“Soldi da lobbisti? Sono leciti. Fango dai miei nemici nei 5S”

Giura di avere “la coscienza pulita” e teme che dietro al caso dei finanziamenti per le Europee ci siano i suoi “avversari interni al Movimento”. L’eurodeputato Stelle, Dino Giarrusso deve difendersi dall’accusa di aver preso soldi da persone legate alla società Bdl Lobbyng, circa 10 mila euro in due bonifici che supererebbero il limite consentito per le donazioni stabilito dal vademecum M5S per le Europee 2019. Ieri poi un articolo di Repubblica ha raccontato di un appalto finanziato dal Cnr alla Irmb, azienda che ha finanziato Giarrusso, nel periodo in cui lui era nello staff del sottosegretario all’Istruzione Lorenzo Fioramonti.

Dino Giarrusso, lei sapeva di quell’appalto?

È una insinuazione vergognosa e infame, di cui Repubblica risponderà in tribunale. Da segretario particolare di Fioramonti mi occupavo solo di comunicazione e concorsi. A cinque giorni dal mio insediamento, il Cnr, ente autonomo, valuta un finanziamento ottenuto nel 2016 – quando facevo la Iena – da una società di Piero Di Lorenzo. Ero appena arrivato al Miur, facevo tutt’altro e non sapevo nemmeno dell’esistenza né di Di Lorenzo né della sua azienda. Né avevo idea di ciò che faceva il Cnr, per il quale non ho mai lavorato. È una fake news vergognosa che qualifica chi l’ha prodotta.

Però lei poi ha ricevuto soldi da lobbisti legati a quella azienda.

No, è falso, non ho mai preso soldi dalle lobby. Ho avuto contributi da due persone fisiche, mai da società di lobby. Una delle due, Ezia Ferrucci, non la conoscevo, ho deciso di accettare il suo aiuto dopo aver verificato che aveva già finanziato il M5S nel 2018.

È normale verificare il rapporto tra i politici e i propri finanziatori.

Certo. Ma io non ho mai avuto più alcun contatto con questa persona. Non mi ha mai cercato, non ho neanche il suo numero. Si è creato un caso che non esiste.

Nel vostro regolamento c’era scritto di non accettare più di 3 mila euro.

Ho rispettato Statuto e Codice Etico. Nel vademecum, che non è un atto normativo, c’è una contraddizione: prima scrive che non si possono ricevere finanziamenti superiori ai 3 mila euro, poi che è obbligatorio rendicontare i finanziamenti oltre i 3 mila euro. È stata una mia leggerezza non chiederne conto.

Restituirà i soldi?

Sono disponibilissimo a riparare in ogni modo. Al momento però non c’è nessuna istruttoria aperta dai probiviri nei miei confronti.

Ci saranno conseguenze sul suo coinvolgimento nella segreteria M5S?

Ho la coscienza pulita e trovo incredibile anche solo pensare che un caso fondato sul nulla possa avere conseguenze. Sarebbe un affronto vergognoso alle migliaia di attivisti che hanno fiducia in me.

La ritiene una manovra dei suoi avversari?

Non voglio crederlo, ma mi addolora il clima di accuse, insulti e divisioni. Quattro miei colleghi a Bruxelles (vicini a Di Battista e in uscita dal M5S, ndr) hanno violato ripetutamente lo Statuto, ma sono sempre stato zitto per amore del M5S. È assurdo che proprio loro chiedano la mia espulsione. Certe schifezze fanno venire cattivi pensieri.

Tre di FI strappano e vanno nella Lega. Meloni: retromarcia sulla regola pro B.

Matteo Salvini sa bene come far irritare, se non proprio infuriare, Silvio Berlusconi. Toccandogli le sue due creature: Mediaset e Forza Italia. E allora, nel ginepraio impazzito del centrodestra, accade che in due giorni il leader del Carroccio rifili un “uno-due” al veleno in direzione Arcore: prima mercoledì mattina la Lega prova a bloccare di nuovo la norma salva-Mediaset presentando una pregiudiziale di incostituzionalità al decreto Covid in commissione Trasporti alla Camera arrivando perfino a difendere il francese Vivendi pronto a scalare il Biscione, poi ieri all’ora di pranzo tre deputati forzisti – Laura Ravetto, Maurizio Carrara e Federica Zanello – passano in quattro e quattr’otto da Forza Italia alla Lega ché “il partito è troppo schiacciato sul governo Conte”.

Due segnali inequivocabili, due missili per provare a sabotare la trattativa e gli ammiccamenti di Berlusconi, per interposto Gianni Letta, con il Nazareno per scrivere insieme la legge di bilancio e, chissà, allargare la maggioranza. Salvini e Giorgia Meloni lo avevano già avvertito lunedì sera, nella riunione via zoom, di non “fare giochetti” con il governo e di “prendere le distanze da Conte”.

Ma niente, gli ammiccamenti sono continuati e le telefonate con Zingaretti e i suoi pure (“Salvini si è sentito preso in giro”). E allora, dice un deputato leghista, “bisognava dare a Berlusconi una legnata”. Anzi, due. Condite da dichiarazioni al vetriolo dalle prime ore del mattino. Salvini va in radio e spara: “Berlusconi è ambiguo con il governo e non voglio pensare a scambi politici e aziendali, ma un pezzo di Forza Italia pensa all’inciucio”. “La giornata è ancora lunga” sospira un big di Forza Italia. E così è. A pranzo Laura Ravetto, per mesi data vicina alla Lega, scrive sulla chat dei deputati: “Ciao ragazzi, me ne vado” prima di postare sui social un selfie entusiasta con Salvini. La seguono la veronese Federica Zanella e l’imprenditore fiorentino Maurizio Carrara che, racconta Carlo Calenda, nelle scorse settimane si era avvicinato ad “Azione” accusando il proprio partito di farsi “comandare da Salvini”. “Alla faccia della riconoscenza” replica Marta Fascina, deputata e nuova compagna di Berlusconi.

La guerra fratricida nel centrodestra continua: da FI parte il contrattacco con Tajani e i colonnelli – Ronzulli, Gasparri, Bernini e Cangini – che fanno muro spiegando a Salvini che “non c’è nessun inciucio, restiamo all’opposizione”. Ma se Giorgia Meloni, che ha il compagno che lavora a Mediaset, fa sbianchettare il riferimento all’articolo 4-bis (quello salva-Biscione) nella pregiudiziale di incostituzionalità presentata da FdI (“Volevamo evitare equivoci, voteremo sì” precisa il capogruppo Francesco Lollobrigida), Salvini continua ad assestare colpi su colpi. Dopo aver fatto saltare il vertice a tre per decidere le candidature del centrodestra nelle città, rispunta il rimpasto nella giunta lombarda per cacciare l’assessore di FI, Giulio Gallera, di cui oggi Salvini parlerà con i consiglieri leombardi. Zero contatti con Arcore, il gelo. Chi ha parlato con Berlusconi lo definisce “sorpreso” e “amareggiato”. E così in serata arriva la nota: “Non entreremo in maggioranza ma il centrodestra senza FI non esiste, basta meschinità sui favori a Mediaset” scrive Berlusconi. Ma Salvini è furioso: “E non è finita qui, il processo è solo iniziato…” dicono i suoi. Un’altra decina di parlamentari sono pronti a passare da Forza Italia alla Lega.

Patuanelli: “Norma Mediaset fatta al Mise per sentenza Ue”

Le carte verranno scoperte già mercoledì al Senato quando è in programma un ulteriore voto sullo scostamento di bilancio che richiede una maggioranza qualificata, numeri più grandi di quelli a disposizione dei giallorossi.

“In quella sede si capirà la sostanza della collaborazione offerta da Silvio Berlusconi al governo che tanto lo sta facendo litigare con gli alleati di centrodestra. Da cui speriamo, inutile negarlo, di staccarlo” confessa un autorevolissimo esponente del Pd rilanciando gli auspici del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori. E facendo eco al capogruppo Marcucci convinto che vi siano tutte le condizioni per avviare il dialogo con Forza Italia. Ma si cammina sulle uova perché il Movimento 5 Stelle ha paura di compromettersi, tanto che Luigi Di Maio ha postato su Fb un vecchio articolo di quando il Cavaliere lo chiamò al telefono e lui si negò: “Era così allora, è così oggi”. Insomma – giura – amici mai, specie ora che i sospetti di inciucio si addensano sui pentastellati per via dell’emendamento pro-Mediaset.

“È una norma che ha origine governativa, lavorata dal ministero dello Sviluppo economico, da me personalmente, in collaborazione con il ministero dell’Economia e delle finanze” ha dovuto precisare il ministro Stefano Patuanelli dopo il pressing del Pd che per allontanare da sé i sospetti, ha preteso che ne chiarisse la paternità. Il grillino Patuanelli l’ha fatto pur negando che si tratti di una norma ad aziendam.

Che comunque ha messo di fronte a un bivio Forza Italia, spaccata al suo interno tra chi minaccia di andarsene, come hanno fatto ieri in tre, compresa Laura Ravetto, per salire sul carro della Lega. E chi non ne può più di Matteo Salvini e non vede l’ora di rompere le catene dalla morsa sovranista, come quella vecchia volpe azzurra di Osvaldo Napoli. Convinto che ormai Silvio Berlusconi abbia capito che inseguire il pifferaio del Carroccio non porta da nessuna parte se non all’estinzione. E che invece pur dall’opposizione il partito debba tornare a essere al centro della scena. “Quello che in Italia chiamano inciucio, in Europa la chiamano alleanza” dice stufo di doversi giustificare con la Lega che accusa gli azzurri di ambiguità e che è arrivata al punto di cannoneggiare l’emendamento che fa tanto fa gola al Cavaliere, pur di farlo rientrare nei ranghi. Ma i segnali che voglia smarcarsi sono tanti, compresa l’idea di far decollare una bicamerale dell’emergenza con la benedizione del Pd: la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama presieduta dal Dario Parrini lavora a ritmo battente sulla proposta dell’azzurro Nazario Pagano, responsabile ante litteram. Che già a maggio aveva pensato che fosse necessario un luogo, un’agape fraterna dove maggioranza e opposizione potessero far recuperare al Parlamento centralità di azione rispetto al governo.

Proposta su cui invece mette le mani avanti il leghista Roberto Calderoli. Che i riti di Palazzo, compresi gli annusamenti reciproci che spesso precedono le intese, li conosce meglio di chiunque altro: in attesa di capire se Salvini confermerà la linea dell’Aventino, ha liquidato l’idea così. “Se il Parlamento non è riuscito a toccare palla sui Dpcm, come pensa di riuscirci una bicamerale?”.

Intanto però il progetto è in fase avanzata dopo le audizioni dei costituzionalisti Clementi, Azzariti, Onida, Luciani, Cheli, De Siervo, Villone, Violante (solo per citarne alcuni). Restano da sciogliere alcuni dettagli: ci si rifarà al modello del Copasir? E se sì con quali poteri e quali obblighi di trasparenza? Questioni grandi e minute, che interessano il giusto a chi punta a un’intesa che possa fare da incubatore del dialogo con l’opposizione. Se non tutta almeno quel pezzo che serve come assicurazione sulla vita della maggioranza. Ché l’emergenza è ancora lunga e la legislatura pure.

Corrotti, evasori fiscali e collusi: le “energie migliori” di Silvio&C.

In questo periodo di grande fermento e frettolose riabilitazioni, vale la pena ricordare di cosa parliamo quando parliamo di Berlusconi e dei suoi sodali. Il partito del Cavaliere resterà negli annali per il numero record di scandali, inchieste, processi, condanne e a volte collusioni con il potere mafioso. Le “energie migliori” di Forza Italia, per citare le parole del dem Goffredo Bettini, non è chiaro quali siano. Le figure peggiori invece si possono elencare in una sorta di “top 30” con i protagonisti dei disastri giudiziari azzurri (e restano fuori decine di nomi).

In testa ovviamente c’è lui, Silvio Berlusconi, un curriculum mastodontico, culminato con la condanna definitiva per frode fiscale. Al suo fianco Marcello Dell’Utri (concorso esterno in associazione mafiosa) e Cesare Previti (corruzione in atti giudiziari). E poi gli altri: lo squadrone dei condannati di Forza Italia ha la consistenza di un esercito. Denis Verdini, Amedeo Matacena, Giuseppe Scopelliti, Salvatore Cuffaro, Roberto Formigoni, Gianni Alemanno, Aldo Brancher, Nicola Cosentino, Alfredo Vito, Augusto Minzolini, Sergio De Gregorio, Francantonio Genovese, Nicole Minetti, Renato Farina, Claudio Scajola, Gianstefano Frigerio, Alfonso Papa, Salvatore Sciascia, Paolo Romani, Vittorio Sgarbi, Michele Iorio, Ugo Cappellacci, Antonio Azzollini, Massimo Maria Berruti, Vincenzo Nespoli, Antonio Del Pennino, Domenico Auricchio. I magnifici 30.

Marcello Dell’Utri

7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa

Cesare Previti

6 anni per corruzione in atti giudiziari

Denis Verdini

6 anni e mezzo per il crac del Credito fiorentino

Roberto Formigoni

5 anni e 10 mesi per corruzione

Amedeo Matacena

5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa

Salvatore Cuffaro

7 anni per favoreggiamento verso membri di Cosa Nostra

Giuseppe Scopelliti

4 anni e 7 mesi per falso in atto pubblico

Gianni Alemanno

6 anni (in appello) per corruzione

Augusto Minzolini

2 anni e 6 mesi per peculato (spese con la carta della Rai)

Aldo Brancher

2 anni per ricettazione e appropriazione indebita

Nicola Cosentino

4 anni per la corruzione di un agente carcerario

Sergio De Gregorio

Ha patteggiato 20 mesi di carcere per corruzione

Francantonio Genovese

6 anni e 8 mesi (in appello) per peculato e truffa

Nicole Minetti

2 anni e 10 mesi per favoreg-giamento alla prostituzione

Claudio Scajola

2 anni (in primo grado) per aver favorito Matacena

Renato Farina

2 anni e 8 mesi per falso in atto pubblico

Vincenzo Nespoli

8 anni (in primo grado) per bancarotta e riciclaggio

Alfredo Vito

2 anni (patteggiamento) per reati contro lo Stato

Ora il governo di Abuja vuole 1,7 miliardi da Jp Morgan

Lo Stato della Nigeria contro Jp Morgan. Effetto collaterale della controversia che oppone da anni il Paese africano a Eni e Shell, le due compagnie petrolifere sotto processo a Milano per corruzione internazionale, con l’accusa di aver pagato nel 2011 una tangente da 1,3 miliardi di dollari per ottenere la licenza d’esplorazione dell’immenso campo petrolifero Opl 245, al largo delle coste nigeriane.

Ora l’Alta corte di giustizia di Londra ha stabilito che lo Stato nigeriano può chiamare in giudizio nel Regno Unito la banca americana, da cui pretende 1,7 miliardi di dollari. Il processo inizierà a Londra nel novembre 2021.

La Repubblica federale della Nigeria lo chiedeva dal 2017, sostenendo davanti ai tribunali inglesi di essere stata danneggiata da Jp Morgan. Nel 2011, infatti, Eni versò, anche per conto di Shell, 1 miliardo e 92 milioni di dollari su un conto Jp Morgan a Londra aperto dal governo nigeriano allora in carica. Non un dollaro arrivò però nelle casse dello Stato, perché la banca subito dopo permise che quei soldi fossero girati ad altri conti privati, tra cui quello della società Malabu, riferibile all’ex ministro nigeriano del petrolio, Dan Etete. Per questi fatti, la Procura di Milano sta processando Eni, Shell e i suoi manager di vertice (tra cui l’amministratore delegato Claudio Descalzi) per corruzione internazionale. Ora la Nigeria accusa di negligenza Jp Morgan e chiede di sapere i nomi di chi nella banca prese la decisione di trasferire i fondi. Pretende il rimborso degli 875 milioni di dollari che furono girati in tre rate a Etete, più gli interessi, che fanno lievitare la somma a 1,7 miliardi.

Nel processo di Milano, arrivato alle arringhe finali, la Nigeria ha già chiesto a Eni e Shell il pagamento di 1,092 miliardi di dollari, finiti nelle tasche dei politici nigeriani invece che nelle casse dello Stato, e la confisca della stessa cifra, definita dall’accusa il “prezzo della corruzione”. Eni ha sempre ribadito la correttezza dei suoi comportamenti, sostenendo di non essere responsabile dei passaggi di denaro successivi al suo pagamento a Londra del 2011.

Eni, quote in Congo per nascondere tangenti

Non c’è solo la mega-tangente da oltre 1 miliardo di dollari che Eni, secondo la Procura di Milano, avrebbe pagato in Nigeria: su questo il processo milanese sta per giungere alle ultime battute. I pm stanno per concludere anche l’inchiesta sugli affari della compagnia petrolifera in Congo. La vicenda – ricapitolata ora in un rapporto, Il caso Congo, della ong Re:common – inizia nel 2013, quando il dittatore locale, Denis Sassou Nguesso, vara una direttiva per far entrare le società del Congo-Brazzaville nel mercato petrolifero.

Al rinnovo delle concessioni, Eni e Total sono obbligate a cedere quote a compagnie locali. Non alla società pubblica, Snpc, che pure esisteva, ma ad aziende private. Guarda caso, ne esisteva una sola: Aogc (Africa Oil and Gas Corporation), fondata nel 2001 da Denis Gokana.

È una società-paravento di Nguesso, il cui gruppo controlla tutti gli affari del Paese africano. Gokana, per anni alla guida della compagnia statale Snpc, era poi diventato consigliere speciale di Nguesso per le questioni petrolifere. E due soci di Aogc sono pubblici ufficiali in Congo: Lydie Pongault è consigliere di Nguesso per la cultura; Dieudonné Bantsimba è capo di gabinetto del ministero del Territorio.

Nel 2013, dunque, a Eni sono rinnovate quattro licenze estrattive nei campi petroliferi Marine VI e Marine VII (valore: 400 milioni di dollari). Contestualmente, la compagnia italiana coinvolge una società locale, come imposto dalle nuove regole, cedendo quote comprese tra l’8 e il 10 per cento (valore: 59 milioni) alla Aogc. A sua volta, Aogc cede il 23 per cento di un altro giacimento, Marine XI (valore: 23 milioni), a un’impresa sconosciuta: Wnr, World Natural Resources. Tenete a mente questo nome: sarà importante in questa storia.

Due anni dopo, nel 2015, lo schema si ripete: Eni ottiene, insieme a Total, il rinnovo del permesso di esplorazione Secteur Sud, ma diluendo le sue quote azionarie, cedute ad aziende indicate dal governo congolese, tra cui l’immancabile Aogc.

Il 6 luglio 2017, scoppia il caso internazionale: la Procura di Milano notifica un avviso di garanzia per corruzione internazionale in Congo a Eni e a un suo manager di vertice, Roberto Casula, Chief Development Operations & Technology Officer, in pratica il numero due operativo dell’amministratore delegato Claudio Descalzi.

Qual è l’ipotesi d’accusa? Che Eni, per ottenere i rinnovi dei permessi petroliferi, abbia pagato mazzette (sotto forma di quote azionarie) a pubblici ufficiali congolesi legati a Nguesso, nascosti dietro Aogc. Come abbiamo visto, almeno due dei soci dell’azienda, Lydie Pongault e Dieudonné Bantsimba, sono pubblici ufficiali in Congo. Ma su Aogc aleggia, secondo la Procura di Milano, addirittura l’ombra del presidente Nguesso.

Finito il tempo delle buste o delle valigette piene di banconote, e anche dei versamenti su conti esteri, le tangenti postmoderne diventano quote di società: quelle cedute da Eni ai congolesi.

Non solo: secondo i pm milanesi Paolo Storari e Sergio Spadaro, una parte delle mazzette pagate da Eni è tornata nelle tasche di alcuni suoi manager: sempre in quote societarie. Ricordate la Wnr? È il tramite per la “retrocessione di una parte della tangente”, scrivono Storari e Spadaro. Infatti la società è riconducibile ad Andrea Pulcini (al 49,9%), Alexander Haly (al 25%) e Maria Paduano (al 25%). Tutti “soggetti collegati a Eni spa”, annotano i pm.

Pulcini è, dal 1994 al 2005, direttore generale di Agip Trading Services Uk, società londinese di Eni. Paduano è, secondo i magistrati, prestanome di Casula: firma nel marzo 2016 il preliminare d’acquisto di un attico da 200 metri quadri nel centro di Roma, valore dichiarato 1,1 milioni di euro; nel giugno del 2017 cede il preliminare a Casula, che diventa proprietario del superattico. Tre mesi dopo, Paduano viene assunta dall’Eni.

Che Wnr sia di Casula è provato, secondo i pm, anche da alcune email sequestrate dalla Procura di Milano. In una, “Marinù” Paduano scrive a un avvocato: “Non fare menzione del fatto che sono un prestanome”. L’avvocato conferma: “Marinù mi disse che era solo una prestanome (…) così le aveva chiesto Casula”. La donna è ancora dipendente Eni, mentre Casula si è autosospeso dall’incarico dopo le perquisizioni subite nella primavera del 2018. E Haly? È il personaggio che ci fa entrare in casa Descalzi. Uomo d’affari britannico con base a Montecarlo, Haly è fino al 2014 socio (al 33%) della moglie di Claudio Descalzi, Marie Madeleine Ingoba detta Madò, che detiene il restate 66% della società lussemburghese Cardon Investment, che controlla il gruppo olandese Petroserve Holding, di cui fa parte Petro Services Congo, oltre ad altre società gemelle che operano in Gabon, Ghana, Mozambico. Negli ultimi anni hanno incassato da Eni almeno 300 milioni di dollari, per servizi logistici e affitto di navi.

Un insuperabile conflitto d’interessi, che Madò ha tentato di sciogliere vendendo (l’8 aprile 2014, sei giorni prima che Descalzi fosse designato amministratore delegato di Eni) la sua quota di Cardon a Haly; e Descalzi dicendo di non sapere nulla degli affari della moglie. I due sono stati comunque iscritti dalla Procura di Milano nel registro degli indagati, per omessa comunicazione di conflitto d’interessi. E la signora Ingoba anche per corruzione internazionale.

Natali in Congo, studi a Parigi, affari in giro per il mondo, Madò fa parte del gruppo di potere stretto attorno al presidente congolese Sassou Nguesso. È socia di sua figlia, Julien Sassou Nguesso, nella African Beer Investment Ltd, registrata all’isola di Mauritius.

Il marito Descalzi, già imputato di corruzione internazionale nel processo Eni-Nigeria e nell’aprile 2020 riconfermato dal governo Conte alla guida della compagnia, ripete come un mantra di non sapere nulla degli affari della moglie.

Ma che cosa è peggio, per un manager internazionale: nutrire un conflitto d’interessi in casa, o non accorgersi di quello che gli capita sotto il naso?

La Spa dei pozzi era sospetta: il colosso sapeva

Nel 2011, dopo che un controllo interno (due diligence) aveva rilevato delle criticità sui beneficiari finali della Aogc, Eni rifiutò di diventare partner dell’impresa congolese nel giacimento Marine XI. Eppure, solo due anni più tardi, la compagnia italiana è entrata in società con la stessa Aogc in altre due concessioni, Marine VI e Marine VII. Quelle finite al centro dell’inchiesta giudiziaria in corso per corruzione internazionale.

La novità, che stride con la versione finora tenuta da Eni, è contenuta in una rogatoria inviata dalla Procura di Milano alle autorità giudiziarie del Principato di Monaco lo scorso 26 febbraio 2018. Lettera che resta ancora morta: gli uomini della Guardia di finanza sono già andati a Montecarlo insieme alle autorità locali a perquisire gli uffici della Petro Service e del suo titolare, Alexander Haly, l’ex socio d’affari della moglie di Claudio Descalzi, grande fornitore di Eni, ma a quasi tre anni dalla rogatoria il Principato non ha ancora inviato alla Procura di Milano il materiale sequestrato.

Motivando la richiesta ai colleghi monegaschi, i magistrati italiani segnalano di aver scoperto, attraverso alcuni documenti e la testimonianza di un ex dirigente della filiale di Eni in Congo, che già nel 2011 era stata fatta una due diligence su Aogc per una possibile partnership nel Marine XI.

È proprio il giacimento nel quale alla fine entrerà la Wnr, la società di Casula, Paduano, Haly e Pulcini, quella che secondo i magistrati è stata usata per la “retrocessione di una parte della tangente”. Nel 2011, però, Eni disse di no alla società fondata da Gokana, “a causa delle red flags segnalate nel rapporto di due diligence”. Finora Eni non aveva mai parlato pubblicamente di una verifica effettuata nel 2011 su Aogc, e con esito negativo. Nell’assemblea dei soci del 2018, la società aveva citato solo due controlli interni sulla società congolese, uno del 2013 e uno del 2015, entrambi positivi. Contattata per un commento, Eni ha ammesso la “due diligence svolta nel 2011 su Aogc”. La società ha spiegato di non averla finora citata perché “riportava dati errati sulla proprietà della stessa Aogc: ne furono fatte in seguito altre due, nel 2013 e nel 2015, con il supporto di una società esperta specializzata, che fornirono un quadro più chiaro, oggetto di valutazione favorevole a procedere nelle operazioni interessate”.

Che Aogc fosse una società molto vicina al regime congolese si poteva desumere da vari fattori. Innanzitutto perché a fondarla è stato Denis Gokana, consigliere speciale per le questioni petrolifere del rais Sassou Nguesso, ma non solo. Una sentenza del 28 novembre del 2005 dell’Alta corte di giustizia inglese ha stabilito che in un paio d’anni il governo del Congo ha trasferito sui conti della Aogc e di altre società riconducibili a Gokana almeno 472 milioni di dollari: soldi usati per acquistare dall’azienda di Stato Snpc, guidata per anni sempre da Gokana, petrolio a prezzi molto più bassi di quelli di mercato, e poi rivenderlo a trader indipendenti incassando laute plusvalenze.

Inoltre, secondo un rapporto dell’ong britannica Global Witness, la Aogc è stata usata come bancomat personale del figlio del dittatore per uno shopping da 250 mila euro a Parigi.

Nonostante queste credenziali, come detto Aogc è diventata partner di Eni nel 2013 nelle concessioni Marine VI e Marine VII. E continua a esserlo. Per questo motivo i pm Sergio Spadaro e Paolo Storari lo scorso settembre hanno fatto richiesta al gip Sofia Fioretta di interdire la produzione di petrolio in quelle due concessioni. La società ha sempre ribadito “di non essere in alcun modo coinvolta in presunte attività corruttive legate alle licenze congolesi citate”.

Veneto e Lazio: la vera storia dei Dpi mai arrivati

Qual è la vera storia delle mascherine fantasma, comprate ma mai arrivate alla Regione Lazio di Nicola Zingaretti e alla Regione Veneto di Luca Zaia? Mentre la Procura di Roma prosegue le indagini, ora una sentenza svizzera aiuta a fare luce sulla vicenda. Ad aprire le danze nella Confederazione è stato Massimo Pulin, titolare della Orthomedica di Padova, nonché presidente di Confapi Sanità. Orthomedica, per fornire mascherine alla Regione Veneto e ad altri, durante la prima ondata Covid ne ordina grossi quantitativi a una società di Lugano, Exor, controllata da un imprenditore, Paolo Balossi, che ha a Milano la sede della sua holding, Bi International. Pulin paga, come accade in questi tempi d’emergenza, in anticipo: 575 mila euro il 3 marzo, 870 mila il 5 marzo. Le mascherine però non gli arrivano. Denuncia dunque per truffa la società di Balossi in Svizzera, presso il ministero pubblico di Lugano. Lo denuncia anche per aver presentato un certificato Sgs falso (il documento che attesta l’esistenza della merce). Il procuratore pubblico di Lugano, Francesca Piffaretti-Lanz, svolge l’indagine per truffa e per riciclaggio, fa perquisire Balossi, lo interroga, gli sequestra i conti bancari presso la Bps Suisse. In poche settimane arriva però a conclusioni opposte: niente riciclaggio e niente truffa. Ritiene convincenti le spiegazioni di Balossi e le prove che ha portato a Lugano. La sua Exor, per fornire le mascherine a Pulin e ad altri, le aveva ordinate sul mercato internazionale, ma le forniture erano state bloccate in dogana in Bulgaria e in Malesia: la merce era stata in parte addirittura sequestrata, “perché ogni Stato aveva interesse a mantenere all’interno dei propri confini il materiale sanitario, vista l’emergenza”.

Nell’impossibilità di rifornire i clienti, il titolare della Exor compie allora due mosse. La prima: va a Padova e firma un accordo transattivo con Pulin, versandogli 1,186 milioni in restituzione di gran parte dei soldi anticipati da Orthomedica. La seconda: ordina di nuovo le mascherine che erano state bloccate alle frontiere e che non aveva potuto consegnare né al cliente Ecotech (per la Regione Lazio), né al cliente Orthomedica (per la Regione Veneto). Trova sul mercato un’azienda di Taranto che promette di fornirle rapidamente: la International Biolife, a cui Balossi ordina 10 milioni di pezzi. Qui la vicenda si annoda. Le mascherine non arrivano e Biolife presenta il certificato Sgs falso: quello che viene poi esibito dalla Ecotech alla Regione Lazio e da Exor a Orthomedica per la Regione Veneto. Partono le inchieste giudiziarie. Balossi viene interrogato dalla Procura di Roma il 26 maggio, sulle mascherine fantasma ordinate dalla Regione Lazio. Spiega di aver ricevuto il falso certificato dalla Biolife e di ritenersi lui truffato dai broker di Taranto, che hanno preso i soldi dell’anticipo ma non gli hanno consegnato la merce. Per le mascherine della Regione Veneto, va a farsi interrogare dal procuratore pubblico di Lugano il 29 maggio. Anche qui spiega di aver ordinato due volte il materiale e di non aver mai ricevuto le mascherine malgrado i pagamenti già effettuati. Per finire, Balossi denuncia la Biolife per il certificato falso alla Procura di Milano, che manda la denuncia alla Procura di Taranto. Il ministero pubblico elvetico proscioglie Balossi dalle accuse di riciclaggio e truffa. Bacchetta invece Pulin, a cui contesta la “denuncia mendace” e l’“inganno astuto”: perché ha denunciato Balossi per truffa mentre contemporaneamente raggiungeva un accordo transattivo con lui. Prosegue il filone italiano della Procura di Roma: nel mirino resta la Biolife di Taranto.

La Moncler, “il Giornale” e i progetti medici fantasma

Moncler conferma i 2 milioni per il progetto di medicina di prossimità e dalle colonne de il Giornale annuncia che ne investirà 8 per programmi sanitari da individuare col Pirellone. È la nuova puntata della vicenda “Donazione Moncler”, il tortuoso percorso seguito dai 10 milioni che la società aveva donato sul conto della Regione nel marzo scorso per l’Ospedale in Fiera. Soldi inutili – per l’Astronave furono sufficienti i 21 milioni raccolti da Fiera –, tanto che il Pirellone il 22 ottobre aveva chiesto a Moncler di trasformare la “donazione modale” (cioè vincolata a uno scopo specifico) in donazione semplice, permettendogli così di usarli per “altre iniziative emergenziali”. Richiesta rifiutata da Moncler, come si legge dalla delibera del 9 novembre che ha sancito la riconsegna dell’assegno alla società dei piumini. Allo stesso tempo, però, Moncler annunciava di essersi accordata col Pirellone per finanziare 15 mezzi destinati alle Usca per 2 milioni. Sui restanti 8 l’ad Remo Ruffini non aveva detto nulla.

Ieri, dopo che il Fatto ha raccontato la vicenda, il colpo di scena: Moncler svela al Giornale che anche il resto dei soldi andrà pro bono. I fondi saranno usati per creare “due Centrali Covid”, che “fungeranno da ponte tra persone con sintomi Covid, medici di medicina generale e le Centrali di sorveglianza dell’Asst”. E indica in Niguarda e Asst Nord Milano gli ospedali coinvolti. Raggiunta dal Fatto per avere maggiori dettagli, Moncler ha ribadito l’impegno a usare tutti i 10 milioni, ma per i progetti ha invitato a “confrontarsi con Regione Lombardia”. Anche con i due ospedali non è andata bene: l’Asst Nord Milano non ne sapeva nulla; Niguarda si è schermata dietro a un “il progetto è in capo ad Ats Città Metropolitana di Milano”; infine l’Ats, interpellata, non ha risposto. Insomma nessuno sa nulla o vuole spiegare un’operazione che appariva già molto ben delineata nell’articolo del Giornale. Stupiti si sono detti i sindacati: “È la prima volta che ne sento parlare – dice Isa Guarneri, segretaria Fp Cgil Milano – e mi chiedo con quale personale pensino di poter attivare il servizio”. In realtà, dal 13 novembre Niguarda ha già attivato un progetto simile: è il “Monitoraggio territoriale dei pazienti Covid” ed è gestito da quattro infermieri, personale della Regione. E i dubbi dei sindacati non riguardano solo le “Centrali Covid”: lo stesso “Piano Usca” (quello da 2 milioni) pone più di un interrogativo, perché mancano i sanitari. Del resto, se medici e infermieri ci fossero, non si comprende perché il Pirellone non li abbia già attivati, visto che in Lombardia operano solo 44 Usca invece delle 200 previste e già finanziate.

La donazione è stata elargita da Moncler a marzo, restituita dal Pirellone a ottobre e quindi ri-devoluta da Moncler a novembre. L’opposizione chiede chiarezza sull’intera gestione dei 59 milioni raccolti da Regione Lombardia (la rendicontazione arriverà solo “alla fine dello stato d’emergenza sanitario”, sostiene il Pirellone). Intanto 39 sono stati incamerati dalla Regione che però non può usare anche i 20 rimanenti, perché vincolati per la Fiera. Tolti i 10 di Moncler, ne restano 10 congelati. E mentre Fontana traccheggia, gli ospedali collassano. L’ultimo allarme è la lettera firmata da 50 medici degli ospedali Santi Carlo e Paolo di Milano, nella quale si esprimeva “il fermo dissenso verso una politica che ci impedisce di esercitare la nostra professione in scienza e coscienza, soprattutto a causa della carenza di mezzi tecnici e umani indispensabili nel frangente in cui ci troviamo a operare”. E aggiungono: “In assenza di queste risorse critiche, ci vediamo costretti a operare scelte relative alla possibilità di accesso alle cure, che non sono né clinicamente né eticamente tollerabili”.

Un’altra giravolta di De Luca sulla scuola: non si riapre più

La Campania è stata l’ultima regione ad aprire le scuole, il 24 settembre. È stata la prima a chiuderle quando l’Italia non era ancora divisa in colori sul rischio Covid. Le ha lasciate tutte chiuse quando era in fascia gialla. E ora che si ritrova in zona rossa, l’annuncio di riapertura parziale – solo la scuola dell’infanzia e la prima elementare – prevista il 24 novembre, sta per finire nella collezione di giravolte e ripensamenti del governatore Vincenzo De Luca. Sarà collocato affianco all’annuncio di lockdown del 23 ottobre, ringhiato da De Luca in diretta social e rimasto lettera morta fino all’ordinanza del ministro Roberto Speranza.

I segnali di un ulteriore rinvio ci sono tutti. Il provvedimento di riapertura è subordinato all’esito di uno screening di tamponi su base volontaria per bambini, maestri e genitori, iniziato il 17 novembre, che sta avanzando a passo di lumaca. Il numero verde dedicato, 800814818, è intasato di telefonate di persone che chiamano per altre ragioni. Gli appuntamenti fissati sono pochi e dilatati nel tempo. Il test somministrato è quello rapido antigenico. Il peggiore per lo scopo: “La performance scende – si legge dal sito dell’associazione italiana di epidemiologia – quando impiegato su persone apparentemente sane, ad esempio per uno screening in una scuola o in una palestra”. Rischia di sfornare molti falsi negativi. Con pochi e confusi dati, e con gruppi di genitori che sui social si stanno organizzando per chiedere il prolungamento delle chiusure, l’assessore regionale all’Istruzione Lucia Fortini ha messo le mani avanti: “I dati saranno esaminati dall’Unità di Crisi e se avremo un tasso di positivi alto immagino che l’Unità possa rivedere la scelta di riaprire. Di sicuro non andremo allo sbaraglio, la ripresa non è obbligatoria”. Un indizio che la Campania non abbia tra le sue priorità quella di riaprire le scuole sta in una uscita delle settimane scorse di De Luca contro una mamma intervistata da Sky tg 24 che si lamentava dei pianti del figlio piccolo che voleva imparare a scrivere. Il governatore la derise ironizzando su una “mammina che dava al figlio il latte al plutonio”.

Ieri il Tar ha di nuovo dato ragione a De Luca, respingendo un ricorso che sollecitava un’accelerazione sulla riapertura totale. “L’ordinanza intende corrispondere proprio alle esigenze manifestate dai genitori su una rapida ripresa, ed individua un percorso di gradualità e prudenza” commentano dall’Unità di Crisi. Perdura così l’anomalia tutta campana: a fare lezioni in presenza sono solo gli alunni disabili. Toni Nocchetti, presidente di Tutti a scuola (associazione di genitori con figli portatori di handicap), è furioso: “È una beffarda prova tecnica di classe differenziale e del principio che da 40 anni combattiamo: la scuola speciale dei disabili. Dovrebbero vergognarsi”. E lo dice uno che con De Luca si è candidato.