forse è lontano ma non così lontano che non lo si possa vedere con gli occhi della fede e della speranza, cioè con gli occhi del cuore e della mente che lo Spirito di Dio dona. “Giovanni ci fa capire che la Gerusalemme celeste non è un sogno impossibile e illusorio, ma ‘un orizzonte simbolico’, una prospettiva di redenzione sempre aperta per noi oggi, in questo momento, in questo mondo” (G. Comolli, Apocalisse. Il libro del mondo rinnovato, Claudiana).

Che cosa si intravvede di questo mondo nuovo di Dio? Prima di tutto che Egli è vicino, sempre, che si prende cura di noi, come fa chi ci ama: “Asciugherà ogni lacrima”. Nella visione si vede poi che nella fine del vecchio mondo non c’è nulla di catastrofico: la vecchia terra e il vecchio cielo “erano scomparsi”. Al loro posto ci sono un nuovo cielo e una nuova terra. Il “trapasso” non è violento come lo sono quelli delle rivoluzioni umane. In questa creazione nuova di Dio non ci saranno più quegli elementi negativi che caratterizzano la vecchia “città” di oggi: non c’è più ragione per piangere, non c’è più morte, né cordoglio, né grido, né dolore “perché le cose di prima sono passate”. Basta lottare e soffrire continuamente, basta dividersi e lacerarsi fin nell’intimo. Infine, tutto questo è gratuito: “Ogni cosa è compiuta. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita”. È uno degli aspetti più sorprendenti di questa visione, ma in fondo è proprio uno degli aspetti più divini di Dio: la gratuità.

* Già moderatore della Tavola Valdese

Un freddo effimero a novembre: il 2020 sarà l’anno più “hot”

In Italia – A metà novembre due perturbazioni hanno attraversato il Paese con effetti più vistosi al Centro-Sud: sabato 14, nubifragi nel Lazio con allagamenti a Lavinio e Terracina, e tra lunedì 16 e martedì 17 alluvione localizzata per piogge oltre 130 mm nel Golfo di Policastro (Salerno), una ventina di sfollati. A seguire ecco un paio di giorni di alta pressione, tra nebbie in Pianura Padana e anomalo zero termico a 4.200 m sulle Alpi, come fosse estate! Tra venerdì e ieri un fronte da Nord ha provato a portare un po’ di normale freddo in questo novembre troppo mite (anche 3 °C sopra media nelle prime due decadi al Settentrione): brusco calo termico di 10 °C, prima neve a 800 m sull’Appennino Tosco-Emiliano (25 cm a 1.500 m), bora e tramontana anche a 100 km/h, mareggiate, e nubifragi ieri sulla Calabria ionica (Crotone inondata da 205 mm di pioggia in 12 ore, quasi un terzo della media annua!). Ma l’episodio freddo è stato effimero, e da Ovest tornerà presto aria tiepida.

Nel mondo – Non era mai successo che un uragano tropicale atlantico toccasse la massima categoria 5 così tardi in autunno. Lo ha fatto “Iota” il 16-17 novembre in Centro America, colpendo zone già sinistrate solo due settimane prima da “Eta”. Investito in particolare il Nicaragua, dove la tempesta è approdata con venti devastanti a 250 km/h, ma dalla Colombia al Guatemala alluvioni e frane hanno contribuito al bilancio di almeno 54 vittime e una quarantina di dispersi. La Noaa, servizio meteo-oceanografico americano, segnala che ottobre è stato il quarto più caldo al mondo dal 1880 con 0,85 °C sopra media, e l’intero 2020 è candidato a diventare l’anno più bollente dato che il periodo gennaio-ottobre condivide la prima posizione con lo stesso intervallo del 2016, pur senza il contributo riscaldante del Niño di quell’anno. Novembre si sta impegnando con straordinarie ondate di caldo in Giappone (record secolari per il mese in oltre cento località, tra cui 27,7 °C a Sakai), Corea del Sud, Cina e Taiwan (35,2 °C, eguagliato il primato novembrino nazionale), ma anche tra Africa nord-occidentale e Canarie, e tra Sud-Ovest degli Usa e Messico (martedì 17, i 33,2 °C più tardivi mai misurati a Phoenix, dove peraltro non piove da tre mesi). Notizie dal nuovo rapporto governativo elvetico I cambiamenti climatici in Svizzera: dal 1864, +2 °C di temperatura media e fino a +30% di precipitazioni invernali; dal 1961, quasi un mese di periodo vegetativo in più, quota media dello zero termico in risalita di 400 m, e giorni di gelo in calo del 60%. Inoltre, numero di nevicate dimezzato in cinquant’anni sotto gli 800 m, e -60% di superficie glaciale dal 1850. Un altro studio congiunto degli istituti meteorologici svizzero, austriaco e tedesco indica che l’ultimo trentennio ha visto concentrarsi, nei rispettivi Paesi, sette, sei e otto dei dieci inverni più tiepidi nelle serie climatiche ultrasecolari, con i casi del 2006-07 o 2019-20 in testa. Secondo Jorgen Randers, docente di strategia climatica alla Norwegian Business School, il clima mondiale potrebbe aver già passato il punto di non-ritorno, e perfino un ipotetico (e irrealistico) stop totale e immediato delle emissioni non fermerebbe il riscaldamento globale nei prossimi secoli, alimentato dall’inesorabile rilascio di metano (gas serra più potente della Co2) dal permafrost, il cui scongelamento è ormai avviato in un meccanismo che si auto-alimenta (articolo Self-sustained melting of permafrost even if all man-made Ghg emissions stop in 2020, su Nature). Non fosse altro che per una questione di etica intergenerazionale – che mondo consegneremo ai nostri pronipoti? – non è una buona scusa per lasciarsi andare a un’orgia planetaria di consumi sfrenati.

 

Ma gli Stati Uniti restano ancora ostaggi di Trump

Gli americani hanno votato, il voto è confermato e certificato, ogni percorso di verifica è stato tentato e il presidente in carica, Donald Trump, repubblicano, è certamente stato battuto dallo sfidante Joe Biden, democratico.

I due grandi partiti che, nella storia americana, si sono alternati alla guida del Paese, sono ancora al loro posto e nel loro ruolo storico di conservatori gli uni e relativamente progressisti gli altri. Prima delle elezioni sapevamo che i democratici controllano “The House” (la Camera dei Deputati), mentre i conservatori hanno la maggioranza assoluta al Senato e l’unico squilibrio significativo e tendenzialmente pericoloso è nella Corte Suprema. Al momento mancano tre “Justice”, che spetterà al nuovo presidente eletto nominare. Per ora nel gruppo residuo della Corte Suprema prevale il pensiero conservatore. Le cose stanno così. Ma non stanno così. I due partiti storici hanno avuto, in queste ultime elezioni, voti quasi uguali, ma uno, che ha certamente perso, sia pure per poco, deve ricevere il vincitore alla Casa Bianca, informarlo sullo stato dei fatti e i rapporti col mondo e aprire un periodo detto di “transizione”. La politica del partito uscente e del partito entrante sono profondamente diverse. L’impianto nazionale e internazionale dello Stato no. O almeno il nuovo venuto deve sapere tutto.

Non è accaduto. Per la prima volta nella storia americana lo sconfitto non se ne va, e non apre niente al vincitore, né la porta né i dossier, anzi rifiuta un nuovo presidente a nome, lui dice, dell’America e a causa dei brogli che lui denuncia. Lui solo. E continua a governare. Il caso è grave, insolito, paradossale. Ma l’opinione pubblica del mondo non ha niente da dire, perché l’America non ha niente da dire. Il presidente vincitore si mostra paziente, il partito vincitore rimane esemplarmente calmo, mostrando di pensare che una imbarazzante situazione come questa prima o poi si risolverà. Notare che intanto infuria una pandemia con milioni di contagiati e centinaia di migliaia di morti. E c’è anche una guerra di vaccini. Quello del presidente che sta prolungando arbitrariamente il suo mandato arriverà subito e sarà un fulmine. Il vero vincitore insiste alla porta e promette che avrà cure di portata mondiale. Ma la situazione è umiliante. Ogni mattina americana (18, dopo le elezioni) è una mattina di Trump che resta alla Casa Bianca e fa il presidente e ripete che le elezioni erano false.

È un colpo di Stato? No, perché i militari, i servizi segreti e le forze di polizia del Paese non sembrano interessati ad avere un ruolo. Sì, perché due settimane dopo avere perduto le presidenziali, Trump dichiara che continuerà a governare, ed è attivo in politica interna ed estera. Il vincitore delle elezioni resta nella nativa cittadina di Wilmington con coloro che lo hanno aiutato a vincere e che non possono essere nominati a incarichi ancora occupati dai titolari di prima. “Bisogna accettare l’amara verità”, scrive George Packer, grande esperto di narrazione politica americana, sull’ultimo Atlantic: “Noi non sappiamo come finirà questa storia, ma il senso di ciò che sta accadendo è chiaro fin d’ora. Noi siamo due Paesi e nessuno dei due sarà conquistato dall’altro o in procinto di sparire. La molto discussa maggioranza democratica ha cominciato a emergere all’inizio del millennio e continuerà a emergere nei prossimi anni. Ma la volontà di questa maggioranza trova la barriera di decisioni estranee alla democrazia e di politici senza scrupoli, ed è una maggioranza non traboccante e con pochi personaggi di governo. Non sono certo che quando l’America dei Millennial finalmente diventerà la terra promessa di una nuova cultura avrà ancora i valori morali e politici di cui eravamo tanto sicuri”.

Le affermazioni di Packer sono condivise da molti altri politologi e commentatori che cercano di interpretare quello che accade sulle pagine del New Yorker, sull’Atlantic, sul New York Times. “Decine di milioni di americani amano Maga (Make America Great Again) più di quanto amino la democrazia”. Dunque non possiamo farci illusioni su Trump. L’anello di una catena, che teneva unita l’America nei suoi molti destini, in momenti e orientamenti storici profondamente diversi, è stato manomesso e poi spezzato. L’esondazione delle idee folli, delle notizie false, delle religioni manipolate, delle paure inventate, delle accuse da caccia alle streghe, dei muri intorno all’America, di armi e soldati ritirati dove si difende un minimo di libertà e mandati dove alleati infidi sterminano le popolazioni civili, non trova alcuna forza in grado di opporsi davvero. Perciò chi rimuoverà Trump, nel silenzio disorientato dei vincitori, del mondo democratico, della politica?

 

Quel solido asse Conte-Mattarella

 

“Oltre che uomini a sangue ghiaccio, Mattarella e Conte hanno un’altra caratteristica comune. Sono entrambi giuristi. Ma giuristi di discipline assai diverse. Diritto civile da una parte e diritto costituzionale e parlamentare dall’altra… Tra Mattarella e Conte c’è una grammatica comune: la grammatica giuridica”.

Paolo Armaroli, “Conte e Mattarella” (La Vela)

 

È il premier più sottovalutato (e insultato) dall’opposizione – quella sovranista e quella televisiva –, mentre la cosiddetta grande stampa continua a osservarlo con un misto di stupore e disappunto, come se si trattasse di un intruso che prima o poi sarà sloggiato da Palazzo Chigi. Certo, nessuno è eterno, figuriamoci nella politica italiana, ma ciò che sorprende è, in particolare da parte di chi legittimamente lo detesta, l’analisi sommaria del personaggio e delle circostanze che si è trovato a governare. Colpisce il giudizio superficiale, sempre pencolante tra sonore bocciature (tante) e striminziti apprezzamenti, come se l’esercizio del governo del Paese al tempo del Covid fosse frutto di un’interpretazione personale e improvvisata. E non invece il procedere di un asse portante che si è saldato, sulle decisioni fondamentali da prendere, tra il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica. Tra Giuseppe Conte e Sergio Mattarella.

Se n’è accorto un giurista, Paolo Armaroli, già parlamentare di An, tutt’altro che schierato con Conte ma interessato a esplorare il rapporto tra due personaggi assai diversi, e dalla storia assai diversa, che il destino (non solo quello politico) ha collocato al vertice delle istituzioni in una emergenza drammatica, forse la più drammatica della storia repubblicana. Chi vuole saperne di più su questa strana ma funzionante diarchia legga il libro di Armaroli: a noi qui interessa cogliere la mediocrità politica di un’opposizione (con dattilografi al seguito) che continua a dare formidabili testate contro un muro che si ostina a non cedere. Quello edificato sulla triangolazione Quirinale, Palazzo Chigi, Commissione europea. Quello del gradimento all’avvocato di Volturara Appula che, antipatico a lorsignori, nei sondaggi oscilla sempre intorno al sessanta per cento. Quello cementato sull’emergenza Covid che, a dispetto di Salvini&Meloni, rischia di resistere fino alle elezioni del 2023. E forse anche oltre. Come auspica il premier che nel settembre scorso, interpellato alla Festa del “Fatto Quotidiano” su un secondo mandato di Mattarella, rispose entusiasta: “Se ci fossero le condizioni, anche da parte sua, lo vedrei benissimo”. E i ripetuti inviti del Colle alle forze politiche per trovare un modo di collaborare per il bene del Paese, non suonano come una richiesta al sovranismo riottoso affinché non si ostacoli chi è al timone nel mare in tempesta? Per carità, mai dire mai, ma sottovalutare il nemico da abbattere non è mai saggio. Nel caso in esame rinviamo alla godibile cronaca dell’esame a cui furono sottoposti da Di Maio e Salvini, al tempo del patto gialloverde, Conte e Giulio Sapelli in una specie di finale per la scelta del futuro premier. “Vince Conte non ai punti ma per ko”, sentenzia Armaroli. L’uno “elegante, prodigo di parole al miele, arrendevole quanto basta e disponibile a indossare i panni dei due interlocutori”. L’altro che, “vestito come capita”, “mette bene i puntini sulle ‘i’, pone condizioni”, detta quasi la lista dei ministri e rende subito chiaro “che se lui va a Palazzo Chigi, intende esercitare le sue prerogative”. Ahi! A fare fuori Conte bisognava pensarci allora, adesso è un po’ tardi. Vero Salvini?

 

L’amante ghiottone, la moglie vogliosa e le ochette arrosto

Dai racconti apocrifi di Pierre Jean Jouve. C’era una volta una donna di Shanghai che aveva un marito traffichino, un amante ghiottone, e due belle oche grasse che gironzolavano per casa. Il ghiottone, quando andava a trovarla, aveva l’acquolina in bocca al pensiero di potersele gustare arrosto, prima o poi; e un giorno le chiese se gliele poteva cucinare. La donna gli fece presente che quel lazzarone del marito tornava spesso a pranzo con qualche socio losco. “Un giorno mi chiederà di preparargli le oche, e allora cosa gli dirò? Va in collera in un attimo: te le prendi tu le mie botte?”. Per tutta risposta, l’amante ghiottone cominciò a leccarla come solo lui sapeva fare, in posti che a lei piacevano da impazzire. Sul più bello, si fermò. “Sei un diavolo!” esclamò lei. “E va bene, te le cucino, ma non smettere. Non smettere!”.

La mattina dopo, la donna si alzò, uccise le oche, le pulì; bucherellò la loro pelle, che strofinò con sale e pepe; le farcì con salvia, rosmarino, timo, fichi secchi, fettine di limone, salsicce, castagne lessate, mele, uova, riso, mandorle, uvetta passa; le chiuse con uno spago; e mise la pentola sul fuoco. Come contorno, preparò delle patate arrosto. Verso mezzogiorno, il marito della donna tornò a casa inaspettato. Nasando il profumino, si complimentò con lei: “Come facevi a sapere che oggi ti avrei portato a pranzo un mio compare? Ero venuto ad avvisarti!”. Il marito uscì tutto contento, e poco dopo arrivò l’amante, che la abbracciò pregustando il banchetto: “Dopo pranzo, ti farò morire!” disse, ma lei si ritrasse, lo sguardo avvilito. “Purtroppo, mio marito verrà a pranzo con uno dei suoi soci”. “Nooo! Le avevi promesse a me!”. “Ha visto che le stavo preparando. Cosa potrei dirgli? Diventerebbe furioso!”. Allora l’amante ghiottone cominciò a leccarla in quei posti che a lei piacevano da impazzire. “Sei un diavolo!” esclamò lei. “E va bene, portale via, ma non smettere. Non smettere!”. Mezz’ora dopo che l’amante se n’era andato, arrivò il marito con l’amico, un pescatore di frodo. Lei li accolse con un’espressione scocciata. “Però, che peccato!”, disse. “Peccato cosa?” chiese il marito. “Peccato che siate solo in due a godervi il pranzetto squisito che ho preparato. Perché sei sempre così taccagno con la tua ospitalità? Non hai altri amici da invitare?”. “Buona idea!” disse il marito. “Vado a chiamare Chang. Sarà felice di mettersi in bocca un buon arrosto. Torno subito”. Come fu uscito, la donna prese il coltellaccio affilato con cui aveva lavorato le oche, si voltò verso il pescatore con uno sguardo angosciato e gli chiese se aveva figli. Quello restò interdetto. “Perché me lo chiedi?”. Lei prese a singhiozzare. “Mio marito non è quel che sembra. È un uomo feroce, che si guadagna da vivere commerciando eunuchi. Invita a pranzo un bel ragazzo con una scusa, gli offre un bicchiere di Huangju dove ha sciolto una polverina, e quando il poveretto s’è addormentato, zac!, gli taglia le palle con questo coltello. Poi lo vende a Chang, che compra eunuchi per l’imperatore”. Il pescatore sbiancò.

Dei passi: il marito della donna stava tornando. “Per di là”, disse lei, indicandogli la porta sul retro. “Presto!”. Il pescatore non se lo fece ripetere. Quando il marito entrò con Chang, la donna diede in escandescenze. “Bei furfanti mi porti in casa!”. “Cos’è successo?”. “Il tuo amico pescatore! Ha preso le due oche arrosto ed è scappato per di là. Se ti sbrighi, lo prendi. Tieni questo coltello, gli metterai paura”. Il marito si lanciò all’inseguimento. “Fermo!” urlò, agitando il coltellaccio. “Torna qui. Puoi tenertene una, a me basta l’altra”.

 

La metà dei prestiti garantiti al Nord. Sud a rischio usura

Le imprese chiedono sempre più liquidità, anche perché la ottengono a basso prezzo grazie alle garanzie statali. Ma il flusso di questi soldi si ferma soprattutto al Nord, con un rischio usura nelle regioni del Sud. A otto mesi dall’avvio dei prestiti garantiti, introdotti dal dl Liquidità, da una parte ci sono i dati forniti dall’Associazione bancaria (Abi) che rilevano l’ingente crescita delle richieste di finanziamento arrivate al Fondo centrale di garanzia che hanno smosso crediti per oltre 106 miliardi. Dall’altra parte ci sono i numeri che arrivano dal territorio elaborati dal sindacato dei bancari Fabi che mostrano uno “squilibrio” nell’erogazione dei soldi: oltre il 52% dei finanziamenti garantiti dallo Stato sono andati a quattro Regioni (Lombardia 23%, Veneto 11,4%, Emilia-Romagna 10,2%, Toscana 8,2%) dove opera, però, appena il 37% di Pmi e partite Iva. Due facce della stessa medaglia.

Dal 17 marzo al 20 novembre, ha spiegato il direttore generale dell’Abi Giovanni Sabatini, nel corso di un’audizione in commissione Bilancio, sono arrivate 1 milione e 290 mila domande al Fondo di garanzia per le Pmi per un importo che ha già superato i 100 miliardi di liquidità, soglia ipotizzata dal governo all’emanazione del decreto. Di queste domande, 991 mila (oltre 19,4 miliardi) sono per prestiti fino a 30 mila euro con garanzia statale del 100% e durata di 10 anni concessi in automatico senza necessità di un’istruttoria. Poco più di 277 mila le richieste di finanziamento fino a 800.000 (non si deve superare il 25% dei ricavi) per un totale di 82,2 miliardi. Si tratta di prestiti con durata massima di 72 mesi e garanzia al 90%, ma estendibile fino al 100%.

Una massa senza precedenti di denaro che si è fermata a Bologna. La rilevazione della Fabi mostra evidenti discrepanze su base territoriale. Gli estremi sono dati da Lombardia ed Emilia-Romagna che hanno ricevuto più di un terzo del totale. dall’altra parte c’è il Molise con 4.854 richieste pari allo 0,5% del totale e 89 milioni di euro complessivi. È nelle Regioni del Centro-Nord che si concentra sia l’erogazione dei mini-prestiti che di quelli fino a 800.000 euro. Eppure in questi territori la maggior parte delle fabbriche non ha chiuso durante il lockdown di marzo e aprile. Mentre al Sud, dove c’è più bisogno di liquidità, i prestiti garantiti scarseggiano spingendo il ricorso a forme alternative di finanziamento non legali. “In una situazione così difficile non bastano i finanziamenti: sono indispensabili anche stanziamenti a fondo perduto anche per evitare che famiglie e imprese possano essere costrette a chiedere denaro agli usurai”, commenta il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni. Tanto che nei primi sei mesi dell’anno, le segnalazioni di operazioni sospette lavorate dalle banche hanno raggiunto quasi 50 miliardi, di cui il 99% relativo al rischio riciclaggio.

Le moratorie sui crediti scadranno il 31 gennaio. Al ministero dell’Economia stanno valutando la possibilità di prevederne un ulteriore prolungamento da inserire nella manovra o nel Milleproroghe. Con un occhio alla possibile esplosione dei crediti deteriorati da parte di imprese e famiglie che potrebbero non essere in grado di restituire i prestiti ottenuti.

I paradisi fiscali sottraggono all’Italia 12 miliardi all’anno

Ben 427 miliardi di dollari nel solo 2019: sono le tasse perse grazie ai paradisi fiscali e ai trucchetti finanziari di aziende e persone fisiche. Il Tax Justice Network, una rete internazionale indipendente che studia e analizza le dinamiche sulla tassazione e la regolamentazione finanziaria, venerdì ha pubblicato il suo rapporto annuale dal titolo “Lo stato della giustizia fiscale 2020” che contiene la cifra da cui siamo partiti. L’Unione europea si piazza molto bene in questa gara a perdere: con tasse evase per 184 miliardi (di cui 104 miliardi da evasione individuale), è responsabile di circa il 43% dei trucchetti fiscali di tutto il globo e nella top five dei paesi più colpiti annovera Gran Bretagna, Germania, Francia, Irlanda e Italia. In Europa, però, ci sono anche Stati che favoriscono l’evasione: Gran Bretagna, Paesi Bassi, Lussemburgo, Irlanda e Svizzera. Il solo territorio britannico delle Cayman, si legge nel rapporto, causa 70 miliardi di perdite fiscali l’anno, circa il 16,5% del totale e nel cosiddetto “Asse dell’evasione fiscale” (Uk, Paesi Bassi e Svizzera) le multinazionali spostano 656 miliardi di dollari di profitti l’anno, che ne costano quasi 117 agli Stati.

Nessuno di questi Paesi – va sottolineato – è nella “lista nera” dei paradisi fiscali adottata da Bruxelles e ritenuta dagli autori “altamente politicizzata”, concentrandosi solo su “giurisdizioni che svolgono un ruolo insignificante nell’economia globale”. E intanto è come se ogni cittadino europeo perdesse 210 euro l’anno.

Dato il contesto, guardiamo all’Italia: l’anno scorso ha perso 12,3 miliardi, di cui poco più di 8 via multinazionali. Circa 4 miliardi, invece, per evasione fiscale di persone fisiche. Messo in proporzione, parliamo del 2% del gettito fiscale totale, del 9% della spesa sanitaria e del corrispettivo degli stipendi di 380mila infermieri (tutto il rapporto è incentrato sul confronto con le spese sanitarie reali e, soprattutto, potenziali) nonché di quasi il 15% della spesa per l’istruzione. Un altro esempio: con questo ritmo in sei anni, che è la durata del Recovery Fund, si raggiungerebbero i 72 miliardi, cioè più o meno la dimensione della parte sussidi del piano europeo per l’Italia. E ancora: tre anni di questa evasione sono l’intera dotazione del Mes pandemico.

Guardiamo al dato sulle persone fisiche (4 miliardi circa solo in Italia). Chi sono? Per restare ai casi di cronaca più recente, si è scoperto che il governatore lombardo Attilio Fontana aveva almeno 5 milioni su conti esteri, mentre un annetto fa l’inchiesta “Padova Papers” – sui soldi nascosti al fisco da alcuni imprenditori del nordest – riguardava qualcosa come 250 milioni. Le principali destinazioni dei nostri esportatori di capitali sono Gran Bretagna, Singapore, Hong Kong, Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi. Se si tengono a mente questi dati, è difficile pensare che una patrimoniale nazionale possa essere davvero equa.

La ricerca del Tax Justice Network è stata possibile anche perché l’Ocse a luglio ha pubblicato i dati aggregati Paese per Paese sull’ubicazione dei profitti e delle attività economiche delle multinazionali che avessero almeno un proprietario residente: un quadro molto utile, benché limitato visto che i dati raccolti in moltissimi casi non includono i principali centri finanziari offshore e in molti non includono nulla.

Fino a qui si è parlato dei Paesi con una economia avanzata e reddito elevato. Queste dinamiche colpiscono però molto più pesantemente, in percentuale, i Paesi in via di sviluppo. Se le perdite fiscali del Nord America e dell’Europa, ad esempio, equivalgono rispettivamente al 6 e al 12 % in media dei bilanci sanitari, quelle dell’America Latina e dell’Africa raggiungono rispettivamente il 20 e il 52%.

Anche altri tipi di confronti e proporzioni sottolineano il maggiore impatto sociale su queste economie: l’incidenza delle perdite rispetto al gettito fiscale per i Paesi a basso reddito è, in media, di circa il 5,8 per cento a fronte del 2,5 per cento dei Paesi più ricchi. Questi ultimi, però, sono responsabili del 98 per cento della perdita di tasse globale: 419 miliardi, mentre ai Paesi in via di sviluppo ne sono attribuibili solo 8.

Zaia-Salvini, guerra fredda su chi fa il “capo” in Veneto

“Nel mondo di Zaia non c’è spazio per la democrazia interna. C’è un controllo totale del territorio, delle nomine, dei posti di comando. E un rapporto inverosimile con tv e giornali locali, direttori compresi. Nessuno che sollevi dubbi o dia spazio a chi zaiano non è”. La voce autorevole, ma anonima, viene dal profondo Nordest e conferma lo scontro totale, anche se il conflitto coverà a lungo sotto le ceneri. Matteo Salvini versus Luca Zaia. Politica e amministrazione. Il partito e la Regione. Il progetto sovranista nazionale e l’autonomia federalista. I lumbard e i veneti. Due facce di una stessa medaglia (per ora).

Zaia vuole gestire il super-potere datogli dal 77% alle regionali, l’altro teme che si riverberi su Liga Salvini Premier, il movimento fondato da sei soci fondatori: cinque sono nel direttorio veneto (il commissario Lorenzo Fontana, Zaia, Nicola Finco, l’ex ministro Erika Stefani e l’assessore regionale Roberto Marcato), il sesto è Massimo Bitonci, ex sindaco di Padova, ora amministratore del movimento. Ma anche Matteo vuole comandare. E questo spiega perché Fontana, vicesegretario federale, con nuovi incarichi nazionali, ha annunciato le dimissioni in Veneto designando come successore uno dei “bravi giovani” della scuderia leghista. E Zaia? Gelido, ha detto di averlo saputo da Fontana, a cose fatte. Tagliato fuori. I giornali locali hanno cavalcato l’indignazione dei veneti, che temono la vendetta di Salvini dopo lo schiaffo preso alle regionali. Come? Con un nuovo commissario non zaiano, visto che lo Statuto gliene dà facoltà. Basta che Fontana si dimetta, e l’ex ministro ultracattolico ha già detto che farà ciò che Salvini gli chiederà.

La voce dai piani alti della Liga Veneta (“Nello Zaiastan non c’è democrazia…”) conferma per la prima volta la spaccatura insanabile. Ma per il momento non si attaccheranno. Per Salvini sarebbe un suicidio con la base, Zaia sa come finirono Comencini e Tosi, espulsi per insubordinazione nel 1998 e 2015. Eppure giocano a risiko. La tribù salviniana ha al vertice Fontana, Bitonci e il senatore Andrea Ostellani (commissario in Emilia Romagna). In Regione conta su Finco, vicepresidente del consiglio (scontento perché voleva fare l’assessore) e Giuseppe Pan (scontento perché non riconfermato assessore). I consiglieri regionali eletti con Salvini sono 9. Poi i “bravi giovani”, commissari provinciali, 5 su 7: Padova, Venezia, Vicenza, Verona e Rovigo. Finco è il più accreditato a succedere a Fontana.

Zaia schiera “l’invincibile armada”: 23 consiglieri regionali, di cui 4 spostati pro-forma nel gruppo Lega (lui stesso e Roberto Ciambetti, presidente del Consiglio regionale) e due nel Misto, per controllare Arturo Lorenzoni, spaesato leader del centrosinistra. Ha poi i 7 assessori, tutti fedelissimi, ma solo i commissari di Treviso e Belluno. Ma, soprattutto, una pletora di poltrone accumulate in 10 anni di potere incontrastato.