Mail box

 

Le Regioni sono fonti di contrasto e invadenza

Ci risparmiamo gli innumerevoli esempi di questi mesi sulle mancanze, incapacità, colpe, polemiche e disallineamenti dei vari governatori delle Regioni. Lo spunto a questo mio contributo l’ho colto dopo aver ascoltato in un’edizione del tg Sky l’intervista al neo presidente della Regione Marche, il quale ha farfugliato un’innumerevole quantità di stupidaggini in merito agli errori della Regione sugli indicatori da trasmettere al ministero della Salute e all’inutilità dell’app Immuni. Ora, diciamo basta a queste messe di polemiche e di comunicazioni assurde che altro non fanno che interferire negativamente con le analisi e le decisioni, in ogni caso complesse e difficili, che il governo centrale deve saper prendere e che non fanno che disorientare i cittadini, alimentando anche i contrasti.

Luigi Gorla

 

Consigli (non richiesti) di nuovi forzisti

Caro direttore, credo che della lista delle energie migliori di Forza Italia dovrebbero fare parte di diritto: Scilipoti, Razzi e De Girolamo.

Franco Avantaggiato

 

Caro direttore, concordo con il tuo editoriale

Caro direttore, riporto la tua definizione: “…noto pregiudicato plurimputato pluriprescritto piduista finanziatore della mafia corruttore frodatore fiscale autore di 60 leggi ad personam e responsabile delle più scandalose epurazioni mai viste…”. Sono dati oggettivi difficilmente e seriamente contestabili, ma credo che sia importante chiedersi adesso cosa vuole B., perché non è il tipo che dà qualcosa senza pretendere.

Gianni Cicero

 

Quale delle due facce del Natale salveremo?

Di fronte al Covid-19, che continua a seminare morti, “salvare il Natale” è la parola d’ordine che sembra mettere d’accordo governo, opposizione e anche gente comune. Ma qual è il Natale che si vuole salvare? Non sembra trattarsi della festa cristiana che celebra la nascita del Salvatore e ci ricorda che la nostra cultura religiosa è fondata sui principi della carità, della solidarietà, dell’amore verso gli altri. Al contrario il Natale che si vuole salvare è la festa pagana del consumo: lo shopping, i regali inutili, i pranzi e i cenoni.

Domenico Forziati

 

Trump intende favorire le trivellazioni in Alaska

Donald Trump, prima dell’insediamento del presidente eletto, si sta prodigando per mettere all’asta i diritti di perforazione nell’Artico. L’ex presidente sta invitando le compagnie petrolifere affinché richiedano concessioni per la perforazione nel National Arctic Wildlife Refuge dell’Alaska. Trump vuole “salvare” la terra, distruggendo gli ecosistemi.

Marcello Buttazzo

 

Il tratto Foggia-Ancona è in condizioni pessime

La A14 tra Foggia e Ancona è un cantiere ininterrotto. Mi chiedo: lor signori finora dove ci hanno fatto transitare (sulle ghigliottine)? Per quale ragione viadotti di oltre 100 metri sono tuttora delimitati da esili guardrail? Perché non commisurare l’entità del pedaggio ai reali chilometri di autostrada fruibili? Per quali ragioni tali “relazioni anomale” si sono protratte per così lungo tempo?

Mario A. Querques

 

Il sostegno di Strada può rivelarsi essenziale

Sto leggendo molte critiche alla scelta di Gino Strada e mi meraviglio che nobili penne del giornalismo non abbiano pensato che forse Strada può aiutarci. Ma accanto alla tecnicità della medicina ci serve anche l’organizzazione della macchina burocratica e amministrativa della medicina stessa che attualmente è nelle mani della mafia. Molte Usl sono state sciolte proprio per infiltrazione mafiosa! Dunque una collaborazione efficace, anche se parallela e non incrociata, potrebbe essere molto più appropriata che una conduzione unica e unilaterale. Anche perché continuando a puntare solo e soltanto sul nome di Strada lo si espone troppo “all’attenzione” di chi col suo intervento avrebbe tutto da perdere: cioè la mafia! Spero solo che giungano a un accordo di fatto con Gino Strada che è insostituibile per salvare il salvabile ora e sanificare per il futuro la malata sanità calabrese!

Pietro Volpi

 

Una riforma per ridare forza al potere centrale

La “sarabanda” di decisioni, scaramucce locali e regionali in collisione con il governo, confermano ancora una volta la necessità di procedere a una riforma. Quando il particolare si antepone all’interesse generale, è come l’organo di un corpo che si rifiuta di collaborare e sceglie una via autonoma al suo egoismo e procura la degenerazione di tutto il resto.

Maurizio Dickmann

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo di ieri “Il Tesoro stronca il modello Genova”, si precisa che la comunicazione inviata al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti da parte del ministero dell’Economia sulla proposta di commissariamento delle opere pubbliche fa parte di una mera e ordinaria attività istruttoria, tesa a ottenere tutte le informazioni necessarie al perfezionamento del procedimento.

Ufficio Stampa Ministero dell’Economia

Covid “Io recluso in camera da giorni nella mia Calabria da ‘Zona nera’”

Gentile redazione, questa è la lettera che ho inviato alla mia Azienda sanitaria provinciale di Cosenza: “Sono letteralmente chiuso nella mia camera da 14 giorni, secondo quanto previsto dalle vostre direttive: non ho molto da fare, se non guardare il soffitto o pregare qualche santo in paradiso perché mi vengano date notizie sul mio attuale stato di salute. Secondo mie indagini e tracciamenti “fai da te” (se avessi aspettato voi o l’app Immuni a quest’ora il Covid avrebbe preso fissa dimora tra i miei eventuali contatti), ho contratto il virus il 25 ottobre. Fortunatamente, pur essendo asintomatico, non sono entrato in contatto con nessuno da quel momento e mi sono subito chiuso in camera: mia madre è rimasta in casa con me con contatti per lo più nulli e comunque sempre con mascherina, distanza e tutte le precauzioni. Il resto della famiglia, invece, si è trasferito e mio padre è costretto a viaggiare tutti i giorni per andare a lavorare per poter guadagnare i soldi per mangiare e pagare i tamponi, che nel frattempo abbiamo fatto tutti a pagamento, presso una clinica privata a nostre spese. Dall’esito di questi tamponi antigenici io sono risultato positivo e i miei genitori e mia sorella negativi. Comunicato istantaneamente sia alla vostra struttura sia al mio medico di base l’esito del tampone: dopo vari solleciti, finalmente il 3 novembre prendo appuntamento per il tampone ‘drive’ con tanto di tre ore di fila. Ma, il 9 novembre, dopo 17 giorni dal mio presunto contatto con il virus, 14 giorni dal tampone antigenico e 7 dal molecolare, io ancora non ho avuto alcuna conferma della mia positività. Tralasciando il mio caso specifico, che potrei definire ‘fortunato’ più che altro per il mio essere stato coscienzioso non avendo volutamente avuto contatti con nessuno, mi volete spiegare quale dovrebbe essere il vostro piano di tracciamento? Dopo 15 giorni cosa si può mai tracciare? A vedere ‘il cinema’ in tv in questi giorni di politici, commissari ed ex commissari alla Sanità calabrese, mi sembra tanto un film tipo Le Comiche (con tutto il rispetto per la comicità autentica)… Come facciamo poi a lamentarci di essere zona rossa? La Calabria dovrebbe essere zona nera, nera come la notte più buia in cui ci hanno fatto sprofondare. Non cordiali saluti”.

Ps. Dopo altri giorni di attesa, il 13 novembre è arrivato l’esito del mio tampone: “Positivo”… Da questa brutta storia che sto vivendo ho imparato una lezione: la battaglia contro il Covid è in mano a ognuno di noi.

Lorenzo Mastroianni

Lì a Scalo Romana, la grande svendita di un bene comune

Il tempo passa, le settimane trascorrono, le elezioni comunali s’avvicinano e ancora Giuseppe Sala non ha sciolto la prognosi: si candiderà o non si candiderà per il secondo mandato a Milano? Certo, la città – diventata epicentro della seconda ondata del Covid – ha altro a cui pensare. Ha abbandonato la boria del “milanese imbruttito” e si mostra più stanca, sfiduciata, impaurita, a tratti perfino incattivita. Avrebbe bisogno di punti di riferimento, di personalità capaci di parlare allo smarrimento e indicare il cammino per la ripresa. Ma non c’è un Carlo Maria Martini che sappia parlare alla città, un Antonio Greppi, il sindaco della ricostruzione dopo la guerra. Sala sembra il più smarrito di tutti, eternamente incerto tra milanononsiferma e la paura della crisi. I segnali che manda sono contraddittori. Il manager sicuro dei tempi del successo si è trasformato nell’ometto che bisbiglia e balbetta e aspetta tempi migliori.

Forse sarà costretto a ricandidarsi, per mancanza di alternative, sue e della politica. Potrà comunque contare sull’assoluta assenza di competitor, visto che il centrodestra rischia di contrapporgli – questa è l’ideona di quei buontemponi del Foglio – un ragazzino di nome Silvio Berlusconi. Sarebbe la sfida più triste di sempre, povera Milano. Sala intanto ha già cominciato una specie di campagna elettorale, anche se non se n’è accorto nessuno. Si chiama “Fare Milano”, un’operazione di ingegneria del consenso progettata a tavolino da spin doctor fuori fase che hanno coinvolto le istituzioni culturali della città, messo in campo 700 esperti, indicato sette “temi per progettare il futuro della città”, aperto sette tavoli di lavoro, organizzato una serie di incontri web in streaming poi rilanciati su Youtube. Un flop: hanno avuto meno visualizzazioni di tanti balletti di Tik tok. Le parole sono reboanti, ma i fatti sono piccini: mentre in città aumentano le disuguaglianze, i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, mentre cresce l’insicurezza, tramonta il mito dell’eccellenza lombarda, la sanità pubblica abbandona i malati a casa e quella privata offre simpatici pacchetti-Covid a 450 euro, la squadretta di Sala si balocca con piazze risistemate, muri ridipinti, aiuolette rinverdite, arredo urbano, panchine e cespuglietti. È questa la rivoluzione metropolitana di Milano? Ah, poi ci sono le piste ciclabili, ottenute strozzando la viabilità e facendo parcheggiare le auto quasi in mezzo alle strade.

Intanto non si ferma la vera corrente del Golfo che, invisibile, travolgerà Milano, la vera rivoluzione urbana che ridisegnerà la città e ne riscriverà la mappa del potere: la trasformazione immobiliare degli scali ferroviari e delle altre grandi aree metropolitane. Mentre ci mostrano le aiuolette che cambiano Milano, sono in arrivo milioni di metri cubi di cemento che si aggiungeranno alla città che ha già il più grande consumo di suolo e il più alto grado d’inquinamento d’Italia.

Sono commoventi la letizia dell’assessore Pierfrancesco Maran e l’entusiasmo del sindaco Sala nell’annunciare la vendita dello Scalo Romana – dove sarà costruito il villaggio olimpico per le Olimpiadi 2026 – come la più grande trasformazione urbana di Milano: è la più grande svendita di un bene comune della città agli immobiliaristi, i soliti Manfredi Catella di Coima, ormai diventato il Ligresti del nuovo millennio, questa volta alleato con Leonardo Del Vecchio e Prada; e le Ferrovie, che si comportano come un operatore privato, “valorizzando” terreni che avevano avuto per fare trasporto pubblico, non residenza privata.

 

 

L’eterno ritorno di B. riesumato dai “comunisti”: è un’ossessione

A ben vedere ci hanno provato quasi tutti i dirigenti post comunisti, ex comunisti, para comunisti, finto comunisti, diciamo da Massimo D’Alema fino a Matteo Renzi, a resuscitarlo dalle sue ceneri costose. Ci hanno provato Fausto Bertinotti, Luciano Violante, Giorgio Napolitano e a bienni alterni pure Goffredo Bettini, il più guru di tutti. Perché? Quale ossessione li muove? Quale complesso di rapinosa emulazione li sospinge? Quale dialettico contrasto tra la ragionevole repulsione e l’innamoramento involontario li convince a tornare sempre dove la loro storia si incagliò? Più o meno in fondo al parco di Arcore. Nel punto in cui atterra l’elicottero degli ospiti. E con il cappello in mano.

Se fosse mai possibile stendere la nomenklatura Pd sul lettino dello psichiatra, oltre alle lacrime per la propria infanzia, prima o poi salterebbe fuori il fantasma sorridente del dottor Berlusconi Silvio, quello dell’iconografia classica, in doppiopetto Caraceni da epopea brianzola con il portafoglio gonfio di promesse, e tutte le cattive amicizie al seguito, i socialisti ladroni, il massone aretino con il fido bancario incorporato, i mafiosi travestiti da segretario personale e da stalliere, le maggiorate a tassametro, la televisione commerciale addetta alla diseducazione sentimentale degli italiani. E poi la valigetta con dentro il kit del candidato, due paginette di programma politico, “Questo è il Paese che amo”, ma specialmente la cravatta di finta seta e la finta stilografica. Cioè l’inizio della fine della politica. Sostituita dallo Spettacolo.

Cominciò Spezzaferro, volpe del Tavoliere, progettando, in ossequio al Cavaliere, addirittura un governo Maccanico & Necci, di geometrica potenza, visti la squadra e il compasso impiegati per far fuori il neonato Ulivo di Romano Prodi. E continuò visitando per primo gli arredi della Fininvest, reduci dalla piena e acclamata illegalità per definirli “patrimonio del Paese”, forse senza neanche immaginare quanto fosse pertinente quella definizione nella patria dell’evasione fiscale generalizzata, delle quattro mafie e dell’anomia di massa. Ma non per rallegrarsene. Continuò Bertinotti che trovando B. “tanto simpatico”, antipatizzò con Prodi fino a perfezionare il complotto della sua caduta. Poi toccò a Violante che intestò al partito il vanto di avere “data piena garanzia all’onorevole Berlusconi” che mai sarebbe stata varata una legge sul conflitto di interessi, auspicando, dopo le riforme costituzionali, il premio dell’amnistia. Napolitano al Quirinale fece ancora meglio. A fine 2010, quando B. e il suo governo sembravano spacciati, concesse addirittura un mese di tempo per riorganizzarsi. Che B. impiegò per comprarsi una manciata di parlamentari, durare un anno di più. Poi venne la stagione di Renzi, non per nulla nato tra le luci di Rete 4 e il grembo di Mike. E da ometto, pellegrino in villa. Dagli antichi fasti della Bicamerale apparecchiata da Gianni Letta sulle spalle di D’Alema, estrasse l’essenziale. Elaborando con l’amico Verdini, nuovo pontiere di Berlusconi, il sofisticato patto del Nazareno che diceva più o meno: facciamo a metà di tutto. Ora tocca a Goffredo Bettini portare nel Mausoleo, dove sveglissimo riposa l’arcoriano, la nuova pergamena delle larghe intese. “Patto di maggioranza o sarà naufragio”, recita stavolta la formula dell’eterna ossessione. Possibile non abbiano ancora la voglia e la forza di staccarsi da quel fantasma? Incapaci anche oggi di immaginare un modo e un mondo non sottomesso a quel “ciarpame senza pudore” che è stata l’epopea berlusconiana. Perché? Suggerisce la psicopolitica che forse accade per la ragione più semplice e cioè che molti di loro siano fin troppo disponibili a considerarla uno specchio dentro cui giocare e non un baratro.

 

Mediaset si salva ancora grazie alla “sinistra”

All’indomani della visita del segretario Ds a Cologno Monzese, per non lasciare adito a equivoci, così titolava L’Unità del 5 aprile 1996: “Pace D’Alema-Mediaset”. E l’articolo esordiva: “Mediaset è un patrimonio di tutti gli italiani. La vostra azienda non corre nessun rischio”. Niente di nuovo sotto il sole? L’ho pensato leggendo su Il Fatto dell’altroieri la giustificazione fornita da Luigi Di Maio all’emendamento salva-Mediaset proposto al Senato dalla maggioranza M5S-Pd-Iv-LeU e votato da tutti con la sola astensione della Lega: “Nessuno scambio. C’è stata un’azione molto chiara da parte del ministero dello Sviluppo economico per tutelare un’azienda italiana, come abbiamo sempre fatto”.

La retorica sulla difesa dell’italianità delle imprese, che tanti danni ha prodotto in Alitalia, mal si applica al settore delle telecomunicazioni e in particolare dei network tv, già penalizzato da gravi distorsioni della libera concorrenza. Vedremo come il governo se la caverà in sede di ricorsi alla Commissione e alla Corte di giustizia europea preannunciati dall’azionista francese Vivendi, appoggiato da Macron (che in materia di nazionalismo economico è più agguerrito di noi). Restiamo in attesa degli esiti del braccio di ferro sul futuro di Mediaset e sul parallelo coinvolgimento di Berlusconi nelle scelte governative. Ma intanto vale la pena di interrogarsi anche sulla parte che svolgerà Mediaset nel dare voce al riassetto della destra italiana; costretta a fare i conti col fallimento delle spallate di Salvini.

Significativa, in merito, è la repentina giravolta della Lega: dopo aver votato in commissione contro l’emendamento salva-Mediaset, si è vista costretta a far parlare in aula lo stesso Salvini per scongiurare una rottura che non può certo permettersi. Come è noto, l’imprevisto sorpasso leghista ai danni di Forza Italia nelle elezioni politiche del 2018 fu assai favorito dallo spazio concesso da Rete 4 alle quotidiane esibizioni populiste dello stesso Salvini. Tanto che, a latte versato, per un’intera stagione i conduttori artefici di quella offensiva propagandistica videro sospese le loro trasmissioni. Salvo poi, dati gli ascolti modesti conseguiti da personalità più moderate, rilanciare con successo le trasmissioni dei vari Del Debbio, Giordano, Porro. E le ospitate fisse dei vari Belpietro, Maglie, Capezzone, Meluzzi. La rapida marcia indietro parlamentare di Salvini evidenzia come egli non possa fare a meno del supporto delle reti Mediaset. Tanto più che nel frattempo la Bestia social coordinata da Luca Morisi ha visto affievolirsi il suo impatto mediatico, imitata da rivali che hanno imparato a far propri gli stessi metodi grevi.

Per quasi un trentennio Mediaset è stata la principale artefice della formazione del senso comune di destra nel nostro Paese. Non so se le tv berlusconiane avranno ancora la capacità di plasmare il prossimo leader di quell’area, passando dal salotto di Barbara D’Urso agli strepiti dei talk show in cui spesso i pochi ospiti di sinistra assolvono involontariamente alla funzione di mere caricature. Può darsi che Mediaset decida di investire sulla maggior presentabilità di Giorgia Meloni o che vadano in cerca di figure alternative di qui al 2023. Si tratta di una partita aperta, resa ancor più incerta dal probabile ridimensionamento dell’influenza della destra nel riassetto di potere interno alla Rai, dove gli ascolti del Tg2 e dei conduttori orientati a destra restano deludenti.

Può aiutarci, nell’immaginare le future strategie della comunicazione nazionalpopulista italiana, seguire l’evoluzione in corso negli Stati Uniti prima e dopo la sconfitta elettorale di Trump. Archiviate le disastrose performance di Steve Bannon, sentendosi tradito da Murdoch e dalla sua Fox News Channel, nonché delegittimato su Twitter, Facebook e YouTube, il presidente sconfitto punta a riorganizzare la sua forza d’urto mediatica ricorrendo a network tv e social alternativi. Come ha ben raccontato Massimo Gaggi sul Corriere, The Donald ha cominciato a dirottare i fan verso altre reti tv disposte a trasmettere acriticamente la propaganda dei suoi “fatti alternativi” (quasi sempre bugie belle e buone). Una migrazione sarebbe in corso anche su nuovi siti dell’estrema destra, a cominciare da Parler, di proprietà della miliardaria Rebekah Mercer, che in una settimana ha visto raddoppiare da 5 a 10 milioni i suoi utenti. Questa pericolosa deriva della comunicazione politica, frazionata in compartimenti stagni nei quali ciascuno può sentirsi ripetere ciò in cui crede senza verifiche di realtà, è un fenomeno che da noi Mediaset sta già assecondando. Dubito che vi rinunci.

Ps. Una curiosità. L’articolo del 1996 sulla pace fra D’Alema e Mediaset era firmato da Fabrizio Rondolino che, quattro anni dopo, ritroveremo autore e capo della comunicazione del Grande Fratello.

 

Borat, lo stereotipo del kazako è solo imperialismo culturale

Se in Italia esistesse un Borat, cosa vedremmo nel suo nuovo film? Ecco la terza scena di cui si parla di più.

Una cospirazione a sua insaputa. Mentre la pellicola si avvia alle battute conclusive, Borat torna in Kazakhstan e apprende che la sua missione, promossa dalle autorità del Paese, era un piano per spargere il Coronavirus nel mondo: gli fu iniettato prima della partenza. A questo punto, un Borat inorridito ricorda che, durante la crociera verso Napoli, la nave fece uno scalo a Wuhan, Cina, dove Borat tossì più volte nel wet market sopra scimmie, pipistrelli, lombrichi e altre prelibatezze indigene. Borat fece una capatina anche in una piscina di Verona, dove starnutì addosso a Federica Pellegrini, che compare in un divertente cameo.

Recensione. Un Borat italiano non c’è. Però esistono le imboscate con telecamera, un must nei programmi del Biscione. Non sopporto gli autovelox (che ti multano anche quando superi di poco il limite di velocità su una carreggiata a quattro corsie completamente vuote, dunque senza pericolo per nessuno), figuriamoci se possono piacermi le imboscate a fini di ludibrio, per il divertimento altrui e il lucro del Berluscaz. È incredibile che in Italia non esista una legge che le proibisca tout court: con gli autovelox, almeno, c’è l’obbligo della segnalazione di preavviso. Perché invece è legittimo imporre una telecamera a chi non vuole? Non è forse una violenza contro la libertà personale? Gli articoli 13 e 41 della Costituzione sostengono che il diritto di libertà è un diritto naturale: il diritto a non subire imposizioni da altri soggetti, sia in una dimensione fisica che morale. Per non parlare del diritto alla riservatezza. Che quella molestia, aggravata dalla gogna web contro chi si sottrae, sia tollerata, resta per me un fenomeno inesplicabile come la jettatura. Che gli va augurata di tutto cuore, per ora non c’è altra difesa, ma non divaghiamo. Trovo che Borat manifesti due difetti imperdonabili: 1) lo stereotipo del villico sessista, razzista, antisemita, omofobo e misogino, realizzato in quel modo (per giunta da un inglese educato a Cambridge, che si fa forte di una presunta superiorità morale rispetto ai kazaki, una minoranza etnica presentata come un popolo che beve urina di cavallo fermentato, e ha uno scimpanzé come ministro della Cultura: imperialismo culturale stronzo), si presta all’equivoco, e infatti negli Usa gli spettatori sessisti, razzisti, antisemiti, omofobi e misogini ridono di gusto, prendendo Borat per un paladino che sdogana finalmente i loro istinti peggiori (Albanese è più bravo: con Cetto La Qualunque l’equivoco non è possibile); 2) le provocazioni di Borat sono forzature che troppo spesso vanno a vuoto. Prendete l’imboscata a Mike Pence: Baron Cohen si è presentato a una conferenza del Partito Repubblicano travestito prima da membro del Ku Klux Klan, poi da Donald Trump. Risultato: l’intruso viene portato via, fine. Durante un dibattito tv, invece, a una mosca è bastato posarsi due minuti sopra i capelli di Pence per diventare “la storia della serata” (Los Angeles Times) e farlo passare per un metaforico pezzo di merda: la satira è efficace, quando si sa come farla. Purtroppo Baron Cohen ha la forzatura come forma mentis. Un mese fa ha detto: “Se Facebook ci fosse stato negli anni 30, avrebbe permesso a Hitler di postare propaganda”. Questo j’accuse è diffamatorio, poiché l’apodosi del periodo ipotetico attribuisce al bersaglio della battuta, Facebook, un comportamento doloso del tutto inventato: lo dici tu, che Facebook avrebbe permesso la propaganda di Hitler, ma così la pisciata ti ritorna in faccia.

 

Miracolo Strada: dalle “infamie” del governo Prodi all’incarico di Chigi

Gino Strada usa le parole al modo in cui il falegname ripassa la carta vetrata sulle porte. Se dice “infame” non cambia il tono della voce. Non si adira, non si sgola. Lieve e preciso. Lo disse a Romano Prodi, accusato appunto di essersi reso protagonista “dell’infamia” di abbandonare in mano agli aguzzini del potente afghano dell’epoca, Karzai, il collaboratore di Emergency

dell’ospedale di Kabul, Rahinatullah Hanefi. Anni fa, tempo passato. Ma nel tempo, Strada ha avuto modo di bisticciare con tutti: D’Alema, Prodi, Monti, Renzi, Pd, naturalmente Forza Italia, logicamente Lega (“fascisti!”). Stava simpatico ad Andrea Gallo, il prete di strada, al quale è stato legato da un’amicizia indiscutibile e ai grillini. Che, nelle Quirinarie del 2013, lo candidarono a presidente della Repubblica. Risultò secondo, dopo Milena Gabanelli, e prima di Stefano Rodotà verso il quale diresse invece la sua investitura: “Saprà essere un buon presidente”. Ma anche con il M5S l’idillio presto finì perché Strada prese così male l’alleanza con la Lega da definire il governo “per metà formato da una banda di fascisti e per l’altra metà da una banda di coglioni”. I “coglioni” se ne adontarono e risposero piccati con la voce del sottosegretario Carlo Sibilia. Poi silenzio.

Perciò è un miracolo che questo medico specializzato a Standford e Pittsburg in Chirurgia cardiopolmonare e Chirurgia d’urgenza, in transito dentro i luoghi più pericolosi e fetenti della terra, oggi accetti di essere coinvolto da questo governo, sempre in bilico tra cambio e conservazione. Vero che è un tempo speciale, eppure Strada in Calabria non andrà a organizzare solo un buon triage nei pronto soccorso. La sua investitura appare invece come un mandato a dare spallate al sistema calabrese e farlo in modo organizzato. Il mandato gli viene da Giuseppe Conte, il presidente con la pochette nel taschino.

L’uso politico del virus e il virus reale

Il mio tg preferito aprirebbe con la ricerca affannosa delle bombole d’ossigeno. E con gli anziani abbandonati senza vaccinazioni. Alla chiacchiera politica dedicherebbe un breve spazio: dalle ultime (barzellette) sul commissario sanitario calabrese, alle baruffe di giornata tra pidini e grillini. Non intendo dare lezioni a nessuno, tantomeno ai colleghi che conoscono le regole dell’audience. Cerco di riflettere sull’ambivalenza tra fatti e parole al tempo del Covid-19. Una volta ci si allarmava per la distanza tra il Paese legale (il palazzo delle eterne promesse), e il Paese reale (i problemi dell’esistenza quotidiana). Oggi potremmo ugualmente parlare di virus reale e uso politico del virus, due parallele che non s’incontrano mai. Perché si può essere indignati (o amaramente divertiti) dalla tarantella calabrese del governo Conte (comunque un premier che ammette l’errore). Ma chi ha un congiunto con tosse forte, febbre alta, saturazione bassa e il medico lo avvisa che ha bisogno urgente di ossigeno, e costui gira per le farmacie alla ricerca di un contenitore, ma non lo trova, perché la domanda è aumentata del 400%, be’ non credete che il suo interesse per le ruggini politiche da quattro soldi sia pari a zero, come le bombole nelle farmacie?

Certo, non tutti gli italiani hanno il medesimo problema, ma ciò non toglie che tutti ci sentiamo immedesimati in una difficoltà che potrebbe colpirci, vista l’emergenza in cui siamo immersi. Potrebbe capitarci (chissà a quanti è capitato) quello che Silvia Truzzi ha raccontato sul Fatto

di ieri. Di una signora (la sua mamma) 79enne malata di cuore, priva di vaccino antinfluenzale perché il giorno dell’appuntamento presso l’ambulatorio gli è stato detto che le dosi erano “esaurite”. Forse arriveranno dopo il 23 novembre, “e nel frattempo restare in casa e sperare in un fato propizio”. Dovrebbe entrare nella testa di tutti che il nostro nemico comune è il virus, non l’avversario politico a cui sottrarre una manciata di voti. Che se le autorità di governo, o quelle regionali, si mostrano inadempienti, per esempio sull’ossigeno e i vaccini, compito dell’informazione sarà quello di segnalarlo a gran voce. Relegando il consueto, insopportabile scaricabarile partitico nel posto che merita. Questo riteniamo fosse il pensiero di Sergio Mattarella quando ha detto: “Basta dividerci o saremo travolti”. Dubito che sarà ascoltato.

Vitalizi, la mossa per salvare tutto con una “mancia”

Hanno chiesto di essere ricevuti al più presto ché Sua Presidenza, Maria Elisabetta Alberti Casellati può fare il miracolo a cui tanto anelano. Gli ex parlamentari colpiti negli affetti e più ancora nel portafogli dopo il taglio dei vitalizi, ora si attaccano a una ciambella di salvataggio di lusso: contano di chiudere la partita che più sta loro a cuore, grazie al provvidenziale intervento dei massimi vertici del Senato. Per trovare un accordo bonario e riavere il ripristino degli assegni, offrono come contropartita un contributo di solidarietà, ma ragionevole e soprattutto a tempo. Purché il vitalizio torni pieno, come ai tempi d’oro. Una soluzione che quelli dell’Associazione ex parlamentari definiscono “equa” e praticabile, grazie all’assist che gli ha fornito la sentenza della Commissione contenziosa presieduta dal forzista Giacomo Caliendo in primo grado, accogliendo le loro doglianze. “La richiesta di soluzione negoziata fa riferimento alla possibilità della Presidenza del Senato di modificare la delibera oggetto di contenzioso” hanno scritto alla Casellati con cui si lamentano per le irregolarità commesse dal nuovo organo di giustizia interna. Che, in attesa di decidere sul merito dei loro ricorsi, ha intanto congelato il ripristino immediato dei vitalizi attirandosi le ire degli ex senatori, già pronti a metterne in dubbio la serenità di giudizio. Invece di Casellati si fidano eccome: nel frattempo hanno inviato un esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo in cui denunciano la presunta violazione delle loro garanzie di difesa al Senato. La Camera l’hanno invece proprio diffidata perché ancora deve decidere in primo grado sui ricorsi che riguardano il taglio dei vitalizi degli ex deputati: vogliono una decisione entro un mese o denunceranno in Procura i componenti del Consiglio di giurisdizione insediato da Roberto Fico.

I nuovi collegi. Il ritorno del Rosatellum

L’obiettivo è minimo, ma in una maggioranza litigiosa sembra già un risultato: entro il 6 gennaio, 60 giorni dopo la promulgazione del presidente Mattarella del ddl sul taglio dei parlamentari (più i 15 di vacatio legis), il governo deve modificare i collegi del Rosatellum alla luce della vittoria del referendum che riduce gli eletti da 945 a 600. Sì, perché a oggi l’Italia non ha una legge elettorale applicabile e quindi non è tecnicamente possibile lo scioglimento delle Camere. Servirà al più presto un decreto legislativo del governo che, su parere dei tecnici, dovrà allargare i confini dei collegi attuali. Al momento poco è stato fatto anche per modificare i regolamenti parlamentari, fondamentali per far funzionare le Camere ridotte: solo la giunta di Montecitorio si è mossa ma senza aver prodotto modifiche. I capigruppo dei partiti di maggioranza martedì sera si sono riuniti con il ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà e non hanno potuto fare altro che ammettere lo stallo: il pacchetto di riforme istituzionali dei giallorosa è bloccato e se ne riparla nel 2021. Sia la nuova legge elettorale proporzionale su cui non c’è accordo (il M5S vuole le preferenze, il Pd i collegi) sia il voto ai 18enni per il Senato (stoppato da Iv) e la modifica della base regionale a Palazzo Madama.