Arrivano i fondi, la Serie A prova a far cassa

A piccoli passi, indecisi ma comunque in avanti. Verso un futuro in cui la Serie A si venderà ai fondi d’investimento stranieri, per dotarsi di una governance più moderna (si spera), sicuramente per fare cassa ora che i club non hanno più un euro e rischiano di fallire a causa del Covid. Adesso c’è la cifra: un miliardo e 700 milioni di euro. La Lega ha accettato l’offerta della cordata Cvc-Advent-Fsi per cedere il 10% della “media company” che si occuperà dei diritti televisivi e commerciali della Serie A. Tutto parte dai soldi: è solo per questo che i patron hanno votato all’unanimità il progetto. Una buona notizia per il presidente Dal Pino, che ci lavora da mesi insieme all’ad De Siervo. “Abbiamo inventato un modello di business”. Anche se pure lui ammette che “non c’è nulla di definitivo”. La delibera approvata infatti non è vincolante: restano da definire tutta una serie di aspetti fiscali e normativi, il controllo preciso della governance, soprattutto i criteri con cui spartire la ricca torta fra le squadre. E lì l’opposizione dei piccoli club guidati dal solito Lotito, tornerà a farsi sentire.

Già aver accettato l’offerta è una notizia, nella giornata in cui è arrivata anche la sentenza sul ricorso di Sky al Consiglio di Stato: la pay-tv ha perso e non potrà avere nuove esclusive online fino al 2022. Un divieto che inciderà sulla prossima asta per i diritti della Serie A: difficile ripetere lo schema Sky-Dazn, la Lega dovrà inventarsi qualcosa per racimolare un miliardo a stagione. Anche qui confida sui fondi, ma il percorso è lungo mentre i soldi ai club servono subito: ammesso di sciogliere i nodi interni, bisognerà riscrivere lo statuto, passare dalla Figc (sotto elezioni) e probabilmente dal governo. Insomma, manca il contratto. Che poi, quando si parla di alta finanza e non più di pallone, è l’unica cosa che conta.

Renato Schifani non è una muffa, e torna come osso di seppia

Renato Schifani non è una muffa, ma il nuovo consigliere politico di Silvio B. La prima circostanza l’ha stabilita a suo tempo un tribunale della Repubblica italiana, interpellato dallo stesso Schifani. E ci sta, visto che stiamo parlando di un ex presidente del Senato. La seconda è invece l’ennesima trovata del Dottore che (appena fuori dal giro degli inseparabili: Gianni Letta, Confalonieri, Dell’Utri) si diverte a nominare i suoi provvisori consiglieri come si fa con il personale di servizio, scegliendoli tra i molti dotati dell’X Factor della fedeltà, per poi spremerli sino a quando l’abnegazione dei prescelti si deteriora per sfinimento. È successo dai tempi di Enzo Cartotto, agli albori del partito azienda, passando per Giuliano Urbani, Giuliano Ferrara, Marcello Pera, Gianfranco Fini, Sandro Bondi, Sabina Began, Angelino Alfano, Francesca Pascale, giù giù fino a Giovanni Toti, il penultimo.

Ripescato dall’oblio, Renato Schifani, palermitano, detto in gioventù “freno a mano” per l’innato carattere oggettivato nella cautela con cui guidava la sua Fiat 500 L, servirà a facilitare l’ultimo giro di giostra del Dottore che secondo i migliori politologi di Palazzo, finiti i processi, le prescrizioni, le pupe, le bugie e forse anche i voti, si appresta a diventare Statista. Cioè pronto per le larghe intese, che poi sarebbero il salvataggio di Mediaset e la spartizione del malloppo vero, i 209 miliardi di euro in arrivo dalla perfida Europa.

Sebbene l’iracondo Filippo Mancuso, buonanima, a suo tempo ministro di Grazia e giustizia lo avesse definito “esperto in recupero crediti”, Renato Schifani è avvocato raffinatissimo, ramo civilista, cresciuto nella bella Palermo del sacco edilizio, quando la festa la organizzava Vito Ciancimino sindaco e i cronisti, come ha scritto Enrico Deaglio nel suo Raccolto rosso, scendevano in Sicilia per andare al mare o per un nuovo morto ammazzato importante.

Nato nell’anno 1950, Renato viene da una famiglia di piccola borghesia, padre e madre impiegati comunali. Studente senza soprassalti, blandì il suo cauto ’68 partecipando all’occupazione del liceo, “ma senza mai scendere in piazza”. A vent’anni è già democristiano. Poi dottore in Giurisprudenza con lode. Primo impiego al Banco di Sicilia. Il tempo di vestire la toga e due anni dopo entrare nello studio legale di Giuseppe La Loggia, avvocatone d’alta dinastia democristiana, diventando il timido amico del figlio esuberante, Enrico, detto ‘u babbiuni dai compagni del liceo Gonzaga. Insieme entreranno nella Sicula Broker, società di assicurazioni, con soci finiti anni dopo nei dossier dell’antimafia. A Palermo capita. E insieme saliranno i gradini di Forza Italia. A partire dalle leggendarie elezioni del 1996, quelle del 61 a zero, apoteosi del berlusconismo in Sicilia.

Trasferitosi con la famiglia a Roma, Schifani inaugura la sua seconda vita, facendo dimenticare certi dettagli della prima. Compreso il peculiare incarico professionale ricevuto nel 1983 da Giovanni Bontate, fratello del capomafia Stefano, principe di Villagrazia, per difendere la titolarità del suo ingente patrimonio – imprese edili, decine di appartamenti, ville, casali, agrumeti – dagli assalti giustizialisti della Cassazione che pretendeva di sequestrarglieli. Studia le carte, prepara la difesa, onora il mandato. Peccato che a rendere superflua la sua fatica professionale ci abbiano pensato i corleonesi di Totò Riina, che dopo avere fucilato a colpi di kalashnikov Stefano, morto nel centro di Palermo, liquidarono con due colpi alla nuca anche il fratello, appena scarcerato dall’Ucciardone per motivi di salute, anno 1988. A Palermo capita.

Ben venga Roma, dunque. Con le interminabili riunioni in Palazzo Grazioli, le serate al Bagaglino che fu il vero teatrino di quegli anni, e la mirabile carriera di Schifani, diventato prima capogruppo di Forza Italia, anno 2001, poi addirittura presidente del Senato, 2008-2013, seconda carica della Repubblica. Anche se la pertinenza non memorabile dei suoi interventi politici aveva ricadute blande sui giornali. Salvo che per due circostanze. La prima tricologica, per via del suo clamoroso riporto che occupava i due terzi della sua testa pensante, con scia di commenti, risate e disappunti estetici dell’intera nomenklatura arcoriana. E la seconda per il celebre Lodo intitolato a suo nome che mirava a difendere il suo maggiore cliente, Silvio B., dagli assalti giustizialisti delle Procure che pretendevano di metterlo sotto processo. Non bastando le batterie di deputati, giornalisti, lobbisti, la depenalizzazione del falso in bilancio, il blocco delle rogatorie, le norme sul legittimo sospetto, gli allungamenti dei processi e gli accorciamenti delle prescrizioni, i condoni fiscali, la detassazione degli utili, le macchine del fango contro i nemici, serviva aggiungere ancora l’ultimo miglio, l’ultimo sforzo. E fu il “Lodo Schifani” a incaricarsi di quel tocco coreano al nostro catalogo di leggi, anno 2003: vietato processare le cinque più alte cariche dello Stato, diceva la nuova norma, cancellata a stretto giro dalla Corte costituzionale per manifesta scempiaggine.

Di tutto il suo tribolare politico avvocatesco resta il vanto di avere contribuito all’ingaggio del celebre senatore Sergio De Gregorio passato da sinistra a destra per un intimo convincimento risarcito con 3 milioni di euro da Silvio B. E restano due frasi di prudentissimo conio: “Il presidente Berlusconi ha ragione”, ripetuta in premessa e a consuntivo di ogni intervento. E la più atroce per un palermitano: “Ho sempre tenuto al Milan”.

Sparì dai radar un giorno del 2014 con il consigliere politico di allora, l’Angelino Alfano, anche lui in fuga per crollo psicologico. Provarono insieme a costruire il castello di sabbia del Nuovo centrodestra, di cui non resta neanche la traccia del secchiello. Li inghiottì la stessa risacca che oggi ce lo restituisce calvo, come fa il mare con gli ossi di seppia. Vediamo quanto dura stavolta la sua prudenza.

Salvini, il profeta dei boomerang: Fassino trema!

Salvini is the new Fassino. Se l’ex leader (?) del centrosinistra è divenuto famoso per avere sbagliato ogni previsione possibile sul futuro politico di Beppe Grillo e 5 Stelle, il segretario della Lega ormai gli mangia (parecchio) in testa. Svuotare la squadra parlamentare di Forza Italia lo impegna il giusto, ma la sua capacità di lanciare profezie al contrario è davvero leggendaria. Il suo bacio della morte è oltremodo efferato. E dove passa lui non resta politicamente niente. Negli ultimi mesi, in particolare, Salvini è diventato una sorta di tragicomico sicario di se stesso. Ecco una carrellata delle sue cassandrate migliori.

Pieni poteri. Quando è all’apice della fama, e cioè dopo le Europee del 2019, arriva a credere sul serio di essere uno statista. Così, in un rigurgito di democrazia fraintesa, se la tira persino più del solito e chiede i pieni poteri. Avrebbe anche potuto ottenerli, solo che poi (per fortuna) si è disarcionato da solo in quella irresistibile baracconata del Papeete. Sarà solo il primo harakiri di una lunga serie. Daje Matte’.

Il povero Gattuso. Non contento di devastare la politica, Salvini si mette a pontificare pure sul Milan. In quel momento, in panchina, c’è Gattuso. Il Cazzaro Verde, dall’alto di una finissima conoscenza tattica desunta verosimilmente negli spogliatoi della Sagra del Rutto di Pontida, comincia a sindacare su schemi, verticalizzazioni e sostituzioni. Gattuso arriva giustamente a sfancularlo durante una memorabile conferenza stampa, ma questo non lo salverà dal nefasto “effetto Salvini”. Infatti, nonostante i buoni risultati, il Milan non lo confermerà in panchina. Matteo è così: un cecchino seriale di se stesso, solo che ogni tanto ci rimette pure qualche vittima collaterale.

Le martiri Borgonzoni & Ceccardi. Entrambe erano lanciate a bomba verso trionfi inusitati, addirittura la conquista dell’Emilia-Romagna e della Toscana. Mica niente. Salvini le segue in tutto e per tutto. Fa pure credere loro che la vittoria sia possibile. E quelle, poverine, ci cascano mani e piedi. Poi l’urna rivela l’esito infausto (per loro). E di Borgonzoni e Ceccardi non si sa più nulla. Son proprio scomparse dai radar. Una prece.

Sette a zero. Intervistato prima delle Regionali di settembre, Salvini non si accontenta di una vittoria ma prevede la goleada: 7-0 e vittoria ovunque. Anche in Campania, dove De Luca aveva già stravinto. Anche in Puglia, in Toscana, in Valle d’Aosta. Era proprio sicuro del trionfo storico. Se ne vantava già con gli amici. È finita 4-3. Per il centrosinistra. Fassino gli fa davvero una pippa (ops).

Non ci sarà una seconda ondata. L’ha ripetuto per tutta estate. Ha organizzato assembramenti, stretto mani, fatto selfie. Nessuno come lui, tra i politici, ha lavorato perché una seconda ondata fosse possibile. Ma lui niente. La riteneva impossibile, forse perché gliel’aveva detto Bassetti. O forse perché l’aveva studiato nel Manuale dei Quasi Virologi Padani. Sappiamo poi come sia andata. Ma stare zitto, ogni tanto, no?

Le discoteche sono sicure. Altra cassandrata tremenda, condivisa con altri geni (vagamente interessati all’argomento) come “Pantofola” Briatore e “Darth Vader” Santanchè. Le discoteche andavano aperte e i porti chiusi, perché le prime erano sicure e i secondi fonte di criminalità. Deliri allo stato brado, e il bello è che lui ci crede pure!

Viva Trump. Il giorno prima del voto, Salvini indossa una mascherina (e già questa è una notizia) con scritto “Trump”. Cafonata rara e puntualmente portasfiga, perché poi Trump perde (anche se tarda ad ammetterlo). Si racconta in giro che, nelle vite precedenti, Salvini abbia consigliato pure a John Fitzgerald Kennedy di andare sereno a Dallas nel ’63. Tenendo conto delle sue invidiabili qualità cassandriche, è auspicabile che Salvini nei prossimi giorni indossi mascherine inversamente beneauguranti tipo: “Bolsonaro continua così”, “Isis ti amo” o “Covid forever”. Sarebbe fantastico: il primo verrebbe disarcionato in un amen, il Daesh imploderebbe in un nanosecondo e il virus si suiciderebbe ancor prima del vaccino. Continua così, Matteo Salvini in Fassino!

Crociere, il fedelissimo della De Micheli dà il via libera al terminal di Marghera

Non è il Canale della Giudecca, ma un terminal a Marghera per le compagnie crocieristiche resta un’ipotesi migliore rispetto all’addio alla Laguna di Venezia auspicato da più parti, anche nel governo. Per questo, nell’ufficialità dei no comment, ha suscitato stupore e imbarazzo al ministero dell’Ambiente e ai Beni Culturali la decisione dell’Autorità portuale di Venezia del presidente Pino Musolino, facente capo al ministero dei Trasporti, di avviare i primi step verso quella soluzione mai condivisa. E di farlo a luci spente, mentre il mercato è in stallo per il Covid e dopo che a marzo l’esplosione dell’epidemia aveva rinviato sine die il cosiddetto Comitatone, il consesso delle istituzioni coinvolte chiamato a indicare il modo di ottemperare al divieto per le grandi navi di attraversare il bacino di San Marco e Giudecca per raggiungere la stazione marittima a Santa Marta. Un divieto che risale al 2012, rimasto per 9 anni lettera morta, facendo il gioco degli armatori. Oggi l’unica idea che abbia una certa maturità progettuale, avendo ottenuto almeno la Via, seppur con prescrizioni, è quella proposta dal gruppo siderurgico Duferco con l’ex ministro Cesare De Piccoli per un terminal a Bocca di Lido, appena fuori Laguna. Fumo negli occhi per le compagnie e per l’Autorità portuale, mentre la posizione ufficiale del Mit resta quella di un anno fa: utilizzo nel breve termine delle banchine commerciali di Marghera per ridurre i transiti a San Marco, in attesa di un accordo politico sulla soluzione di lungo periodo. Intanto, però, ecco il via libera alla progettazione di fattibilità tecnico economica del terminal a Marghera, su un’ex area industriale da bonificare, e l’inserimento nel piano delle opere dell’ente. È la soluzione individuata a fine 2017 dal governo Gentiloni, ma rimessa in discussione dai successori, con Sergio Costa e Dario Franceschini orientati a portare le crociere fuori Laguna. Secondo l’Autorità, per progettare un nuovo terminal crociere saranno usati fondi stanziati a fine 2019 dal Mit, che non ha sconfessato lo scatto in avanti. Del resto il feeling fra Paola De Micheli e Pino Musolino è saldo. A luglio Comune e Regione hanno bocciato il bilancio dell’Autorità portuale, ma la De Micheli ha nominato subito Musolino a commissario, ma i contrasti col governatore Luca Zaia e col sindaco Luigi Brugnaro rendono impossibile un secondo mandato. La De Micheli avrebbe già assicurato a Musolino la presidenza di Civitavecchia, il maggior porto italiano per le crociere.

Mafia, legittimo il divieto di rito di abbreviato

La Corte costituzionale salva la norma voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che impedisce di accedere al rito abbreviato, e quindi di avere automaticamente la pena scontata di un terzo, agli imputati per reati commessi dopo il 20 aprile 2019, che prevedono l’ergastolo: dalle stragi mafiose e terroristiche agli omicidi e sequestri di persona aggravati. La Corte ha dichiarato “non fondate” le questioni sollevate dai tribunali di La Spezia, Napoli e Piacenza. “La disciplina censurata – spiega la Corte – è espressione della discrezionalità legislativa in materia processuale, e non si pone in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), con il diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione), con la presunzione di non colpevolezza (articolo 27, secondo comma della Costituzione) né con i principi del giusto processo, in particolare con quello della ragionevole durata (articolo 111, secondo comma della Costituzione)”, come sostenuto, invece, dai giudici che hanno presentato ricorso.

Livatino, reddito di cittadinanza a familiari killer

I familiari di uno dei killer del giudice Rosario Livatino percepivano illecitamente il reddito di cittadinanza. Stiamo parlando di Giovanni Avarello, che il 21 settembre 1990 faceva parte del commando che tolse la vita al “giudice ragazzino”, crivellandolo di colpi nelle campagne agrigentine. Avarello è stato condannato in via definitiva a 7 ergastoli per associazione mafiosa e omicidio. Le fiamme gialle e la procura della Valle dei Templi, coordinata da Luigi Patronaggio, ha sequestrato 8 social card, ovvero le tessere prepagate che consentono di ottenere il reddito di cittadinanza, contestando agli indagati l’indebita percezione del sussidio statale e il falso in autodichiarazione. È la seconda fase dell’inchiesta, che già lo scorso settembre aveva permesso di sequestrare 11 social card, e che vede coinvolti 60 indagati. Secondo la stima e gli accertamenti fatti dalle fiamme gialle, che ha già segnalato all’Inps la revoca e il recupero del beneficio economico, la frode alle casse statali sarebbe di circa 110 mila euro.

Carceri, su 54 mila detenuti 782 positivi Bonafede: “Situazione sotto controllo”

Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dà i numeri dei contagiati nelle carceri, detenuti e agenti della polizia penitenziaria e dalle cifre fornite si capisce che non c’è alcuna situazione “fuori controllo” come sostenuto da Radicali, settori del sindacato di polizia penitenziaria e alcune associazioni per diritti dei detenuti. Intervistato da Giancarlo Loquenzi a Zapping, Radio 1, il ministro ammette che “l’impatto del Covid in un carcere è un problema serio e delicato, su cui la guardia deve rimanere altissima, ma vorrei che venissero forniti dati corretti”. Ed ecco gli ultimi numeri aggiornati a mercoledì sera: su una popolazione di circa 54 mila detenuti, quelli positivi sono “782, di cui 738 asintomatici e 44 sintomatici. Di questi, 21 sono ricoverati”. Più alto il numero dei contagiati fra i poliziotti penitenziari, che però vivono all’esterno: sono mille. Il ministro fornisce un altro dato significativo che serve a comprendere il fenomeno. “Soltanto in circa 12 istituti (15, ndr) ci sono oltre 10 casi su 190 penitenziari complessivi”. Ciò vuol dire, aggiungiamo noi, che nel 60% delle carceri, fortunatamente, non c’è neppure un caso di Covid. Bonafede ha fatto sapere che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, guidato da Dino Petralia e Roberto Tartaglia, “sta gestendo con una serie di protocolli questo delicato problema, in accordo con le autorità sanitarie territoriali”. E, a questo proposito, ha parlato di “145 tensostrutture” che hanno il compito di effettuare i tamponi ai neo detenuti: in attesa dell’esito, entrano in carcere e vanno in isolamento. Al conduttore che gli ha chiesto un commento su Giulia Bongiorno, che lo ha accusato di essere responsabile dei contagi nei tribunali, compreso il suo, Bonafede ha risposto con un consiglio all’ex ministra: “Auguro una pronta guarigione alla senatrice, che pur non essendo certa di dove abbia contratto il virus tende a darmi la colpa. Ma suggerirei di non fare entrare il Covid nelle polemiche politiche. Per prevenirlo negli uffici giudiziari abbiamo stanziato 25 milioni di euro e anche con azioni normative abbiamo favorito la digitalizzazione”. Ieri, il pg di Torino Francesco Saluzzo, preoccupato del rischio di scarcerazioni per decorrenza termini collegato all’emergenza Covid, ha lanciato una proposta: “Sospensione dei termini non solo per l’imputato che abbia un impedimento perché positivo, ma per tutti i coimputati detenuti nel medesimo processo”.

De Luca è la nuova Luciana Littizzetto

La fortuna aiuta gli squisiti. Forse fra’ Fabio Fazio ha trovato quel che ha perso Bianca Berlinguer, il suo Mauro Corona, vale a dire Vincenzo De Luca. I siparietti tra il governatore del buonismo televisivo e l’asso del politicamente scorretto stanno dando una botta di vita al salotto di Che tempo che fa, dove da anni gli unici guizzi sono quelli dei pesci rossi nell’acquario, e i doppisensi di Luciana Littizzetto hanno assunto un valore archeologico. Ormai fra’ Fazio potrebbe condurre il programma dal tinello di casa, visto che politici a parte – quelli si invitano da sé –, ospita giusto gli amici e i compagni di scuderia (non è l’unico, intendiamoci: i talk di destra aggrediscono gli avversari, quelli di sinistra li ignorano).

Ma allora se lo tenga da conto questo colpo di scena, questo fuoco amico, questo effetto “così vicini, così lontani”, brevettato con successo dai collegamenti Berlinguer-Corona. De Luca è potenzialmente il Messi dei talk sebbene lui se la cavi alla grande anche da solo, fuoriclasse della diretta Facebook. Potrebbe essere che ha scelto la sacrestia di Fazio proprio per l’effetto contrasto. Eccolo apparire sul megaschermo con quella postura alla Enzo Biagi, quelle pause alla Celentano, quel senso della scena alla Eduardo. Eccolo sparare a zero – ci sono delle nullità con cui non mi voglio nemmeno misurare, il razzismo di Di Maio, la lumachella De Magistris –, mentre osserva compiaciuto il suo intervistatore. Fra’ Fazio reagisce come un bignè improvvisamente intinto nel curaro, alza la guardia come un pugile sotto attacco, si volta di lato, aggrotta le sopracciglia, abbozza un sorrisetto di dissociazione. De Luca chiede all’interdetto fratacchione di impartirgli la sua benedizione; solo allora prova a reagire, come Bianchina con Corona, e qui può esserci la svolta. Se lo tenga da conto, Vincenzo De Luca, e lo metta in copertina fisso. Unica controindicazione, le comprensibili scenate di gelosia della Littizzetto.

Pur sconfitto, ormai Trump ha incrinato le nostre democrazie

Non è ancora finita. La tempesta non si placa. Donald Trump si attribuisce il merito dell’annuncio di nuovi vaccini e si predispone a ritirare il grosso delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, come promesso nel 2016.

Per comprendere cosa è in atto negli Stati Uniti (e di riflesso da noi), a oltre due settimane dalle elezioni presidenziali, concentriamoci sull’essenziale, occultato dai grandi media. Nelle principali democrazie occidentali e altrove, poche centinaia di persone posseggono una quota che varia dal 40 al 50% della ricchezza; i poverissimi restano tali con ulteriori danni derivanti dalla pandemia; tutti gli altri, la grande maggioranza dei cittadini elettori, continuano a perdere potere economico e anche politico, in proporzione ai propri introiti e averi. Quell’1% , che non è nemmeno tale, deve garantirsi uno status quo che non sia turbato dalla politica attraverso istituzioni, altrimenti dette democrazia, che potrebbero costituire strumento di emancipazione di maggioranze avverse. Perché ciò non avvenga, esse devono restare divise e occupate da partiti e persone che non abbiano volontà o velleità di maggiore eguaglianza, raggiungibile attraverso misure fiscali progressive, modelli di sviluppo eco-compatibili, rafforzamento dello stato sociale, riduzione delle spese militari.

Tale obiettivo, chiamiamolo conservatore, viene perseguito in due modi. Il modello prevalente negli ultimi decenni è stato quello di governi neoliberisti, di centrodestra o centrosinistra, con il comune rispetto per l’economia nella sua attuale configurazione, addomesticabili con la forza del denaro, attraverso finanziamenti illeciti o anche legali (si calcola che la campagna elettorale che si è appena conclusa negli Stati Uniti sia costata oltre 14 miliardi di dollari). La proprietà dei principali media può fare il resto, mentre apposite lobby somministrano pressioni settoriali. La candidatura di Joe Biden appartiene a questo primo modello, anche se deve fare i conti con una sinistra agguerrita all’interno del suo partito che ha avuto il merito di convincere il proprio elettorato prevalentemente giovanile a partecipare al voto, in nome del male minore. Effettivamente tale, perché la ricandidatura di Trump ha costituito una minaccia alle istituzioni e alle garanzie democratiche. Non è un caso che la Borsa, non soltanto statunitense, abbia subito festeggiato la vittoria di Sleepy Joe, che dovrà fare i conti con i contro-poteri di una Corte suprema iperconservatrice e, salvo sorprese, con un Senato a maggioranza repubblicana. Nello stesso tempo, Donald Trump adempie al ruolo di secondo modello politico. Come i suoi omologhi europei (Le Pen, Meloni…), egli ha svolto il compito essenziale di dividere la maggioranza dei cittadini che avrebbero interesse a modificare, se non a sovvertire, quei poteri. Lo ha fatto fomentando ogni possibile guerra tra poveri e meno abbienti, facendo tesoro della ferocia di coloro che, come nella Germania di Weimar, si vedono privati di una condizione piccolo borghese faticosamente acquisita.

Non vorrei avere buttato troppa acqua sui fuochi suscitati dalla vittoria di Biden e Harris. La vera buona notizia consiste nella capacità dimostrata di società e istituzioni statunitensi di sostituire un presidente oggettivamente sovversivo, contenendo tensioni senza precedenti, attraverso uno scontro elettorale autenticamente democratico. Tuttavia, anche se sconfitti, i Trump e le Le Pen servono a costringere forze alternative progressiste ad accettare il vecchio modello liberista; a votare i candidati che lo servono, come mali minori. Con la capacità residua, nel medio periodo, di continuare a costituire un pericolo per la democrazia, contribuendo alla diffusione di un modello autoritario che in anni recenti ha conquistato grandi Paesi quali l’India e il Brasile, mentre si profila l’egemonia mondiale della Cina, ove oligarchia finanziaria e politica coincidono.

 

Cybersicurezza, la Fondazione è necessaria: l’Italia si svegli

L’Italia è campione mondiale delle persone sbagliate nel posto sbagliato. Per una volta che c’è la persona giusta al posto giusto tutti gli danno addosso. È il caso di alcuni siti e giornali che se la prendono con il vicedirettore del Dis, Roberto Baldoni, professore universitario, informatico superesperto, per affossare senza argomenti la creazione della Fondazione per la Cybersicurezza. Prevista in un articolo della Finanziaria e scomparsa nel giro di una notte per l’opposizione di Italia Viva e Partito democratico, non si farà più, perdendo l’ennesima occasione di usare i fondi europei per investire nelle creazione di tecnologie nazionali e liberarci dalla morsa dei giganti d’oltreoceano che al momento giusto non è detto che faranno gli interessi del nostro Paese.

Fondazione per la cybersicurezza si doveva chiamare. Il nome italiano per la cybersecurity, sicurezza informatica, certo fa un po’ ridere, ma qui conta la sostanza, l’idea di un luogo capace di far collaborare tutte le componenti dello Stato – imprese, accademia, enti e istituzioni –, alla costruzione della cyber-difesa del Paese. Sul modello americano, tedesco e israeliano, come nei Paesi consapevoli che per supportare l’economia sanno che oggi bisogna proteggere le reti informatiche e tutti i propri asset digitali.

L’Italia non è così. La penisola colabrodo, territorio delle scorribande di gang informatiche russe, cinesi, iraniane, che vendono dati creditizi e passaporti falsi nel web profondo, spiano la Marina, intercettano conversazioni private e truffano i poveri cristi, avrebbe bisogno come il pane di una spinta alla digitalizzazione di reti e servizi mentre prepara i suoi giovani a difendere Made in Italy, banche e sicurezza nazionale. Ecco, questo Paese cronicamente in deficit di competenze nei settori ad alta tecnologia infila letterati nelle aziende aerospaziali, ragionieri nelle commissioni parlamentari che si occupano di difesa e sicurezza, sostituisce manager a getto continuo in aziende statali, ma poi evoca gli hacker per i disservizi del click-day, e premia le imprese parastatali che sub-appaltano le gare al 30 per cento della commessa iniziale. E tutto questo invece di aiutare le piccole-medie imprese italiane che con validi artigiani producono software eccellenti meritandosi i ringraziamenti di svizzeri, australiani e americani, come è successo a un’azienda padovana che ha scoperto il ransomware Emotet perfino tra i Navy Seals.

Il presidente Conte e il capo del Dis, Vecchione, amati, odiati, ostacolati, passano più tempo a difendersi dal fuoco amico che a immaginare un modello di Paese possibile. Anche se il progetto della Fondazione gli era addirittura precedente, dell’epoca di Gentiloni premier, riescono a fargli crollare addosso il fortino dell’Italia digitale. Tra il Conte-1 e il Conte-2 il Paese ha fatto passi da gigante nella cybersecurity, ha recepito le direttive Ue sulla sicurezza delle reti e delle infrastrutture, si è allineata ai dettami del Cybersecurity Act europeo e ha emanato la legge sul Perimetro Nazionale di sicurezza cibernetica che finalmente multa le aziende che non proteggono adeguatamente proprietà, clienti e utenti di servizi essenziali come banche, assicurazioni, trasporti, acqua, gas e luce. La Fondazione era il tassello mancante. Sostenere la ricerca, realizzare prodotti utili, certificati secondo le norme Ue, avviare servizi sicuri all’interno di un quadro regolatorio certo, con l’aiuto di privati e università era l’obbiettivo della Fondazione. Bersaglio mancato per le pretese di partiti da prefisso telefonico che una volta sbraitano contro il privato e quella dopo contro il pubblico. La commedia dell’arte nel Paese di Pulcinella è la grande attrazione del popolo bue. Quelli che sanno come è andata si ricorderanno di loro.