La letalità in Italia è cresciuta perché il tracciamento è saltato in ottobre

Cresce la letalità dovuta alla Covid-19 in Italia. Il rapporto tra deceduti e casi positivi che da metà settembre fino alla metà di ottobre si è mantenuto stabile intorno all’1,25%, ora ha cominciato a salire: 1,34% nell’ultima settimana di ottobre, 1,40% nella prima di novembre, 1,70% adesso. Questo significa che se tra settembre e ottobre moriva una persona ogni 80 contagiate, ora ne muore una ogni 60. Siamo ben lontani, certo, dalla letalità apparente registrata in Italia nel corso della prima ondata, con picchi del 18% in Lombardia. Ma oggi la spiegazione di una letalità in aumento è la stessa di allora: la sottostima dei casi positivi registrati rispetto ai casi reali.

Dal progetto di ricerca e divulgazione “Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche” avevamo lanciato l’allarme il 5 ottobre con la rottura dell’argine del 3% del rapporto tra casi positivi e tamponi effettuati. Dicevamo che oltre questa soglia il sistema di contact tracing non avrebbe più funzionato e che giorno dopo giorno ci saremmo persi sempre più casi per strada, liberi di circolare e quindi di infettare. Quello che puntualmente è accaduto è che da quel momento si è innescata una crescita esponenziale che per tutto ottobre ha visto, settimana dopo settimana, raddoppiare i casi giornalieri: 5.724 il 10 ottobre, 10.925 il 17 ottobre, 19.644 il 24 ottobre fino al momentaneo picco di oltre 40mila casi registrato il 13 novembre, con il rapporto tra casi positivi e tamponi che è arrivato a sfiorare il 18%. Quello che purtroppo è successo, confermato da diverse analisi incrociate, è che a ottobre i casi positivi sono aumentati troppo più velocemente della nostra capacità di fare i tamponi, e quindi si è arrivati ad un livello di saturazione: a noi sembrava che la curva stesse rallentando, in realtà non eravamo più in grado di contare oltre una certa soglia.

Così si spiega il picco dei morti registrati negli ultimi giorni e che non è giustificabile dal numero dei contagi registrati nelle settimane precedenti. Proprio come accadde nella prima ondata.

Questi morti d’autunno sono un po’ meno morti degli altri

C’è un’atmosfera strana, in questo autunno di pandemia, in cui le cattive notizie e le buone notizie si accavallano, in cui il bollettino dei morti è in una colonna esile accanto ai titoloni sui vaccini che funzionano. I vaccini sempre più efficaci, sempre più performanti, prima quello che funziona ma va tenuto a -80 gradi, ora quello che è stabile pure a temperatura ambiente, a breve arriverà quello che può bollire anche nel pentolino del latte. Stiamo lentamente riemergendo da questo presente buio in cui abbiamo vissuto per nove mesi, come feti nella placenta, e siamo di nuovo proiettati nel futuro. Abbiamo ripreso a fare progetti, ad immaginare viaggi, abbracci e labiali, a pensare all’umanità come a qualcosa che tornerà a mescolarsi e dove “contaminarsi” significherà passarsi di nuovo storie anzichè virus.

C’è un principio di euforia, insomma, che sarebbe meraviglioso se non fosse che galleggia tra i morti. Più di 650 solo ieri, 753 l’altro ieri, migliaia a settimana, chissà quanti ancora fino alla fine dell’epidemia. Morti d’autunno di cui a nessuno – diciamoci la verità – importa più molto. Sì, lo sappiamo che sono gli stessi 700 morti di fine marzo, che sono tanti, che “povera gente”, ma tanto tra un po’ arriva il vaccino e poi c’è il Natale, chissà se faremo il cenone, se diventeremo arancioni, se il presepe ce lo faranno fare o sarà considerato assembramento, magari i Re Magi li facciamo arrivare scaglionati, quest’anno. Questi morti d’autunno sono un po’ meno morti degli altri, di quelli di primavera che se li portavano via i camion dell’esercito per le strade deserte, e noi a guardarli in tv con le lacrime agli occhi e l’empatia che ci scivolava giù dai polsini.

Ora i morti sono discreti, silenziosi. Non occupano più le prime pagine dei giornali, non sono più storie, facce, vissuti. Sono spariti i volti dei medici caduti sul fronte, delle maestre, delle infermiere, dei papà, dei nonni, dell’alpino, del vigile del fuoco, del ragazzo che amava le scalate. Niente più fogli con i nomi dei morti fitti fitti, uno dopo l’altro, in quel cimitero di lettere che fu la prima pagina de L’Eco di Bergamo. Prima sulle home page c’erano le tante persone comuni che morivano, ora ci sono i vip che guariscono.

È il virus di quelli che ce la fanno, che guardano al domani, che hanno il medico famoso che li chiamava più volte al giorno, di quelli che fanno le storie su Instagram raccomandando a noi che siamo stati attenti di stare attenti, in un corto circuito a dir poco distopico.

I medici, quelli sul campo, non li cerca più nessuno, messi in ombra dalle Covid-star che ormai trascorrono più tempo dalla D’Urso che in reparto.

Sta succedendo quello che succede durante la coda delle guerre lunghe e cattive, quelle in cui sai che a breve ci si libererà dell’invasore o arriveranno gli alleati e che l’invasore andrà via lasciando dietro ultima scia di sangue, la più feroce. O che gli alleati bombarderanno tutto, le campagne, le città e tanti civili moriranno, ma ormai chi muore alla fine conta meno. Quei morti sono un prezzo, l’ultimo sacrificio, prima della libertà. Prima – finalmente – della carriola tra le macerie, dei bambini che giocano tra i detriti e del mondo che si riaffaccia alla vita.

Ecco. I morti d’autunno sono gli ultimi sotto le bombe. Siamo ansiosi di spostare i cadaveri, di rimettere in piedi le case, di rivedere l’alba senza i suoni delle sirene. Che poi chissà, se saranno davvero gli ultimi. Di sicuro, non ce n’è uno di cui ricordiamo la storia. Neppure quelli morti, inermi, nelle Rsa ci fanno più effetto. Ormai lo sappiamo che lì dentro scoppiano focolai, che se lo passano di letto in letto, che muoiono soli.

Trova un po’ di spazio sui giornali, in questi giorni, solo la morte di una ragazza giovanissima, 21 anni, “che aveva diritto a una vita lunga e felice”, scrive un giornale. Ma lì la notizia non è il Covid, è una giovane vita interrotta, è la natura matrigna. E un po’ di spazio lo trovano anche i due anziani marito e moglie che dopo 60 anni d’amore muoiono lo stesso giorno, nello stesso ospedale. Ma lì la notizia non è il Covid, è l’amore, il destino, il “per sempre” dopo la morte.

Per il resto, non ci interessa più sapere, siamo già con un piede nel 2021. Ricordare questi morti sarà un lavoro postumo, forse, quando qualcuno si prenderà la briga di scrivere uno Spoon River dei morti d’autunno. Adesso conta solo conoscere la data dei primi vaccini e sapere per quante persone dovremo apparecchiare a Natale.

Il virus rallenta. Conte: “A Natale niente cenoni”

C’è chi non vorrebbe nemmeno sentirlo nominare, o chi – come il ministro per le Autonomie Francesco Boccia – considera il dibattito “lunare”, ma il tema “Natale” dominerà parte del dibattito delle prossime settimane. Un “liberi tutti” è impensabile, ma dalle parole del premier Conte, intervenuto all’assemblea del- l’Anci, sembra aprirsi uno spiraglio (se e quando è presto per dirlo) per qualche novità: “Dobbiamo predisporci a passare le festività in modo più sobrio – ha detto il presidente del Consiglio –. Occorre buonsenso. Una settimana di socialità scatenata significherebbe pagare a gennaio. Non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo prepararci a un Natale più sobrio, ma noi – conclude – ci auguriamo comunque che l’economia possa svilupparsi, che si possano fare acquisti e scambiarsi anche doni”.

Ecco, dunque: doni e acquisti. Se il cenone è bandito (e dovrebbe rimanere il divieto di spostamento tra Regioni), la speranza è che l’assestamento del contagio consenta le aperture dei negozi (vietate nelle zone rosse). Motivo per cui Piemonte e Lombardia (il presidente Fontana parla Natale da farsi “con una certa libertà” grazie alla cautela di oggi) premono per passare all’arancione: decisivo sarà il weekend di fine novembre, quando gli indicatori saranno riponderati. Altre Regioni, tuttavia, potrebbero fare un percorso inverso: Basilicata, Liguria e Puglia rischiano di diventare zona rossa (il governatore pugliese Emiliano ha chiesto al ministro della Salute Speranza di dichiarare zone rossa le province di Foggia e Barletta Andria Trani).

Sullo sfondo rimane il dibattito sui 21 indicatori per “colorare” un territorio. La Regioni vorrebbero ridurle a cinque, il governo no: “Fino al 3 dicembre non è in discussione il cambiamento dei parametri – ha detto Boccia –. C’è un Dpcm in vigore fino a quella data e il confronto servirà a prendere decisioni in vista del Dpcm successivo. E non escludo che altre regioni rosse”. Parole confermate, durante la videoconferenza Stato-Regioni, anche dal presidente della Lombardia Fontana: “Il governo manterrà la situazione fino al 3 dicembre”. E in vista del Dpcm ci sarà un “coordinamento politico” tra il governo e Regioni. E i ristori arriveranno anche in caso di chiusure decise localmente.

Il bollettino del 19 novembre, intanto, conferma la tendenza: il virus corre forte, ma ha smesso di accelerare. Ieri i nuovi casi sono stati 36.176, più dei 34.282 di mercoledì ma con 15 mila tamponi in più. Il tasso di positività (rapporto casi testati e tamponi effettuati) scende dal 14,6 al 14,4%, ma il tasso reale (rapporto tra casi e primo tampone, escludendo quelli di conferma) viaggia verso il 30% (28,4%, dati Gimbe) con picchi del 59% nella provincia di Bolzano e del 41 in Lombardia. Diminuiscono (ed è una novità degli ultimi giorni) i decessi: 653 contro i 753 di mercoledì, così come i ricoveri (106 contro i 430 di mercoledì) e le terapie intensive (+42 e 58). La pressione sugli ospedali (33.610 ricoverati con sintomi e 3.172 pazienti gravi) rimane molto critica. Sedici regioni (dati Gimbe aggiornati al 17 novembre) hanno superato la soglia critica del 40% di posti letto in area medica occupati da pazienti Covid, con punte del 95% in provincia di Bolzano e del 92% in Piemonte. Diciannove, invece, quelle che hanno sforato la soglia del 30% dei posti occupati in terapia intensiva (record del 64% in Lombardia e del 61 in Piemonte). “La forza del virus – ha detto il commissario all’emergenza Domenico Arcuri, si sta riducendo. La crescita è ancora impetuosa, ma il ritmo va decelerando”.

“L’assessore? Noi chiamiamo e lui si mette a disposizione”

“Quello che gli dico deve fare”. Il tecnico antennista Domenico Scozzafava dava gli ordini e Mimmo Tallini li eseguiva pur di avere i voti della cosca. Per il gip spostava addirittura una “montagna” negli uffici della Regione Calabria dove, nel 2014, era assessore al Personale.

Al centro di molte intercettazioni finite nelle carte dell’inchiesta della Dda, c’è la necessità per il Consorzio “Farma Italia” di ottenere dalla Regione il rilascio delle autorizzazioni necessarie all’avvio dell’attività di impresa. Nessun problema per Tallini che, all’uomo dei Grande Aracri e agli altri soci dell’affare “Farmaci”, è riuscito a procurare un incontro con Rosa Maria Rizzo, la responsabile del settore “Area Lea” dell’unità “Farmacie” della Regione Calabria. E Scozzafava è entusiasta: “Lo vedi qua lui (Tallini) come ci rispetta senza che andiamo, eh quando lo chiamiamo, lo vedi subito, tac.. a disposizione”. Le cose però non vanno come previsto: la dirigente studia le carte e blocca tutto perché la società dei cutresi non aveva l’idoneità del grossista e ancora non aveva farmacie consorziate.

“Stanno uscendo fuori un pochino di problematiche”. L’imprenditore Paolo Del Sole chiama subito Tallini e lui fa valere il suo ruolo di assessore regionale. Se la Rizzo non rilascia le autorizzazioni, si cambia il dirigente. Stando alle indagini dei carabinieri, quindi, Tallini “riorganizzerà il Dipartimento interessato, facendo sì che una persona ‘gradita’ assumerà l’atto autorizzativo”. La scelta ricade su Giacomino Brancati (non indagato) che diverrà il referente dell’Area Lea “proprio su proposta dell’allora assessore al Personale” che fornisce al clan una delle “scorciatoie assolutamente impraticabili per la gente onesta”. Tallini si dimostra il “facilitatore” politico amministrativo della ’ndrangheta. Del resto “l’uomo della pioggia” Scozzafava a “zio Mimmo” Grande Aracri aveva detto: “Lui come lo chiamo è disponibile. Andiamo direttamente in assessorato”.

“Dal 2007 nulla è cambiato. L’anti-Stato precede lo Stato”

“Pane e politica”. Titolo perfetto per la Calabria. Per trovare il pane devi cercare prima il politico. Era il 2007 e Riccardo Iacona produsse un reportage esemplare sul sistema.

Immortale e immorale. Oggi come ieri.

La cosa più angosciante è la fissità del panorama calabrese. Quel Mimmo Tallini, il plenipotenziario arrestato, 13 anni fa era ugualmente plenipotenziario a Catanzaro e dintorni. Ha attraversato tutte le sigle e i simboli, dal Movimento Sociale italiano in poi. Centrodestra, centro, centrosinistra, nella consecutio temporum delle amicizie sopravvenute, delle intese ritrovate.

Il partito-persona. La Calabria è piena di partiti-persona.

Il corpo elettorale è un insieme di solitudini. Ciascuno alla ricerca del minimo indispensabile per sopravvivere.

La segnalazione per la Tac, l’aiutino per l’esame all’università.

Cose miserabili o urgenze che lì divengono emergenze. Tallini è consapevole che il sottosviluppo è motore indispensabile per la sua carriera. Più persone svantaggiate, più affamate, più voti.

Tallini appare sotto il piede della ’ndrangheta.

Perché in Calabria il sistema criminale pervade ogni angolo della società e monopolizza ogni ruolo, privato o pubblico che sia. Un cittadino trova l’anti Stato molto prima dello Stato. Ed è costretto a farci i conti.

La società rurale ’ndranghetista è divenuta una holding multinazionale.

La ’ndrangheta è broker internazionale. Ha capacità, competenze, relazioni, connessioni nel mondo intero.

I buoni arretrano, la società civile si impigrisce e quella criminale si modernizza.

Ci sono fiori in questo cimitero di speranze. Le manifestazioni di sostegno davanti al comando dei carabinieri di Vibo Valentia, dopo l’operazione Rinascita Scott, o quelle davanti al palazzo di giustizia di Catanzaro.

È vero, ma non producono egemonia culturale, sono ai margini della società.

Bisogna sperare che tengano duro.

Se la Calabria concede a Tallini – servitore di interessi che oggi sembrano loschissimi –, il primato delle preferenze, lo Stato presenta ai cittadini disperati un carosello di commissari inetti.

Questo è il dramma: il livello della politica regionale è quel che è, ancora pieno di spicciafaccende, capi elettori, un granturismo trasformista. Ma il volto dello Stato scade alla medesima linea.

Sai che i più alti burocrati, i medici dal curriculum enorme, manager indiscutibili hanno tutti lo stesso certificato di nascita: sono calabresi.

La neo rettrice della Sapienza (Antonella Polimeni, ndr) è calabrese.

Dulbecco.

La quantità di espulsi dal processo democratico, dai ruoli dirigenziali, rivela l’incapacità calabrese a trovare dentro di sé l’energia vitale, a scoprire e promuovere le eccellenze. Si spoglia dei migliori e si affida ai peggiori. È il bisogno che la costringe a questa forma di masochismo.

Il bisogno.

Quello fondamentale alla salute, quello al lavoro. Il bisogno essenziale, primitivo nel quale per certi versi ancora è radicata la società. Però non dimentichiamo la stagione nuova della Giustizia, l’era Gratteri porta in dote una magistratura giovane, appassionata, indipendente.

È quella l’unica luce?

Non so se sia l’unica, di certo abbaglia.

“Aiutò i clan a entrare nell’affare farmaci”: arrestato il ras di FI

“Si manda sull’aereo… se l’azienda manda in Inghilterra la medicina… ci sono antitumorali… Giova’… antitumorali che costano duemila euro… okay? Gli ospedali li comprano a mille… nell’Inghilterra li vendono a cinquemila… gli antitumorali… quindi tu li compri a mille e li vendi a cinquemila”. Le parole di Salvatore Grande Aracri, detto “il Calamaro”, sono la dimostrazione plastica di come ’ndrangheta e politica insieme si sono mangiati la Calabria. Una regione che oggi è devastata dal virus ma in cui, fino a ieri, cosche e colletti bianchi speculavano addirittura sui medicinali destinati a chi soffre di tumore. È questo uno degli aspetti più raccapriccianti dell’operazione “Farmabusiness”. Su richiesta della Dda di Catanzaro i carabinieri hanno arrestato 18 persone. Ai domiciliari è finito anche il presidente del Consiglio regionale Mimmo Tallini accusato di aver favorito, nel 2014, quando era assessore al Personale i boss dei Grande Aracri. Per loro ha accelerato “l’iter burocratico per il rilascio di necessarie autorizzazioni nella realizzazione del ‘Consorzio Farma Italia’ e della società ‘Farmaeko’, che prevedeva la distribuzione dei cosiddetti medicinali da banco sul territorio nazionale”.

Per il procuratore Gratteri e i suoi pm, l’esponente di Forza Italia e “quegli amici” della cosca Cutro avevano “il programma delittuoso di truffare il Ssn esportando illegalmente farmaci oncologici per rivenderli all’estero con profitti spropositati”. Secondo il procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla e i sostituti Paolo Sirleo e Domenico Guarascio che lo hanno accusato di concorso esterno con la ’ndrangheta e scambio politico-mafioso, Tallini era il “contatto privilegiato” delle cosche crotonesi. Per il gip, che ieri ha firmato l’ordinanza di custodia, quella dell’esponente di Forza Italia è “una contiguità ’ndranghetistica che sfiora la vera e propria intraneità”.

L’uomo di collegamento era un tecnico antennista e concessionario di Sky per la Calabria: Domenico Scozzafava, “l’uomo della pioggia” di Tallini, “un formidabile portatore di voti” ma anche uno “’ndranghetista fino al midollo”. È lui che, facendosi garante dei favori che la cosca riceverà dal politico, offre in dote Tallini ai Grande Aracri, consentendo ai boss di entrare nel progetto “Farmitalia” che nasce da un’idea dell’ex senatrice Anna Maria Mancuso, ex Pdl, ma oggi passata alla Lega. Nel 2013, in vacanza a Sellia Marina con il marito e con il factotum Walter Manfredi, l’ex senatrice Mancuso entra in contatto con Scozzafava, ritenuto il trait d’union tra gli ambienti criminali più pericolosi, quelli di una politica dedita alla spregiudicata ricerca di consensi e gli ambienti di un’imprenditoria parassita”.

Per i pm, la Mancuso e il marito “spariranno in pochi mesi dalla scena” e si diranno delusi “dagli amici calabresi”. Prima di suicidarsi nel 2016, il “faccendiere” Manfredi resta ed entra nell’affare del “Consorzio Farma Italia”, portando dentro il commercialista romano Paolo Del Sole che, tra i soci, si ritrova anche Giuseppe Tallini, figlio del presidente del Consiglio regionale Mimmo.

Dietro tutto c’era il giovane Salvatore Grande Aracri, che rappresentava gli interessi mafiosi degli zii, don Nicolino e Mimmo Grande Aracri. Apparentemente un semplice falegname di Brescello, il “Calamaro” è stato intercettato mentre trattava affari milionari con un soggetto svizzero. Senza ricoprire alcuna carica sociale, era lui il dominus del consorzio “Farma Italia”. Tallini lo sapeva e non ha mai preso “le distanze”. Anzi, dopo un litigio con il figlio che voleva uscire dall’affare, “si spende per convincerlo a ‘non mollare’”. “È ben a conoscenza – scrive il gip – che Scozzafava gli porta voti dagli ambienti ’ndranghetistici di Cutro nell’ambito di uno scambio di favori e di promesse di favori che hanno al centro il consorzio Farmaci”. In ballo, infatti, c’erano i quasi 10mila voti rastrellati alle Regionali del 2014. “È stata indagata – ha dichiarato il procuratore Nicola Gratteri – una famiglia di ’ndrangheta di serie A”.

Conte adesso rassicura i sindaci: “Il commissario sarà a tempo”

Non tutti a Palazzo Chigi sono ottimisti. Ma il prossimo commissario della Sanità calabrese potrebbe arrivare nel Consiglio dei ministri convocato per questa mattina. O almeno questo è l’auspicio del presidente Giuseppe Conte, che ieri si è preso ancora “qualche ora” per sciogliere la riserva sul nome che vada a coprire la casella rimasta vuota dopo i tre incarichi “caduti” nel giro di pochi giorni. Lo ha spiegato ieri ai sindaci dei capoluoghi calabresi che ha ricevuto a Palazzo Chigi, per rassicurarli del fatto che sulla Calabria c’è “la massima attenzione” da parte dell’esecutivo. E ai quali ha anche promesso di accogliere tutte le richieste che hanno portato al tavolo: perché – era il messaggio recapitato al premier alla vigilia dell’incontro – non sono più possibili scelte “calate dall’alto” che non tengano conto delle esigenze che arrivano da chi quella Regione la amministra quotidianamente.

Una Regione, ricordiamo, con la sanità commissariata da undici anni e una guida politica piuttosto instabile, dopo la prematura morte della presidente eletta a gennaio, Jole Santelli, e dopo l’arresto, ieri, del presidente del consiglio regionale Domenico Tallini. Non esattamente l’ideale per affrontare l’emergenza sanitaria attuale, con i numeri della pandemia che l’hanno inserita da subito nel gruppo delle cosiddette Regioni rosse.

È in questo quadro che il governo deve pescare la carta giusta: quasi un biglietto vincente della lotteria dopo che l’ex commissario Saverio Cotticelli è stato rimosso per aver dichiarato in tv di non aver redatto il piano Covid, il suo sostituto, Giuseppe Zuccatelli, è stato dimissionato dopo la pubblicazione di un vecchio video in cui giudicava le mascherine “inutili” e l’altro papabile successore, Eugenio Gaudio, si è ritirato ancor prima di cominciare perché la moglie non voleva trasferirsi a Catanzaro.

Per questo, prima ancora del nome, Conte ha fissato insieme ai sindaci alcuni punti fissi. Il primo riguarda la durata dell’incarico, che dovrà essere quanto più possibile limitata nel tempo. Secondo, i soldi: il governo ha promesso – proprio per ridurre il rischio che il commissariamento della sanità calabrese diventi una situazione “ordinaria” – un sostegno economico per chiudere la voragine dei conti. Ma si è pure discusso di rivedere “l’attuale ripartizione che genera una discriminazione a tutto svantaggio della Calabria”, per usare le parole del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto. Terzo: un coinvolgimento attivo degli amministratori locali proprio sulle scelte che il futuro commissario dovrà prendere.

La riunione è stata “operativa”, ha spiegato il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà. Ma di certo ora devono “seguire i fatti” (qui a parlare è il senatore di Italia Viva Ernesto Magorno). “Lunedì apre l’ospedale da campo a Cosenza – gli risponde a distanza il ministro Francesco Boccia –. Stiamo lavorando indipendentemente dal commissario ad acta che, quando ci sarà ci aiuterà”. La rosa di nomi su cui Conte sta riflettendo – dopo aver affidato le questioni più legate all’emergenza Covid a un medico come Gino Strada – ha profili manageriali: in ballo ci sono l’ex colonnello della Guardia di Finanza Federico D’Andrea, il direttore del Centro regionale trapianti Pellegrino Mancini e il dirigente dell’Asl Roma 6, Narciso Mostarda.

L’ora del mitomane

Dodici anni orsono, facendo zapping, mi imbatto in Matrix ancora condotto da Enrico Mentana e sento Renato Brunetta dichiarare testuale: “Volevo vincere il premio Nobel per l’Economia, ero sulla strada giusta, poi però ha prevalso l’amore per la politica e il Nobel non lo vincerò più… L’avrei vinto, ho molti amici che hanno vinto il Nobel e non sono molto più intelligenti di me. Ma ho buone possibilità di diventare presidente della Repubblica”. Mi congratulo con Mentana che non scoppia a ridere, prendo buona nota e la infilo nella cartellina “Mitomani”. Che di lì a poco si arricchisce di un’altra new entry: Anna Finocchiaro nel 2013 spiega restando seria che “un uomo col mio curriculum sarebbe già stato nominato presidente della Repubblica da tempo”. Poi arriva l’Innominabile e riesce nella mission impossible di risultare leggermente più mitomane di un primatista mondiale come B. (che, quand’era in vena di modestia, ripeteva: “Sono il miglior premier degli ultimi 150 anni”). Prova a stargli dietro Calenda, ma è troppo svogliato e incostante. Tant’è che prima smentisce di candidarsi a sindaco di Roma, poi annuncia che si candida perché come lui nessuno mai, nemmeno Er Più, ma ora è “pronto a ridiscutere tutto, anche la mia candidatura”: quasi quasi non si candida più, forse Roma gli va stretta e preferisce l’Onu.

La Nato, invece, l’ha già prenotata l’Innominabile. E, se mai dovesse perderla, sarà colpa dei pm cattivi che gli tarpano le ali, come le fake news di Putin gli avevano rovinato il referendum: “Senza l’indagine su Open avremmo il 10%”. È il replay 2.0 di Alberto Sordi-Nando Mericoni: “A me m’ha bloccato la malattia”, “Se io mi trovo in questo suolo è perché è il babbo che lo vuole, sennò a quest’ora io sarei a Broadway e non in questo zozzo letamaio!”. Il concorso del Piccolo Mitomane pare ormai aggiudicato quando, a sparigliare i giochi, piove da Oltretevere una causa civile. La scrive l’ex cardinale cacciato dal Papa, Angelo Becciu da Pattada (Ss), che si firma modestamente “Sua Eminenza Reverendissima” e accusa l’Espresso di aver indotto papa Francesco (lui lo chiama “costui”) a sbagliarsi sul suo conto e a licenziarlo in tronco. Fino ad allora Becciu, “sulla base del proprio prestigioso curriculum e in virtù del citato percorso, ben avrebbe potuto risultare tra i Papabili” al prossimo conclave. Poi purtroppo l’Espresso, subornando papa Costui I (colpevolmente ancora vivo) e quel credulone dello Spirito Santo, l’ha privato dell’“effettiva occasione di conseguire un determinato bene”: il Soglio Pontificio, stimato dall’expertise di Sua Eminenza Reverendissima alla modica cifra di 10 milioni di euro. Chapeau. Punto, set e partita.

“Senza papà niente Van Halen. Ma quella notte con Ozzy…”

Mezzo bicchiere in più e sarebbe cambiata la storia del rock. Incredibile a dirsi, in quella telefonata ad alto tasso etilico di una notte del 1995 il più lucido fra i due interlocutori era Ozzy Osbourne, il sulfureo mangiapipistrelli dei Black Sabbath. All’altra cornetta, con la testa che ronzava per il vino, il prodigioso funambolo della chitarra Eddie Van Halen. “Sì, papà aveva bevuto un po’”, ammette il figlio Wolfgang, “e siccome era buon amico e grande fan di Ozzy, gli fece la proposta”. Roba indecente o quasi, un patto da far saltare il banco dell’heavy metal. “Non so se scherzasse o meno, glielo disse da ubriaco ma se mio padre si fosse sentito dire da Osbourne ‘Ok, facciamolo’ di sicuro avrebbe trovato il modo. Dalla band, intendo i Van Halen, una volta uscito l’album Balance se ne era appena andato il frontman Sammy Hagar, il secondo forfait pesante nel ruolo di cantante dopo Dave Lee Roth, che poi sarebbe rientrato”.

Così, sospira Wolfgang, “papà chiese a Ozzy se volesse subentrare lui nei Van Halen. A quanto si dice Osbourne tirò il freno e lo fece ragionare. Chissà se è la verità”. Lo si sente sospirare, il ragazzo, mentre ce lo racconta dalla California. Non saprà mai come sarebbe andata: il venerato genitore, Eddie Van Halen, se ne è andato per un cancro alla gola il 6 ottobre scorso, dopo aver combattuto per anni contro il male che lo aveva colpito alla lingua, convinto che la causa fosse il plettro che teneva in bocca. “Ha provato a contrastare la sorte fino alla fine. Mi manca terribilmente”, sottolinea Wolfgang, al quale è spettato il compito di annunciarne la morte sui social. Gli aveva tenuto la mano sino all’ultimo: ora ha trovato il modo più sensato di elaborare un lutto così devastante. Con una struggente canzone dove suona tutti gli strumenti, Distance, corredata da un video strappacuore chiuso da un messaggio vocale della superstar che con voce sofferente dice al suo ragazzo “sono fiero di te”. Una specie di filmino di famiglia, quello per l’elegiaca Distance, dove Eddie e Wolf compaiono nelle diverse fasi di questi 29 anni vissuti insieme: il guitar hero che mostra trionfante alla videocamera il neonato, che diventa frugoletto da portare al mare, cresce in mezzo alle chitarre e le sfiora affascinato, e ancora adolescente entra nel 2006 a far parte della band al posto del bassista originario Michael Anthony, e con i Van Halen è parte della formazione anche dell’album del 2012 A different kind of truth. “I miei ricordi più preziosi con papà sono sul palco”, spiega con voce incrinata Wolfgang, “ero minorenne quando debuttai con lui e gli altri in concerto a Charlotte. Prima di entrare in scena mi diceva: ‘Ricorda: se commetti un errore ripetilo una seconda volta. Così tutti penseranno che tu lo abbia fatto apposta’. Ecco il suo grande insegnamento, ed era uno che non sbagliava mai”. I fan hanno già recapitato a Wolfie la domanda inevitabile: ci sarà mai una nuova versione dei Van Halen senza l’impareggiabile stregone del ‘tapping’ sulla sei corde? “Non possono esistere i Van Halen 2.0, non senza Eddie. Detto questo, a me manca il padre, non il musicista famoso. Sono alle prese con la perdita, anche se non escludo che più avanti un evento speciale possa onorarne la memoria. Adesso non è in agenda. Il mio omaggio a lui è Distance, dove suono tutti gli strumenti. La mia band, il progetto per un album da pubblicare da qui a pochi mesi, si chiama Mammoth MHV, che riproduce il primo nome del nucleo pre-Van Halen”.

I due si confrontavano costantemente su questo work in progress di Wolf, finché Eddie non è peggiorato. Prima le idee fioccavano, alcune erano sensazionali. “Come il piano per un tour fantasmagorico con i tre cantanti storici della band, David Lee Roth, Hagar e Gary Cherone. Io sarei stato ospite sul palco per un paio di brani, il basso da riconsegnare nelle mani di Anthony. Mio padre era deciso a farlo, prima che…”. Che la vita diventasse carta straccia, suggerisce Wolfgang, senza chiudere la frase. Meglio rievocare i tempi luminosi di Eddie. “Un chitarrista che lo aveva potentemente ispirato era Eric Clapton, che papà amava dai tempi ruggenti dei Cream. Si incontrarono un paio di volte, ma non credo vi sia traccia di una collaborazione o di un estemporaneo duetto in studio”. Mentre l’ospitata stellare di Van Halen per Michael Jackson andò in porto solo grazie alla santa pazienza del produttore Quincy Jones. “Squillò il telefono di mio padre. ‘Hey Eddie, sono Quincy. Sto lavorando a un nuovo album di Michael, Thriller. Ci serve un tuo assolo su un pezzo rock, Beat it! Che ne dici?’ Papà riattaccò, non credeva fosse davvero Jones. Che per fortuna richiamò, e lo convinse. Lui andò, suonò un paio di volte la sua parte. Il resto è leggenda”.

Essere gay in Russia? “Outlaw” il film censurato da Mosca

Il titolo del film è Autlò, ovvero la traslitterazione in cirillico di Outlaw: fuori legge. E “fuori legge” è anche il destino dell’opera di Ksenia Ratushnaya, la regista russa coraggiosa almeno quanto la sua produttrice, Veronika Chibis. Per la legge federale russa del 2013 che “ha lo scopo di proteggere i minori dalle informazioni che promuovono i valori tradizionali della famiglia” – la norma meglio nota con il battesimo della stampa come “legge anti-gay” –, il film è diventato subito oggetto d’inchiesta dell’ufficio del Procuratore generale per i temi trattati: una donna transgender che vive in Unione Sovietica; un ragazzo gay che vive nella grigia periferia di Mosca. Tempi e spazi diversi nell’intreccio di storie di un’anima sola: quella che vive in ogni ribelle che trascorre i suoi giorni in una società omologata senza davvero riuscirci.

“Immaginavo quest’insegnante elementare arrabbiata con alunni e colleghi che di sera torna a casa e si spoglia per farsi la doccia: solo allora il pubblico scopre che si tratta di un uomo. Ecco, questa storia è rimasta nella mia testa per molto tempo prima che diventasse la storia di Nina che vediamo in Outlaw”, spiega la regista. È una “storia d’amore e sesso, accettazione e rifiuto, passione e depravazione”, tutto lo spettro di emozioni provate “da chi è spinto a vivere ai margini della società”.

Perfino il titolo Fuori legge è finito sotto accusa, dice Ksenia: “Alla storia abbiamo dato nomi diversi e meno inquietanti, per farlo passare più facilmente al vaglio delle autorità, senza problemi”, che però sono comunque arrivati, ad apertura e chiusura del set. Minacce online, proteste dei cittadini, paura delle ripercussioni politiche: “Anche i curatori e direttori artistici che erano propensi a proiettarlo all’ultimo minuto hanno tutti disdetto o cancellato”. Per ottenere l’ok dal ministero della Cultura russo il film è stato già censurato: a essere eliminato è stato il personaggio del prete ortodosso ritratto in posizioni considerate oscene, ma, nonostante i tagli, “nessuno ha creduto che il film fosse legale”. Per una telefonata “in arrivo dai piani alti” la distribuzione è stata bloccata nelle sale della Federazione: anche quando Ksenia ha ottenuto tutti i certificati per la legale distribuzione del film, una dopo l’altra, cancellazioni di cinema e teatri si sono susseguite pochi giorni prima del lancio e la sua opera è stata rimossa dalle programmazioni senza alcuna spiegazione.

Hieronymus Bosch, il marchese De Sade, infine David Lynch. È la troika che ha ispirato Ksenia: dinanzi alle sfide “loro non hanno esitato: l’arte ha bisogno di esplorare i temi più controversi, spaventosi, dolorosi. Questi artisti sono penetrati negli incubi più teneri e profondi degli uomini e io volevo fare lo stesso”.

Critiche e acclamazioni le ha ricevute allo Spirit of Fire International, il festival che si svolge a Khanty Mansiisk, la cui direttrice è stata multata per migliaia di rubli per aver deciso di proiettare il film. All’entrata e uscita della sala buia, ad accertarsi che non ci fossero minori tra il pubblico, c’erano gli agenti di polizia. “Ogni direttore artistico russo conosce la censura, ma non c’è stato nella storia o nella mia esperienza passata niente di paragonabile alla pressione subita per Outlaw”, ha scritto sui social Boris Nelepo, membro del comitato selettivo del festival. Oltre alla falce delle autorità e della legge, c’è stata anche la voce dei cittadini indignati che si sono scagliati contro “i moscoviti che portano depravazione nella pura terra siberiana”.

Con un massimo di 60 minuti concessole per filmare le scene minori e di cinque ore per le scene principali, la prima opera di Ksenia è stata girata in soli 14 giorni: “Ce ne sarebbero voluti 35, ma non avevamo un budget adeguato”, spiega la regista. I fondi non sono stati l’unico problema: “È raro che gli attori concedano fiducia ai debuttanti e non è stato facile trovare gli interpreti giusti. Inoltre si trattava di lavorare con una casa di produzione dall’ambizione artistica radicale, vicina ai temi Lgbt, e molti attori russi hanno declinato l’offerta per paura di macchiare la loro immagine pubblica. Anche per questo il casting è durato 9 mesi”.

Ha vinto premi, ha ottenuto riconoscimenti e attenzione nelle sale americane ed estoni, ma quello che manca a Ksenia è il pubblico russo. Mentre lavora alla sceneggiatura del suo prossimo film che spera non avrà i problemi di produzione del precedente, chiosa: “Spero che un giorno possano tutti guardare liberamente il mio film al cinema”. Intanto c’è lo streaming per chi ha paura di avvicinarsi alle sale. Ma comunque un giorno “la censura in Russia verrà sconfitta”.