“Noi a Matteo non rinunciamo: fa ascolti”

Due anni fa, quando la Lega superò Forza Italia alle elezioni politiche, in Mediaset si convinsero che la colpa fosse anche di Rete4. Paradosso dei paradossi, la tv di Silvio aveva finito per tirare la volata a Matteo Salvini, tanto che i presunti colpevoli Maurizio Belpietro, Paolo Del Debbio e Mario Giordano furono rimossi dai palinsesti o trasferiti ad altro incarico. Oggi il tema si ripresenta, con Salvini inebriato dalla tentazione del parricidio e Berlusconi di nuovo alle prese col tele-dilemma: lasciare che le tv facciano il loro corso o imporre la svolta moderata, sperando non fallisca nel giro di sei mesi?

Per capire che aria tira è utile allora andare a vedere come viene trattata la crisi del centrodestra a Cologno Monzese. Nicola Porro, vicedirettore del Giornale e conduttore di Quarta Repubblica su Rete4, è esplicito: “Con la stampella ai giallorossi, FI si fa male da sola”. Sbaglia B., quindi, ma sbaglia pure Salvini a parlare di inciuci, lui che ha governato col M5S: “Ero furibondo – ha detto ieri Porro sui social – quando hanno formato il Conte-1. Hanno approvato il decreto Dignità, il Reddito di cittadinanza…”. Di eventuali virate della rete, però, Porro non si preoccupa: “Cosa si può pretendere? Che io cambi idea da un giorno all’altro? Finora ho sempre fatto come mi pareva e continuo a farlo”. Anche con Salvini in studio: “La verità è che Salvini e Meloni fanno ascolti. E li farebbe anche Berlusconi se decidesse di tornare in tv”.

Chi conosce bene Berlusconi è poi Paolo Del Debbio, tra gli ispiratori del programma di FI nel 1994 e più volte corteggiato – anche dalla Lega – per una candidatura. Oggi conduce Dritto&Rovescio su Rete4 e dello scontro in famiglia s’è fatto un’idea chiara: “Non ho elementi per dire se la rottura è seria, ma di certo è molto difficile che la coalizione possa fare a meno di FI. I voti di Berlusconi servono. E la Meloni infatti lo sa bene”. Quando gli si chiede se potrebbe farne le spese il suo lavoro, Del Debbio la prende con filosofia: “Facciano quel che gli pare. L’altra volta prima dissero che favorivo il M5S, poi che aiutavo la Lega: li ringrazio perché pensavo di essere un povero bischero e invece sono Mandrake”. Si tira avanti allora, sulla strada di sempre: “Salvini è uno molto disponibile, che si fa intervistare senza porre veti come invece fanno in tanti. Ma il mio programma è molto di più, spesso adesso già rinunciamo all’intervista con i leader. Io continuo a fare quello che so fare”.

Per leggere i movimenti interni alla destra c’è poi un altro osservatorio speciale, ovvero quel Giornale che spesso ha cercato di condurre Salvini a miti consigli. Ieri Alessandro Sallusti ha mandato un messaggio all’alleato: “Uno che è andato al governo con Toninelli e la Lezzi non può fare lo schizzinoso. Può rubare nottetempo tutti i deputati di FI promettendo poltrone e può riuscire a far chiudere Mediaset, ma poi che accade?”. E il consiglio finale: “Salvini è ancora in tempo, smaltita la rabbia per la resurrezione politica di Berlusconi, per fare ciò che è giusto e logico. Fare politica e non propaganda”.

Undici anni fa – quando era direttore Vittorio Feltri – il Giornale sperimentò il “metodo Boffo” contro l’ex direttore di Avvenire Dino Boffo, riproponendo poi analoga campagna mediatica contro Gianfranco Fini. Oggi il rivale di Silvio è un altro, ma non è detto che il Giornale non sia di nuovo della partita.

B. mette paura a Salvini: ora la Lega è pro-Mediaset

L’espressione che si usa in questi casi è tregua armata. Ma è proprio questo lo stato dell’arte tra Lega e Forza Italia il giorno dopo lo scippo del partito di Matteo Salvini a quello di Silvio Berlusconi. L’uscita di Laura Ravetto, Federica Zanella e Maurizio Carrara è stata vissuta come un atto di guerra dai berluscones. Un messaggio chiaro all’ex Cavaliere e ai suoi “trattativisti” di rimettersi in riga. Perché se c’è qualcuno nel centrodestra deputato a parlare con il governo, quello dovrebbe essere proprio Salvini, leader della coalizione. Il problema è che il segretario con l’esecutivo non parla, ma impazzisce se a farlo è qualcun altro.

La fuga in avanti di FI è stata vissuta malissimo dall’ex vicepremier, che ha risposto abbassando il ponte levatoio e facendo entrare a corte tre che bussavano da tempo, specie Ravetto e Zanella. Il messaggio è chiaro: attenzione che ho la fila fuori, se voglio vi svuoto il partito.

Si racconta che a passare alla Lega dovevano essere almeno in sei, ma tre all’ultimo non se la sono sentita. Oppure è stato Salvini a dare lo stop, anche per un certo malcontento tra i suoi. Perché, spiega una fonte leghista, “con il taglio dei parlamentari e il calo dei consensi, non abbiamo chissà quante poltrone da regalare”. Tra i nomi dei forzisti in attesa si fanno quelli dei deputati Simona Vietina e Pietro Pittalis, ma pure di Dario Bond e Cristina Mirella. Tutte persone che negli ultimi tempi hanno mostrato un certo malcontento. Al Senato c’è invece Francesco Giro, che al momento ha la doppia tessera: della Lega e di FI.

Ma potrebbero essercene altri due rimasti coperti, per un totale di sette. E la paura in Forza Italia c’è: “Ieri Salvini ci ha dato una coltellata – dice un big del partito – gli strascichi ci sono ancora”. Ma nelle prossime ore nessun altro cambierà casacca: “Per ora non accadrà nulla, la botta Salvini l’ha già data. Adesso è il momento di far calmare le acque e riprendere i rapporti, anche in vista delle Comunali”, dice Osvaldo Napoli.

Anche perché da giovedì sera i pontieri sono al lavoro pancia a terra per ricucire lo strappo e la settimana prossima i leader si dovrebbero vedere per decidere le candidature. Licia Ronzulli, vicinissima a Berlusconi, già giovedì aveva invitato i due a sentirsi al telefono “per un chiarimento”.

E se la telefonata ancora non c’è stata – Berlusconi è troppo amareggiato, ma non è escluso che si sentano in queste ore – Salvini, grazie alla mediazione di Giorgia Meloni (e di Giancarlo Giorgetti), giovedì sera ha teso un ramoscello d’ulivo a FI facendo eliminare dal testo della questione pregiudiziale di costituzionalità sul decreto Covid il riferimento alla norma salva-Mediaset. Un segnale di distensione che ad Arcore è stato apprezzato. Anche perché poi, fa notare qualcuno, “sulle reti del Biscione chi ci sta a tutte le ore è proprio Salvini”.

L’altro segnale di pace è arrivato ieri durante la riunione che il leader del Carroccio ha avuto a Milano con Attilio Fontana e i consiglieri regionali lombardi: per il momento la “questione Gallera” (che Salvini vorrebbe cacciare da tempo) è solo rinviata a dopo l’emergenza e la Lega non voterà la mozione di sfiducia presentata dal M5S per il 1° dicembre (ma in FI si teme il voto segreto). Ora la strategia di entrambe le parti è chiara: vedere cosa succede in Parlamento. E il primo test sarà lo scostamento di Bilancio che arriverà al Senato mercoledì pomeriggio: “Vediamo come si comporterà FI – dicono fonti vicine a Salvini – se la maggioranza accetta i nostri provvedimenti li votiamo, altrimenti il centrodestra sta all’opposizione”.

Ma in serata, parlando con i vertici del partito via Zoom, Berlusconi ribadisce: “Il centrodestra esiste grazie a me. Senza Forza Italia non ci sono speranze di vittoria in nessun luogo, ma non ci accontentiamo certo di essere determinanti. Vogliamo essere noi a tornare a guidare il centrodestra vincente”. Come dire, la palla ce l’ho ancora io.

Coazione da Tiffany

Il bizzarro fenomeno dei vertici Pd che leccano i tacchi col rialzo a B. ha varie spiegazioni scientifiche. In psicologia si chiama “coazione a ripetere”. In psichiatria, “masochismo” (che però presuppone il godimento sofferente di entrambi i partner, mentre qui uno gode e l’altro soffre). In criminologia, “sindrome di Stoccolma”. In politica, “inciucio”. In dialetto napoletano, “chiagni e fotti” (lui chiagne e chi pensa di fotterlo viene regolarmente fottuto). In entomologia, è il tipico accoppiamento della mantide religiosa, caratterizzato da “cannibalismo post-nuziale”: la femmina, mentre tromba col maschio, se lo mangia partendo dalla testa mentre i suoi organi genitali proseguono nell’amplesso. Per informazioni, il trust di cervelli che guida il Pd può chiedere informazioni ai predecessori, sempreché riesca a trovarli.

In principio fu Massimo D’Alema in versione pre-Bicamerale. “FI è un partito confinante con il Pds. Ma il nostro non è inciucio: è antagonismo collaborante” (19.12.96). “La Fininvest è una grande azienda e una grande risorsa per il Paese. Prometto che, se vinciamo le elezioni, non la metteremo in discussione” (29.3.96). “Con Berlusconi dobbiamo riscrivere le regole dello Stato democratico” (3.6.96). B. ottenne tutto quel che voleva per le sue tv e i suoi processi, poi mandò all’aria la Bicamerale, nel 2001 rivinse le elezioni ed è ancora lì. D’Alema tiene conferenze.

Poi venne Walter Veltroni, che nel 2007 fondò il Pd in nome della “democrazia dell’alternanza” fra lui e B., nel 2008 segnò la fine del Prodi-2 (troppo poco dialogante) e in campagna elettorale non nominò mai B. (“il principale esponente dello schieramento avversario”) perché “basta demonizzazioni”, “bisogna uscire da 15 anni di odio”, mentre l’altro strillava ai “comunisti” e vinceva le elezioni. Uòlter continuò a stalkerarlo per “le riforme insieme”, fortunatamente invano. Ora scrive film e libri gialli.

Poi venne Enrico Letta, quello che “preferisco che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo” (12.7.12). Infatti nel 2013 il Pdl ne perse 6,5 milioni, il Pd 3,5 e il M5S ne guadagnò 8,7. Letta fece il governo con B. e durò nove mesi, previa condanna di B.. Ora insegna a Parigi.

Poi venne l’Innominabile, quello che “in qualunque paese, quando un leader politico è condannato in via definitiva, la partita è finita: game over” (11.9.13). Quattro mesi dopo lo incontrava nella sede del Pd per siglare il Patto del Nazareno ed esprimere “profonda sintonia” col pregiudicato sull’Italicum (raso al suolo dalla Consulta) e la schiforma costituzionale (raso al suolo dagli italiani). Ora fa il pelo superfluo della politica.

Chi sarà il prossimo?

Lamborghini e Ducati: il darwinismo dei marchi

I vertici del gruppo Volkswagen stanno lavorando allo spin-off di tutte le loro attività “italiane”. Lamborghini, Ducati e Italdesign saranno dunque quotate in Borsa, pur se i tedeschi ne manterranno la quota di maggioranza. Oppure saranno vendute, e usciranno dal perimetro del colosso di Wolfsburg. Ma se l’obiettivo ufficiale è snellire i processi decisionali, probabilmente quello ufficioso è alleggerire un business sempre più orientato verso le emissioni zero, di certo meno assonanti con certe realtà. Che, pur restando un fiore all’occhiello del gruppo tedesco, non ne rappresentano le attività principali. Giova ricordare, a questo punto, che Vw ha annunciato investimenti per 150 miliardi di euro nel prossimo quinquennio, metà dei quali su elettrificazione, connettività e digitalizzazione. Ormai, dunque, la strada verso batterie e affini è segnata, complice anche lo scotto del dieselgate, costato alle casse dell’azienda circa trenta miliardi di euro.

La transizione verso l’elettrone, tuttavia, è costosa per tutti. Al punto da spingere l’attuale numero uno di Psa (e futuro ad di Stellantis) Carlos Tavares, a non contemplare vie di mezzo: “O ci si unisce, o si fallisce. Solo i più agili, con spirito darwiniano, sopravvivranno”, ha spiegato. In effetti, assistiamo proprio a questo: aziende che si separano da asset non necessari o uniscono le forze dividendo gli investimenti sulle nuove tecnologie. Una roba che somiglia molto a quanto disse Sergio Marchionne nel lontano 2008: “La festa è finita. Nel mondo resteranno solo 5-6 grandi gruppi dell’auto”.

Con Formentor Cupra si stacca da Seat

A segnare il definitivo distacco da Seat, il più giovane marchio della galassia Volkswagen presenta il suo primo prodotto nativo: la sport utility Formentor. Parliamo ovviamente di Cupra, cui recentemente anche lo stesso numero uno del gruppo tedesco, Herbert Diess, ha confermato piena dignità e indipendenza, anche in virtù delle 55 mila vetture vendute dalla sua nascita nel 2018 e delle 50 mila previste ogni anno quando la commercializzazione della stessa Formentor, il cui compito è proprio quello di aumentare i volumi, entrerà a pieno regime. Un modello indipendente non solo a parole, ma con i fatti: è infatti costruita su una piattaforma dedicata, la MQB37W, su cui stando a quel che riferiscono i vertici della casa spagnola non nasceranno altre vetture. E tuttavia, la Formentor attingerà a piene mani dalla messe di tecnologie che il Gruppo Volkswagen può mettere in campo, dalle motorizzazioni alla connettività, passando per i tanti sistemi di assistenza e arrivando alla guida autonoma di livello 2.

Lunga 4,45 metri, larga 1,84 e alta 1,52, quest’auto si distingue soprattutto per lo stile: linee da coupé (come vuole il mercato) muscolose e tese, caratterizzato da un ampio cofano rastremato verso l’interno, si va a collocare nel cuore della domanda di sport utility compatti, che nel nostro Paese si è più che raddoppiata negli ultimi 5 anni. Due le versioni, una d’ordinanza e l’altra sportiva: Formentor e Formentor VZ, che potranno contare su motorizzazioni benzina, diesel e ibride con potenze comprese tra 150 e 310 cavalli, e prezzi che partono da 31.250 euro per arrivare fino a 46.250 (salvo optional e pacchetti vari). Ultima notazione per la rete commerciale Cupra: sarà anch’essa dedicata e arriverà a contare 77 punti vendita in Italia a fine 2020.

Ottobre in “rosso” per l’auto in Europa: vendite giù del 7,1%

Dopo la lieve ripresa settembrina, il mercato europeo dell’auto riscende in picchiata: a ottobre sono state immatricolate poco meno di 1,13 milioni di vetture nell’area continentale (Ue+Efta+Uk), in calo di 86 mila unità (-7,1%) rispetto a ottobre 2019. Ancora più preoccupante il computo dei primi dieci mesi dell’anno, a quota 9,7 milioni, in flessione del 27% e con un ammanco quantificato in 3,63 milioni di unità. La fotografia dei principali mercati del vecchio continente è impietosa: nel consuntivo gennaio-ottobre in Italia le immatricolazioni sono scese del 31%. Ha fatto peggio soltanto la Spagna (-36,8%), mentre il calo del Regno Unito è uguale a quello del Bel Paese (-31%). Va poco meglio in Francia (-26,9%) e Germania (-23,4%).

Secondo gli analisti, a tagliare le gambe alla domanda di nuove autovetture sono state le limitazioni alle attività economiche e alle libertà personali disposte per contrastare la pandemia nonché gli effetti del Covid sulla propensione all’acquisto. Tuttavia, gli incentivi varati in quasi tutti i Paesi per sostenere l’automotive e il rinnovo del parco circolante hanno consentito di contenere le perdite. In alcune nazioni i medesimi ecobonus permetteranno di ammortizzare gli effetti della seconda ondata della pandemia che, prevedibilmente, comporterà nuovi crolli. In Italia, tuttavia, sono andati già esauriti gli stanziamenti dedicati alle auto con emissioni di CO2 comprese fra 61 a 110 gr/Km e si stanno esaurendo anche quelli per le vetture della fascia 0-60 gr/Km, cui appartengono le ibride ricaricabili alla spina e le vetture 100% elettriche. Un peccato, visto e considerato che da luglio a ottobre 2020, grazie agli incentivi, sono state rottamate circa 125 mila automobili vecchie di almeno 10 anni. “Senza la spinta alla rottamazione, che stimiamo abbia interessato il 70% delle auto incentivate nella fascia 61-110 g/Km, non solo avremmo avuto un minore introito Iva per lo Stato, ma non saremmo riusciti a liberare le nostre strade da decine di migliaia di auto inquinanti e poco sicure”, afferma Andrea Cardinali, Direttore Generale dell’Unrae, l’associazione dei costruttori esteri (rappresenta 46 aziende che, insieme, fatturano 53 miliardi di euro e occupano 160 mila persone). Ma se non sarà adeguatamente sostenuto, il mercato rischia un’altra pesante débâcle pure nel 2021. “È quindi essenziale che dal Parlamento venga la proposta di un pacchetto per l’automobile da inserire nella legge di Bilancio”, afferma Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor, “e che questo pacchetto sia adeguato all’importanza del comparto che, con il suo indotto, vale in Italia il 12% del Pil”.

“Sto coi figli, non su Fb”. Un cantautore “contro”

La sorpresa è che Fabrizio Moro ride. Prende in giro l’interlocutore. È autoironico. E piazza gommapiuma davanti agli spigoli della vita. “Non capisco perché ho la nomea da eterno incazzato”. Vuoi i testi, sempre impegnati, mafia, soprusi, rivincite, periferie, droga; vuoi per l’atteggiamento ombroso, di chi è pronto a tutto pur di difendersi; vuoi i tatuaggi, la fama, il coraggio di separare, nelle risposte, la crusca dell’ipotesi dalla farina della certezza. Ecco il perché all’interrogativo.

Ora, come un punto di riflessione, è uscito con un album, Canzoni d’amore nascoste, in cui “ho ripreso in mano i brani ai quali sono più legato e ho cercato di dar loro una veste sonora molto netta, simile all’origine. Ascoltandolo ho pensato: questo è il mio disco più bello, ci sono pezzi che amo e a delle canzoni mi dispiaceva non dare una seconda chance. Alcune sono uscite quando la luce su di me era un po’ più fioca”.


Nun c’ho niente
in romanesco è una delle più belle.

Nata perché ho scritto un film, e ho iniziato la produzione e i casting; questo impegno mi ha dato linfa vitale: l’ho scritta rileggendo la sceneggiatura.

È morto Proietti: qual è il suo pantheon romano?

Sono cresciuto con Verdone, conosco i suoi film a memoria; la prima volta che l’ho visto eravamo ospiti di un concerto degli Stadio: esco dal camerino e me lo trovo davanti. Lui mi viene incontro, mi abbraccia, resto immobile, perché me stavo pe’ mette a piagne.

Fermo.

Inebetito. Non sono riuscito a dirgli nulla. (Ci pensa) Ho vissuto più la periferia romana, San Basilio, rispetto al centro, ma oggi la periferia è Roma: in centro ci sono snob, poca condivisione, non conosci il vicino di pianerottolo. E non vanno al mercato.

Lei cambia casa in continuazione.

Ho un’ossessione per l’acustica; una volta ho traslocato solo perché sentivo troppi aerei, mentre ora ho l’angoscia delle auto.

Ha dichiarato: “La maggior parte dei colleghi arriva da famiglie benestanti”.

E raccontano di aver fatto il cameriere o il gitano…

Mentre lei.

L’adolescenza è stata bellissima, non mi sono mai lamentato; quando la sera con i miei figli decidiamo di fare un giro in auto, li porto a San Basilio, davanti ai palazzoni dove sono cresciuto.

Bullizzato?

Mai, anzi sono stato difeso. Mio nonno era pugile, la sua prima regola era: “Quando ti rompono, mira subito al naso, altrimenti te li porterai dietro tutta la vita”.

Nel suo film il personaggio principale è un pugile.

L’unico contatto tra me e lui è una domanda che mi pongo da sempre, quando non sai se un gesto o un atteggiamento è classificabile come bene o male, azione giusta o sbagliata.

Nei suoi brani spesso parla di errori.

Il conflitto interiore è una scintilla per la creatività.

Se li sente 45 anni?

Nello stomaco; (sospira) sia a livello organico che mentale: riverso tutto lì.

Zero nel suo ultimo album attacca i giovani musicisti, tutti uguali.

Se Renato si riferisce alla serie trapper o simili, allora gli do ragione: non è musica.

Cos’è la musica?

È mestiere e lo devi imparare. Devi studiare. Approfondire. Il ruolo di frontman lo impari sul palco. È l’unico modo per salvarti, per non sparire subito.

Il suo errore da ventenne.

Un aspetto è rimasto uguale, e mi fa sbagliare: la paura, anzi la pressione. In passato magari stonavo, mi rifugiavo in un bicchiere di vino, poi non ricordavo le parole, sparavo cazzate sul palco perché ubriaco.

Ora?

Ho imparato a gestirla; l’altro giorno ho registrato uno show case, senza pubblico, ed è arrivato l’ attacco di panico: ho sbagliato i testi di un brano che canto da vent’anni; (cambia tono) allora ho focalizzato mia figlia: pensare a qualcosa di bello durante un momento di crisi rientra nel mestiere; tanti anni fa avrei bevuto una birra in più o sarei andato in camerino e mollato la partita.

Il suo amico Grignani sembra aver perso la partita con alcool e paure…

Paradossalmente ha avuto una storia più complicata della mia: appena uscito ha ottenuto un botto, ed è tosta reggere; io ho avuto alti e bassi, che mi hanno permesso di imparare gradualmente come gestire la pressione.

Lui no.

Siamo una generazione di cantautori in mezzo a un grande cambiamento: prima di noi bastava un album di successo ed entravi tra i grandi; dopo di noi sono arrivati i ragazzini con le loro visualizzazioni su Internet; pochissimi della nostra età sono sopravvissuti. Gianluca si è schiantato in mezzo al cambiamento, ma resta uno dei più bravi.

Lei e i social.

Ho la nausea, non li guardo, mi prendono gli attacchi di panico. A chi mi segue del management dico sempre: ho 45 anni non mi rompete con i contributi, se ho tempo sto con i miei figli o gli amici. Non posso vivere con il telefonino in mano.

Cosa le manca?

Ora? Cantare dal vivo: io scrivo solo pensando al palco.

“La Bbc rubò l’intervista a Lady D.”

Il 20 novembre 1995, il giorno in cui la Bbc mandò in onda l’immortale intervista in cui Lady Diana Spencer, già separata ma non ancora divorziata da Carlo “Principe ereditario per sempre” Windsor, rivelava al mondo la sua verità sulla Firm, la casa reale inglese. Sì, quella in cui parla apertamente della sua depressione post-partum.

Earl Spencer ottiene dalla Bbc un’inchiesta su come Martin Bashir ottenne la confessione tv di Diana. Se avevate l’età della ragione, che in queste cose inizia a 10 anni, ricorderete quel 20 novembre 1995, il giorno in cui la Bbc mandò in onda l’immortale intervista in cui Lady Diana Spencer, già separata ma non ancora divorziata da Carlo “Principe ereditario per sempre” Windsor, rivelava al mondo la sua verità sulla Firm, la casa reale inglese. Sì, quella in cui parla apertamente della sua depressione post-partum, dei tentativi di suicidio, della freddezza di Carlo e dei reali, della successiva bulimia, del ruolo determinante della pressione mediatica sulla sua infelicità, oltre a quell’esplicito: “Be’, eravamo in tre in quel matrimonio, quindi era un po’ affollato” e l’altra era Camilla Parker-Bowles, la grande passione di Carlo che pur di starle… vicino… sognava di trasformarsi in tampax. Sono traumi collettivi, e poi non ci si deve stupire se uno solidarizza con quel noto gaffeur del principe Filippo che a Diana avrebbe scritto: ”Non riesco a immaginare nessuno sano di mente che possa lasciarti per Camilla”. I panni sporchi lavati davanti a 25 milioni di persone: strappo grave in ogni famiglia, imperdonabile per quella reale inglese. Ma Diana è la storia che keeps on giving, e il nuovo scandalo non è sui contenuti ma su come quell’intervista fu ottenuta da Martin Bashir per il programma investigativo di Bbc Panorama. È una storiaccia: Bashir avrebbe mostrato al fratello di Diana, Earl Spencer, falsi pagamenti bancari a membri dello staff della principessa, sostenendo che fossero stati pagati per spiarla. Questo, dice Spencer, lo avrebbe indotto a spingere la sorella a raccontare la sua esplosiva versione dei fatti. Bell’ambientino. Tutto ricostruito da un’inchiesta del canale rivale Itv, che ha costretto la Bbc ad aprire un’inchiesta su com’è andata davvero. Bashir, ancora vivo, potrebbe aiutare, è però molto ammaccato, avendo avuto buonsenso di farsi venire un infarto mentre si riprendeva dal Covid. Il Principe William approva l’inchiesta: “È un passo nella giusta direzione per scoprire la verità su quell’intervista” ha dichiarato. E in effetti il disastro è iniziato lì: perché da lì il divorzio da Carlo è diventato inevitabile, la Regina troppo ferita per qualsiasi riconciliazione, il destino dei figli segnato, e ci aspettiamo da un momento all’altro un segno dallo scappato di casa Henry. Il tempismo è ammirevole, ora che è uscita l’ultima stagione di The Crown, quella in cui Diana appare come una pazza, Carlo vile e irresoluto, la Firm una collezione di snob rozzi e insensibili, e i commentatori di cose reali già avvertono che può solo riaprire vecchie ferite e danneggiare la monarchia. Per quello che conta, noi sempre team Elizabeth, che almeno ha il merito indiscutibile di sopravvivere sempre a tanta sgradevole umanità.

Biden: ora disinnescare l’eredità di Mr. Trump

Se l’Amministrazione Biden deciderà di tornare nell’accordo sul nucleare del 2015 (Jcpoa), l’Iran riprenderà “automaticamente” e “rapidamente”, senza necessità di ulteriori negoziati, a rispettare interamente gli obblighi derivanti dall’intesa. Parola del ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif. Il ripristino dell’accordo sul nucleare con l’Iran, avallato da Russia, Cina e Ue, con Gran Bretagna, Francia e Germania, è il passo indietro più difficile, fra quelli che il mondo s’attende che Joe Biden faccia, una volta insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio. Di solito, si guarda a un nuovo presidente degli Stati Uniti chiedendosi che cosa farà. A Biden, invece, si chiede soprattutto di disfare: smantellare l’eredità d’insicurezza che il suo predecessore gli lascia – ammesso che si decida a sloggiare dalla Casa Bianca, dove s’è ormai asserragliato –. Ci sono passi indietro che sono nel programma di Biden: il ritorno negli accordi di Parigi sul clima potrebbe essere la prima o una delle prime decisioni del nuovo presidente, magari abbinata a misure per frenare trivellazioni – che Trump sta spingendo, anche nell’Artico, con decreti last minute – e fracking. Altri passi relativamente agevoli saranno il ritorno degli Usa nell’Oms e nell’Unesco, Agenzie dell’Onu rispettivamente per la sanità e la cultura.

Pechino e Mosca si aspettano la levata di sanzioni imposte a vario titolo – quelle a Mosca risalgono in parte a Obama e all’annessione della Crimea –: ci vorrà tempo e il miglioramento del clima politico ed economico internazionale. La Corea del Nord vorrebbe ‘passare all’incasso’ dell’apertura di credito fatta da Trump al dittatore dinastico Kim Jong-un: improbabile che accada, senza contropartita.

Sugli accordi di disarmo denunciati da Trump, a partire da quello sugli euromissili, il problema non è fare un passo indietro, ma un passo avanti: creare le condizioni, che ora non ci sono, per negoziare un nuovo quadro di sicurezza internazionale, coinvolgendo la Cina, oltre che la Russia. La marcia indietro sul nucleare iraniano, come su tutte le mosse di Trump in Medio Oriente, appare invece problematica perché potrebbe suscitare diffidenze in Senato e ostilità nelle lobby ebraiche. E, infatti, Biden ipotizza modifiche all’intesa, per farne ‘digerire’ il ripristino. Ma qui Zarif mette i punti sulle i: “È una buona cosa che Biden voglia tornare” all’accordo, “ma deve essere chiaro che l’Iran non accetterà alcuna condizione”. “Se gli Usa rispettano la risoluzione” 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, “se le sanzioni vengono tolte e non vengono posti ostacoli alle attività economiche dell’Iran, allora l’Iran rispetterà i suoi impegni”. Teheran ha ridotto il rispetto del Jcpoa dopo il ritiro unilaterale degli Usa e la reintroduzione e l’inasprimento delle sanzioni. Secondo l’ultimo rapporto Aiea, le riserve d’uranio arricchito, ma non per usi militari, hanno raggiunto un livello 12 volte superiore a quello consentito. Di sicuro, Trump non farà nulla per spianare la strada a Biden; anzi, se potrà, gliela renderà più accidentata – progettava persino un’incursione contro installazioni nucleari iraniane –. Il magnate alterna – riferiscono fonti a lui vicine – momenti di frustrazione a scatti d’ira e desideri di rivalsa: passa le giornate davanti alla tv, sui social, leggendo giornali e meditando sul futuro. In un clima sempre più cupo, ogni tanto chiama a raccolta il suo staff per pianificare tutto ciò che possa ostacolare la transizione e la futura Amministrazione. A Wilmington, Biden continua a comporre la sua squadra e ha contatti con leader di tutto il Mondo. La conta dei voti lo avvicina alla cifra stratosferica per le presidenziali Usa di 80 milioni di suffragi. Alla Camera, i democratici hanno confermato Nancy Pelosi per altri due anni nel ruolo di speaker. Fra i repubblicani, pure confermato il capogruppo alla Camera, Kevin McCarthy, deputato della California.

Più armi che aiuti: così il G20 mantiene viva la guerra nello Yemen

Ancora una volta la guerra civile in corso dal 2015 nel poverissimo Yemen è uscita dai radar dei media internazionali. Nonostante il cessate il fuoco unilaterale dichiarato in aprile dalla coalizione saudita, i combattimenti proseguono in tutto il paese perché le bombe e i razzi sauditi sparati dai cieli non sono le uniche armi usate, specialmente sul terreno. Finora sono 100 mila le vittime, tra cui più di 12 mila civili, su 28 milioni di abitanti. Sostenuto su fronti opposti dalle coalizione internazionale a guida saudita e dall’Iran, il conflitto ha finito per distruggere un paese già privo di infrastrutture efficienti e servizi di base, specialmente in ambito ospedaliero e scolastico. Anche i beni primari, a partire da cibo e acqua potabile non sono più garantiti da tempo, tanto che la possibilità di sopravvivenza dei civili – la maggioranza dei quali è composta da donne poco più che maggiorenni e bambini data la giovane età dei 28 milioni di abitanti – risiede all’80 per cento negli aiuti internazionali. Che però non solo rimangono spesso bloccati nel porto di Hodeidah, intrappolato a periodi alternati tra gli scontri delle fazioni rivali (i ribelli sciiti Houthi emanazione dell’Iran e le forze governative aiutate dalle bombe e razzi sauditi ed emiratini), ma sono diventati negli anni sempre più esigui.

L’esplosione incontrollata della pandemia, che si è innestata sulla piaga endemica del colera, ha reso il volume degli aiuti del tutto insufficienti. A pesare è anche l’inadeguatezza degli aiuti a causa della distruzione della maggior parte degli ospedali, presidi sanitari e la conseguente morte di molti tra i pochi medici e infermieri operativi in tutto lo Yemen durante i bombardamenti indiscriminati di Riad. Nonostante questa devastante realtà, tuttavia pochi paesi del G20, tra cui l’Italia, hanno sospeso le forniture di armi all’Arabia Saudita. Lo ricorda il lavoro della Organizzazione umanitaria Oxfam a pochi giorni dall’inizio del G20, il 20 e 21 novembre, che si terrà da remoto, a causa del Covid, proprio a Ryad, la capitale saudita. Fondandosi sui dati ufficiali dei vari governi incrociati a quelli forniti dagli istituti di monitoraggio indipendenti, Oxfam sottolinea che il valore complessivo dell’export di armi da tutti i paesi che compongono il G20 è tre volte più grande di quello per gli aiuti umanitari.

Dal 2015 i paesi del G20 hanno esportato armamenti per un valore di 17 miliardi di dollari verso Ryad. Se invece si considera la vendita di armi verso tutti gli 8 paesi che compongono la coalizione a guida saudita, il valore delle esportazioni sale addirittura a 31,7 miliardi di dollari, ossia 5 volte maggiore del volume degli aiuti.

Oxfam ora si appella ai paesi del G20 chiedendo un’inversione di rotta, alla luce dell’impegno assunto di recente dal presidente eletto degli Stati Uniti Joe Biden, riguardo la volontà di sospendere la vendita di armi che alimentano il conflitto nello Yemen. “Per rendere un’eventuale intesa di pace una pace vera si deve mettere fine alla vendita di armi diretta e indiretta verso le parti in conflitto. “Solo l’Italia dal 2015 al 2019 ha autorizzato l’export di armamenti per un valore di circa 845 milioni di euro verso l’Arabia Saudita che si aggiungono agli oltre 704 verso gli Emirati Arabi, il secondo paese più coinvolto della coalizione a guida saudita costituita in tutto da 8 paesi”, dice Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia.

La comunità internazionale, dal punto di vista dell’Organizzazione non governativa, deve abbandonare del tutto una logica fondata prima sul profitto di guerra e quindi su quello della ricostruzione, per sposare un dovere umanitario che, se non altro, questa pandemia dovrebbe aver reso più evidente in tutto il mondo. Eppure il piano di risposta delle Nazioni Unite per il 2020 a un mese e mezzo dalla fine dell’anno è stato finanziato solo al 44 per cento. Gli armamenti, relativi solo alle bombe e razzi, forniti a Ryad in questi 5 anni sono provenienti per il 73% provenienti dagli Stati Uniti e per il 13% dalla Gran Bretagna. L’Italia fino a quando nel giugno del 2019 ha sospeso le licenze per la vendita di armi ai sauditi grazie alla pressione delle organizzazioni umanitarie e dell’opinione pubblica (il comitato popolare nato in Sardegna a Domus Novas per bloccare la costruzione di armi della società affiliata alla tedesca Rwm) ha avuto proprio l’Arabia Saudita tra i principali tre acquirenti dei propri armamenti – subito dopo Turchia e Pakistan – autorizzandone l’export per un valore di circa 845 milioni di euro che si aggiungono agli oltre 704 verso gli Emirati Arabi. A gennaio il nostro parlamento dovrà decidere se prolungare la sospensione delle licenze anche per il transito di armamenti verso Ryad. C’è un dato agghiacciante che fa comprendere la devastazione a cui è stato sottoposto lo Yemen: fino all’aprile scorso, ogni 10 giorni sono stati presi di mira dalle bombe che i paesi “civilizzati” hanno venduto a Ryad&Company ospedali e infrastrutture idriche essenziali.