L’ultima sfida di Tronca: dove c’è un disastro, chiamano lui

Quanto può essere crudele il destino di una persona a cui viene chiesto – nel giro di pochi anni – di amministrare prima Roma e poi la sanità in Calabria? Francesco Paolo Tronca lo racconterà ai nipoti: il commissario calabrese potrebbe essere proprio lui.

D’altra parte, dove c’è un disastro dello Stato c’è il prefetto Tronca. Durante la lunga carriera nella pubblica sicurezza è impegnato in alcune delle peggiori emergenze nazionali: le stragi di Linate (2001) e Viareggio (2009), i terremoti dell’Aquila (2009) e dell’Emilia (2012), il naufragio della Concordia (2012). Un servitore civile poco carismatico ma senza macchie sull’abito, tranne quando venne fuori che aveva fatto accompagnare il figlio allo stadio Olimpico su un auto dei pompieri (nel 2011 era a capo del dipartimento dei vigili del fuoco).

Dopo aver aiutato Beppe Sala con l’Expo di Milano del 2015, Tronca viene chiamato sul palcoscenico più spettacolare: Roma. I sicari di Renzi fanno fuori Ignazio Marino, l’ex premier si affida a lui. Tronca cala su Roma poco dopo Mafia Capitale e poco prima del Giubileo straordinario lanciato da Bergoglio con beffardo tempismo. Non è il massimo. Per una fotografia della Roma di allora rimandiamo all’ultimo romanzo di Lagioia, La città dei vivi: sembrava dover collassare da un momento all’altro. La colpa non è certo di Tronca, ma non si può dire abbia lasciato un ricordo indelebile tra i cinici romani (“Tronca chi?”). Visti i precedessori, se riuscisse a passare inosservato pure in Calabria sarebbe un successo clamoroso.

Tutti contro la Rai che caccia Morra (già in sala trucco)

Alla fine la bomba deflagra tra i piedi di mamma Rai. E in particolare dell’ad Fabrizio Salini, che venerdì sera, insieme al direttore di rete Franco Di Mare, ha deciso di bloccare la partecipazione di Nicola Morra alla trasmissione Titolo V su Rai3. Morra era già arrivato nella sede Rai di Napoli, dove sarebbe dovuto essere ospite della puntata insieme a Jasmine Cristallo, Sergio Rizzo e il direttore del Mattino Federico Monga.

Era già in sala trucco quando è arrivato lo stop da Viale Mazzini. E a quel punto ha dovuto girare i tacchi e andarsene. “Ero già arrivato presso gli studi Rai di Napoli quando ho appreso dalla vicedirettrice di Rai3 che, per decisione della direzione di rete, veniva annullata la mia partecipazione al programma. Questo dovevo dirvi e questo vi dico. Credo non si debba aggiungere altro”, ha scritto Morra in un post di Facebook delle 21.20 di venerdì.

Ma cosa è successo nelle ore precedenti? Come mai si è arrivati a sbarrare le porte di un programma della tv pubblica al presidente della Commissione antimafia? Occorre fare un passo indietro. Per tutto venerdì era montata la polemica per le parole di Morra su Jole Santelli. “Era noto a tutti che fosse gravemente malata ma i calabresi l’hanno votata lo stesso. Ognuno è responsabile delle proprie scelte”, aveva detto il senatore giovedì ai microfoni di Radio Capital, in un ragionamento un po’ fumoso. Parole che avevano provocato attacchi da ogni dove, compresa la presa di distanza da parte del M5S. Dal centrodestra, invece, si evocavano a gran voce le sue dimissioni. E critiche arrivavano anche dal Pd.

Dunque venerdì Morra era atteso a Titolo V. L’invito era arrivato martedì per una puntata in cui si doveva tornare a parlare della Calabria, dopo lo scoop della trasmissione sul mai redatto piano Covid del commissario alla Sanità Saverio Cotticelli, poi costretto a dimettersi. Nel tardo pomeriggio, mentre impazzano le polemiche sul caso Morra-Santelli, qualcuno in azienda si accorge che in serata Morra è atteso in Rai e scatta l’allarme rosso. Franco Di Mare inizia a chiedersi se sia il caso di confermare l’ospitata e, alle 8 di sera, si confronta con Salini. Che ne parla con il suo staff. Secondo alcune fonti parlamentari, poi, Salini e Di Mare alzano il telefono e parlano con alcuni big pentastellati. Fatto sta che, a 20 minuti dalla messa in onda, Salini e Di Mare decidono di cancellare la partecipazione di Morra. L’obbiettivo dei piani alti di Viale Mazzini è di evitare ulteriori possibili gaffe da parte del senatore.

Tesi confermata, del resto, anche dalla lunga nota di ieri dell’azienda, secondo cui “la decisione è stata presa poiché da ore era in corso un dibattito particolarmente acceso su un argomento molto delicato (…) pur nella consapevolezza di prendere una decisione comunque controversa, la Rai ha preferito adottare una linea di massima prudenza per evitare di alimentare altre polemiche”. Rammaricandosi poi con Morra per le modalità in cui gli è stato comunicato lo stop, gli si dice che egli “avrà altre opportunità, nelle reti Rai ed eventualmente anche a Titolo V, per esprimere i suoi punti di vista”.

Ieri, poi, se da una parte sono continuati gli attacchi a Morra con Lega e Fdi pronti a disertare i lavori dell’antimafia se il presidente non si dimette (e con Matteo Salvini che annuncia querela contro il senatore), gli attacchi si sono spostati verso la tv pubblica. Anche da parte dei 5 Stelle. “Inaccettabile la censura della Rai a Morra”, afferma Paola Taverna. “Qualcuno si dovrebbe dimettere e non è Morra”, sostiene Alessandra Maiorino. Altri, come Alessandro Di Battista, fanno muro intorno al senatore. “Hanno intervistato il figlio di Totò Riina e censurano me”, rincara la dose lo stesso Morra. E per Salini, dopo l’avviso di sfratto che gli è quasi giunto dal Pd tramite Roberto Gualtieri, arriva un’altra tegola che complica i suoi rapporti pure con una parte dei 5 Stelle.

’ndrangheta e clientele: la pandemia calabrese

“Se posso, con il brivido di questo paradosso e la pena che queste parole mi fanno, io dico: sia benedetto il Covid. Tra le disgrazie della pandemia almeno una cosa buona: sta illuminando da qualche giorno la Calabria, quel che resta di noi. Dalla finestra della mia casa vedo, nell’ordine: la frana di Maierato, il paese inghiottito anni fa da una montagna collassata, due tetti bucati e le mura sbrecciate di un’abitazione senza inquilino, e poi tanta erba selvatica”. In Vito Teti resiste, insieme all’amore per l’antropologia di cui è scienziato riconosciuto, la parola che più piace, in questi tempi cupi, a Giuseppe Conte: la resilienza. Teti – se fosse possibile una classifica – sarebbe al primo posto dei resilienti, coloro che resistono malgrado tutto, che non disperano di farcela malgrado la realtà sia disperante. Si ostina a vivere, a lavorare, a insegnare da San Nicola da Crissa, nel vibonese, lungo l’istmo che restringe la Calabria fino a farne il nodo che lega il Tirreno allo Ionio.

E sul mare d’Oriente risalendo verso Crotone, oggi supina sotto una tempesta di pioggia e vento, spuntano i semi dell’ecosistema criminale: le pale eoliche. Risalendo il golfo di Squillace, tra Isola di Capo Rizzuto e le alture dove vi è l’abitato di Girifalco, l’energia verde, green, pulita qui si trasforma in uno sfiato nero e puzzolente. È l’odore di ‘ndrangheta. Ogni palo una inchiesta o solo un sospetto. Ma la criminalità che in Calabria pervade ogni angolo della società si trasforma – nelle parole di chi la denuncia – spesso nel rito comodo del limite invalicabile, del capro espiatorio, dell’altro che inibisce, ferma, sotterra, ostruisce. Invece esiste per fortuna chi combatte. Il capo dell’armata rivoluzionaria è un prete bresciano di 72 anni: don Giacomo Panizza. Ha messo le tende decenni fa a Lamezia Terme, il botteghino quotidiano della grande criminalità, e lì ha le sue truppe: disabili, drogati, giovani e adulti dalla vita difficile. Una comunità di forze vive che hanno patito l’emarginazione. Si chiama Progetto Sud: “Ci siamo presi un edificio confiscato e l’abbiamo fatto vivere. La comunità è un’azienda, ho duecento dipendenti e centinaia sono quelli che da noi trovano speranza e anche l’educazione permanente alla rivoluzione. Io dico: i tuoi bisogni sono diritti. Sei disabile? Dunque hai diritto a chiedere alla Asl la carrozzella, non al deputato o al suo spicciafaccende. Sei disoccupato? Hai diritto al lavoro, e io ti istruisco nella battaglia campale con le istituzioni. Esercitare i diritti, scartare l’elemosina, abolire le richieste di favore, conoscere e adempiere ai doveri. Li abituo a tenere alta la testa, guardare in faccia, negli occhi, quelli là. Perché la ‘ndrangheta capisce chi sei da come la guardi, se stai dritto o curvo”. La missione di don Panizza è di costruire una rete di resistenza prima che di assistenza: “Non credo alla piramide gerarchica. I miei ragazzi sono divisi in tanti piccoli gruppi affinché il controllo divenga orizzontale e istantaneo. Una mela marcia è più facile scovarla in questo modo”.

Il marcio, cioè il sistema opaco delle relazioni, la clientela inossidabile, la collusione e la riverenza, sono le stimmate della politica. Non esistono i partiti ma le persone: ciascuna ha un proprio simbolo. E l’ultimo arrestato, il sempreverde Mimmo Tallini, era notoriamente impresentabile, ed infatti è stato il più votato al Consiglio regionale. Sergio Abramo, il sindaco di Catanzaro, si è stupito dell’arresto: “Gli sono vicino come amico ma distante per i suoi comportamenti”. È stata la figlia di Tallini, Rita, a replicargli: “Abramo si sente distante dai comportamenti di papà? Ma si vedevano ogni giorno, insieme sempre da mattina a sera…”.

Il vizio endemico dell’ipocrisia, l’offesa quotidiana alla verità. Come il polverone che ha coperto di cenere Nicola Morra, il parlamentare dei cinquestelle che ha detto, seppure con parole sgraziate, una verità: la malattia di Jole Santelli, la defunta governatrice, correva di bocca in bocca. E si sapeva che con ogni probabilità la malattia non le avrebbe permesso di portare a termine l’ufficio a cui si era candidata. Una moltitudine di prefiche ad accusare lo “svergognato”.

La Regione Calabria inghiottita da debiti che tra un po’ raggiungeranno i due miliardi di euro, oggi è guidata da un “facente funzione”: il pirotecnico Spirlì. “Sa che i miei primari, circa cento, erano tutti facenti funzione? Nessun vincitore di concorso, ma nominati in deroga e provvisoriamente dal direttore generale dell’Asl che era la mano estesa del presidente della Regione. Io revocai a tutti la nomina”. Così parla Massimo Scura, commissario straordinario alla Sanità voluto nel 2015 dal governo Renzi. “Nel 2018 mi ha cacciato la ministra pentastellata Giulia Grillo senza un perché. Io non avevo demeritato”. Scura, carriera tutta nel Pd prima come manager di una asl livornese e poi pisana, non aveva però ripianato i conti, che anzi erano lievitati di una cinquantina di milioni di euro. “Le perdite di esercizio si infittivano mese dopo mese senza possibilità di tenergli testa, però io ho l’orgoglio di aver aperto la cardiochirurgia a Reggio Calabria, rinforzato l’emodinamica a Cosenza e Castrovillari, dotato di stroke unit Catanzaro, aperte le terapie neonatali”. E poi? “E poi fatto la più grande rivoluzione: assunto mille tra infermieri e medici fregandomene dei rilievi e delle revoche del presidente della Giunta Mario Oliviero. E ho anche ridotto l’enorme falange degli amministrativi, non sostituendoli più quando andavano in pensione”. Scura conclude temerario: “Non ho capito perché mi hanno cacciato, tornerei di corsa”.

L’emergenza nell’emergenza, la pandemia raddoppia e trova in Calabria un battaglione di politici esausti, volti incartapecoriti che dovranno affrontare nella prossima primavera nuove elezioni. Nessuna idea, nessun progetto. “In Calabria solo il presente conta”, dice don Panizza.

Nel nero, nel buio perso di una crisi insieme civile, sanitaria ed economica, poche luci all’orizzonte. A Reggio Calabria una lista dell’orgoglio e della lotta, formata da giovani, ha ottenuto alle recenti comunali il 7 per cento. “Sembra poco ma è tanto. Chiediamo diritti, rifiutiamo poltrone, abbiamo detto no ad entrare nella giunta di Falcomatà. Acqua pubblica, beni comuni, diritti universali. Questa è la nostra strada e incrociamo le dita”, dice Saverio Pazzano, il leader di questi avanguardisti della legalità.

Casellati, la pontiera che sonda Di Maio

Metti una sera a cena: il Luigi Di Maio che incontra quasi tutti per capire e possibilmente gestire il gioco, e la padrona di casa, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha voglia di mostrarsi pontiera al centrodestra tutto, e non solo.

Pare soprattutto questo il senso dell’incontro di lunedì scorso tra il ministro degli Esteri e il presidente del Senato, rivelato ieri da Repubblica. Voluto fortemente da Casellati, continuano a giurare da sponda 5Stelle. E accettato dopo qualche rinvio da Di Maio, che Silvio Berlusconi non vuole neppure sentirlo al telefono. Ma tutti gli altri forzisti, da Gianni Letta in giù, li sente e li incontra, ed è cosa nota. Lunedì il leader di fatto del M5S si è seduto a tavola con la berlusconiana, sorridente ma guardingo. E ha ascoltato i discorsi di colei che è la seconda carica dello Stato. Eppure già da tempo Casellati sogna di traslocare in un altro palazzo poco distante, il Quirinale. Impresa che sa di impossibile. Ma lei ci prova, a scuotere l’albero della politica e a mostrarsi utile.

Preziosa innanzitutto per Fi, il suo partito. Ma utile da ascoltare anche per la Lega, perché con Salvini il rapporto è solido, “forse è la più leghista delle berlusconiane” ricordano fonti parlamentari. Così eccola a compulsare Di Maio e a chiedergli cosa ne pensa della tenuta della maggioranza in Senato. Tra una portata e l’altra Casellati ha ascoltato il ministro, e magari gli ha dato volentieri il suo parere di prima dell’Aula. E alla fine, raccontano, l’ha buttata lì, cercando di sondare Di Maio sul cuore della questione. Ossia se e quanto Fi possa dare una mano a puntellare i provvedimenti di governo, in nome di un’unità nazionale invocata regolarmente sempre da quel palazzo, il Colle. Nessun accenno a cambi di maggioranza, pare. Però ragionamenti su confini e sviluppi del “dialogo”, quello sì. E più di un passaggio sull’esigenza di coinvolgere di più l’opposizione tutta. Compreso il Carroccio di Salvini. Di certo, invitando Di Maio, Casellati ha voluto dimostrare di voler giocare al tavolo della politica. E il ministro ha capito perfettamente. Anche per questo nell’incontro ha ripetuto la sua linea pubblica, come uno scudo: collaborazione sì, certo, come no. Ma ognuno a casa sua, il M5S nel governo e Fi all’opposizione. Di tutto il resto, di nomine e soprattutto di legge elettorale, Di Maio parlerà altrove. Il Fatto ha raccontato ieri come Letta abbia fatto sapere al M5S (e quindi anche al ministro degli Esteri) di non aver mai chiesto l’emendamento che tutela Mediaset dalla scalata di Vivendi. Non vuole che qualcuno possa rivendicare di aver fatto favori, in altri tavoli.

Nell’attesa, la corrispondenza d’amoroso dialogo tra Fi e una bella fetta della maggioranza, con il Pd che ogni giorno strizza l’occhio ai berlusconiani, ha smosso le acque nel centrodestra. Tanto che ieri Salvini ha telefonato a Berlusconi, e gli ha (ri)proposto una federazione del centrodestra. La contromossa rispetto ai dem che corteggiano i forzisti per votare assieme una legge elettorale proporzionale, che li emanciperebbe dal giogo della Lega, “perché con il proporzionale ognuno corre da solo”. Chissà che ne pensa Casellati, vogliosa di unire: sul suo nome.

Bertolaso nel cda del colosso che ricostruirà Milano Nord

La nomina porta la data del 29 maggio 2020. Quel giorno, nel silenzio più totale, Guido Bertolaso viene nominato consigliere di amministrazione di Milanosesto Spa, società controllata dalla Prelios, la ex Pirelli Re, colosso della gestione immobiliare in Italia e in Europa. L’ex capo della Protezione civile ai tempi del G8 del 2009 e del terremoto all’Aquila, è richiestissimo, a lui si affidano le Regioni per far fronte alla scarsità di posti Covid negli ospedali. Il 14 marzo Attilio Fontana l’ha fatto consulente della Lombardia per l’emergenza, otto giorni dopo Luca Ceriscioli lo ha voluto nello stesso ruolo per le Marche e il 4 novembre si è assicurato i suoi servigi anche la governatrice leghista dell’Umbria Donatella Tesei. Nel frattempo è arrivato l’incarico nella società che ha il compito di firmare la rinascita urbanistica di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano.

Capitale sociale da 84 milioni di euro, Milanosesto Spa gestisce la più grande operazione immobiliare in atto nel Paese: la riqualificazione dell’ex area industriale Falck di cui è proprietaria, sulla quale sorgerà la nuova Sesto. Un progetto da 1,5 milioni di metri quadrati di cui un milione di edilizia privata, gestito con Prelios e imperniato sulla Nuova Città della Salute – 135mila mq e 600 posti letto affidati all’Istituto nazionale dei tumori e all’Istituto neurologico “Carlo Besta” – attorno a cui nasceranno una stazione ferroviaria, cinque piazze, viali, parchi, torri, uffici, quartieri residenziali, attività commerciali e 45 ettari di verde. Uno “shopping center con un parco divertimenti”, secondo Renzo Piano che dopo aver realizzato il masterplan nel 2016 si era fatto da parte “amareggiato” per la perdita di “una grande occasione”. L’avvio dei lavori è previsto a giugno 2021 per il primo lotto, sul quale il colosso Usa Hines e la Kuwait Investment Authority metteranno 500 milioni.

Cosa ci fa Bertolaso nel cda della società che metterà in opera “la più grande rigenerazione urbana d’Europa”, popolato negli anni da manager di altissimo livello e storici boiardi di Stato? Il presidente è Enrico Laghi, ex commissario di Alitalia e di Ilva insieme a Piero Gnudi, ex numero uno di tutto tra cui Enel e Iri, che di Milanosesto Spa fu consigliere tra il 2011 e il 2012. L’ad è il leghista Giuseppe Bonomi, già presidente di Sea, società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa, ed ex ad di Arexpo, proprietaria dell’area di Expo 2015. C’era anche Raffaele Tiscar, democristiano, ex dirigente della Regione Lombardia con Formigoni e segretario generale della presidenza del Consiglio con Renzi, uscito di scena un mese prima dell’ingresso di Bertolaso, che scadrà nel 2022 con il resto del cda. “La nomina l’ha decisa l’azionista, in questo caso Prelios”, spiegano da Milanosesto. “L’ad Bonomi non lo ha neanche mai incontrato”, sottolinea un’altraa fonte. Comunque sia “è un consigliere senza alcuna delega operativa”. Tradotto: prende “un gettone” di cui non viene comunicata l’entità. E si torna al primo quesito: perché “sprecare” un “uomo del fare”, come lo definì Silvio Berlusconi, per un’alzata di mano?

Fra l’altro, il coinvolgimento di Bertolaso nella galassia Prelios potrebbe creare qualche imbarazzo nella sua Roma, dove pare in procinto di tornare da candidato sindaco del centrodestra. Fedelissimo dell’ex Cavaliere, Antonio Tajani l’ha proposto per il Campidoglio incassando l’ok di Matteo Salvini. Con il veto iniziale di Fratelli d’Italia che ora vacilla, visto che Giorgia Meloni gli contrappone solo la sua “figlioccia” Chiara Colosimo, la quale però sconta un evidente deficit di popolarità. Il prossimo sarà anche il sindaco del Giubileo 2025 (Bertolaso è stato vicecommissario all’evento nel 2000), con relativa pioggia di milioni pronta a scendere sulla città. Proprio Prelios da anni mira a espandersi nella Capitale. Già nel 2015, dopo lo scandalo Affittopoli, l’ex Pirelli ottenne da Ignazio Marino la gestione degli immobili comunali al posto della Romeo Gestioni, mentre la manager dell’epoca, Claudia Bugno, volava ai vertici del Comitato di Roma 2024: l’intero quadro venne cancellato da Virginia Raggi, che revocò Prelios in favore della pubblica Aequa Roma e fermò la candidatura ai Giochi.

Lotti, cene coi pm 4 anni prima del caso Palamara

Il 17 luglio 2015 il governo Renzi era all’apice e con esso il Giglio Magico. Luca Lotti da capo di gabinetto dell’ex sindaco è diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E come vedremo – molto prima degli ormai celebri dopo cena all’hotel Champagne con Luca Palamara del maggio 2019 – già frequenta, in altre cene, esponenti del Csm. La sua posizione è sempre stata netta: incontri istituzionali dovuti alla sua funzione. Di queste cena c’è traccia nelle motivazioni della condanna a 10 anni in primo grado del pm Antonio Savasta. E il tutto è legato al 17 luglio 2015.

È una data che resterà nella memoria della famiglia Renzi: viene ricordata nel processo che, nell’ottobre 2019, ha portato alla condanna in primo grado, a un anno e 9 mesi, di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier, per fatture false emesse nei confronti dell’imprenditore Luigi Dagostino. Che in quel momento era l’ad della Tramor, società di gestione dell’outlet The Mall, e affidò a due società dei Renzi, la Party ed Eventi 6, degli studi di fattibilità legati all’outlet. Per la procura di Firenze le relative fatture – in totale 160mila euro – sono false: emesse per prestazioni non effettuate. Una fu saldata proprio il 17 giugno 2015. E coincide con il giorno in cui Lotti incontra, a Palazzo Chigi, il pm di Trani Antonio Savasta. È lo stesso Savasta che in quei mesi avrebbe dovuto indagare su vicende legate a Dagostino e, anche in questo caso, a un giro di false fatture. Chi organizza l’incontro? A rivelarlo è Dagostino interrogato il 13 aprile 2018: “Un giorno nel 2015 al bar Igloo incontrai per caso Savasta che si mise a parlare con me e mi disse che era interessato a presentare un disegno di legge in materia di rifiuti a Roma. Io ci pensai e siccome tramite Tiziano Renzi l’unico politico che avevo visto 3 o 4 volte era Lotti (…) decisi che lo potevo portare da lui. Fissai con Lotti, tramite Tiziano Renzi, un appuntamento dicendogli che volevo portargli un magistrato che aveva interesse a mostrare una proposta di legge. Prima avevo chiesto a Tiziano Renzi di chiedere a Lotti se era lui la persona adatta per quell’appuntamento (…) e Lotti fissò lui l’appuntamento”.

Quando Lotti viene sentito sul caso come persona informata sui fatti, nel 2018, racconta di aver conosciuto Dagostino tra il 2014 e il 2015 e di averlo incontrato a Palazzo Chigi. Ma ricorda poco e si riserva di controllare le sue agende. Viene risentito il 14 maggio 2018: “Fu Dagostino a presentarmi Savasta. (…) Non ricordo se Savasta mi chiese qualcosa per sé perché non ricordo bene come si svolse tale incontro (…)”. I pm gli fanno notare che il colloquio durò tra i 30 e i 40 minuti. “Continuo a non ricordare l’oggetto dell’incontro (…)”, risponde Lotti. “Esclude che Savasta possa aver chiesto un incarico anche in una commissione di studio o altrove?”, continuano i pm. “Non lo posso escludere, ma ribadisco che non lo ricordo…”, risponde Lotti. E ancora: chi fissò l’appuntamento? La risposta di Lotti: “Ho conosciuto Dagostino tramite Andrea Bacci di cui ero amico e inoltre è noto che ero in buoni rapporti con Tiziano Renzi con il quale passeggiavo ogni lunedì da via Mazzini alla Stazione, quindi è probabile che tale appuntamento lo abbia chiesto o Bacci o Tiziano Renzi (…). Non riesco a ricordare bene Savasta e cosa mi chiese anche perché durante la mia funzione di sotto segretario ho incontrato molti membri non togati e togati del Csm con i quali parlavo del funzionamento delle commissioni del Csm. Ho incontrato anche altri pm e giudici di primo grado (…). Ne ho incontrati vari durante cene a Roma che avvenivano anche con membri del Csm e qualcuno anche a Palazzo Chigi e in altre occasioni”. E quindi: Savasta, che aveva un procedimento aperto al Csm e che avrebbe dovuto indagare su Dagostino, otteneva da quest’ultimo un appuntamento con Lotti. Il pm è stato condannato a 10 anni per corruzione in atti giudiziari per questa e altre vicende. Dagostino è stato condannato per corruzione a 4 anni. Nella sentenza si legge che l’appuntamento con Lotti ha rappresentato per Savasta una “indebita utilità” considerato che “era interessato a ottenere un trasferimento o un incarico che gli consentisse di allontanarsi dalla Procura di Trani” e che Savasta “al fine di favorire Dagostino”, dal quale “riceveva tangenti”, tra il 2015 e il 2017 “compiva plurimi atti contrari ai doveri d’ufficio”.

Vita da Usca: “Portiamo un po’ di sollievo a casa”

“Ci sorridono, ci ringraziano, ci chiamano angeli. Ma dobbiamo cambiarci sul pianerottolo per non spaventare i condomini”.

Tiziano Scarparo, 28 anni, è un giovane medico-chirurgo e fa parte di una delle cinque Usca di Roma, le squadre sanitarie mobili attivate dalle unità di crisi regionali per le visite domiciliari ai pazienti Covid, per i quali si riesce ad evitare il ricovero in ospedale. Un lavoro difficile, pesante e anche rischioso, con turni anche di 12 ore, in questi giorni reso ancora più importante dalla necessità di liberare progressivamente i posti letto. Nel Lazio al momento ci sono ben 76.282 persone in isolamento domiciliare, loro riescono a visitarne circa 100 in una giornata (una ventina per ogni squadra), “ma ovviamente diamo precedenza ai pazienti fragili”, sottolinea Tiziano.

“Per loro vederci arrivare è un sollievo – racconta a Il Fatto – la parte psicologica è importante. Gli facciamo fare la prova della camminata e quella della sedia, poi gli insegniamo a leggere il saturimetro e gli spieghiamo cosa fare se e quando la situazione va a peggiorare”.

I ragazzi delle Usca raggiungono ogni quartiere della Capitale, da quelli più centrali fino alle periferie, imbattendosi in situazioni sociali di ogni tipo. “Molto spesso in periferia troviamo famiglie di 5-6 persone che abitano in appena 50 metri quadri – dice – Al di là della condizione di vita, il problema specifico è che è quasi impossibile che gli altri componenti della famiglia non si infettino. Noi cerchiamo di dare suggerimenti, lasciamo delle istruzioni per evitare il contagio, ma non è facile”.

Le unità mobili sono tenute alla riservatezza, sia per tutelare la privacy della persona che ha contratto il Sars-Cov-2, sia per non creare allarmismo. “Arriviamo nei condomini in maniera molto discreta – prosegue Tiziano – poi ci cambiamo sul pianerottolo. Abbiamo un protocollo ben definito e collaudato, dunque le operazioni di vestizione avvengono in tutta sicurezza, sia per noi che per le persone che vivono nell’edificio”.

La gran parte dei pazienti è composta da persone anziane: “È un po’ difficile far capire loro come usare il pulsossimetro, quello che a noi giovani può apparire intuitivo, per altri non è poi così semplice”. Nella Capitale, tanti contagi sono avvenuti, oltre che nelle case di riposo, anche nei conventi. “Purtroppo abbiamo trovato situazioni non facili anche fra suore e frati – racconta il chirurgo – sono persone abituate a vivere in comunità, passano la gran parte della giornata in raccoglimento, non seguono giornali, tv, internet. Abbiamo dovuto spiegare da capo alcune modalità di comportamento, addirittura che le persone positive dovevano stare ben separate da quelle ancora negative”.

Anche la vita dei medici è completamente cambiata. Un approccio alla professione che forse non era attesa. “Se si vuole fare questa professione ci si aspetta di tutto – dice Scarparo – con o senza Covid resta sempre un lavoro dalle emozioni intense. La nostra vita sociale? Siamo praticamente in lockdown: si esce solo per lo stretto necessario, si evita di incontrare persone, ci si fa scrupolo anche a prendere il caffè al bar. Il nostro equipaggiamento ci garantisce una protezione totale durante le visite, per noi è più rischioso andare al supermercato. Siamo pochi? Forse, ma ci hanno detto che stanno arrivando i rinforzi. Siamo ottimisti e andiamo avanti”.

Il dirigente siciliano: “Caricate più T.i. o siamo zona rossa”

“Caricate i posti, non sento cazzi. Oggi faranno le valutazioni (dal ministero, ndr) e in funzione dei posti letto in terapia intensiva decideranno in quale fascia la Sicilia risiede”. Sono parole di Mario La Rocca, dirigente generale dell’assessorato alla Salute della Regione Sicilia in un messaggio vocale diretto ai manager degli ospedali dell’Isola. E così il 4 novembre la Sicilia si è tinta di arancione, nonostante ospedali pieni e sindacati in rivolta. Se e come i manager abbiano aderito all’invito dell’audio, diffuso dal quotidiano La Sicilia, lo chiariranno i carabinieri dei Nas, inviati dal ministro della Salute Roberto Speranza. Va detto tuttavia che la decisione sul colore è stata presa sui parametri della settimana precedente.

La Rocca su Whatsapp “catechizza” gli altri componenti del gruppo: “Oggi su Cross (la piattaforma della Protezione civile ndr) – dice con forza – deve essere ‘calato’ tutto il primo step del 15 novembre”. Il problema è che siamo al 4 novembre e in quel momento, dopo un’estate di stasi, i posti in terapia intensiva venivano raccattati nelle province in un caos di ritardi e proteste. La Rocca però chiede ai manager di caricare comunque i dati dello step del 15 novembre, dicendo di non voler sentire altre ragioni. Chi non farà quanto detto “sarà responsabile di quello che la Sicilia subirà in termini di restrizioni”.

Insomma, prima evitare le restrizioni, poi la salute. Nonostante i posti in terapia intensiva e nei reparti ordinari siano poi aumentati, i sindacati nelle ultime settimane hanno avuto più di un dubbio sulla veridicità dei numeri. Il Cimo, sindacato dei medici, negli ultimi giorni ha avviato una ricognizione autonoma dei numeri dei posti in terapia intensiva in Sicilia, arrivando a conclusioni diverse: secondo i medici, infatti sarebbero 572 e non 817 come “calato” (dice La Rocca) poi dai manager della sanità siciliana in ultima battuta sul portale della Protezione civile: “Ero incavolato – è la replica di La Rocca – dicevo ai manager di ospedali e Asp che dovevano applicare il piano della Regione destinando posti letto ai malati Covid ma non lo facevano: la verità è che ci sono medici che si stanno sacrificando dando l’anima e ci sono quelli che invece non vogliono occuparsi di questi malati. Pur di non svuotare alcuni reparti – prosegue – per destinare i posti letto ai pazienti Covid, c’è chi ha scritto nelle cartelle cliniche diagnosi inventate, ne ricordo una che parlava di tubercolosi, ma non era vero”.

Oltre all’intervento del ministero della Salute che ha inviato gli ispettori e i Nas, l’audio ha portato a intervenire anche il ministro agli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, che ha annunciato accertamenti immediati dopo aver definito l’audio “grave e inaccettabile”. Le polemiche però si ripercuotono anche sull’assessore alla Salute Ruggero Razza: il Movimento 5 Stelle chiede le sue dimissioni. L’assessore, braccio destro del presidente Musumeci, si difende dicendo che il direttore ha operato nel giusto e rimarcando che i dati caricati sono veri. I deputati del Pd all’Ars annunciano invece un esposto alle Procure dei nove capoluoghi siciliani.

Meno ricoveri e terapie intensive, ospedali ancora “vicini al collasso”

Non accelera più, ora non resta che aspettare che finisca la benzina. È questa, in sintesi brutale, la situazione attuale dell’epidemia Covid in Italia. La curva del contagio è come una macchina partita a inizio ottobre con il piede pigiato sull’acceleratore che da qualche giorno ha raggiunto la sua velocità massima e ora prosegue più o meno a ritmo costante. Rallenterà più nettamente non appena il serbatoio segnerà riserva. Ma questo dipende ancora da quanto carburante gli faremo consumare noi: “Guai a interpretare questi primi segnali come un liberi tutti – ha detto ieri il ministro della Salute Roberto Speranza –. I primi segnali in controtendenza dopo le settimane di crescita vertiginosa del contagio si vedono, ma sono ancora del tutto insufficienti. La pressione sui servizi sanitari è fortissima. L’indice Rt sta calando ma dovrà ancora scendere strutturalmente sotto l’1. Solo allora vedremo risultati più significativi”.

Passando ai numeri, il bollettino di ieri ha fatto registrare 34.767 nuovi contagi, circa 2.500 in meno rispetto a venerdì, a fronte però di un numero pressoché identico di tamponi effettuati (237.255, 852 in meno rispetto alle 24 ore precedenti); il che ha fatto scendere di un punto il tasso di positività (rapporto tra nuovi casi e test effettuati) che passa dal 15,6% al 14,6. Ancora molto alto – l’inversione di tendenza di questa curva sarà l’ultima ad arrivare – il numero dei morti, 692, cifra che porta il totale delle vittime dall’inizio della pandemia ormai alle soglie di quota 50 mila.

Fronte ospedaliero: i nuovi pazienti ricoverati con sintomi sono stati ieri 106 contro i 347 di venerdì, 10 i pazienti entrati in terapia intensiva contro i 36 delle 24 ore precedenti. Se nei prossimi giorni questi numeri dovessero stabilizzarsi, sarebbe il primo sospiro di sollievo di un sistema sanitario al limite (se non oltre) del collasso. I pazienti totali ricoverati con sintomi sono ancora 34.063 e i posti occupati in terapia intensiva 3.758.

Numericamente – secondo i dati elaborati dall’Altems dell’Università Cattolica – la situazione ospedaliera più critica rimane quella del Nord Ovest. In Piemonte ogni 100 mila abitanti sono ricoverate più di 127 persone, in Val d’Aosta addirittura 134 (131,91 fu il picco della Lombardia, oggi a 89,52, raggiunto il 4 aprile). Critica anche la saturazione dei posti in terapia intensiva, al 64,22% in Lombardia (picco massimo 77% il 3 aprile), 61,15 in Piemonte. Ma il problema è nazionale, poiché soltanto Veneto e Friuli-Venezia Giulia risultano essere (di poco) al di sotto della soglia critica del 30%.

Ma è ovviamente l’intero sistema ospedaliero ad essere in profondo affanno. L’allarme, l’ennesimo, è stato lanciato ieri dall’Anaao-Assomed, il maggior sindacato dei medici ospedalieri: nei reparti di Pneumologia, Medicina interna e Malattie infettive, confrontando regione per regione i posti letto attivi nel 2018 con quelli attivati nel 2020, l’attuale numero dei ricoveri Covid-19 ha generato “un quadro drammatico”, per dirla con il presidente della Federazione dei medici internisti (Fadoi), Dario Manfellott. Il Piemonte è saturo al 191%, la Valle d’Aosta al 229%, la Lombardia al 129%, la Liguria al 118%, il Lazio al 91%, la Campania all’87%. Solo Molise e Friuli Venezia Giulia sono sotto la soglia di occupazione del 40%, ma comunque vicine con il 34% dei posti letto occupati. In totale, secondo il report, sono in allarme 19 regioni e province autonome: “Gli ospedali – dice ancora Maffellotto – sono ormai prossimi al collasso a causa della carenza di personale sanitario e del gran numero di pazienti Covid che continuano ad arrivare nei nostri reparti”. Se i posti letto sono infatti aumentati, non è aumentato il personale nella stessa proporzione.

Capitolo Natale. Salvo sorprese, non ci saranno cambi di colore prima del 3 dicembre, ma a quel punto, secondo la sottosegretaria Pd al ministero della Salute Sandra Zampa ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, potrebbero esserci “deroghe agli spostamenti tra Regioni in vista delle festività natalizie”.

L’angolo del buonumore

Sono tempi bui e il buonumore è merce rara. Ringraziamo dunque il noto fornitore a sua insaputa Alessandro Sallusti che, a pochi giorni dall’arresto di due dei pochi berlusconiani rimasti a piede libero – Verdini (bancarotta fraudolenta) e Tallini (voto di scambio con la ‘ndrangheta) – apre il Giornale col titolone “GLI INDECENTI”, affiancato da quest’altro: “Orgoglio Berlusconi”. Ma B., essendo solo un pregiudicato per frode fiscale, 9 volte prescritto e tuttora imputato per varie corruzioni sfuse, fa parte dei decenti. Gli indecenti sono Nicola Morra, Ciro Grillo e Chiara Appendino. Il primo per aver detto un’ovvietà: e cioè che i calabresi sapevano che Jole Santelli era gravemente malata di tumore, ma l’han votata lo stesso e ora si ritrovano il noto cabarettista Spirlì. L’ovvietà ha destato grande scandalo in tutti i partiti, M5S incluso (in America, al primo raffreddore, i candidati a qualunque carica devono esibire la cartella clinica). E il direttore di Rai3 Franco Di Mare – detto Mister Pampers perché ogni tanto gli scappa un goccio di censura (vedi la guerra termonucleare a Mauro Corona) – ha cacciato Morra da un programma. Perché sia chiaro che alla Rai entrano cani e porci, ma il presidente dell’Antimafia è off limits. Il secondo “indecente” è un giovane privato cittadino indagato per presunti reati sessuali, che ha la sfortuna di non essere iscritto a Forza Italia (altrimenti sarebbe un martire del moralismo togato), di non risiedere a villa San Martino (sennò la presunta vittima sarebbe la nipote di Mubarak) e per giunta di essere figlio di Beppe Grillo. La terza “indecente” è Chiara Appendino, una delle persone più oneste mai viste in politica, imputata a Torino per una disgrazia: il fuggifuggi di piazza San Carlo, causato da malviventi armati di spray urticante (1500 feriti e tre morti). Dunque “indecente” anche lei, secondo l’house organ dei pregiudicati.

Altro giornale, altre risate: sul Messaggero Antonio Tajani, vicepresidente di FI, invoca “il vincolo di mandato” contro chi “cambia casacca”. Come la Ravetto e gli altri due forzisti appena trasvolati nella Lega. Purtroppo Tajani non precisa a quando risalga la sua conversione al nobile proposito che, quando lo propugnava il M5S, era peggio di un golpe. Ma dev’essere una cosa recente, visto che il primo e il terzo governo B. si ressero su parlamentari eletti all’opposizione e acquisiti in saldo, mentre il Prodi-2 cadde perchè B. s’era comprato il dipietrista De Gregorio per 3 milioni e Mastella era ripassato al centrodestra. Quindi la nuova Costituzione della Repubblica Tajana dirà così: “Per chi vuole uscire da FI, vige il vincolo di mandato. Per chi vuole entrare resta il vincolo di comprato”.