I ricordi di Morin: dal “nullo” Sartre al dirigente Pci fuggito con la cassa

È nato nel 1921, si avvicina ai cento anni e i ricordi gli vengono incontro così impetuosamente che un libro di 700 pagine sembra non riuscire a contenerli. Edgar Morin si è conquistato un posto d’onore nel pantheon dei pensatori del 900 e in parte, ormai, del XXI secolo. Filosofo? Sociologo? Antropologo? Le definizioni sono diverse e valgono tutte. La longevità gli ha permesso del resto di attraversare un secolo di storia, di fatti e di idee. Nel libro sono racchiusi un po’ alla rinfusa, ma gli aneddoti sono piccole perle e restiuiscono la bellezza di un passato in cui l’autore “si riconforta ricordando le oasi di vita temporanee”. C’è la Resistenza, dove assumerà il nome di Morin che preferisce al sefardita Nahoum, e i primi incontri con Mitterrand, che diventerà due volte presidente della Repubblica. La guerra di Algeria, cui si oppone, lui comunista irrequieto già espulso dal Pcf, i viaggi in Spagna e i garofani di Lisbona, l’adolescenza e gli incontri con la morte. E poi tanta Italia “là dove vorrei vivere, amare e morire”. I suoi discendenti di Salonicco venivano da Livorno e poi dalla Spagna passarono in Francia.

E c’è il resto del mondo, Le Monde e Baudrillard, Victor Serge e Regis Debray, Sartre e Jean Daniel, fondatore del Nouvel Observateur. Di Sartre ricorda l’incidente a Roma in cui in un’intervista lo definisce “grande come scrittore, medio come filosofo, nullo come politico”. L’esponente dell’Esistenzialismo non la prende bene e risponde con insulti furiosi. Divertente il ricordo di palazzo Farnese, ambasciata di Francia e della vita da bon viveur che lì si svolgeva in compagnia dell’ambasciatore Gilles Martinet. Per intenditori il ricordo di Giulio Seniga, il comunista che scappò con la cassa del Partito di Togliatti (500 mila dollari nel 1954), ma che rimane “uno degli uomini più coraggiosi, calunniati e infangati che io abbia mai conosciuto”. Quello di Morin è un viaggio nella memoria, la sua, ma che racconta anche la nostra storia.

 

“Dalla latteria alle prime bozze della Rosa di Eco”

Quest’anno niente Buchmesse ottobrina a Francoforte e mitico Hessischer Hof Hotel né Café de Flore, il suo ufficio parigino di sempre, entrambi stroncati dalla pandemia. Abituato com’è a girare il mondo, spinto dall’amore per i libri, Mario Andreose, 86 anni, pilastro dell’editoria nostrana, oggi presidente de La Nave di Teseo, apre però Voglia di libri, felice continuazione del precedente Uomini e libri, con un seme di speranza: “Questo contenitore di letteratura e cultura che Umberto Eco definiva strumento indispensabile, al pari della ruota e del cucchiaio, resiste al nefasto momento e ad agguerriti nemici come le effimere distrazioni di cui la società odierna ci subissa”.

È chiaro, dal titolo, che il trasporto che animava un Andreose, trasferitosi da Venezia a Milano con pochi spicci e il sogno di diventare giornalista, è intatto. “Lavorare mi tiene vivo e lucido”, dice ridendo. Voleva scrivere per Il Giorno ma poi rispose a un annuncio e fu assoldato da Alberto Mondadori in persona come correttore di bozze per Il Saggiatore, primo step di un’escalation inarrestabile, guidata non dall’ego ma dalla passione. D’altronde la Milano a cavallo tra i 50 e i 60 era l’America per chi aveva stoffa e inclinazione per le arti. Bastava “sedersi al bar Jamaica a Brera, gironzolare per mostre, consumare pasti essenziali nelle latterie per bohémiens” per entrare nel giro. Utopia, oggi. Dal Saggiatore si spostò in Mondadori, a Verona, e, anni dopo, tornò a Milano per il gruppo Fabbri che comprendeva Bompiani, Sonzogno, Etas. Sintetizzarne il percorso è arduo, tanto è fitto, ma il momento in cui avviò negli anni 80 la collana Classici di Bompiani e iniziò a seguire la produzione di Eco, per diventarne amico fidato e curatore editoriale dopo l’uscita de Il nome della rosa, è un apice. “Un periodo bellissimo. Ricevendo in eredità il catalogo Bompiani realizzai quanto fosse importante conservarne il valore ma anche rilanciarlo con nuove iniziative e scoperte, guidato dalla lezione di Valentino Bompiani: l’autore viene sempre prima dei suoi libri. Uno scrittore può essere corteggiato e conquistato ma poi dovrai sempre averne cura, farlo sentire parte di una famiglia”.

In un’opera che somiglia a una galleria d’arte, aneddoti e ricordi personali s’intrecciano all’affascinante storia dell’editoria italiana dai 50 a oggi, ai ritratti di scrittori di culto come T. S. Eliot e Saul Bellow e dei maestri con cui ha lavorato. Si resta rapiti nel sorbire le descrizioni di intellettuali di cui oggi siamo un po’ orfani, anche per eleganza, come Giacomo Debenedetti “in doppiopetto grigio chiaro, in tasca la tessera del Partito comunista e un portasigarette a orologeria per limitarne l’uso”, Alberto Moravia, il primo scrittore che va a trovare quando comincia a occuparsi della narrativa di Bompiani, un uomo che “qualunque cosa dicesse nasceva da un suo pensiero originale e acuto”, Luciano Foà, fondatore di Adelphi, “gentiluomo lungimirante, alieno dagli steccati ideologici e dalle miopi rivalità professionali”, Erich Linder, “l’agente letterario tra i più importanti e temuti al mondo”. Poche le donne, ma il patriarcato imperava: l’esplosiva Inge Feltrinelli, Natalia Ginzburg che, complice Foà, pose rimedio alle autorevoli bocciature del Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Levi, la poetessa Bianca Garufi a tradurre Tristi tropici di Lévi-Strauss. Ritratti intervallati dal backstage di pubblicazioni rischiose, dove l’intuizione fa però tutto e ripaga, come fu con Uomini e topi di Steinbeck che Bompiani fece tradurre da Pavese, perseverando poi con Furore nel 1940, nonostante la censura fascista. “La ritraduzione di Sergio Claudio Perroni ha avuto sorprendente riscontro. Ritradurre i classici è un’eccezionale opportunità per restituire vita alle opere”.

Forte, mai ingombrante, la presenza di Eco, con cui Andreose ha avuto un sodalizio durato 35 anni. Un legame che definisce di facilità felice. “Ci siamo subito riconosciuti e scelti, condividevamo la medesima visione delle cose, della vita, la stessa idea di editoria”. Si riemerge dalla lettura con una certezza: se il mondo è fatto per finire in un bel libro, come scriveva Mallarmé, per comprendere il mondo bisogna leggere più che si può.

“L’Arminuta” s’è fatta donna dura e disillusa

Donatella Di Pietrantonio – premio Campiello 2017 con L’Arminuta (Einaudi) – si distingue nel nostro panorama per una fedeltà al romanzo tradizionale che, per nitore sintattico e temi esplorati, sembra rinverdire una certa impronta novecentesca. L’autrice abruzzese indovina una prosa controllata, che procede per sottrazione, sia pure con qualche stonatura di troppo (“le nostre solitudini affiancate ci scaldavano fino alle ossa”; “la finestra un rettangolo scuro ma filtra l’odore di un giorno nuovo”).

Anche in questo nuovo Borgo Sud, sempre edito da Einaudi, è di scena un microcosmo topos di tanta letteratura del Mezzogiorno: il mare, la pesca, la fatica come valore, le superstizioni, la corruzione borghese, le radici come culto da venerare o da ripudiare.

La narratrice di queste 160 pagine, professoressa di italiano all’università di Grenoble, è costretta a ritornare al paese d’origine da cui era fuggita per assistere in un reparto di terapia intensiva la sorella Adriana in fin di vita. Adriana ha un figlio, Vincenzo, e vive come una ragazza madre senza rete. Ambientato al Borgo Sud, il quartiere dei pescatori di Pescara, il romanzo, che descrive la maturità delle sorelle già protagoniste dell’Arminuta, è una spietata sequenza di voragini. Non c’è affetto, legame o relazione nella vita della narratrice che non siano destinati a consunzione: “C’era qualcosa in me che chiamava gli abbandoni”. La madre, che durante l’infanzia l’aveva affidata alla cugina in città per poi riaccoglierla, muore di cancro. La narratrice, irrimediabilmente distante dall’universo contadino e anaffettivo della donna che l’ha partorita, non riesce a maturare nessuna vera riconciliazione. Il marito Piero, odontoiatra e figlio unico di una dinastia benestante, si rivela un uomo infedele e tormentato, costretto a consumare clandestinamente la sua omosessualità in ripetuti tradimenti e proprio grazie a essi scoprire la verità negata di sé. La sorella Adriana, che finisce col tradurre la sua semplicità di provinciale in un’esistenza perennemente allo sbando, è una donna indifferente e inquieta ma capace di accensioni sentimentali e solidali (“Adriana è così, si immerge nella melma e ne esce candida”).

È dentro questo rapporto mai davvero pacificato che la narratrice riconosce e si riconosce in un vincolo familiare. Il richiamo arcaico del sangue ha il sopravvento perché le due sorelle covano dentro di sé lo stesso vuoto, quel feroce disamore materno che ha trasformato l’Arminuta in una donna intellettuale e troppo razionale e Adriana in una donna impulsiva, priva di filtri, e per questo capace di portare in superficie ogni verità. Di Pietrantonio appartiene alla leva delle scrittrici che non hanno timore di guardare in faccia il dolore, di toccarlo con mano, di mostrarlo così com’è nella sua scrittura senza orpelli. Il suo timbro personale si può rintracciare nell’azzardo letterario non tanto di esorcizzarlo ma di accoglierlo. Forse per questo le pagine della scrittrice irrompono nella coscienza del lettore prima come spine conficcate in pieno petto e poi come indizi per una possibile via di salvezza.

 

Un anziano gay massacrato: l’ultima inchiesta di Bordelli prima della pensione

Un conte massacrato e ammazzato per via del suo “vizio fiorentino”, come veniva appellata l’omosessualità nel Rinascimento. “Si fermarono davanti al cadavere, dove il puzzo di gabinetto era ancora più forte. Bordelli e il sardo si guardarono, increduli: sembrava proprio che qualcuno avesse pisciato sul cadavere. Girarono intorno al corpo per vedere bene il viso del morto, ed ebbero un’altra sorpresa ripugnante, tanto che Piras fece fatica a reprimere un conato di vomito. La faccia del Conte era ricoperta di sputi, e i suoi occhi spalancati erano ancora pieni di terrore”.

S’intitola Un caso maledetto e in teoria dovrebbe essere l’ultima inchiesta del commissario Franco Bordelli a Firenze, l’investigatore dei romanzi gialli di Marco Vichi. È il gennaio del 1970 e Bordelli quasi sessantenne è a un passo dalla pensione, all’inizio di aprile. Tutto vorrebbe, per chiudere la sua parabola di commissario, tranne che trovarsi dinnanzi al cadavere martoriato del povero conte Alderigo Bonsanti Della Spada, anziano omosessuale. Nel palazzo avito il conte, 75 anni, era solito organizzare coca-party oppure ospitare prostituti giovinetti per fare sesso. L’ultimo incontro però gli è stato fatale. Un certo Salvatore ha aperto la porta agli assassini. Quattro. Il conte registrava le sue performance e Bordelli e il fedele Piras ascoltano la tremenda sequenza dell’omicidio. Chi sono i quattro? Stavolta il commissario oscilla tra la giustizia dello Stato e la “trappola della vendetta”. In fondo, non c’è alcuna differenza tra una banda di balordi che ammazza un “finocchio”, un “invertito” e i nazisti che Bordelli ha combattuto e ucciso in guerra. Nel frattempo il poliziotto continua la sua relazione con Eleonora, la metà dei suoi anni, e filosofeggia sul senso della vita con i suoi amici. Riuscirà davvero ad andare in pensione? Lo sapremo solo nel prossimo libro di Vichi.

 

Il cinema di “Gucci”: solo promozione senza grandi risultati. E vestiti pure male

Nel primo episodio Silvia Calderoni, performer, attrice e artista, si ridesta in una casa fanée ma blasée, viene interpellata dalla tv dallo studioso Paul B. Preciado: “Silvia, questa rivoluzione riguarderà l’amore, il cambiamento del desiderio”, cambia parecchi abiti, non l’aspetto androgino. Né il sorriso ritroso. Nel secondo conversa al bar, pensieri al vento e parole in libertà invero, con la cantautrice Arlo Parks e altri ragazzi e ragazze tanto a modo quanto a moda. Nel terzo l’ambientazione è un ufficio postale, le carrellate sulle calzature ingolosirebbero forse il Nanni Moretti di Bianca, il mood sospeso tra Sofia Coppola, Wes Anderson e Roy Andersson, la conversazione tra Achille Bonito Oliva e il cantante Harry Styles, con il critico d’arte a sostenere che “la moda veste l’umanità, l’arte la mette a nudo, e la musica è un massaggio del muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva”. Il rischio della supercazzola è sensibile, le grandi firme visibili: la nuova collezione di Gucci, OUVERTURE of Something that Never Ended, è presentata dal direttore creativo Alessandro Michele attraverso l’omonima mini-serie in sette episodi diretta con Gus Van Sant e in programma al GucciFest fino al 22 novembre. Girata a Roma, nel cast Billie Eilish, disponibile su YouTube, Weibo e GucciFest.com, fa del cinema veicolo promozionale, e viceversa: forse chiamare Van Sant per non fare Van Sant non è la migliore idea, ma Preciado è sempre interessante, la protagonista Calderoni (ve la ricordate nel gioiello di Davide Manuli La leggenda di Kaspar Hauser?) pure, e se Michele deve farsi perdonare qualcosa non è certo per come usa il cinema, ma per come usa, pardon, veste i nostri attori – e registi. Se la corrente supremazia immaginifica di Gucci non si discute, il Carmelo Bene di “basta produrre dei capolavori, bisogna essere dei capolavori!” non si soddisfa.

 

“Fargo 4”, da grottesco diventa gangster movie

Dopo tre anni di attesa, Fargo è tornata, ma non è più la stessa. C’era da aspettarselo: Noah Hawley, il creatore della serie ispirata al film cult dei fratelli Coen, qui produttori esecutivi, aveva già fatto capire che con la terza stagione si era chiuso un ciclo. La quarta è un’altra storia, socialmente, geograficamente e cronologicamente lontana dalle precedenti. Fargo 4 (Sky Atlantic e Now Tv) si avvicina ai gangster movie, pur mantenendo un po’ di quell’umorismo grottesco e surreale che è il marchio di fabbrica dei Coen.

Fargo, per usare le parole di Hawley, “non è un luogo ma uno stato mentale. È una vera storia criminale dove la realtà è più strana della finzione e i buoni devono affrontare qualcosa di orribile”. I primi tre capitoli erano però profondamente legati a un luogo fisico: il Minnesota, con le sue strade innevate e i diner persi nel nulla. E partivano da una premessa comune, il male che si insinua nella vita di persone più o meno normali. I fatti raccontati in Fargo 4, invece, si svolgono in Missouri e ruotano intorno a due bande criminali; le persone normali ci sono (la voce narrante è la figlia 16enne di un impresario di pompe funebri) ma rimangono in secondo piano.

Kansas City, 1950. L’uccisione assurda e casuale del boss Donatello Fadda mette in crisi i rapporti fra gli italiani e la gang afroamericana comandata da Loy Cannon. I neri cercano di approfittarne per espandere il loro business ma Gaetano Fadda, il figlio minore di Donatello, arrivato dall’Italia dopo la morte del padre, non è d’accordo. Nel frattempo due donne evase dal carcere si presentano a casa di Thurman Smutny, impresario di pompe funebri che ha accettato un grosso prestito dalla Cannon Limited e non riesce a ripagarlo. Sullo sfondo si muovono altri personaggi: il dottor Harvard, che si è rifiutato di ricoverare Donatello nel suo ospedale privato; Odis Weff, poliziotto corrotto che soffre di disturbo ossessivo-compulsivo; e la stramba infermiera Oraetta Mayflower.

Fargo 4 si presta a una doppia lettura. Se da un lato racconta la faida tra due famiglie rivali, dall’altro mette al centro della scena gli italiani e gli afroamericani, due categorie sociali che negli Stati Uniti degli anni Cinquanta sono escluse dall’American dream e cercano di farsi strada attraverso la criminalità. Le riflessioni più profonde sull’immigrazione, il razzismo e l’identità statunitense sono affidate soprattutto al personaggio della 16enne Etherilda, nera figlia di un bianco, che sul suo diario scrive: “Una volta toccato il suolo americano eravamo già considerati criminali”. Pur se girata nel 2019, la serie tratta insomma temi che dopo l’omicidio di George Floyd sono tornati di strettissima attalità.

Come le precedenti, anche la quarta stagione contiene numerose citazioni, sia dei fratelli Coen (Crocevia della Morte, Non è un Paese per Vecchi) sia dei classici della cinematografia criminale (Il Padrino, Gli Intoccabili). Nel cast, accanto a big americani come Chris Rock e Jason Schwartzman, compaiono quattro attori italiani: Tommaso Ragno nella parte del vecchio boss italiano, Salvatore Esposito in quella del figlio Gaetano, Francesco Acquaroli e Gaetano Bruno che interpretano un uomo di fiducia e un sicario dei Fadda.

Il più “farghiano” fra i personaggi della serie è sicuramente l’infermiera Oraetta Mayflower, che non a caso proviene dal Minnesota (nella versione originale ha un accento molto spiccato). Gli altri protagonisti, in particolare Josto e Gaetano Fadda, più che grotteschi paiono caricaturali. Gli elementi surreali vanno ricercati piuttosto nei dettagli: per esempio nella scelta di una famiglia mafiosa sarda o nel progetto imprenditoriale di Loy Cannon, che viene presentato come l’inventore della carta di credito (nella realtà, la prima carta comparirà alla fine degli anni Cinquanta in California). L’impressione è che il quarto capitolo di Fargo, pur mantenendosi su un buon livello, lascerà delusi soprattutto i fan più accaniti dei Coen.

 

(Quasi) tutte le strade portano a Margot Robbie

Impegni senza soste per Margot Robbie, che dopo Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn riproporrà il celebre personaggio di Suicide Squad, la bella, colorata, eccentrica e ciarliera Harley Quinn, folle ex psichiatra fidanzata del Joker (sulla coppia è in cantiere un ulteriore progetto Warner per il 2022) nel sequel di James Gunn The Suicide Squad: Missione Suicida in uscita ad agosto. La luminosa attrice e produttrice australiana trentenne sta per interpretare Ruin un thriller di Justin Kurzel ambientato nella Seconda guerra mondiale in cui sarà una sopravvissuta all’Olocausto in cerca di vendetta costretta a stringere un’improbabile alleanza con un ex capitano delle SS (Matthias Schoenaerts) per dare la caccia ai sopravvissuti di uno squadrone della morte nazista. Un ulteriore prestigioso progetto che la vedrà protagonista sarà il decimo film di David O. Russell dal titolo provvisorio Amsterdam in cui a partire da gennaio reciterà accanto a Christian Bale, John David Washington e Michael B. Jordan. Confermate infine per il 2021 le riprese di Barbie, il live action basato sulla celebre linea di giocattoli sceneggiato dalla coppia cool del momento, Noah Baumbach e Greta Gerwig e diretto da quest’ultima.

Si intitola Bla bla baby la nuova commedia di Fausto Brizzi in lavorazione per Eliseo Cinema e Rai Cinema scritta dal regista con Paola Mammini, Herbert Simone Paragnani e Mauro Uzzeo e interpretata tra gli altri da Alessandro Preziosi, Matilde Gioli, Maria Di Biase, Massimo De Lorenzo, Nicolas Vaporidis, Chiara Noschese e Cristiano Caccamo. Curiosa novità: i veri protagonisti sono alcuni irresistibili bambini di poco più di un anno con un coefficiente intellettivo da Nobel in grado di parlare perfettamente grazie a una serie di effetti speciali.

Quanto è difficile essere ancora “Indifferenti”

Testi sacri, film indimenticabili, attori iconici. C’è solo l’imbarazzo della scelta davanti a un titolo come Gli indifferenti. Romanzato nel 1929 dall’allora diciottenne ma già geniale Alberto Moravia, portato al cinema nel 1964 da Citto Maselli con la Cardinale, Rod Steiger, Tomas Milian e una straordinaria Paulette Goddard al suo ultimo ruolo, ri-sceneggiato in tv nel 1988 da Mauro Bolognini con Laura Antonelli e Liv Ullmann. È evidente che l’attrazione fatale esercitata da questa bibbia letteraria sulla meschinità borghese sia stata tale per Leonardo Guerra Seràgnoli da adombrare ogni timore reverenziale.

D’altra parte il 40enne romano è gran rampollo di suo, e con probabile esperienza genetico-borghese ha applicato l’ardire della sfida a una indubbia innata propensione per il mestiere del cinema più blasonato. La regia dei suoi lungometraggi precedenti – Last Summer (2014) e Likemeback (2018) – rivela uno sguardo lontano dalla banalità, capace di decostruire e riformulare luoghi comuni come, nel caso del secondo, la dipendenza dai social media dei teenager contemporanei.

Dunque perché non affrontare uno dei classici più moderni, anzi eternamente contemporaneo, come Gli indifferenti? Detto fatto, il film è diventato realtà grazie a Indiana Production e Vision Distribution, anche distributore, costretto però dal Covid a virare sull’on demand dal 24 novembre. Sotto la lente motivazionale di Guerra Seràgnoli è “il profondo stato di precarietà, come sull’orlo di precipizio, che sentiamo anche noi oggi” mentre il suo studio “lungo e approfondito” si è basato sia “sull’evoluzione dei personaggi di Moravia, sia sulla loro risonanza nel presente”. In altre parole la questione era capire chi sono Gli indifferenti oggi. Dunque al centro dell’adattamento (sceneggiato con Alessandro Valenti) del dramma moraviano sull’horror vacui borghese durante il fascismo regna la “libera ispirazione”, con transito – si diceva – ai nostri giorni, con la riduzione d’età dei figli Michele (Vincenzo Crea) e Carla (Beatrice Grannò, brava) – praticamente adolescenti con la ragazza liceale e web-gamer – e uno choc di acrobazie cromatiche (bravo il DoP G.F. Corticelli) assai distanti dalle ombre semantiche di Gianni Di Venanzo che impreziosirono il film di Maselli.

Ma, accanto a svolte narrative (e di finale) diverse dalla fonte, la vera differenza sembra stare proprio nella mancanza di “indifferenza” nei protagonisti rispetto a sé e al mondo: essi sono semmai degli irrisolti, vittime più di nevrosi che non dei “sintomi” del decadimento morale dell’oggi, financo dei dissociati volti al cinismo o all’autodistruzione. In tal senso brilla, punta di diamante del film, la sempre magnifica Valeria Bruni Tedeschi, il cui complesso ruolo di Mariagrazia sembra cucito sul suo talento, figura tragica per eccellenza, maschera dolente che pietisce attenzioni dal viscido Leo (un Edoardo Pesce fin troppo bello rispetto all’immaginario moraviano/maselliano) e galleggia nel rimosso di una competizione persa con la figlia, che passa dall’esser una Lolita al #MeToo.

Tremate, le streghe son tornate. Dai “Benandanti” ai virus

In alcune comunità straniere del nostro Nord-est circola la convinzione che il Covid venga sparso nottetempo sui pomelli delle porte da anziane zitelle inacidite. Il 31 dicembre 1618, dinanzi al giudice di Latisana, una donna di nome Maria Panzona raccontava che nei loro convegni notturni le streghe friulane offrivano al diavolo il proprio mestruo, il quale poi lo restituiva a ciascuna di esse “per nocere alle persone con farli infermare, stentare e anco morire”. Panzona si vantava di appartenere alla schiera dei “benandanti”, adusi a combattere le fattucchiere che inquinano il sangue dei bambini; ma ciò non le risparmiò un duro processo che giunse fino a Venezia, tre anni di galera e l’esilio perpetuo dalla sua città.

Ignoro se siano i tempi confusi e ammorbati che viviamo ad aver favorito la nuova edizione dell’ormai classico studio di Carlo Ginzburg su I benandanti, che quando apparve nel 1966 rivelò al mondo una setta fino a quel momento praticamente ignota, fatta di uomini e donne del Cinque-Seicento “nati con la camicia” (ovvero involti nella membrana amniotica, che poi conservavano e portavano sempre con sé), alcuni dei quali periodicamente uscivano a combattere contro “li strigoni del diavolo, noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo”, mentre altri partecipavano a processioni o cavalcate notturne con i morti. Il saggio di Ginzburg, fondato sugli atti dei processi inquisitorî contro i benandanti, fu di straordinaria importanza non solo per l’impulso che diede allo studio della magia e della stregoneria, non solo per il materiale che offrì agli studi storico-antropologici comparativi (inclusa l’ampia panoramica sul sabba e lo sciamanesimo condotta dallo stesso Ginzburg nel controverso Storia notturna del 1989), ma anche come incunabolo della cosiddetta “microstoria”.

Il volume, scritto con piglio a tratti quasi romanzesco, meritava dunque senz’altro una ristampa: la postfazione, autobiografica, indaga la genesi e i presupposti culturali di questa ricerca (Delio Cantimori, l’inquisizione, la ricerca sulle classi subalterne, l’origine ebraica dell’autore) e i suoi esiti più o meno attesi (I Benandanti è oggi anche il nome di un gruppo musicale italo-sloveno, non però “rock” come vuole Ginzburg, bensì – più sensatamente – etno-folk). È però un gran peccato che con la nuova edizione non si sia colta l’occasione di discutere nel merito una ricostruzione affatto diversa di tutta questa storia, fondata su uno studio più ampio e completo del materiale d’archivio: intendo il libro di Franco Nardon, Benandanti e inquisitori nel Friuli del Seicento (Ed. Univ. Trieste, 1999), che Ginzburg menziona di sfuggita, senza chiarire che esso infirma non poche delle sue tesi.

Lasciamo stare la vexata quaestio delle battaglie notturne, nelle quali Ginzburg volle riconoscere la sopravvivenza di un rito agrario di fertilità atto a proteggere i raccolti, riprendendo la teoria di Margaret Murray sulla genesi della stregoneria, cui oggi credono in pochi; non, per esempio, la fresca e ambiziosa Storia della magia di Chris Gosden (Rizzoli). Il punto decisivo è che Ginzburg sostanzialmente rimuove il contesto dal quale emergono le confessioni dei Benandanti, trascurando che esse erano frutto di processi condotti da inquisitori mossi da propri interessi: è scrutando la mentalità e gli atti del giudice Giulio Missini, per esempio, che si capisce perché nel Seicento le pratiche dei Benandanti vengono assimilate e confuse con il sabba – una trasformazione che Ginzburg attribuisce a un trapasso culturale maturato dai protagonisti, e che invece è indotta da un paio di tenaci inquirenti, che incastrano una Maria Panzona ed estorcono a un Michele Soppe la confessione di sanguinosi infanticidi e di “aver basciato il culo al diavolo”. Così, la presunta scomparsa delle “processioni funebri” e delle battaglie agrarie (elementi che Nardon ritrova ancora nel folklore) non rivela una metamorfosi della setta, ma piuttosto il mutamento di interesse dell’Inquisizione in direzione del maleficio femminile – e ciò interseca il proliferare di accuse di stregoneria contro le donne anche alla luce dell’allignante morale sessuofobica e misogina del pieno Seicento.

I benandanti furono anzitutto contro-stregoni e guaritori dotati di un preciso ruolo sociale, che si capisce nel quadro delle condizioni del Friuli dell’epoca: in concorrenza coi medici patavini per i loro rimedi, con gli esorcisti di professione per le loro arti di cura. La loro stessa distribuzione geografica li mostra al crocevia fra tradizioni germaniche, slave e celto-latine: particolarmente ricca la zona tra Cividale, Aquileia, Monfalcone. È, fra l’altro, la zona di Fiumicello, casa Regeni, dove il viaggiatore odierno – rammentando le innocue e colorite estasi dei benandanti, o i simpatici deliri di Anna la Rossa – potrà condividere le parole di Goya (uno che se ne intendeva): “Non ho paura di streghe, apparizioni, giganti… né di alcun altro essere, a eccezione degli esseri umani”.

Radio Maria: il regno di don Livio, dove Satana spaccia il virus

Il Male fino a un anno fa era insidioso ma intelligibile, prevedibile e ripetitivo, incarnato in un’ossessiva lista di disgrazie: Islam, aborto, ragazzine incinte (e nonni disperati per il demonio incarnato nei giovani ventri), matrimoni gay, transessualismo, perdita di radici cristiane, aperture bergogliste, teologia della liberazione (cioè della truffa democratica, socialista, relativista, sudamericana, vagamente tropicale).

Dai microfoni di Radio Maria, fin dal mattino presto, addestrati soldati del Bene, dall’esorcista padre Amorth, poi defunto, a Mario Adinolfi, storico tenutario di una rubrica contro l’aborto (“anche per le donne stuprate”), mettevano in guardia contro le manovre del demonio, che oggi ha escogitato varianti apocalittiche epidemiologiche per impadronirsi del mondo. Lo riferisce il direttore Padre Livio Fanzaga nella rubrica intitolata Lettura cristiana della cronaca e della storia: la Covid è “un progetto di Satana. Un colpo di Stato sanitario, mass mediatico e cibernetico mondiale, volto a distruggere il mondo di Dio”.

Radio Maria è la radio privata con il maggior numero di ripetitori sul territorio nazionale, oltre 850, più della Rai, con oltre un milione e mezzo di radioascoltatori ogni giorno. Fondata come piccola radio parrocchiale ad Arcellasco d’Erba da un certo Padre Mario – poi esiliato nella meno carismatica Radio Mater – è oggi un network (World Family of Radio Maria) che trasmette in 77 Paesi dei 5 continenti. In quanto “radio comunitaria”, cioè non generalista, status previsto dalla legge Mammì, ha diritto a sostenersi con donazioni spontanee (che arrivano anche a 18 milioni di euro l’anno) e, dal 2006, attraverso il 5 per mille.

Padre Livio è il mattatore e il capo spiriturale di questa impresa: laureato in filosofia, autore di best-seller come L’Apocalisse è incominciata, Il falsario. La lotta quotidiana contro Satana, Profezie sull’Anticristo, si definisce “un pastore di anime”, dotato di qualità che vanno “dalla sapienza alla prudenza, dalla fortezza alla dolcezza”; nel 2014 ha vinto il concorso Cuffie d’oro, primo con distacco su Giuseppe Cruciani della Zanzara.

La pandemia è una cornucopia di simboli e antitesi millenaristiche: per Padre Livio è “un progetto non casuale, che non viene dai pipistrelli o dal mercato di Wuhan. Un progetto criminale delle élite mondiali con la complicità forse anche di alcuni Stati per instaurare una dittatura sanitaria e ridurci come zombie”.

Il lessico e il mondo sono quelli di QAnon, la teoria cospirazionista nata negli Stati Uniti secondo i cui adepti esiste un complotto planetario ordito dai potenti del Deep State (Obama, Bill Gates, i Clinton etc.) per diffondere il virus e controllare gli esseri umani mediante l’inoculazione di chip sottocutanei mediante vaccino, questo nel tempo libero lasciato loro dalla principale occupazione, che consiste nel suggere sangue di bambini durante riti satanici, al fine di avere una bella pelle e una lunga vita (Trump aveva provato a fermare questa setta di pedofili vampiri, ma è stato messo fuori gioco dal Demonio e dai brogli elettorali).

Dopo le polemiche, Padre Livio ha precisato: “Probabilmente non sapremo mai qual è l’origine della pandemia ma… resta sul tavolo l’ipotesi che possa essere stata provocata volutamente”. C’è un progetto, dietro, “provocato da chi vuole costruire un ‘uomo nuovo’ e ‘un mondo nuovo’… la mente ispiratrice non può essere che il maligno”.

A Radio Maria il maligno è il deuteragonista di una narrativa escatologica che va avanti dal 1987: il giorno inizia prima dell’alba, all’ora dei betabloccanti e delle cardioaspirine, col diario di Faustina Kowalska, la veggente canonizzata da Wojtyla e nominata da Gesù in persona, non è chiaro con quale procedura, “Segretaria della Divina Misericordia”. Seguono: rosario, meditazioni, liturgia delle ore, salmi, catechesi, messa, vespri… fino a notte tarda, quando vanno in onda de profundis gli esorcismi di Padre Amorth.

Qui vige una tensione dialettica molto forte tra il Papa, capo della Chiesa degenere, e il guru di questa chiesa parallela e capillare: così mentre Bergoglio faceva ironia sulle apparizioni mariane nei cieli della Bosnia-Erzegovina (“Ma dove sono i veggenti che ci dicono oggi la lettera che la Madonna ci manderà alle 4 del pomeriggio?”), Padre Livio metteva forsennatamente sul sito i messaggi che la Vergine recapita regolarmente ai sei veggenti di Medjugorje in carica dal 1981 (alcuni dei quali proprietari di alberghi, sale bingo e casinò nei pressi dei luoghi dell’apparizione, ricchissimi), e ogni 25 del mese manda in onda una veglia di preghiera in attesa del messaggio mensile (l’ultimo diceva: “Cari figli! Satana è forte e lotta per attirare a sé quanti più cuori possibile… Grazie per aver risposto alla mia chiamata”).

Dopo due ore di ascolto di Radio Maria si avverte un disagio profondo: superstizione, ricatto emotivo, pattume moralistico, un mondo in cui lo spirito evangelico è eroso a favore di una logica punitiva e antiumana. Il virus non ha fatto un salto di specie, ma è planato in qualche laboratorio per mano di Satana; è eliminato dalla Madonna, una specie di Supereroina-addetta a un call center preghieristico; le élite tramano contro i popoli insieme al diavolo, ciò che poi è il sottotesto – sigillato dal bacio al rosario – dei comizi di Salvini.

Benché Radio Maria affermi di essere “apolitica e apartitica”, tutti i suoi messaggi, scopertamente antiscientifici, pastorizzati non solo da ogni traccia di Illuminismo ma anche dal principio di realtà, sono politici: perché suggeriscono un’etica, implicano un posizionamento, delegittimano la democrazia e la comunità scientifica.

Lo Spirito – Dio lo vuole – va alimentato: Livio Fanzaga passa dall’antiteodicea della Covid alla questua: “Ricordatevi di fare offerte”. E le catechiste dettano incessantemente i modi per sostenere Radio Maria, tonnara per menti deboli e persone sole: conti correnti, Iban, Sepa, 5 per mille, vaglia postale, bancoposta, lasciti testamentari. Onde radio nelle lande sterminate della solitudine.