Giuliani e il voto “truccato”: tutta colpa di Hugo Chávez

È Hugo Chávez il Grande Vecchio dietro l’elezione – “taroccata!” – di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. A sostenere che ci sia lo zampino del leader ‘bolivarista’ venezuelano, morto nel 2013, nella sconfitta di Donald Trump, è Rudy Giuliani, l’ex ‘sceriffo’ e sindaco di New York, oggi avvocato personale del magnate presidente, che ha fin qui perso tutte le cause avviate contro il voto del 3 novembre, ma che tira ora fuori l’asso dalla manica.

Sotto accusa finiscono Dominion Voting Systems, una società “della sinistra radicale”, dice Giuliani, che fornisce il sistema di voto a oltre 30 Stati (e anche al Venezuela) e Smartmatic, un’azienda che produce macchine per tabulare i voti. Trump twitta che Dominion gli ha sottratto “centinaia di migliaia di preferenze”. In una conferenza stampa a tratti surreale e in varie interviste, Giuliani rilancia teorie cospirative senza lo straccio d’una prova secondo cui Dominion è controllata dalla Fondazione Clinton e Smartmatic dal filantropo George Soros. Nelle contestate elezioni venezuelane, i loro software sarebbero stati manipolati per alterare i risultati, anche se le aziende avevano chiarito l’accaduto. Le affermazioni di Giuliani sono smentite dalla Dominion – nessun problema a Usa 2020 – e pure dall’Agenzia federale di sicurezza delle infrastrutture e della cyber-sicurezza (Cisa). Venezuela e Cuba, per solidarietà ‘chavista’, protestano: la sconfitta di Trump non è opera loro. A chi gli chiede elementi concreti a sostegno delle sue teorie, Giuliani risponde accusando i media di malafede e d’ignorare le denunce fatte, e finora tutte respinte dal Michigan alla Pennsylvania, dall’Arizona alla Georgia, dove la vittoria di Biden è stata ieri confermata dal riconteggio: Biden finisce avanti di poco più di 12 mila voti su quasi cinque milioni di suffragi espressi. Trump stesso mostra di non fidarsi troppo delle tesi di Giuliani. E, infatti, percorre un’altra strada: invita alla Casa Bianca i parlamentari repubblicani dell’Assemblea del Michigan, perché nominino Grandi Elettori come se lì avesse vinto lui e non Biden. Un giochino da ripetere in altri Stati in vista della riunione del Collegio Elettorale che dovrà formalmente eleggere il presidente il 14 dicembre.

La scelta appare di dubbia legalità. “Quello che sta facendo Trump non è uno scherzo, è totalmente irresponsabile e incredibilmente dannoso”, replica Biden, che festeggia i suoi 78 anni denunciando gli ostacoli alla transizione. Anche il senatore repubblicano Mitt Romney denuncia le mene di Trump. “È difficile immaginare un’azione peggiore e più anti-democratica da parte di un presidente in carica”. Sempre chiuso nella Casa Bianca, il magnate partecipa al Vertice dell’Apec in formato virtuale – non si sa se ci sarà oggi al G20 –, mentre sul suo orizzonte giudiziario s’addensano nuove nuvole: gli inquirenti newyorchesi che indagano su di lui e sulla Trump Organization hanno esteso le loro indagini, coinvolgendo Ivanka Trump.

BoJo difende Patel, ministra “bulla”ma utile al sovranismo

Londra

Antefatto: il 29 febbraio Sir Philip Rutman, direttore generale del ministero degli Interni britannico, viola ogni regola di riservatezza della Pubblica amministrazione annunciando le proprie dimissioni a mezzo stampa e le motiva dicendo di essere “oggetto di una crudele campagna orchestrata contro di me”. Orchestrata dalla ministra in carica, Priti Patel, quella che, lo ricordiamo sempre, il marito chiama “il mio piccolo piranha”, con una chiara allusione alla bassa statura ma all’alto potenziale aggressivo. Lo scandalo che segue fa vacillare la sedia di PP: il governo Johnson riesce a prendere tempo nell’attesa dei risultati di una inchiesta interna. Che arrivano ieri, e sono una catastrofe: secondo un dettagliato rapporto, frutto di mesi di approfondite verifiche fra i dipendenti del ministero, l’approccio della Patel “si è tradotto in un comportamento che si può descrivere come bullismo, con urla e insulti, e che la ministra ha violato il codice ministeriale anche se, forse, ‘senza volere’”.

Lei si scusa, “mi dispiace se il mio comportamento in passato ha turbato qualcuno. Non è mai stata mia intenzione”. Ma il paese, e il civil service, aspetta la decisione di Downing Street, e qui entra in scena il problema politico: può un Boris Johnson molto indebolito sul fronte interno, schiacciato fra una Brexit ancora irrisolta e la crisi economica e di consenso scatenata dal Covid, permettersi di scaricare uno dei ministri più funzionali alla sua retorica sovranista? Può imporre le dimissioni alla donna che ha firmato la riforma dell’immigrazione post Brexit, che impone frontiere sulla base del censo, ammettendo immigrati ricchi o produttivi e respingendo i poveracci? Boris decide di no, e difende PP. Il governo serra i ranghi e nemmeno pubblica quel rapporto nella sua interezza: anzi, secondo voci raccolte da Politico, il primo ministro rifiuta di leggere quel documento, per difendere meglio l’indifendibile.

Ricadute politiche: si dimette per protesta il consigliere del governo per gli standard ministeriali, Sir Alex Allen, che quel rapporto lo ha firmato. Si acuisce lo scontro già in atto fra governo e pubblica amministrazione. Si conferma, presso l’opinione pubblica, la devastante percezione di un esecutivo per il quale alcuni sono più uguali degli altri.

Fukushima, caso irrisolto. “Nucleare, le bugie di Tokyo”

Tokio

Anove anni dall’incidente nucleare di Fukushima, rimangono 1.2 milioni di tonnellate di acqua contaminata di cui disfarsi. Il governo giapponese ipotizza di sversarle in mare, ma posticipa la soluzione definitiva. Una spiegazione la fornisce Jon Mitchell, giornalista investigativo britannico di base in Giappone.

È uscito il suo ultimo libro Poisoning the Pacific sull’avvelenamento dell’oceano causato dall’esercito americano, complice il governo giapponese. Ora si aggiunge la minaccia dello sversamento di sostanze tossiche nel Pacifico. Come ci si è arrivati?

Il Giappone è l’unico Paese al mondo ad avere subito un attacco nucleare, è paradossale ospiti così tanti impianti. Subito dopo la guerra fu Washington a incoraggiare la scelta delle centrali. Come documento nel mio libro, la Cia ha lavorato con il ‘Nuclear Village’ una cerchia di politici, uomini d’affari e media, per propagandare il nucleare ‘buono’ così da ottenere l’indipendenza energetica. Hanno costruito gli impianti in zone molto povere, come la regione di Fukushima. Non hanno però considerato il pericolo dei terremoti e ignorato gli tsunami. Per capire l’attuale situazione bisogna partire da questo dato, e sapere che il governo giapponese ha mentito ai suoi cittadini e al mondo per decenni.

Dopo il 2011 i giapponesi hanno protestato con prese di posizione inequivocabili anche da parte di artisti e intellettuali.

Molti hanno aperto gli occhi, ma le sostanze radioattive non sono state rimosse, e ne rimangono tonnellate alla base dell’impianto di Fukushima. I livelli di radiazione sono così alti che riescono a distruggere perfino i robot, che se si avvicinano troppo si rompono. Il rischio per le persone è enorme. Al sito lavorano circa 4.000 addetti e sei di loro hanno il cancro. Il governo paga dei compensi, ma alla fine del 2020 saranno 1.4 milioni le tonnellate di acqua radioattiva immagazzinata.

Qual è la vera ragione per cui Tokyo stenta a prendere una decisione?

Il motivo è solo uno: le Olimpiadi. La fusione dell’impianto di Fukushima e le Olimpiadi sono due temi strettamente connessi. Nel 2013 l’allora premier Abe aveva mentito al Comitato Olimpico Internazionale, e anche adesso il governo non vuole pubblicità negativa; al problema ha reagito con un’altra inversione di marcia: “Non abbiamo ancora deciso!” Qualche giorno fa è arrivato a Tokyo il presidente del Comitato Olimpico, Thomas Bach e il governo è così preoccupato che posticiperà qualsiasi decisione fino a Olimpiadi concluse.

Secondo Greenpeace, il problema della decisione è di natura politica, insieme con interessi economici, non certo di salute e sicurezza. Che ne pensa?

È assolutamente un problema finanziario, e di immagine. Tokyo vuol fare bella figura, liberarsi di questo peso sembrerà un progresso. Lo mostreranno come tale. Non lo è, ma cercheranno di farlo vedere così. Per ripulire l’acqua potevano utilizzare tecnologia americana, invece hanno incaricato aziende nipponiche con connessioni politiche. Il loro metodo ALPS non funziona, perché è stato messo a punto da chi non si era mai occupato prima di queste tematiche. Il problema davvero serio è la presenza di Carbonio 14; ha un ciclo medio di vita di 5,700 anni. Il danno al Pacifico dipenderà da come e se le autorità tratteranno nuovamente l’acqua, riuscendo a diminuire le radiazioni. Come la getteranno in mare? In dieci volte, cento, mille volte? Più tempo passerà fra una volta e l’altra, più a lungo ci metterà a disperdere il suo potenziale pericoloso.

Fra le nazioni che hanno espresso timori per questa soluzione c’è la Cina; pensa che sia una preoccupazione sincera?

In Cina non c’è trasparenza d’informazione, ed è una nazione profondamente contaminata dall’attività e crescita industriale, il mondo non sa quanto. Da questo punto di vista sono fortunato a vivere in Giappone, accedere alle informazioni, capire e formulare opinioni sui vari problemi. Le preoccupazioni cinesi sono genuine per metà; sono anche pretesti per attaccare politicamente il Giappone.

Si faranno i giochi Olimpici?

A questo punto credo che sia un bene che si svolgano. Mi auguro che per le limitazioni imposte dalla situazione, lo sport e le abilità degli atleti diventino il focus di questa edizione.

Milano non fuma e manco si ferma

A differenzadi Palermo, il problema di Milano non è il traffico. Ce ne siamo accorti, non senza vergogna, ieri mentre come al solito leggevamo i giornali al Parco Solari soffiando il fumo della sigaretta verso madri incinte e anziani con problemi respiratori. È proprio così che abbiamo appreso che giovedì il consiglio comunale della fu capitale morale ha approvato il nuovo “Regolamento sulla qualità dell’aria” che – dal 1° gennaio – vieta il fumo all’aperto nei parchi, allo stadio, alle fermate dei bus e in altri posti (a meno che non si stia a 10 metri di distanza) con l’intenzione di arrivare al divieto totale entro il 2025. “Milano come Stoccolma e New York” esulta La Stampa, che ci informa dell’esistenza di “alcuni studi realizzati dal Comune di Milano da cui emergerebbe che il fumo è una delle cause che contribuiscono allo sforamento dei livelli di inquinamento in città, come ad esempio i fuochi pirotecnici e i forni delle pizzerie”. E infatti pure i botti di Capodanno sono vietati come barbecue e camini accesi, mentre i forni delle pizzerie e gli impianti di riscaldamento a gasolio hanno due anni di moratoria. Ne deduciamo – essendo la zona Milano/Monza (insieme a pezzi di Germania) la più inquinata d’Europa in termini di polveri sottili, biossido di azoto e altre cosette – che fumatori, pizzaioli, sparatori di petardi e grigliatori vi abbondino più che altrove, motivo per cui il sindaco Sala è intervenuto da par suo. Ci sarebbe da notare la massiccia presenza di industrie nelle zone più inquinate d’Europa con tutti i trade off del caso, camion in primis, ma ne parleremo quando i pizzettari saranno messi in condizioni di non nuocere. C’è una cosa, però, che ci turba: dice Il Sole 24 Ore che tra i maggiori produttori di polveri sottili (traffico a parte, che a Milano non è un problema) ci sono i cantieri edili. Siamo sicuri che Sala interverrà subito per bloccare le speculazioni in corso e in arrivo per “valorizzare”, grazie ad ampie colate di nuovo cemento, questa o quella parte della città: o Milano non fuma, ma – come a marzo – non si ferma?

P.S. Gentili non fumatori, è ovvio che il divieto vi piaccia, ma qui non si parla di fumo passivo, ma di qualità dell’aria e di ipocrisia: dell’obbligo di mangiare le verdure parleremo un’altra volta.

Mail box

 

Israele, Di Maio contro gli insediamenti

Ho sentito una veloce notizia, su un solo tg, che riportava una dichiarazione del ministro Di Maio sugli insediamenti di Israele. Alla fine l’ho trovata sul sito del ministero degli Esteri: “L’Italia esprime profonda preoccupazione per l’avvio della procedura di gara per la costruzione di 1.257 unità abitative a Givat Hamatos e chiede alle Autorità israeliane che questa decisione venga annullata. Ove costruito, un simile insediamento comprometterebbe seriamente la prospettiva di un futuro Stato palestinese indipendente e contiguo. L’Italia, insieme ai partner europei, ha ripetutamente esortato Israele a cessare ogni attività di insediamento e a non intraprendere azioni unilaterali contrarie al diritto internazionale…”.

Giuseppina Micucci

 

Così De Benedetti mi ha ispirato lo zapping

Avevo una piccola intenzione di acquistare una copia di Domani solo per vedere come era impostato, ma dopo aver sentito a Piazza Pulita il proprietario del nuovo giornale dire e ribadire con piglio e supponenza che questo governo è illegittimo e che per forza di cose l’attuale maggioranza, cioè il M5S, non ha il benché minimo titolo di poter eleggere il prossimo presidente della Repubblica, ho cambiato programma, non dispiaciuto di non aver visto la pubblicità e nell’aver deciso di guardarmi bene dall’acquistare il quotidiano.

Fabio De Bartoli

 

Santanchè non ammette la gravità del virus

Mi è capitato di assistere a una trasmissione in cui un signore ha raccontato la sua esperienza drammatica di ricoverato per Covid-19. Raccontando la sua voglia di condividere la sua vicenda su Facebook, ha ricordato i tantissimi post in cui lo si accusava di strumentalizzare, di essere stato pagato, eccetera. In collegamento, tra gli altri, c’era Daniela Santanchè, senatrice di Fratelli d’Italia. Occorre ricordare che la “pitonessa” si è sempre prodigata nel criticare le misure anti-Covid (viva le discoteche!). Cosa ti inventa il politico navigato? Sulla possibilità di usare una vicenda simile come testimonianza positiva, la signora Santanchè si dice assolutamente d’accordo, salvo poi ricordare una ricerca dove i giovani sono psicologicamente in difficoltà a causa di queste manovre “tendenti a limitare le libertà personali”.

Andrea Finotti

 

Le cariche cambiano, ma le notizie restano

Farei notare alla presidente del Senato che quando si decide di occupare cariche pubbliche non esistono “ipotesi di oggettiva esigenza notiziale” né “campagne mediatiche”. Esistono le notizie. E di cui il lettore ha assoluto bisogno per valutare il livello etico di chi lo governa. Chi voglia sottrarsi alla radiografia dei propri comportamenti deve adattarsi a ruoli più modesti. Dunque la presidente Casellati segua pure amorevolmente i suoi figli, ma si rassegni a che Il Fatto ce ne dia notizia.

Floriana Giannetti

 

Complimenti a Scanzi per l’articolo su Porro

Grazie ad Andrea Scanzi per l’articolo su Porro, il redivivo oggi più felice che mai d’essere tornato a imperversare in tv. A quando altre azzeccate notazioni? Visti i tempi, cerchiamo di divertirci con quel che passa il convento.

Roberto Cirocco

 

Caro direttore, quanta verità nei suoi editoriali

Questo è troppo! Ho digerito, somatizzato, soprasseduto con molta fatica alla Casellati Mazzanti Vien dal Mare… ma il “delinquente” no, proprio no. Come sempre, ma questa volta ancora di più, sono pienamente d’accordo con l’editoriale di Marco Travaglio che si è scagliato scandalizzato sull’opportunità di richiamare in “servizio attivo” il peggior disastro politico che sia mai toccato a questo Paese dal dopoguerra! Mi auguro che coloro che Berlusconi non han voluto sentirlo manco per telefono, liquidino la faccenda a livello di barzelletta.

Alessandro Colombera

 

Bisogna evitare eccessi di polveri sottili nell’aria

Nella seconda parte dell’articolo “Se è una guerra, bisogna censurare i dati horror”, Massimo Fini si chiede perché non venga oscurato il computo sulle morti giornaliere da Covid-19, così come di fatto si procede per le più numerose morti da tumore o di quelle derivanti da “danni sociali”. In Italia, l’Oms stima 40.000 morti l’anno riconducibili all’inquinamento atmosferico da polveri sottili i cui livelli, da più di dieci anni in Pianura Padana, ormai superano i limiti fissati dal dl n. 155/2010. Perché allora i nostri governi, che sempre più sembrano assumere carattere tecnocratico, non ascoltano la scienza e non contrastano con efficaci provvedimenti gli abusi che causano questi sistematici sforamenti?

Andrea Gusso

 

Davvero i 5 Stelle stanno diventando un partito?

La voglia di omologare i 5stelle agli altri partiti è devastante. Repubblica titolò “I 5S diventano un partito” e sotto: “I 5S si avviano verso una guida collegiale”. Domanda: le varie Cuzzocrea e soci sanno indicare un partito esistente guidato da “una guida collegiale?”.

Eros Bottazzi

Scuola ebraica “Perché citarla a sproposito?”. “È diritto di cronaca”

 

Buongiorno, in merito all’articolo del 13 novembre intitolato “Marcello Foa, un indagato per la tentata truffa alla Rai”, si è scivolati in uno dei più antichi vizi di cui è difficile liberarsi. È dovere di un giornalista riportare fatti di cronaca, meno – anzi direi contro la professionalità – citare i soggetti in questione catalogandoli in base alla loro religione. Mettere a conoscenza i vostri lettori della religione del signor Halwani, così come è stato fatto sulle pagine del vostro quotidiano, indicando la frequentazione della Scuola ebraica di Milano, non aggiunge nulla alla cronaca in sé, ma getta un pregiudizio su una scuola intera e tutta la sua comunità. Che il ragazzo in questione abbia frequentato quasi 20 anni fa quella scuola non ha nulla a che vedere con il fatto di cronaca. Anna Frank diceva “se un cristiano compie una cattiva azione la responsabilità è solo sua, se un ebreo compie una cattiva azione la responsabilità ricade su tutti gli ebrei”. E l’articolo uscito è la prova vivente di come tale pregiudizio, il più antico del mondo, attanagli ancora la nostra società.

Roberta Vital

 

Gentile Signora Vital, il “testo unico dei doveri del giornalista”, una sorta di compendio deontologico per chi svolge questo mestiere, prevede che “nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere… il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione”. Poiché il signor Halwani non è un personaggio noto, occorreva, compatibilmente con lo spazio a disposizione, fornire gli elementi descrittivi essenziali per permettere al lettore di conoscerlo. “Si chiama Yigal Halwani, italiano di origini libanesi, Scuola ebraica a Milano, 29 anni”: questi gli unici elementi che ho riportato nel pezzo. Dispiace constatare che la semplice menzione dell’aggettivo “ebraico” venga connotata da una accezione negativa. Che un ragazzo proveniente dalla Scuola ebraica di Milano sia indagato per una tentata truffa non getta infatti alcun pregiudizio sull’intera scuola e men che meno sulla comunità ebraica italiana. Se ragionassimo tutti così, ogni scuola religiosa che ha avuto qualche ex alunno coinvolto in casi giudiziari (e ce ne sono moltissime) dovrebbe sentirsi ferita per il semplice accostamento.

Stefano Vergine

Trump ha almeno un pregio: la schiettezza (tra ipocriti)

Donald Trump, detto familiarmente “The Donald”, fuor d’America ha sempre goduto di pessima stampa sia quando era al potere sia, forse soprattutto, adesso che, pur recalcitrante, lo sta per abbandonare. Per me, devo dirlo, “The Donald” è stato una vera manna perché non ero più il solo a criticare i gloriosi United States of America.

“The Donald” non piace all’impronta per il suo aspetto esteriore, per quei suoi capelli che sembrano, e probabilmente sono, posticci come i peli tirati di un gatto, con improbabili riflessi biondi (ma il Berlusca, che pur in Italia gode dell’appoggio di una buona metà della stampa, tanto che si candida alla presidenza della Repubblica, non è rifatto da capo a piedi?) per la sua innata trivialità e per i suoi tweet che trasudano maschilismo, razzismo, omofobia. Oggi in politica, e non solo, l’apparenza e il modo di comunicare sono tutto, o quasi, tanto che esiste una particolare specializzazione, quella del coach aziendale che insegna ai manager come fare i manager, non dal punto di vista pratico (e i risultati si vedono) ma estetico e del porgersi. Ho avuto una fidanzata, Chiara, che faceva questo mestiere, e lei e i suoi simili facevano fare ai manager esilaranti “giochi di ruolo” con biglie, calcetto e altri esperimenti del genere. Io che con le donne sono vilissimo ascoltavo pazientemente, ma sbottai una volta che mi disse che una delle metodiche (“metodiche”, “tempistiche”, “problematiche” sono termini che oggi fan parte dello pseudo-italiano, ma non sarebbe più semplice dire metodi, tempi, problemi?) per valutare le capacità di leadership di un manager era metterlo davanti a un cavallo e osservare le sue reazioni, del tipo, non del cavallo. Le dissi: “Scusa, Chiara, non credo che al-Baghdadi per conquistare la leadership si sia messo davanti a un cavallo, forse l’avrà montato, più probabilmente avrà estratto il kalashnikov al momento opportuno”.

Per noi che apparteniamo al passato, e fra breve al trapassato, più che di queste sciocchezze ci importa la sostanza. E se guardiamo l’attività di “The Donald” da questo punto di vista il giudizio diventa un poco diverso. È con Trump che è iniziato il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan ed è sotto la sua presidenza che è stato annunciato quello dall’Iraq (sia detto di passata: una guerra costata, in modo diretto o indiretto, 650 mila morti infintamente di più di quanti ne abbia fatti Saddam Hussein, secondo un calcolo molto semplice fatto da una rivista medica britannica che ha messo a raffronto i morti durante gli anni del potere del raìs di Baghdad e lo stesso numero di anni dell’occupazione yankee). Sia pure nel suo modo goliardico, giocando a chi “ce l’ha più grosso”, Trump ha trovato il modo di allentare l’eterna tensione con la Corea del Nord. Storicamente gli americani sono “isolazionisti” e Donald Trump, che pur è un repubblicano anomalo, sembra continuare questa tradizione, spezzata brutalmente da George W. Bush che ha disseminato il mondo, soprattutto quello mediorientale, di guerre che sono venute regolarmente in culo all’Europa finendo per creare il “mostro” Isis (ma neanche i democraticissimi Clinton, guerra alla Serbia del 1999, e Obama, guerra alla Libia in supporto ai francesi, hanno scherzato).

Per quel che si può giudicare da qui, Joe Biden sembra una brava persona, certamente molto meno urticante di Trump, che però aveva un pregio proprio nella sua brutale schiettezza che, a mio modo di vedere, è meglio dell’ipocrisia. Non credo però che con Biden possa cambiare la sostanza delle cose. L’America è un Paese imperiale e imperialista. Gli americani si sentono e si credono ancora i padroni del mondo. Il Novecento è stato il “secolo americano”, ma il futuro non è più “iuessei”, è della Cina che senza fare stupide guerre con droni e bombardieri punta sull’economia e ha già conquistato mezza Africa e parti dell’Europa e anche del mondo islamico, radicale e non, o forse, dell’Isis.

 

Riforma della Rai: ultima chiamata per i giallo-rossi

“La televisione di Stato da anni è sempre stata territorio di conquista, da una parte e dall’altra”
(da La macchina delle bugie BUR, 2008 – pag. 49

Soltanto in un Paese tossicodipendente, affetto da overdose di politica e assuefatto alla droga della lottizzazione, poteva accadere che il leader di uno dei partiti che compongono la maggioranza di governo liquidasse pubblicamente l’amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini, e proclamasse “urbi et orbi” che il suo successore dovrà provenire dall’esterno dell’azienda, senza che tutto ciò provocasse una reazione dell’opinione pubblica e dei cosiddetti “giornaloni”. Con questa improvvida sortita, Nicola Zingaretti ha commesso tre falli da calcio di rigore. Il primo, ai danni dello stesso governo di cui il Pd fa parte e in particolare del presidente del Consiglio: l’ultima “riformicchia” della radiotelevisione pubblica, imposta dall’ex premier ed ex segretario “dem” Matteo Renzi, ha infatti consegnato all’esecutivo il potere di nominare l’ad della Rai. E perciò, fino a quando non sarà opportunamente modificata o sostituita, la scelta spetterà ancora a Palazzo Chigi.

Il secondo fallo da penalty consiste nell’indicazione “classista” che il futuro amministratore deve arrivare necessariamente dall’esterno, quasi a prescindere dalla sua competenza ed esperienza, mentre non mancano all’interno dell’azienda figure che potrebbero assumerne legittimamente la guida conoscendone già pregi e difetti. Ma il terzo “fallaccio” di Zingaretti, senz’altro il più grave, consiste nel fatto che così il segretario del Pd rinuncia implicitamente a promuovere quella riforma della governance invocata ormai dal secolo scorso in difesa del servizio pubblico e appena riproposta (a sua insaputa?) dal vicesegretario dello stesso partito Andrea Orlando. Una riforma che si può riassumere in poche parole: fuori i partiti dalla Rai.

Fa specie che un politico cauto e avveduto come Zingaretti abbia commesso tre falli del genere nella stessa partita. È vero che sono passati quarant’anni dalla celebre intervista in cui Enrico Berlinguer, a proposito della “questione morale”, disse nel luglio 1981 a Eugenio Scalfari che “i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni dell’Italia”, menzionando esplicitamente anche la Rai Tv fra le istituzioni indebitamente occupate. A quell’epoca Zingaretti aveva appena 16 anni, ma si preparava già a diventare segretario della Fgci romana, la mitica Federazione giovanile comunista, prima di essere considerato in età avanzata un riformista di stampo socialdemocratico.

Basta, allora, con la Rai dei partiti, con il valzer dei nomi e la spartizione delle poltrone. E avanti con la Rai dei cittadini, delle idee e dei valori. Sarebbe sufficiente, come primo atto, trasferire il controllo del pacchetto azionario dal ministero dell’Economia a una Fondazione indipendente, per garantire l’autonomia del servizio pubblico, la sua identità e qualità.

Mentre la maggioranza si preoccupa di “salvare” Mediaset dalla scalata di Vivendi con un emendamento “ad aziendam”, i francesi propongono intanto al Biscione – secondo le rivelazioni del quotidiano Milano Finanza – una “pax televisiva” per costituire una tv europea, ribattezzata con un calembour “Viveset”. A maggior ragione, allora, i giallo-rossi farebbero bene a modificare la governance dell’azienda radiotelevisiva prima della scadenza del cda, fissata a giugno 2021. Questa è davvero l’ultima occasione: ora o mai più. In caso contrario, senza una riforma organica, sarà la Restaurazione della vecchia Rai e dell’ancien régime, cioè della partitocrazia.

 

Covid, un bagno di realtà che disfa i miti sovranisti

“Il re è nudo!”. Come il bambino della fiaba di Andersen la pandemia ha svelato quello che era sotto gli occhi di tutti e che nessun sembrava vedere, lasciando emergere l’intrinseca fragilità di narrazioni che si sono mostrate tanto seduttive quanto inconsistenti.

È andato in frantumi, ad esempio, il racconto di un mercato perfetto in sé, che bisognava solo lasciare libero di essere se stesso, svincolato dagli impacci della cosa pubblica, per poter sprigionare tutta la sua benefica potenza. Gli effetti nefasti della devastazione della sanità “privatizzata” ha svelato tutti i limiti di questo approccio. Più in generale, il Covid-19 ha incrinato molti dei dogmi di quella “religione dei consumi” che intorno all’adorazione del mercato si era consolidata. Costretti dalla pandemia a privarci del “superfluo”, abbiamo necessariamente riscoperto le risorse che si annidano nella “frugalità”, come se la brutale concretezza delle privazioni di oggi ci riporti al nostro passato novecentesco, ai tempi miseri ed eroici del dopoguerra, all’Italia povera e contadina degli anni che precedettero il boom economico.

Altri racconti si sono arenati sugli scogli di una realtà inchiodata alla durezza delle cifre dei contagi, delle vittime, dei ricoveri in terapia intensiva. Tra tutti, quello che a mettere a rischio la nostra esistenza collettiva fossero gli immigrati, clandestini pronti a insidiare il posto di lavoro degli italiani, ad annidarsi come parassiti nella nostra società, approfittando delle inclinazioni “buoniste” delle istituzioni pubbliche. Si sono vinte le elezioni sulla base di una narrazione come questa, sgominata dalla pandemia e dai suoi effetti, quelli sì devastanti, sui nostri livelli occupazionali e i nostri redditi. La verità è che per anni la politica è stata egemonizzata da questo tipo di approccio culturale, con la destra e la sinistra affascinate entrambe dalla sostituzione della “realtà” con la “rappresentazione della realtà”, con racconti che sono arrivati sia da chi oggi ci governa (la sconfitta della povertà con il reddito di cittadinanza, un’arma spuntata contro la miseria dilagante innescata dal virus), sia da chi oggi sta all’opposizione, con qualche paradosso, amaramente svelato dal lockdown. La “legittima difesa” gridata in piazza dai leghisti aveva proposto l’immagine delle nostre case trasformate in altrettante fortezze assediate da difendere contro ogni intrusione dall’esterno, quelle stesse case al cui interno la pandemia ci ha spinti a vivere, costringendoci a riscoprirne il tepore affettivo e protettivo. E le polemiche sul velo islamico che “mascherava” il volto delle donne ? L’obbligo della mascherina ha travolto ogni differenziazione di genere, ogni appartenenza religiosa, trasformandola di colpo da inquietante segnale di pericolo a icona salvifica della tutela della nostra salute.

Sono “le mitologie sovranisti” quelle che hanno maggiormente risentito di questo bagno nella realtà. La pandemia ha ridicolizzato i confini nazionali, sorvolando i territori, svuotandoli di significato per proporre l’immagine globale di un mondo unificato dal lutto e dall’angoscia. È stata una ventata di concretezza che ha attraversato tutti i discorsi che avevano tenuto banco nello spazio della politica, soprattutto nella sua versione televisiva. I 21 parametri sulla base dei quali sono stati decisi i colori (giallo, arancione, rosso) delle varie regioni e dei rispettivi lockdown; le cifre dei bollettini quotidiani; gli indici di diffusione del contagio; il grado di efficacia dei vaccini in via di sperimentazione: la discussione pubblica è stata chiamata a misurarsi con questi dati, in un cambiamento di registro che ha interessato gli ambiti più diversi. Perfino le chiacchiere da bar che accompagnano il tifo calcistico, messe da parte le polemiche sul Var e sugli arbitraggi, si sono inopinatamente concentrate sugli esiti dei tamponi o la contraddittorietà dei pareri delle Asl. E i negazionisti si sono scontrati, non con la narrazione simmetrica e opposta dei loro avversari, ma con il granitico principio di realtà dei numeri. Il “re è nudo” è diventato così un grido di consapevolezza.

Per più di un secolo, nel progetto di “fare gli italiani” si sono cimentati i grandi “costruttori di identità” come lo Stato, i partiti di massa, la Chiesa, le fabbriche, il mercato, i mezzi di comunicazione di massa: quello che siamo oggi lo dobbiamo al modo in cui nel tempo hanno modellato i nostri comportamenti, le nostre scelte, le nostre appartenenze. Ora, a mettere mano a quel progetto è intervenuta la pandemia. È la prima volta che succede e perciò ne siamo tutti disorientati. Il virus ci cambierà. Altre narrazioni prenderanno il posto di quelle che il Covid-19 ha messo in crisi. Se a ispirarle sarà questa immersione nella realtà, ne usciremo migliori.

 

“La Santa Messa”: trama, ingenua, è un pretesto per far cantare i fedeli

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 2, 23.30: Voice Anatomy, varietà. Il mondo del doppiaggio italiano attraverso interviste ai suoi protagonisti. Conduce Pino Insegno, la voce italiana di Viggo Mortensen. Ospite della puntata: Giorgia Meloni. Cosa c’entra, a parte che siamo su Rai2 e lei è la capa di Fratelli d’Italia? Be’, Giorgia è la voce italiana di Steve Bannon.

Italia 1, 21.20: Freedom – Oltre il confine, documentario. Scienza, storia, mistero e avventura: ecco la ricetta del programma condotto da Roberto Giacobbo. La puntata di questa sera ripercorre la vita di Ulrik il Verde, il capo vichingo che partì dalla Danimarca per compiere stupri e saccheggi sulla riviera francese (invece che in Alaska come fece quell’idiota di suo padre, Ulrik il Blu), ma sbagliò curva a Reykjavik e arrivò in un posto sperduto che due secoli dopo sarebbe diventato una pompa di benzina Exxon sulla statale per New York. Comprata Manhattan dagli indiani con azioni della Apple (una sòla, dato che la Apple doveva essere ancora inventata), Ulrik e i suoi scoprono che in città non c’è nessuno (a parte una coppia di turisti italiani a Times Square, i Saragoni, che erano lì a comprare due biglietti per Mamma Mia!), e non gli resta che stuprarsi e saccheggiarsi a vicenda, finché non vengono cacciati a calci in culo dagli indiani, furibondi dopo aver scoperto che le azioni Apple da loro acquistate non si riferivano all’azienda dei Beatles, ma a quella di un certo Steve Jobs. Chi cazzo era? Il contenzioso verrà risolto solo nel 2007: a Jobs il nome Apple, ai Beatles il conguaglio, agli indiani la pompa di benzina Exxon sulla statale per New York.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. La trama, ingenua, è un pretesto per far cantare i fedeli.

Sky Cinema Uno, 21.15: Mi chiamo Francesco Totti, documentario. Da quando è uscito questo documentario, i tifosi della Roma sono sotto choc: al resto d’Italia, di Francesco Totti non gliene frega un cazzo a nessuno.

Canale 5, 14.10: Una vita, telenovela. Carmen vuole avere la certezza che sia proprio suo il bambino di cui è incinta.

Cine34, 21.00: Il paradiso all’improvviso, film-commedia con Leonardo Pieraccioni. Il protagonista incontra una bella ragazza e la sua vita cambia. Aspetta, non era la trama del Ciclone? Sì, anche. E del Pesce innamorato? Sì, anche. E di Finalmente la felicità? Sì, anche. E di Il professor Cenerentolo? Sì, anche. E di Luci della città di Chaplin? Sì, anche.

Rai 1, 21.25. Superquark, documentario. Piero Angela, a 91 anni, ha perso del tutto i freni inibitori, a giudicare da come introduce il primo filmato, dedicato al cambiamento climatico: “Fra cento anni, nessuno ricorderà che abbiamo distrutto l’ambiente. Sticazzi”.

Iris, 21.00: Ladri di biciclette, film drammatico. Impossibile godersi questo capolavoro del cinema mondiale, che valse al regista Vittorio De Sica un Oscar, perché il protagonista, interpretato da Lamberto Maggiorani, si chiama Antonio Ricci. E quando, nella scena più drammatica, gli rubano la bicicletta e lui si dispera, non riesci a non pensare: “Vabbè, poi ti rifarai con Striscia, dai”.

Canale 5, 23.25: Maurizio Costanzo Show, talk-show. Costanzo sarà anche un bravo giornalista, ma è la donna più brutta che abbia mai visto in vita mia.