“Stop allo strapotere dei governatori: ora serve una riforma”

“Con uno Stato debole assistiamo allo strapotere dei presidenti di Regioni”. Gianfranco Viesti, professore di Economia all’Università di Bari, lo scorso anno era stato tra i primi a denunciare i rischi di un’autonomia differenziata. Oggi, mentre si parla di riforma del Titolo V della Costituzione, torna a sottolineare come “certe competenze non possano essere in mano alle Regioni” e che “non sempre decentrare è la scelta migliore”.

Professor Viesti, la pandemia ha messo a nudo le debolezze della nostra sanità. Un errore affidarsi alle Regioni?

Il governo ha delegato tutto alle Regioni senza preoccuparsi di verificare che il diritto alla salute fosse garantito ovunque. Questo significa che non c’è stato nessun indirizzo nazionale su come dovessero essere i vari sistemi regionali, e a marzo ce ne siamo accorti tutti. E allora c’è chi, come la Lombardia, ha prosciugato i servizi territoriali privilegiando i grandi ospedali. E poi c’è un problema di mancato controllo sui livelli minimi di assistenza: ogni anno si certifica che certe Regioni non li rispettano, ma la questione finisce lì.

Così si spiegano enormi differenze tra una Regione e l’altra?

Mi sembra che il tema, oltre che giuridico, sia politico. Nel senso che all’indebolimento dei partiti e del governo è corrisposto un enorme rafforzamento dei presidenti di Regione che spesso strabordano e finiscono pure per schiacciare i sindaci, che invece meriterebbero più spazio perché loro sono davvero vicini ai propri cittadini.

Quando cita il tema giuridico si riferisce alla mancanza di una clausola di supremazia a favore dello Stato?

Non sono un costituzionalista, ma una clausola di questo genere potrebbe sicuramente favorire l’attuazione di quegli indirizzi comuni che lo Stato dovrebbe essere in grado di dare.

Esistono temi su cui, a prescindere da chi governa, la responsabilità dovrebbe essere dello Stato centrale?

Certamente sì. La sanità è uno di questi. Gli esperti ci dicono che nei prossimi anni sarà vitale raggiungere i cittadini con una assistenza territoriale capillare, altrimenti avremo grosse difficoltà. Questo lo può imporre solo lo Stato. Oppure penso alle politiche industriali: i grandi indirizzi di intervento pubblico per favorire l’innovazione devono essere nazionali, se non europei. Noi ne abbiamo avuti 21 diversi.

Però si dice spesso che avvicinare il legislatore ai cittadini semplifica le cose.

L’esperienza traumatica di questi mesi ci ha fatto capire che mettere ordine tra leggi nazionali e ordinanze locali va a beneficio del cittadino, che altrimenti è spiazzato. Ma non è affatto detto che affidarsi alle Regioni sia sempre meglio.

Riformare il Titolo V disinnescherebbe il pericolo dell’autonomia differenziata?

L’autonomia sarebbe un rischio mortale che non credo sia ancora scampato. Per mille motivi non è il tempo di andare verso quella direzione, spero che i partiti facciano i conti con se stessi e lo capiscano.

Bisogna superare il regionalismo?

Credo ci voglia equilibrio, riportare tutto al centro non ha senso tanto quanto delegare tutto alle Regioni. Preferirei si intervenisse col bisturi, andando a lavorare sulle competenze in cui c’è maggior criticità. Fermo restando che parte dei guai di questi anni, penso per esempio alla sanità, è responsabilità anche dai governi: le Regioni hanno speso male, ma a Roma si sono tagliati miliardi di fondi, oltre ad aver mancato i controlli.

Le regioni del titolo V. Anatomia di un disastro

Migliaia di ricorsi, una Babele di provvedimenti incomprensibili e un grosso gap di servizi tra una Regione e l’altra. La pandemia sta costringendo la politica a fare i conti con il ciclico problema del rapporto tra governo e amministrazioni locali, impegnate ora a chiedere più autonomia e ora, invece, a evocare decisioni dall’alto uguali per tutti.

L’urgenza di oggi è la Sanità, ma il dibattito è ampio e riguarda tutte quelle materie richiamate nel titolo V della Costituzione, la parte della Carta che regola proprio la relazione tra Stato ed enti locali e che più volte si è tentato di modificare, oscillando tra pulsioni federaliste e centraliste. Fallita la riforma di Matteo Renzi del 2016, siamo allora fermi al 2001, quando il centrosinistra modificò ormai a fine legislatura il titolo V, ottenendo poi la legittimazione popolare con il referendum. “Una mossa pensata per rincorrere la Lega – ricorda il costituzionalista Massimo Villone, all’epoca senatore Ds – che in quegli anni guadagnava consenso parlando prima di secessione e poi di federalismo”.

Dal 2001 competenze fondamentali sono in mano alle Regioni, che le esercitano in maniera esclusiva o tutt’al più in concorrenza con lo Stato: sanità, Protezione civile, gestione di porti e aeroporti e così via.

Le cose, però, non sono andate come si sperava. Con un corollario reso eloquente dai numeri: dal 2001 a oggi la discordanza tra governo e Regioni ha intasato la Corte costituzionale con ben 2.089 ricorsi.

Sanità allo sbando Per una fotografia della sanità in Italia, per una volta, è il caso di partire dalla conclusione: “Il sistema sanitario è caratterizzato da ampi divari territoriali, che mettono a rischio l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza e possono contribuire alle diseguaglianze”. Il testo non è a firma di qualche barricadero dello statalismo, ma dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), l’organismo indipendente che vigila sulla finanza pubblica. Un anno fa ha pubblicato un ampio report sulla nostra sanità, evidenziando dati allarmanti sia per il calo degli stanziamenti dei governi sia per come questi soldi sono stati utilizzati.

A un taglio di quasi 2 miliardi di spesa tra il 2010 e il 2018 è corrisposto un forte ridimensionamento del numero di medici e infermieri: nel 2017 il personale a tempo indeterminato era diminuito di circa 43.000 unità rispetto a dieci anni prima. La situazione si aggrava nelle Regioni in piano di rientro, ovvero quelle che vengono affiancate dal governo per mettere a posto il disavanzo della propria sanità. Il problema è che, quando interviene, il ministero dell’Economia si occupa di raddrizzare i conti, senza curarsi della qualità dell’assistenza. E infatti, come scrive l’Upb, “il disavanzo si è ridotto da 4,7 miliardi nel 2006 a poco meno 0,4 nel 2018”, ma non si è generata “una riorganizzazione complessiva dell’offerta sanitaria”. Stesso concetto che ci chiarisce Villone: “La sanità è stata data in mano alle Regioni e lo Stato si è occupato solo del portafoglio. Tutti i commissariamenti non sono stati fatti per migliorare il servizio, ma per ridurre i costi”.

Secondo Eurostat, in Italia il numero di posti letto negli ospedali è sceso da 3,9 ogni mille abitanti (2007) a 3,2 (2017), contro una media europea calata da 5,7 a 5. Il tutto senza che si potenziasse la rete extra-ospedaliera, tanto è vero che i posti letto in strutture residenziali per cure a lungo termine nel 2017 erano 4,2 ogni mille abitanti in Italia, contro gli 8,2 nel Regno Unito, i 9,8 in Francia e gli 11,5 in Germania.

I posti in strutture per anziani mostrano poi enorme disomogeneità tra le Regioni: nel 2017 la disponibilità era di circa 70 posti ogni mille anziani a Trento, di 28 in Piemonte e Lombardia, ma addirittura sotto ai 2 ogni mille anziani in Val d’Aosta, Molise, Campania e Basilicata. Così anche per i posti in hospice: dagli oltre 5 letti ogni 100 deceduti per tumore in Sardegna si scende al di sotto di 1 letto in Campania, Calabria e Sicilia.

Mancano i “lea” Un quadro complessivo che, come anticipato, evidenzia “ampi divari territoriali”, ma anche difficoltà a mantenere gli impegni sui livelli minimi di assistenza. Lo Stato ha infatti da tempo assegnato la competenza della sanità alle Regioni – prima della riforma del 2001 c’erano state la legge 833 del 1978, la 502 del 1992 e la riforma Bassanini di fine anni 90 – fissando però dei paletti sui servizi minimi da garantire. Come scrive l’Upb, “tutte le Regioni del Sud, il Lazio, la Provincia di Bolzano, la Val d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia” non assicurano questi livelli di assistenza.

Lo Stato sarebbe potuto intervenire in questi mesi? In Costituzione non esiste una clausola di supremazia, anche se il professor Villone ne sottolinea l’urgenza: “Nel 2001 fu eliminato ogni riferimento alla preminenza dell’interesse nazionale, ma fu un grave errore”.

La Carta, all’articolo 120, consente ancora allo Stato di sostituirsi alle Regione in situazioni di estrema gravità, ma il governo non è mai ricorso a questa extrema ratio che di certo, anche da un punto di vista politico, ha ricadute ben più pesanti rispetto a una più semplice clausola di supremazia.

Altri flop Il quadro non è migliore se si analizzano altre materie la cui competenza è in mano alle Regioni. A certificare i guai del trasporto pubblico locale, per esempio, è un rapporto di Cassa depositi e prestiti: l’Italia ha mezzi vecchi e inquinanti, e le principali aziende del settore – quasi tutte partecipate da Regioni o Comuni – sono in crisi. Nel 2018 l’età media dei mezzi del Tpl era di 12 anni, a fronte di una media europea di 7. Il nostro parco mezzi è pure il più inquinante, perché il 71% è a diesel, mentre le compensazioni pubbliche costituiscono ben il 55% delle entrate delle aziende, per un servizio che Cdp definisce “inefficiente, con conseguenti costi elevati per la collettività”.

Grande attenzione si è data poi in questi ultimi anni allo stato dei Centri per l’impiego, emanazione regionale del vecchio il sistema di collocamento di dipendenza ministeriale. Prima del piano di potenziamento del 2019, la situazione era ferma alla legge Bassanini del 1997, in parte rivista col Jobs Act. I numeri di Isfol parlavano chiaro: negli anni della crisi, in Italia, c’erano circa 8 mila dipendenti nei centri, in Francia 50 mila, nel Regno Unito 67 mila. Maurizio Del Conte, ex presidente Anpal, nel 2018 ammetteva che i Cpi erano in grado di trovare lavoro “al 3% dei disoccupati”, al fronte di un obiettivo del 10%.

Non è tutto. La riforma del 2001 ha infatti aperto la strada alle richieste di autonomia differenziata che durante il governo gialloverde stavano per essere esaudite. Il rischio più evidente è ben rappresentato da quel che il governo aveva concordato con Veneto e Lombardia sulla Scuola, una delle materie a competenza concorrenziale: programmi scolastici differenziati, bandi locali e soprattutto assunzione degli insegnanti da parte delle Regioni, con possibilità di integrare il contratto nazionale. Una bella occasione per i lombardi-veneti, ma l’addio all’unità nazionale del servizio scolastico.

Conte apre al dialogo con B. E Sassoli anti-Mes agita i dem

Alla fine Giuseppe Conte si intesta l’apertura a Forza Italia. Ieri sera Palazzo Chigi fa sapere che “ha dato mandato ai capidelegazione di coinvolgere i capigruppo per verificare la disponibilità a stabilire un percorso di dialogo e collaborazione con FI”. Nessuna disponibilità a un allargamento della maggioranza, ma a un “tavolo con le opposizioni”. Le difficoltà del momento e il pressing del Pd evidentemente hanno giocato un ruolo. Anche se ieri sera, salvo sorprese, appariva tramontata la possibilità di un relatore di minoranza per la manovra, che avevano chiesto Silvio Berlusconi e Antonio Tajani, incassando l’entusiastica apertura del Nazareno. Il leader di FI non regge la rottura del centrodestra. E il M5S non vuole avallare l’operazione alla luce del sole. Ma resta l’ipotesi di un tavolo di proposte condivise tra maggioranza e FI. Mentre Berlusconi assicura che è disposto “a valutare il voto favorevole allo scostamento di bilancio”. Al Nazareno l’irritazione per l’arenarsi della trattativa con B. è stata tangibile per tutto il giorno.

“Il governoballa”, dice più di una fonte. Ma balla anche a causa di dinamiche europee che si intersecano con quelle italiane. Mentre è in corso l’ennesimo tentativo dei leader Ue per sbloccare lo stallo sul Recovery Fund, si è aperto un dibattito sulla cancellazione dei debiti accumulati dai governi per rispondere al Covid e la riforma del Mes. A lanciare il tema è stato il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, domenica. Ricevendo consensi trasversali: dall’area cattolica, a partire da Enrico Letta, a una parte dei Cinque Stelle per arrivare alla sinistra più radicale, Stefano Fassina in primis. In Italia la sua uscita viene considerata una via di mezzo tra un sasso nello stagno e un pugno in faccia. I big del Pd si sono affrettati a prendere le distanze. Dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri a Nicola Zingaretti, passando per il Commissario Ue Paolo Gentiloni (che però solo la settimana scorsa si era espresso a favore della sospensione del Patto di Stabilità fino al 2023). Una posizione a tutela soprattutto degli equilibri attuali del nostro paese rispetto all’Europa. Ma ad applaudire Sassoli, oltre a esponenti di governo, come Peppe Provenzano, sono molti degli europarlamentari dem, a partire da Simona Bonafè e soprattutto da Massimiliano Smeriglio, uomo di punta dell’area di Goffredo Bettini.

Come spesso accade, i grandi temi vanno di pari passo alle ambizioni personali. Sassoli fu il primo a lanciare a luglio 2019, la necessità del dialogo con Conte (allora premier del governo gialloverde) “per cambiare l’Europa”. Oggi è considerato candidato a tutto (da presidente della Repubblica a premier), ma intanto quello che fa è parlare a un’area politica più vasta del Pd. In fondo, il progetto di Bettini, che sogna una sorta di coalizione democratica con dentro tutti, tranne Lega e Fd’I. A monte, ci sono le difficoltà del governo e la voglia di rimpasto di Bettini, come di Renzi. Progetto per il quale ogni movimento può essere utile. Dal leader di Iv che vuole allargare la maggioranza a FI a Sassoli che ancora ieri dice a Zingaretti, che lo aveva attaccato: “Serve coraggio”.

Calabria, è tutto fermo. Oggi protestano i sindaci

Il nome ancora non c’è. La partita per il nuovo commissario alla Sanità in Calabria è in stand by, perché prima di annunciare e formalizzare qualsiasi nuovo incarico, questa volta, si vuole scandagliare ogni dettaglio che possa farlo fallire. Una prudenza obbligata, dopo le due nomine a vuoto in una settimana.

Caduti i due commissari nominati dal governo dopo la rimozione del generale Saverio Cotticelli (il primo, Giuseppe Zuccatelli, per un video in cui giudicava “inutili” le mascherine; il secondo, Eugenio Gaudio, per un ripensamento attribuito a ragioni familiari), il terzo nome non si può sbagliare. Giuseppe Conte si è assunto la responsabilità degli “errori” commessi finora e di conseguenza pure quella della soluzione da trovare. Ma la ricerca è assai complicata, perché se già prima non era facile trovare professionisti disposti ad affrontare una grana che si trascina da undici anni in una terra così difficile, dopo gli scivoloni degli ultimi giorni è ancora più complicato raccogliere disponibilità. Il governo per ora si accontenta dell’accordo chiuso con Gino Strada: anche quello partito in salita, ma risolto martedì dopo un colloquio col premier Conte e un incontro con il ministro Francesco Boccia e il capo della Protezione civile Angelo Borrelli.

Da ieri Emergency lavora al progetto di sostegno degli ospedali calabresi (in particolare strutture da campo e Covid hotel), che partirà “al più presto”. Ma serve ancora molto altro. E in particolare una figura amministrativa, manageriale, che assuma l’onere del commissariamento. Per dirla con il procuratore Nicola Gratteri – che pure sta indagando sulla situazione della sanità in Calabria e sulla gestione della emergenza nella regione – “gestire un ospedale in Africa non è la stessa cosa che in Calabria. Qui il problema è le ruberie e l’acquisto dei materiali. C’è bisogno di un manager, non di un medico”. Tra i manager, continua a circolare il nome dell’ex colonnello della Guardia di Finanza, Federico D’Andrea, ma diverse fonti indicano che non sarà lui il nome prescelto. Girano anche i curriculum dell’ex prefetto Francesco Paolo Tronca, perfino quello del viceministro Pierpaolo Sileri. Palazzo Chigi si trincera nel silenzio, ma il tempo stringe e una soluzione va trovata in tempi rapidi, come testimonia la scelta del ministro Boccia di presiedere la conferenza Stato-Regioni, domani, proprio da Catanzaro. Oggi una sessantina di sindaci calabresi si riuniranno in un sit in davanti alla sede del governo. Non è servito a fermarli il fatto che Conte abbia convocato, sempre per oggi, una delegazione di Anci Calabria. Il sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà, esponente del Pd, chiede “un maggiore coinvolgimento nelle scelte” perché “non vogliamo subire né colonizzazioni né scelte calate dall’alto, senza che ci siano concertazione e condivisione”. Protesta anche la senatrice di Italia Viva (ex M5S) Silvia Vono, che sostiene le richieste dei sindaci perché “finora non siamo stati ascoltati dal presidente Conte e dal governo”. E il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, ieri durante l’assemblea annuale dell’Anci, ha detto di condividere la proposta di Falcomatà a proposito del coinvolgimento dei sindaci nella scelta del commissario.

La toga Matteo ci riprova: ora querela pure Davigo

Matteo Renzi ha la mano lesta per proporre cause civili. Ha dato mandato ai suoi avvocati di citare in giudizio Piercamillo Davigo, piccato dalle dichiarazioni rese dall’ex magistrato a Giovanni Floris, su La 7. Qual è la grande offesa di Davigo nei confronti del senatore da poco indagato a Firenze insieme a Luca Lotti e Maria Elena Boschi per finanziamento illecito ai partiti? “Io mi sono chiesto se Renzi sa di cosa parla – ha esordito Davigo –, ha detto che io violo la Costituzione, in particolare la presunzione di innocenza, quando io ho detto che ci vorrebbe cautela quando uno è raggiunto da indizi o prove di reati. Ma lui – ha proseguito l’ex consigliere Csm – quando era presidente del Consiglio, fece approvare una legge per il licenziamento immediato dei furbetti del cartellino. Io mi aspettavo solo la cautela, lui il licenziamento in tronco senza giudizio. Poi sono io quello poco garantista”. Renzi, siccome vuole fare causa civile a Davigo, stavolta ha usato parole di elogio dei giudici su Twitter: “Credo talmente nella magistratura che ho deciso di agire in sede civile contro il dottor Davigo. Vedremo i suoi colleghi giudici cosa faranno davanti alle evidenti falsità delle sue affermazioni”. Tutta un’altra musica renziana per i pm fiorentini che indagano su di lui e il Giglio magico. Nei giorni scorsi li aveva accusati di essere mossi “da ansia di visibilità”.

Open, l’amico di Bisignani e la donazione saltata di Pirelli

Oggi è il capo delle relazioni istituzionali della società pubblica Leonardo, quotata in borsa e controllata dal ministero dell’economia nell’era del Governo giallorosa. Nel 2014 invece Filippo Maria Grasso cercava di portare contatti e contributi alla Fondazione Open legata al neo-premier Matteo Renzi. Quattro anni prima metteva in contatto l’allora ministro del Governo Berlusconi Stefania Prestigiacomo con Luigi Bisignani che aveva già patteggiato 2 anni e sei mesi per la tangente Enimont del 1992. Insomma Grasso è davvero un uomo per tutte le stagioni perfetto per andare d’accordo con i renziani, al governo allora come ora.

Nel 2014, quando dialoga con Alberto Bianchi, allora presidente della Fondazione Open, Grasso era direttore degli affari istituzionali del gruppo Pirelli. Lo scambio di mail tra i due è finito agli atti dell’inchiesta della procura di Firenze sulla Fondazione nella quale sono iscritti per concorso in finanziamento illecito, oltre che Bianchi, l’ex premier Matteo Renzi e gli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi. Mentre in un altro filone l’imprenditore Patrizio Donnini è indagato per autoriciclaggio e appropriazione indebita e lo stesso Bianchi per traffico di influenze. Grasso è completamente estraneo all’indagine fiorentina ma è interessante leggere quelle mail perché raccontano bene come i lobbisti si adattino al mutare della scena politica.

Grasso si impegna per fare ottenere alla Open un contributo (non effettuato) dalla Pirelli. Inoltre si muove per far inserire nell’albo dei fornitori della Pirelli la società Dot Media, di cui è socio al 20 per cento Alessandro Conticini, fratello di Andrea Conticini, cognato di Matteo Renzi.

La prima mail segnalata dalla Guardia di Finanza è del 27 febbraio 2014, 5 giorni dopo il giuramento del Governo Renzi. Bianchi invia a Grasso “una veloce presentazione della Dotmedia, in caso Pirelli fosse interessata ad inserirla tra i suoi fornitori.” Lo stesso giorno Grasso “in merito alla ‘presentazione Dotmedia’, comunica a Bianchi che può ‘anticipare a questo signore’ che sarebbe stato chiamato a breve dai suoi collaboratori per approfondire l’opportunità di essere inserito nel loro albo fornitori”.

Il 3 marzo 2014 Bianchi scrive a Grasso: “Caro Filippo, facendo seguito ai colloqui intercorsi, ti confermo l’interesse della Fondazione Open a ricevere un contributo da Pirelli s.p.a., per le proprie finalità statutarie, in modalità riconducibili alla sponsorizzazione di eventi, o mediante versamento sul c/c della Fondazione, secondo quanto potremo concordare”. Alla fine però non si concretizza nulla. Al Fatto, che ha chiesto se abbia mai finanziato Open o pagato Dot Media o altre società legate a Donnini, Pirelli risponde che dalle verifiche effettuate emerge solo “un rapporto intercorso con la società Dot Media nel 2016 per la realizzazione di un progetto di digital marketing, affidato a esito di processo di gara, per un importo complessivo al netto di Iva pari a 29.500 euro”.

Il nome di Filippo Maria Grasso (mai indagato) emerse nel 2010 nell’indagine della procura di Napoli su Luigi Bisinani e la cosiddetta P4. Intercettando Bisignani i pm scoprirono i rapporti confidenziali di Grasso con l’amico Luigi. I due organizzavano pranzi e cene anche con Stefania Prestigiacomo e la sua ex assistente (entrambe estranee all’inchiesta). Proprio Grasso mette in contatto Bisignani (mentre è intercettata la telefonata) nel maggio del 2010 con l’allora ministra dell’ambiente che voleva consigli. In un altro processo celebre, quello sulle presunte intercettazioni abusive in Telecom, Grasso (mai indagato) è stato convocato come persona informata sui fatti. Nell’indagine su Giuliano Tavaroli disse “di avere avuto presentato Marco Mancini (007 ora al Dis, ndr) da Tavaroli (ex responsabile sicurezza di Telecom Italia, ndr), il quale glielo aveva presentato come suo grande amico”.

Manager navigato con esperienze in Cina, Grasso è stato scelto a luglio per tenere i rapporti con le istituzioni e lavora sotto il presidente di Leonardo, Luciano Carta, che era a capo dell’AISE. Nelle mail tra Bianchi e Grasso si parla anche di Enel. Il responsabile relazioni istituzionali della società pubblica allora era Gianluca Comin ma è Grasso a proporsi: “Grasso – è scritto negli atti – fa presente a Bianchi che ‘Comin di Enel’ sarebbe interessato ad avere contatti con la Fondazione e gli chiede se lo vuole incontrare”.

Bianchi declina l’invito di Grasso “precisando che al momento non vuole incontrare ‘Comin’ per ragioni di opportunità”. Forse perché due mesi dopo, ad aprile 2014, l’allora presidente della Open sarà nominato nel cda di Enel.

 

Torino, la Procura generale non fa ricorso: lo stupro resta senza colpevole 5 anni dopo

Drogata di Lorazepam, medicinale che lui le versò nel bicchiere durante un presunto incontro chiarificatore, e poi stuprata, quando era incosciente. La mattina dopo, la tipica sensazione di non ricordare nulla. Ma per avere giustizia una donna di Torino ha impiegato cinque anni. Alla fine ha ottenuto il diritto ad avere un risarcimento dall’ex marito dalla Corte di Cassazione, che si è espressa sulla questione ai soli fini civili.

Ma l’uomo non verrà condannato, perché, dopo la sua assoluzione in Appello – che ribaltò la condanna a cinque anni di primo grado – la Procura generale non ha fatto ricorso. Alle legali di parte civile della donna quindi non restava che una carta: ricorrere alla Suprema corte, senza l’appoggio della procura generale, consapevoli del fatto che la pronuncia sarebbe stata valevole ai soli fini civili. “La legittimazione ad impugnare ai fini della responsabilità penale – spiega l’avvocata della donna, Silvia Lorenzino dei centri antiviolenza Emma – è riservata alla procura competente. La parte offesa può impugnare solo le statuizioni civili. Senza la Procura generale la signora ha proceduto da sola”. La Cassazione ha riconosciuto che la donna ha subito violenza sessuale e che quindi le spetta un risarcimento. Una vittoria per lei. “Al contrario della Corte d’Appello – precisa l’avvocata Lorenzino con la collega Alessandra Lentini – la Cassazione ha creduto alla versione della signora, rilevando anche come la sentenza di secondo grado abbia valutato in modo errato gli accertamenti tossicologici che provavano l’assunzione del Lorazepam e quindi l’induzione dello stato di incoscienza”. Il caso risale al 21 ottobre 2015. La protagonista della storia da mesi è di fatto separata dal marito, ma i due vivono ancora nella stessa casa. Il fatto che abbiano tre figlie complica l’iter. Quella sera, lui le chiede di andare a prendere un aperitivo, per chiarire alcuni aspetti della separazione. Al bar basta un attimo, il tempo di alzarsi dal tavolo, per permettere a lui di versarle nel bicchiere del Lorazepam, forte ansiolitico. Al pubblico ministero lei dirà: “Ricordo di avere trovato il vino pesante. Della serata non ricordo più nulla”. Il mattino dopo la donna scopre che l’uomo da cui si sta separando è nel suo letto. Sugli slip e sulle lenzuola ci sono tracce. Saranno gli esami ad accertare sia il Lorazepam nelle urine, che il liquido seminale sugli slip. L’ex marito nega ogni addebito. Il tribunale lo condanna a cinque anni. In secondo grado però viene assolto. Lei non si arrende e si rivolge alla Cassazione, che ha annullato la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili. Sarà ora un giudice civile ad avere l’ultima parola.

Fondazione Cybersecurity, Conte costretto allo stop: “La norma non entra in manovra”

“A nome del presidente del Consiglio vi comunico che la norma relativa alla Fondazione per la Cybersicurezza non andrà nella manovra”. È stato Gennaro Vecchione, direttore del Dipartimento delle informazioni per la Sicurezza a informare il Copasir della decisione del governo. I membri del Comitato hanno trovato singolare il fatto che Conte lo abbia usato come “un portavoce”. La norma non era stata condivisa con il Pd, che ha avuto delle obiezioni soprattutto sul metodo. Troppo delicato il tema per trattarlo così. Troppo a rischio in Parlamento. Da qui lo stralcio. All’inizio di settembre 50 deputati M5S si opposero alle norme che cambiavano le regole per il rinnovo dei vertici dei servizi, varata dal governo a agosto. Conte mise la fiducia. Ora ha cercato di intervenire sulla stessa materia. Sullo sfondo, la guerra interna all’intelligence sulle future nomine di inizio dicembre: si dà per scontata la proroga di Vecchione al Dis, voluta dal premier. Mario Parente, vicino al Pd, all’Aisi risulta di fatto già prorogato. In corso la battaglia sui vice.

Lega, le regioni all’attacco: “Noi fuori da zona rossa”

La data è già cerchiata in rosso: venerdì 27 novembre. Oppure lunedì 30. Non prima perché i dati, per passare da una zona rossa a arancione, devono migliorare per 15 giorni consecutivi. Ma nemmeno dopo ché poi arriva il Natale e “i nostri ristoratori e commercianti non possono stare chiusi per più di un mese”, dice un leghista lombardo. E allora ieri il primo a iniziare a fare pressione sul governo per chiedere l’alleggerimento delle misure restrittive è stato Attilio Fontana, governatore leghista della Lombardia che da settimane subisce le direttive di Matteo Salvini che avrebbe voluto addirittura l’impugnazione dell’ordinanza del ministero della Salute sulla zona rossa: “Il Natale deve essere vissuto con una certa libertà – ha detto il presidente leghista – in Lombardia abbiamo avuto un significativo miglioramento e siamo arrivati in cima al plateau: oggi rientreremmo nella zona arancione”. Migliorano i parametri ma non la situazione del vaccino antinfluenzale, attualmente in disponibilità “ridottissime” secondo una mail inviata da Ats Lombardia resa nota dal Pd (ma in serata la regione ha smentito”).

Un assaggio di quella che sarà la strategia della giunta con Roma: aspettare qualche giorno e se i dati continueranno così, chiedere già dalla prossima settimana di allentare le misure (“Nessuno ci provi” ha avvertito il sindaco di Varese, Davide Galimberti). Oppure proporre almeno la zona arancione in alcuni comuni – la Bassa Lodigiana – e in alcune province, come le meno colpite Bergamo e Brescia per dare respiro a commercianti e ristoratori. Nella Lega infatti raccontano che il leader tutti i giorni riceve telefonate da sindaci e consiglieri regionali che chiedono di “farsi sentire” perché “la nostra base non la teniamo più”. Il miglioramento dovrà essere certificato in tutti e 21 i parametri perché ancora ieri la Lombardia aveva 7.633 casi in più (-1.300 rispetto a martedì), con 182 morti e gli ospedali che scoppiano.

Ma l’appello non arriva solo dal presidente lombardo, ma anche dal collega del vicino Piemonte, anch’esso rosso da inizio novembre. E allora l’uscita sembra quasi concordata, perché il governatore Alberto Cirio va in tv e la dice dritta: “Da venerdì scorso il Piemonte è potenzialmente in zona arancione, se al 30 novembre avremo mantenuto questi dati potremo uscire dalla zona rossa”. Il Piemonte ieri ha fatto registrare 3.281 casi in più rispetto ai 2.600 di martedì.

Ma Fontana e Cirio non sono gli unici governatori di centrodestra che premono per riaprire il prima possibile. Salvini nei giorni scorsi ha mandato avanti il presidente della Regione Friuli Massimiliano Fedriga, in odore di sostituire Bonaccini alla guida della Conferenza Stato-Regioni, per chiedere di rivedere i 21 parametri e di semplificarli a 5 ottenendo il niet del governo (il Friuli è zona arancione da questa settimana), mentre l’altro che pressa è Giovanni Toti, che esclude la possibilità che la Liguria diventi zona rossa e accusa i “catastrofisti” di provare “un sottile piacere nel pronosticare un Natale cupo, chiusi in casa e lontani dagli affetti”. Per questo il governatore in due settimane chiederà di poter tornare in zona gialla.

Il piano Bertolaso: tutti nelle Marche, nel “suo” ospedale

Il super “consulente volontario” all’emergenza Covid in Umbria, Guido Bertolaso, arriva a Perugia e nel giro di due settimane vara un piano straordinario dove un terzo delle nuove terapie intensive saranno previste nel “suo” ospedale di Civitanova Marche, a più di 150 km dal capoluogo umbro. Tutto ciò mentre la Usl locale comunica il depotenziamento di due ospedali in provincia di Terni. Il ricorso alla struttura “provvisoria” marchigiana, costata 18 milioni di euro e voluta in primavera proprio dall’ex capo della Protezione civile (già in carica con lo stesso ruolo di consulente nelle Marche su input dell’ex governatore Luca Ceriscioli) si sarebbe reso “necessario” anche per i continui intoppi e ritardi sulla realizzazione dell’ospedale da campo di Bastia Umbra (4,5 milioni per 12 posti di rianimazione), annunciato il 7 aprile dalla governatrice leghista Donatella Tesei e che non sarà inaugurato prima del 17 dicembre.

L’“astronave” sul mare di Civitanova è stata descritta da molti come un flop: aperto e chiuso nel giro di 10 giorni a giugno, è stato riattivato il 21 ottobre. Il problema è che se l’Umbria vorrà utilizzarlo, dovrà portarci tutto il necessario: dai macchinari al personale sanitario. “Non siamo in grado di organizzare il modulo – ha ammesso l’assessore marchigiano Filippo Saltamartini – perché dovremmo sottrarre medici, internisti e anestesisti da altri nostri reparti”.

L’arrivo di Bertolaso in Umbria è stato annunciato da Tesei il 30 ottobre e formalizzato con una delibera di giunta del 4 novembre. Del 6 novembre la comunicazione della Usl Umbria 2 ai sindaci di Narni e Amelia che il personale specialistico di anestesia e rianimazione sarebbe stato trasferito altrove: “Ma dopo le nostre animate proteste, si sta lavorando per ridefinire il provvedimento”, chiarisce il sindaco di Narni, Francesco De Rebotti. Nel frattempo Bertolaso ha varato un “piano di salvaguardia” della sanità umbra in cui, si legge, “si prevede di realizzare – tra le altre cose – ulteriori 40 posti letto in Terapia intensiva”, di cui 14, appunto, a Civitanova, con “sottoscrizione di specifico accordo quadro con la Regione Marche”.

Per la verità, Bertolaso in Umbria per ora non si è visto molto. Alle principali occasioni pubbliche ha presenziato Patrizia Arnosti, per molti una “delegata di fatto”. Arnosti è direttrice generale e socia di Promedia srl, società di engineering di Teramo – ma con sede operativa a Roma, dove Bertolaso è in pole position come candidato sindaco di centrodestra – che ha materialmente realizzato l’ospedale di Civitanova, anche grazie al contributo determinante dell’Ordine di Malta. Altro socio della Promedia è l’amministratore unico Raffaele Di Gialluca, ingegnere e fratello di Vincenzo, ex consigliere regionale di Forza Italia in Abruzzo.

In questi mesi, Pd e M5S avevano presentato due progetti alternativi, anche rispetto all’ospedale da campo di Bastia Umbra, per il recupero di strutture pubbliche. La prima si trova a 100 metri dall’ospedale di Terni ed è nota come “Ex milizia”, un vecchio centro di ricerca per le cellule staminali, di proprietà dell’Ater e pressoché inutilizzato. L’altra è a Perugia, in zona Monteluce, anche questa disponibile per essere subito riconvertita.

La prima mozione congiunta è addirittura del 22 aprile. “Togliere medici dai nostri ospedali per mandarli in altre regioni sarebbe una scelta scellerata – attacca Thomas De Luca, consigliere regionale del M5S in Umbria –. Mandare i pazienti umbri, il nostro personale sanitario e i macchinari di terapia intensiva a Civitanova Marche, più che al sistema sanitario regionale sembrerebbe essere utile a trovare un senso al criticato ‘Bertolaso Hospital’ marchigiano”.