Oriana e tutte noi: la scritta “Press” diventata bersaglio

Il 22 febbraio 2012, un mercoledì, accendendo distrattamente la tv fui travolta dalla notizia dell’uccisione di Marie Colvin, una tra le più esperte inviate di guerra, corrispondente del Sunday Times che avevo conosciuto in Afghanistan. Determinata, precisa, coraggiosa, era stata uccisa da un missile che aveva colpito in pieno l’edificio di Homs in Siria dove Marie si trovava con il collega francese Remi Ochlik. Un omicidio non casuale, hanno detto in molti, una vendetta contro le sue corrispondenze sulla guerra civile siriana. Marie Colvin era diventata un target e quella scritta Press sul suo giubbino antiproiettile non era stata più sufficiente a proteggerla. La sua storia dimostra come i teatri di guerra siano diventati sempre più pericolosi per i giornalisti, non più visti come attori neutrali, ma figure scomode da eliminare e merce di scambio per le fazioni che si combattono. È successo a Giuliana Sgrena sequestrata in Iraq, una delle inviate di guerra raccontate nella collana al femminile di Graphic Journalism: Donne sul fronte. Storie di giornaliste, conflitti e frontiere. Sette volumi scritti da croniste per rendere omaggio all’impegno delle inviate di guerra e fare una riflessione sugli orrori che tutti i conflitti racchiudono. War correspondent, dicono gli inglesi, corrispondente di guerra, per indicare una professione una volta riservata solo agli uomini, ma che negli ultimi 20 anni ha visto l’arrivo di tante donne. In Italia è stata la grande Oriana Fallaci, con le sue cronache dal Vietnam, a fare da apripista a molte altre colleghe. Ed è proprio il volume dedicato alla Fallaci scritto da Eva Giovannini a uscire per primo in edicola oggi con il Fatto Quotidiano. La Fallaci del Vietnam. Indimenticabile l’immagine di lei che corre sull’Y Bridge con la macchina al collo sotto il fuoco dei vietcong. Era il 1972.

Nei sette volumi, nei quali le protagoniste raccontano conflitti da continenti diversi o vivono in Paesi carichi di tensioni politiche, non emerge mai la paura, ma il senso del dovere e la passione per un mestiere che ti chiede tanto, ma ti ridà anche tanto. Ti rende testimone di pagine di storia memorabili, ti fa sentire il peso della responsabilità di cercare la verità contro le fake news, che una volta si chiamavano propaganda.

Alcune inviate hanno perso la vita nel cercare la verità e i loro assassini non sono mai stati trovati. Stiamo ancora aspettando di conoscere chi ha ordinato l’omicidio di Ilaria Alpi, giornalista Rai che insieme a Milan Hrovatin nel 1994 è stata brutalmente uccisa in un agguato in Somalia mentre stava indagando su un presunto traffico illegale di rifiuti tossici in cambio di armi. Intrighi inconfessabili che Ilaria cercò di svelare come vedremo nel secondo volume della collana.

Attraverso gli occhi di Barbara Schiavulli, inviata a lungo a Kabul e protagonista di un altro volume, c’è il racconto dell’orgoglio di un popolo che mai nessuno è riuscito a domare. Non esiste un teatro di guerra dove non si rischi di essere uccisi nei combattimenti, sequestrati o assassinati o imprigionati, e se si è donne si rischia anche di essere stuprate. Lo sanno bene le vittime ruandesi della violenza scatenatasi in Rwanda durante il tragico genocidio del 1994 raccontato nel volume scritto da Martina di Pirro che rievoca gli orrori di quel massacro tra hutu e tutsi costato la vita a un milione di persone in tre mesi. Ma non c’è bisogno di stare dove cadono le bombe per essere in guerra, è sufficiente vivere in un Paese con un regime autoritario per ritrovarsi nei panni del nemico, come ci insegna l’esperienza di Zehra Dogan giornalista e artista curda, finita dietro le sbarre per tre anni, solo per avere realizzato un dipinto che non è piaciuto al presidente turco Erdogan. Con lei, protagonista di un altro volume, sono finite in carcere la scrittrice Asli Erdogan e la dottoressa Sebnem Korur Fincanci accusate di fare propaganda terroristica a favore del popolo curdo, e tanti altri giornalisti prigionieri politici che tuttora languono nelle prigioni turche.

Le donne raccontano la guerra con occhi diversi? Penso di sì. Sicuramente non esaltano l’aspetto bellico e la precisione dei bombardamenti chirurgici che appassionano tanti colleghi che ho incontrato nelle zone di crisi del pianeta. Le corrispondenti di guerra hanno sempre uno sguardo empatico anche sull’umanità dolente che paga il prezzo delle bombe che colpiscono le loro case e distruggono i loro villaggi. Donne, bambini ai quali le inviate danno voce, perché si immedesimano nel loro dolore e nella loro disperazione, come spiega il volume scritto da Francesca Mannocchi, giornalista freelance in Siria, che mostra gli orrori del conflitto attraverso gli occhi dei bambini siriani, grazie anche ai preziosi disegni di Diala Brisly, cresciuta nel conflitto e nel dolore che l’ha costretta ad andar via da Damasco.

 

Addio Fox, ora è NewsMax la rete su cui punta Trump

Nella fine dell’amore fra Donald Trump e Fox News, galeotta fu l’Arizona. Ma NewsMax, la tv via cavo del suo amico di golf, Christopher Ruddy, aveva già fatto breccia nell’ego del magnate, offrendogli uno show. L’assegnazione a Biden dello Stato in bilico, nella notte della conta dei voti di Usa 2020, non è andata giù al magnate presidente. Da quella notte, Trump l’ha giurata alla sua tv preferita, l’unica su cui erano sintonizzati i televisori della Casa Bianca e dell’Air Force One: le ha twittato contro, ha ritwittato le critiche dei suoi fan e ha cominciato a flirtare con altre tv conservatrici possibili alternative, NewsMax e – molto meno – One America News Network (Oann).

Fra i progetti di Trump nel ‘dopo presidenza’, se mai comincerà, c’è un impero mediatico che faccia ‘mangiare la polvere’ a quello di Murdoch, attaccando da destra il gioiello della corona dell’uomo d’affari australiano, con una corolla di piattaforme social in concorrenza con Facebook e Twitter.

Newsmax è dal 1988 un sito di notizie e opinioni conservatore e dal 2014 una tv via cavo che vanta 70 milioni di utenti. Fondato da Ruddy, membro del golf club di Trump a Mar-a-Lago in Florida, e gestito da Newsmax Media, appoggia il presidente e, nella notte delle elezioni, ha avuto un pubblico di tre milioni di persone (e la sua applicazione è stata tra le 10 più scaricate). Oaan è una tv via cavo di estrema destra pro-Trump, fondata nel 2013 da Robert Herring e proprietà di Herring Networks. Per il Wall Street Journal, Hicks Equity Partners, una società di private equity legata alla presidenza del Partito Repubblicano, ha avuto colloqui negli ultimi mesi per investire in Newsmax o acquistarla. I contatti, scrive il WSJ, testimoniano la convinzione di investitori alleati del magnate presidente che c’è spazio per lanciare da destra una sfida a Fox News. L’arrembaggio a Newsmax è guidato da Thomas Hicks, pioniere del private equity e fan di Trump (uno dei suoi figli, Thomas Hicks jr, è co-presidente del Partito Repubblicano). La sua società sta tentando di raccogliere almeno 200 milioni di dollari e vuole coinvolgere nell’operazione famiglie facoltose e conservatrici. Si tratta, ma il progetto non è ancora andato in porto: “Non siamo in vendita e non diventeremo mai la Trump tv”, dice Ruddy a Variety. “Ma siamo aperti: Trump sarà una forza politica e mediatica nel dopo Casa Bianca. Vorremmo dargli uno show”. In attesa di tornare a fare lo showman, Trump resta asserragliato nel fortino della Casa Bianca e taglia teste: ha silurato il responsabile della cybersicurezza Usa, Chris Krebs, colpevole di ritenere le elezioni 2020 “le più sicure della storia”. In casa democratica, Nancy Pelosi, 80 anni, verso la riconferma nel ruolo di speaker: a nominarla i dem della Camera dei Rappresentanti. Pelosi da circa 20 anni ricopre la terza carica dello Stato, ed era l’unica candidata. Per la riconferma dovrà aspettare il voto dell’intera aula, in gennaio.

Putin: nessuno lo può giudicare, neanche alla fine del suo mandato

Immunità a vita per Putin, anche se un giorno non sarà più il presidente della Federazione russa: lo prevede il nuovo emendamento approvato in prima lettura alla Duma di Mosca. Secondo la nuova norma, presidenti ed ex presidenti russi godranno dell’immunità anche al termine del loro mandato. È uno degli ultimi tasselli del processo legislativo iniziato dopo il referendum del luglio scorso. Un privilegio quasi totale – decadrebbe solo in caso di alto tradimento e altri “gravi crimini” –, varato in nome della “stabilità del Paese e della società”. Lo ha chiarito l’autore della bozza, Pavel Karesheninnikov, deputato del partito di Putin, Russia Unita, che ha inoltre specificato che di questo diritto non godrà però Michail Gorbaciov, a capo dell’Unione Sovietica. Rimane un solo ex presidente russo ancora in vita a cui spetta la prerogativa: Dimitry Medvedev, a capo dello Stato dal 2008 al 2012. Un ex presidente, recita il nuovo testo, “non può essere sottoposto a responsabilità penale o amministrativa”, né perquisito, arrestato o interrogato: ciò che è già garantito per legge al leader della Federazione, non perseguibile per gli atti commessi mentre è in carica. Inattaccabili: non solo al presidente, ma anche alla sua famiglia è garantita, anche a fine mandato, protezione a vita da inchieste e indagini. Per il meccanismo di revoca dell’immunità, il percorso burocratico è potenzialmente infinito e raggiungibile solo dopo numerosi placet: quello della Corte Suprema, Corte costituzionale, Parlamento. Dei 450 rappresentanti della Camera bassa solo 37 deputati del Partito comunista hanno votato contro l’adozione della modifica tra le critiche della maggioranza. Dopo il caso internazionale che lo ha visto coinvolto per il brutale avvelenamento avvenuto ai suoi danni, anche Aleksey Novalny si è chiesto perché l’emendamento debba essere approvato proprio adesso. Prima di trovare risposta al suo interrogativo, l’oppositore più famoso del Cremlino ha già ribattezzato la legge come “la libertà di violare il codice penale”.

“Siamo la Francia umiliata”. Il sindaco sferza Macron

Grigny è una delle città più povere di Francia. In questo Comune di periferia di 30 mila abitanti, a circa 25 chilometri a sud di Parigi (dipartimento Essonne), dove si accalcano palazzoni e l’unico supermercato ha chiuso quattro anni fa, quasi un abitante su due vive sotto la soglia di povertà. La disoccupazione sfiora il 25% e sale al 40% tra i giovani. I tre quarti degli abitanti, di un’ottantina di nazionalità diverse, vivono in case popolari. Cinque anni fa, Grigny ha vissuto un trauma: Amedy Coulibaly, uno dei terroristi di Parigi del gennaio 2015, era cresciuto alla Grande-Borne, un’immensa cité di cemento dove vivono più di diecimila persone. Anche il sindaco Philippe Rio, 46 anni (Partito comunista francese), al suo secondo mandato, è cresciuto lì. Il 13 novembre scorso, Rio ha lanciato un appello sulle pagine di Le Monde in cui, assieme a 104 sindaci di banlieue (Bobigny, Nanterre, Montreuil…) e di cittadine di ogni regione di Francia alle prese con gli stessi problemi (Nantes, Roubaix, Blois…), chiede a Emmanuel Macron di non dimenticare i “quartieri difficili” nel suo piano di rilancio di 100 miliardi che dovrà far ripartire il paese dopo la crisi del Covid-19. “Da vent’anni – racconta Rio – nei territori dimenticati si scavano disuguaglianze, più profonde ad ogni nuova crisi. A Grigny non abbiamo ancora ritrovato il livello di vita di prima della crisi finanziaria del 2008. L’attuale situazione sanitaria ed economica è devastante: dalla povertà siamo passati alla miseria. Si aggiunge la crisi identitaria che la Francia sta vivendo, con gli attentati, sin dal 2015. Il movimento dei Gilet gialli ha evidenziato quanto la nostra società è divisa. Si diffondono le tesi fasciste. In questo cocktail mortale, o si esplode o si tenta di reinventare un nuovo modello repubblicano”.

Da anni i governi promettono piani per le banlieue. Lei stesso, nel 2017, ha lanciato l’“appello di Grigny”, sfociato nella promessa di Macron di una “mobilitazione nazionale” per i quartieri. Bilancio?

Siamo passati dalle menzogne alle delusioni. Da anni noi sindaci mettiamo in guardia sulla disoccupazione giovanile e la discriminazione sul lavoro in funzione del cognome e dell’indirizzo. Allertiamo sul fatto che i giovani non votano più. Sulla crisi delle scuole: a Grigny il 50% degli studenti ne esce senza diploma. C’è una “voragine repubblicana”. I quartieri popolari rappresentano il 10% della popolazione francese. Il piano di rilancio può rappresentare un’opportunità. Non possiamo perderla, lo dobbiamo ai nostri figli.

Che cosa si aspetta da Macron?

Innanzitutto che un miliardo della prossima Finanziaria sia riservato al rilancio dei quartieri, su un orizzonte 2021-2024. Quindi chiediamo al governo di superare i vecchi schemi di pensiero che in Francia oppongono Stato centrale e territori e di ascoltare noi attori locali, perché abbiamo soluzioni che possono essere moltiplicate su scala nazionale. Per reinventare il futuro serve un cambio di mentalità. Le nostre priorità: scuola, salute, lavoro, vita associativa, casa e rinnovamento urbano.

Come è vissuta l’epidemia di Covid a Grigny?

In generale le famiglie hanno rispettato il primo lockdown. I giovani di meno, ma qui spesso le famiglie sono numerose e vivono in case troppo piccole. I servizi del Comune hanno affiancato le associazioni per la distribuzione di pasti a domicilio, fino a 500 al giorno. Tra aprile e maggio abbiamo distribuito più di 120 mila mascherine. Abbiamo fornito computer e materiale scolastico alle famiglie. L’impegno degli insegnanti è stato immenso. Ora organizziamo un bus per fare tamponi nei vari quartieri. Le domande di sussidi statali sono cresciute del 20% da inizio 2020.

Teme che la crisi possa aggravare la radicalizzazione nei quartieri?

Certo. Se la scuola è fragile e i governi guardano altrove non c’è da stupirsi se i giovani, che non hanno più fiducia nello Stato, cerchino risposte altrove, nel traffico di droga, nelle tesi complottiste o nell’islam radicale.

Cemento e soldi pubblici: i Giochi invernali 2026 seguono le tradizioni

Mancano cinque anni abbondanti, per carità, ma i Giochi invernali Milano-Cortina del 2026 – oltreché un grande evento sportivo – saranno un classico a livello amministrativo e finanziario: soldi pubblici e cemento stanno lì a garantirlo fin da ora.

Andiamo con ordine. Mentre sulle Dolomiti, specie a Cortina d’Ampezzo, sono già partiti i primi lavori di sbancamento tra le proteste degli ambientalisti locali, il governo s’è preoccupato – nella legge di Bilancio “bollinata” ieri dalla Ragioneria generale – di evitare inutili fastidi a soggetti attuatori e imprese anche in pianura e precisamente a Milano.

Per rispettare i tempi di realizzazione delle opere, si dice all’articolo 142, il “Pala Italia Santa Giulia” a Rogoredo (un’arena da 15mila posti, costo 70 milioni) e le opere connesse potranno essere autorizzate da una Valutazione d’impatto ambientale regionale semplificata e coi tempi persino dimezzati rispetto alla norma già di favore; quanto alle opere della Zona Speciale Porta Romana (dove sorgerà il villaggio olimpico), se non si riesce a concludere la normale procedura urbanistica, allora i proprietari dell’area – che FS ha appena venduto a Coima, Covivio e Prada per 180 milioni – possono chiedere di procedere col “permesso di costruire convenzionato”. In parole povere il Comune prepara la convenzione, il consiglio comunale la vota e tanti saluti. Si tratta di due tra le maggiori speculazioni in corso in una città in cui le speculazioni non mancano: il ministero dell’Ambiente, peraltro, s’è ritrovato l’articolo 142 nella manovra senza saperne nulla e l’ha accolto, eufemizzando, con una certa perplessità.

L’accelerazione procedurale, peraltro, arriva quasi in contemporanea con la distribuzione dei soldi agli enti locali coinvolti. Com’è noto, infatti, le Olimpiadi “a costo zero” o “delle Autonomie” (copyright Luca Zaia) in realtà ricevono fin d’ora un miliardo tondo da Roma e c’è il sospetto che altri soldi serviranno in futuro. Il decreto interministeriale che distribuisce la torta è stato firmato il 4 novembre da Paola De Micheli ed è in attesa della “bollinatura” della Ragioneria generale dello Stato e della conseguente firma di Roberto Gualtieri.

Si tratta di distribuire il vil denaro stanziato l’anno scorso: 473 milioni alla Lombardia, 325 milioni al Veneto, 82 milioni alla provincia di Bolzano e 120 milioni a quella di Trento. Servono per le cosiddette “opere essenziali per rendere efficienti e appropriate le infrastrutture esistenti”: strade, svincoli, gallerie, ferrovie, l’acquisto di treni e bus, il rifacimento delle stazioni. Come ha sostenuto la ministra De Micheli “faremo compiere un salto di qualità infrastrutturale a una delle aree più sviluppate del Paese” (a chi ha sarà dato, dice d’altronde il Vangelo).

È appena il caso di ricordare che a suo tempo il Comitato organizzatore parlò di costi per 1,2 miliardi: 900 milioni a carico del Comitato olimpico internazionale (Cio), 300 milioni degli enti locali coinvolti. I guadagni? Certi, al solito: 20mila posti di lavoro e 4 miliardi di giro d’affari. Rispetto a quella favoletta ora c’è il primo miliardo in più che sarà distribuito a breve e un altro fatterello leggibile negli allegati al decreto interministeriale del 4 novembre: per completare le “opere essenziali” dell’allegato 3, cioè quelle che si stanno finanziando ora, mancano ancora 252,2 milioni (il costo totale è 1,58 miliardi) e poco meno di 50 milioni per le “opere connesse e di contesto” (allegato 4). Soldi che dovrebbero mettere gli enti locali, cioè comunque la parte pubblica, e che probabilmente finirà per pagare lo Stato. Tenendo lo sport da parte, qualcuno guadagnerà di certo con le Olimpiadi invernali del 2026, che siano il Paese o le comunità coinvolte c’è da dubitarne.

Recovery fermo, arriva il fondo per gli anticipi da 120 miliardi

Quasi un mese dopo averla approvata “salvo intese” e tre giorni dopo averla ri-approvata a intese trovate in Consiglio, la legge di Bilancio arriva alla Camera, l’unico ramo del Parlamento che davvero la discuterà (al Senato sarà blindata) visto che il governo ha superato tutti i record di ritardo (e per quietare i parlamentari ha destinato a loro uso 800 milioni).

Il testo finale conferma le bozze circolate: 229 articoli tra cose fondamentali (Cassa integrazione Covid, assegno unico per i figli, taglio del cuneo fiscale etc.) e altre assai meno, come la solita pioggia di micro-norme e favori fiscali. Vale 38 miliardi, ma nasce già vecchia e infatti mercoledì le Camere voteranno un nuovo extra-deficit (si parla di 20 miliardi) per finanziare un decreto Ristori 3.

La vera novità riguarda le risorse del Recovery Fund (o meglio Next Generation Eu). Il governo istituisce infatti un fondo da 120 miliardi nel triennio 2021-2023 per anticipare con risorse nazionali quelle del piano europeo, che rischia di tardare. Al momento, infatti, non c’è accordo tra i governi: Polonia e Ungheria sono assai scontente della decisione di condizionare l’erogazione delle risorse al “rispetto dello stato di diritto” e hanno posto il veto sulla decisione di aumentare il tetto delle risorse proprie dell’Ue, che è poi l’unico modo per finanziare i 750 miliardi di Next Generation Eu. Poi, in ogni caso, toccherà ai Parlamenti nazionali dare l’ok.

Insomma, l’obiettivo di approvare tutto entro fine anno sta svanendo. Anche il programma React Eu, che per l’Italia vale 14 miliardi e più per coprire spese già sostenute per combattere il Covid è ancora appeso ai veti dei vari Paesi.

E qui arriva il nuovo fondo: 34 miliardi per il 2021, 41 per il 2022 e 45 per il 2023. Copre”, per così dire, sia la parte dei contributi a fondo perduto (65 miliardi) che dei prestiti (40 milioni), questi ultimi però solo per la quota destinata a finanziare interventi aggiuntivi. In totale si tratta di 106 miliardi riferibili al Recovery and resilience facility, il cuore del piano europeo, a cui si aggiungono 14,7 miliardi di React-Eu.

A colpire è soprattutto la cifra del 2021, visto che a settembre nella Nota di aggiornamento al Def il Tesoro stimava che in tutto si sarebbe arrivati a 25 miliardi (4 di React Eu, 10 si sovvenzioni e 11 di prestiti). La cifra però dovrebbe restare uguale, perché si tratta di un effetto contabile: il piano europeo ha una durata di 6 anni, fino al 2026, mentre la manovra è triennale. Insomma, quei 34 miliardi non li avremo a disposizione tutti subito e men che meno li spenderemo tutti.

A gennaio il governo spedirà il piano italiano per usare i fondi, ma di stanziamenti e anticipi non si parlerà prima dell’estate. Il meccanismo di spesa, poi, è abbastanza complesso. La manovra prevede il monitoraggio dei dati, un decreto per tracciare le “regole contabili”, una struttura ad hoc di “coordinamento, raccordo e sostegno” alla Ragioneria generale per vigilare sulle spese e, entro il 30 giugno di ogni anno, una relazione al Parlamento. Non un euro speso, però, può partire prima dell’ok di Bruxelles.

La peste nera e il mondo nuovo

La peste ha sempre colpito profondamente l’immaginazione umana. Alcuni fra i maggiori autori del canone occidentale, da Tucidide a Boccaccio, hanno rappresentato le epidemie del loro tempo in pagine memorabili; e anche quando la malattia è scomparsa dall’Occidente la sua formidabile potenza allegorica ha continuato ad alimentare l’immaginazione degli scrittori.

È il caso, ovviamente, di Manzoni, ma anche di Camus, con la sua inquietante invenzione d’una città novecentesca invasa dalla peste; o di Jean Giono, che nell’Ussaro sul tetto descrive il colera del 1830, attribuendo però a quell’epidemia relativamente benigna le connotazioni apocalittiche d’una pestilenza, di gran lunga più efficaci quanto a resa letteraria. Ma l’epidemia più famosa è certo quella del 1348, che gli inglesi chiamano Black Death e che anche da noi è invalso l’uso di chiamare “Peste Nera”.

Nata nelle steppe asiatiche, allora sotto il dominio mongolo, la pestilenza si manifestò a Caffa, sulle rive del Mar Nero, nella primavera del 1347; e da qui navi genovesi portarono in Italia ratti, pulci e marinai infetti, contaminando dapprima il porto di Messina, e poi via via gli altri porti italiani. A partire da quell’estate l’epidemia si diffuse lentamente in tutta Europa, covando sotto la cenere nei mesi invernali, quando le pulci cadono in una sorta di letargo, e riprendendo vigore ai primi caldi; impiegò tre anni per raggiungere gli estremi confini d’Europa, la Scozia e la Scandinavia, e per portar via, secondo stime correnti e quasi certamente esagerate, un terzo della popolazione europea.

Più correttamente bisognerebbe dunque parlare dell’epidemia del 1347-1351, anche se il 1348 è l’anno che segnò la massima mortalità nei Paesi più popolosi e civilizzati del continente, e in cui Boccaccio vide la peste a Firenze e la descrisse. È questo lo sfondo del libro di Klaus Bergdolt La grande pandemia. Come la Peste Nera generò il mondo nuovo, un rispettabile lavoro di divulgazione, che descrive in dettaglio il progredire dell’epidemia da un Paese all’altro e le sue conseguenze, fra cui l’esplosione isterica di persecuzioni contro gli ebrei, ritenuti, soprattutto in Germania, i propagatori della pestilenza.

L’autore, medico di professione, si sofferma con interesse sulle teorie mediche dell’epoca, analizzando i numerosissimi Consigli contro la peste e Regimi di sanità messi alla moda dall’epidemia. Anziché liquidare con facile disprezzo le dottrine medievali, egli mostra come la teoria galenica degli umori offrisse una spiegazione in apparenza piuttosto logica del decorso della malattia; col solo difetto che i rimedi suggeriti, benché perfettamente razionali in rapporto alle premesse, erano in realtà del tutto inefficaci, o lo erano soltanto per caso e non per le ragioni ipotizzate dalle Facoltà di medicina. Più opinabile è una visione epocale e catastrofica della pestilenza, quasi che a quell’evento, pur traumatico, si potessero attribuire tutt’insieme il declino demografico e la crisi economica del Trecento, un radicale mutamento di sensibilità e addirittura la fine del Medioevo, qualunque cosa ciò significhi. Si rischia di dimenticare che l’uomo d’allora era abituato a veder morire gli altri intorno a sé, e sapeva che la morte porta via i giovani e addirittura i bambini con la stessa frequenza degli adulti e dei vecchi.

L’epidemia del 1348 confermò ciò che tutti sapevano, e che già in precedenza trovava espressione nell’arte e negli scritti dei moralisti. L’affresco di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, Il trionfo della Morte, ritenuto a lungo la più drammatica rappresentazione dell’impotenza dell’uomo davanti alla peste, venne completato dieci anni prima della grande epidemia. Anche sul piano economico e demografico la peste non lasciò un’eredità a senso unico. L’epidemia, come ben notarono i contemporanei, falciò i poveri più dei ricchi, mietendo la gran parte delle sue vittime fra gli immigrati e i mendicanti che si accalcavano nei quartieri bassi delle città, e fra i braccianti miserabili delle campagne. In Inghilterra morirono solo due vescovi su diciassette e un cavaliere dell’ordine della Giarrettiera su venticinque; fra tutti i re d’Europa uno solo, Alfonso X di Castiglia, cadde vittima della moria. Magra consolazione, certo, soprattutto dal punto di vista delle 295 vittime; ma è un fatto che i sopravvissuti si ritrovarono a respirare meglio, in un mondo non più sovraffollato.

Tutti quanti avevano ereditato dai parenti morti, la disoccupazione era scomparsa e i salari in aumento, e le corporazioni artigiane avevano abbreviato i periodi di apprendistato e facilitato l’accesso alle professioni. “E tale che non avea nulla si trovò ricco”, osserva freddamente il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani.

Quest’epidemia che regalò all’Europa il pieno impiego e consumi in crescita, com’è ben documentato ad esempio nel caso della domanda di carne da parte delle masse urbane, finisce per assomigliare stranamente a eventi più vicini a noi, quale ad esempio la seconda guerra mondiale: eventi spaventosi, che comportarono un momentaneo imbarbarimento di tutti gli standard morali, e un carico atroce di sofferenze umane, ma che non si lasciarono dietro un mondo istupidito e in declino, bensì una società formicolante di energie e d’una ritrovata voglia di vivere.

Rispetto alla guerra mondiale, la peste comportò certo una mortalità immensamente più alta, ma lasciò intatte le città e le case, le botteghe e i conti in banca; non è cinismo concludere che, sepolti gli ultimi morti, gli europei tornarono ai loro affari con più impegno di prima.

 

E alla fine Zingaretti scoprì l’acqua fredda

La scopertadell’acqua calda, nel suo senso metaforico, è un grande fenomeno epistemologico: nonostante sia, appunto, solo la scoperta dell’acqua calda, può a volte rappresentare un passo nel progresso personale o collettivo. Faremo qualche esempio. La Stampa ci ha informato domenica che “il Covid affonda i conti dell’Inps” e precisamente che c’è “un buco di altri due miliardi”. Ora, che tra lockdown, chiusure e sussidi a pioggia aumenti il passivo dell’Inps è, diciamo, più di un’ipotesi: “Non significa nulla”, spiega infatti l’ex presidente Tito Boeri nella stessa pagina tentando di far notare che l’acqua ormai scotta (“le spese vengono poi coperte dai trasferimenti dello Stato”). Molti hanno scoperto di recente che, se la Banca centrale di un Paese ricco fa il suo lavoro, il costo del debito (lo spread!) non è un problema. Il presidente dell’Europarlamento, il dem David Sassoli ha fatto un passo più in là e detto su Repubblica che cancellare il debito post-Covid in mano alla Bce “è un’idea interessante”. Carlo Cottarelli (sic) martedì ha tradotto in pratica quel che si potrebbe fare: la Bce rinnova per sempre i titoli in scadenza girando, come già fa, gli interessi agli Stati. E il Mes? Ancora Sassoli: “Dobbiamo prendere atto che quello strumento è ormai è anacronistico. Oggi quale paese col Recovery, l’allentamento del Patto di Stabilità, Sure ed Eurobond si avvarrà del Mes? Nessuno”. L’origine della retromarcia l’ha illustrata Enrico Morire per Maastricht Letta: “Noi, come Istituto Jacques Delors, abbiamo fatto una proposta: è assurdo che ci siano 400 miliardi bloccati, si trasformi il Mes e lo si porti dentro la Commissione”. Bene, l’acqua calda, specie d’inverno, è una necessità. Poi, però, scopri che il segretario del Pd Nicola Zingaretti e il commissario Ue Paolo Gentiloni si sono invece irritati per “le polemiche odierne sul Mes” (?) e le frasi di Sassoli sul debito (“non possiamo giocare a chi la spara più grossa”). È a quel punto che capisci che c’è gente che non può gustare nemmeno il gusto agrodolce dell’accorgersi di aver detto per anni una cazzata: sono condannati a scoprire solo l’acqua fredda.

P.S. Signori, è chiaro? L’istituto Delors! È finita, anche se non vi è arrivata la telefonata per spiegarvelo, è finita.

“Scudo” a Etihad: un “errore” dell’ambasciatore e due dubbi

Sostiene Nicola Lener, ambasciatore italiano ad Abu Dhabi, che nel cablo che riassumeva il contenuto dell’incontro dell’8 e 9 novembre scorso tra il ministro degli Esteri Di Maio e il suo omologo, Bin Zayed Al Nahyan, c’è “un errore di trascrizione rispetto alle mie note”, “errore di cui mi assumo la responsabilità”. Il Fatto ieri ha rivelato che sul cablo c’era scritto: Di Maio “ha fatto presente che, quale gesto di amicizia nei confronti degli Eau, il governo rinuncerà a costituirsi parte civile nel processo penale”, quello per il crac Alitalia. “Il ministro – spiega l’ambasciatore – ha fatto un appunto diverso, ribadendo sì l’amicizia nei confronti degli Emirati, ma aggiungendo che ogni valutazione sulla eventuale costituzione di parte civile dell’Italia sarà assunta dal governo sulla base degli sviluppi delle interlocuzioni tra Alitalia ed Etihad. Il ministro ha anche ricordato agli emiratini che in Italia esiste la separazione dei poteri”. Tutto chiaro. Tranne un paio di dettagli. È stato trascritto male anche il ringraziamento del ministro degli Emirati – “Abdallah ha ringraziato per l’apertura manifestata” da Di Maio “auspicando che la questione possa evolversi ‘in un modo che possiamo controllare’”? E soprattutto: come mai dell’errore l’ambasciatore s’è accorto solo dopo la pubblicazione sul Fatto?

Effetto collaterale da mascherine

Abbiamo parlato in altre occasioni degli “effetti collaterali” di questa pandemia. Alcuni, sembra assurdo, sono persino positivi, altri, molti, nettamente negativi. Entrambi possono addirittura manifestarsi nello stesso ambito. È questo il caso dell’impatto ambientale. Nei giorni di rigorosa chiusura in gran parte del mondo, le emissioni di anidride carbonica giornaliere sono calate del 17%, principalmente in Cina e Usa, riportando il pianeta ai livelli del 2006 (Le Scienze 20 maggio, 2020). La vita commerciale e industriale, comunque e ovunque rallentata, sembra ancora procedere in tal senso. Ma non sempre l’ambiente subisce un effetto positivo da questa emergenza. Noi tutti usiamo mascherine e molti di noi, soprattutto per motivi di lavoro, guanti. Malgrado ci sia stato l’invito all’utilizzo di mascherine lavabili, la maggior parte della popolazione preferisce le monouso. Oggi si stima che vengano utilizzate circa 1 miliardo di mascherine al mese e centinaia di tonnellate di guanti. Dove vanno a finire? Lo scorso 14 marzo, l’ISS ha pubblicato le linee guida sullo smaltimento dei dispositivi di protezione individuale, indicando l’incenerimento. Sappiamo, però, che non è così per la stragrande maggioranza dei casi, in particolare, per i dispositivi utilizzati in ambiente extra-ospedaliero.

Un carico così importante che continuerà ancora forse per anni a pesare sullo smaltimento dei rifiuti è davvero un grosso problema. Non voglio nemmeno pensare a quei Paesi nei quali non esiste nemmeno lo smaltimento dei rifiuti centralizzato, che spesso vengono riversati in mare.

Fa preoccupare anche la nostra condizione. Non esiste ancora, per molti Comuni italiani, un’indicazione precisa su quale sia il tipo di raccoglitore di rifiuti da utilizzare. Si va dagli “indifferenziati” alla “plastica”. Credo che sia giunto il tempo di informare la cittadinanza. Mascherine abbandonate nei cassonetti pubblici o addirittura sui marciapiedi se ne vedono tante e da lì a finire nelle acque di fiumi e mare è un passo. Non aggiungiamo un ulteriore danno alla gravosa situazione pandemica. Salviamo l’ambiente dalla pandemia e informiamo la popolazione per un corretto smaltimento.