Migliaia di ricorsi, una Babele di provvedimenti incomprensibili e un grosso gap di servizi tra una Regione e l’altra. La pandemia sta costringendo la politica a fare i conti con il ciclico problema del rapporto tra governo e amministrazioni locali, impegnate ora a chiedere più autonomia e ora, invece, a evocare decisioni dall’alto uguali per tutti.
L’urgenza di oggi è la Sanità, ma il dibattito è ampio e riguarda tutte quelle materie richiamate nel titolo V della Costituzione, la parte della Carta che regola proprio la relazione tra Stato ed enti locali e che più volte si è tentato di modificare, oscillando tra pulsioni federaliste e centraliste. Fallita la riforma di Matteo Renzi del 2016, siamo allora fermi al 2001, quando il centrosinistra modificò ormai a fine legislatura il titolo V, ottenendo poi la legittimazione popolare con il referendum. “Una mossa pensata per rincorrere la Lega – ricorda il costituzionalista Massimo Villone, all’epoca senatore Ds – che in quegli anni guadagnava consenso parlando prima di secessione e poi di federalismo”.
Dal 2001 competenze fondamentali sono in mano alle Regioni, che le esercitano in maniera esclusiva o tutt’al più in concorrenza con lo Stato: sanità, Protezione civile, gestione di porti e aeroporti e così via.
Le cose, però, non sono andate come si sperava. Con un corollario reso eloquente dai numeri: dal 2001 a oggi la discordanza tra governo e Regioni ha intasato la Corte costituzionale con ben 2.089 ricorsi.
Sanità allo sbando Per una fotografia della sanità in Italia, per una volta, è il caso di partire dalla conclusione: “Il sistema sanitario è caratterizzato da ampi divari territoriali, che mettono a rischio l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza e possono contribuire alle diseguaglianze”. Il testo non è a firma di qualche barricadero dello statalismo, ma dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), l’organismo indipendente che vigila sulla finanza pubblica. Un anno fa ha pubblicato un ampio report sulla nostra sanità, evidenziando dati allarmanti sia per il calo degli stanziamenti dei governi sia per come questi soldi sono stati utilizzati.
A un taglio di quasi 2 miliardi di spesa tra il 2010 e il 2018 è corrisposto un forte ridimensionamento del numero di medici e infermieri: nel 2017 il personale a tempo indeterminato era diminuito di circa 43.000 unità rispetto a dieci anni prima. La situazione si aggrava nelle Regioni in piano di rientro, ovvero quelle che vengono affiancate dal governo per mettere a posto il disavanzo della propria sanità. Il problema è che, quando interviene, il ministero dell’Economia si occupa di raddrizzare i conti, senza curarsi della qualità dell’assistenza. E infatti, come scrive l’Upb, “il disavanzo si è ridotto da 4,7 miliardi nel 2006 a poco meno 0,4 nel 2018”, ma non si è generata “una riorganizzazione complessiva dell’offerta sanitaria”. Stesso concetto che ci chiarisce Villone: “La sanità è stata data in mano alle Regioni e lo Stato si è occupato solo del portafoglio. Tutti i commissariamenti non sono stati fatti per migliorare il servizio, ma per ridurre i costi”.
Secondo Eurostat, in Italia il numero di posti letto negli ospedali è sceso da 3,9 ogni mille abitanti (2007) a 3,2 (2017), contro una media europea calata da 5,7 a 5. Il tutto senza che si potenziasse la rete extra-ospedaliera, tanto è vero che i posti letto in strutture residenziali per cure a lungo termine nel 2017 erano 4,2 ogni mille abitanti in Italia, contro gli 8,2 nel Regno Unito, i 9,8 in Francia e gli 11,5 in Germania.
I posti in strutture per anziani mostrano poi enorme disomogeneità tra le Regioni: nel 2017 la disponibilità era di circa 70 posti ogni mille anziani a Trento, di 28 in Piemonte e Lombardia, ma addirittura sotto ai 2 ogni mille anziani in Val d’Aosta, Molise, Campania e Basilicata. Così anche per i posti in hospice: dagli oltre 5 letti ogni 100 deceduti per tumore in Sardegna si scende al di sotto di 1 letto in Campania, Calabria e Sicilia.
Mancano i “lea” Un quadro complessivo che, come anticipato, evidenzia “ampi divari territoriali”, ma anche difficoltà a mantenere gli impegni sui livelli minimi di assistenza. Lo Stato ha infatti da tempo assegnato la competenza della sanità alle Regioni – prima della riforma del 2001 c’erano state la legge 833 del 1978, la 502 del 1992 e la riforma Bassanini di fine anni 90 – fissando però dei paletti sui servizi minimi da garantire. Come scrive l’Upb, “tutte le Regioni del Sud, il Lazio, la Provincia di Bolzano, la Val d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia” non assicurano questi livelli di assistenza.
Lo Stato sarebbe potuto intervenire in questi mesi? In Costituzione non esiste una clausola di supremazia, anche se il professor Villone ne sottolinea l’urgenza: “Nel 2001 fu eliminato ogni riferimento alla preminenza dell’interesse nazionale, ma fu un grave errore”.
La Carta, all’articolo 120, consente ancora allo Stato di sostituirsi alle Regione in situazioni di estrema gravità, ma il governo non è mai ricorso a questa extrema ratio che di certo, anche da un punto di vista politico, ha ricadute ben più pesanti rispetto a una più semplice clausola di supremazia.
Altri flop Il quadro non è migliore se si analizzano altre materie la cui competenza è in mano alle Regioni. A certificare i guai del trasporto pubblico locale, per esempio, è un rapporto di Cassa depositi e prestiti: l’Italia ha mezzi vecchi e inquinanti, e le principali aziende del settore – quasi tutte partecipate da Regioni o Comuni – sono in crisi. Nel 2018 l’età media dei mezzi del Tpl era di 12 anni, a fronte di una media europea di 7. Il nostro parco mezzi è pure il più inquinante, perché il 71% è a diesel, mentre le compensazioni pubbliche costituiscono ben il 55% delle entrate delle aziende, per un servizio che Cdp definisce “inefficiente, con conseguenti costi elevati per la collettività”.
Grande attenzione si è data poi in questi ultimi anni allo stato dei Centri per l’impiego, emanazione regionale del vecchio il sistema di collocamento di dipendenza ministeriale. Prima del piano di potenziamento del 2019, la situazione era ferma alla legge Bassanini del 1997, in parte rivista col Jobs Act. I numeri di Isfol parlavano chiaro: negli anni della crisi, in Italia, c’erano circa 8 mila dipendenti nei centri, in Francia 50 mila, nel Regno Unito 67 mila. Maurizio Del Conte, ex presidente Anpal, nel 2018 ammetteva che i Cpi erano in grado di trovare lavoro “al 3% dei disoccupati”, al fronte di un obiettivo del 10%.
Non è tutto. La riforma del 2001 ha infatti aperto la strada alle richieste di autonomia differenziata che durante il governo gialloverde stavano per essere esaudite. Il rischio più evidente è ben rappresentato da quel che il governo aveva concordato con Veneto e Lombardia sulla Scuola, una delle materie a competenza concorrenziale: programmi scolastici differenziati, bandi locali e soprattutto assunzione degli insegnanti da parte delle Regioni, con possibilità di integrare il contratto nazionale. Una bella occasione per i lombardi-veneti, ma l’addio all’unità nazionale del servizio scolastico.