Contagi, la curva si è stabilizzata. “Ma di morti ne vedremo tanti”

Diminuisce il rapporto positivi/tamponi, dal 17,9% di martedì al 14,6% di ieri. Ai primi di ottobre era al 3%. I nuovi casi registrati dalle Regioni sono stati 34.282 con 234.834 test. Al ministero della Salute vedono una “stabilizzazione dei contagi”, sia pure “a un livello molto alto”, negli ultimi 14 giorni il più alto dell’Europa occidentale dopo l’Austria. Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, ieri mattina diceva “siamo arrivati in cima al plateau, presto inizierà la discesa”. Ce lo auguriamo tutti. Intanto aumentano i morti, 753 notificati ieri contro 590 in media nei 7 giorni precedenti (sono 47.217 in totale). I ricoveri, invece, aumentano meno delle scorse settimane.

“Di morti ne vedremo ancora tanti”, dice il professor Massimo Galli del Sacco di Milano, perché dipendono da “infezioni avvenute nei giorni scorsi”. È la pressione sugli ospedali che preoccupa il governo. Con i 430 ricoveri di ieri, il dato più basso del mese, siamo a 33.504 pazienti nei reparti ordinari, da giorni oltre il picco del 4 aprile che era stato a 29.010. Ci sono altre 3.670 persone nelle terapie intensiva, occupano il 45% degli 8.000 posti letto attualmente attivi. Diciassette tra Regioni e Province autonome hanno superato la soglia, fissata al 30% perché una volta superato quel limite rischia di non trovare posto chi deve essere intubato per un incidente grave, un ictus, un infarto o un intervento chirurgico (urgente, quelli non urgenti sono rinviati quasi ovunque). I pazienti Covid nelle rianimazioni ieri sono aumentati di 58, anche qui il dato più basso nelle ultime settimane. Negli ultimi sette giorni sono aumentati di poco meno del 20 per cento, a ottobre raddoppiavano in otto-nove giorni. Per la prima volta, anche in valore assoluto, sono aumentati meno della settimana precedente: 581 in più da mercoledì 11 a ieri, 789 unità in sette giorni.

“Ma non c’è ancora un appiattimento della curva, tutt’al più un rallentamento che dovrà consolidarsi, ci auguriamo, nelle prossime due settimane. Se anche oggi fossimo a contagi zero, i pazienti in terapia intensiva e anche i ricoveri ordinari continuerebbero ad aumentare per due settimane perché il loro contagio risale a 10-15 giorni prima”, spiega Giorgio Presicce, analista della Regione Toscana che ha condiviso con noi le sue elaborazioni e i suoi grafici. In alcune Regioni – Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia-Giulia, Alto Adige, Marche – l’aumento è anche più contenuto della media nazionale. “E la durata dei ricoveri in terapia intensiva, in media, è di 14-15 giorni”, ricorda Presicce, cioè i letti restano occupati a lungo. Insomma, i casi gravi diminuiranno davvero solo a due settimane dal calo dei contagi registrati, difficile non superare il picco di 4.068 (4 aprile) quando però c’era una minore dotazione di posti letto. Le diagnosi seguono ormai di ben cinque giorni, si legge nell’ultimo report dell’Istituto superiore di Sanità, la comparsa dei sintomi (prima la media era 3, in Piemonte sono 9). Anche per questo, iniziando più tardi le cure, aumentano i casi gravi. Ci sono poi i caschi di ventilazione anche nei reparti di pneumologia e malattie infettive, “così evitiamo di mandare in terapia intensiva molti pazienti che necessitano di supporto respiratorio”, spiegava giorni fa il professor Massimo Andreoni, direttore dell’Infettivologia di Roma Tor Vergata. E intanto, osserva ancora Galli, “purtroppo le terapie intensive si svuotano più con i decessi che per le guarigioni.”

Detto questo, una conferma della “stabilizzazione” viene dal leggero calo nelle chiamate d’emergenza nella Regione Lombardia. Ma sui contagi, specie tra i fisici, c’è chi dubita. Giorgio Sestili, sulla pagina Facebook “Analisi Numerica e Statistica Dati Covid-19”, osserva che il tasso apparente di letalità (il rapporto tra decessi e positivi rilevati) è passato dall’1,25% registrato fino a metà ottobre all’1,7%. La sua ipotesi è che “si stiano sottostimando i casi positivi, che aumentano più velocemente rispetto alla capacità di fare i tamponi”, come dimostrerebbe anche il rapporto positivi/tamponi che ora a quanto pare scende, ma da ottobre era salito dal 3 al 17%. Gli epidemiologi, però, sono scettici su una relazione così diretta tra contagi rilevati e decessi.

Cuore di mamma

Non essendo mai riuscito ad arrivare primo alle elezioni politiche, l’Innominabile si accontenta del record mondiale della lite temeraria. Così, non bastando le 15 intentate al Fatto, ne annuncia una contro Davigo, colpevole di avergli ricordato in tv che “non basta essere onesti: bisogna anche sembrarlo” (alla parola “onesti”, ha messo mano alla fondina). Ora, non vorremmo frustrare le sue scarse speranze residue, ma temiamo che il record sia già assegnato di diritto per almeno trent’anni a Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidentessa del Senato, che ci ha appena recapitato un atto di citazione ineguagliabile. Più che una causa civile, una pièce teatrale che inaugura un nuovo genere drammaturgico: il vaudeville giudiziario. Già la “premessa in fatto” è irresistibile: “L’attrice (cioè lei, ndr) è notissimo avvocato matrimonialista, di fama nazionale, che ha sempre condotto grandi battaglie a tutela delle donne e dei minori…”: tipo Ruby, la celebre nipote di Mubarak, almeno secondo la mozione votata nel 2011 dal centrodestra, Casellati compresa. “…e in generale a sostegno della famiglia in tutte le sue espressioni”: infatti nel 2005, sottosegretaria alla Salute, assunse come capo della sua segreteria sua figlia Ludovica con uno stipendio – scrisse Gian Antonio Stella sul Corriere – “di 60mila euro l’anno, quasi il doppio di quanto guadagna un funzionario ministeriale del 9° livello con 15 anni di anzianità”.

Ma l’autoagiografia prosegue: “Scesa in politica (sic, ndr) nell’anno 1994 ha assunto fin da subito ruoli di vertice…”: tipo presidente di commissione, vicecapogruppo di FI, sottosegretario e commissario provinciale del partito a Rovigo. “…distinguendosi per competenza ed equilibrio, e manifestando grande dignità e rispetto nei confronti delle istituzioni”: infatti nel 2013 partecipò alla gazzarra dei parlamentari forzisti davanti al Tribunale di Milano che osava processare il suo capo e, quando quello fu condannato per frode fiscale ed espulso dal Senato per legge (Severino), si presentò in aula di nero vestita insieme alle altre prefiche in segno di “lutto per la democrazia” contro un fantomatico “plotone di esecuzione”. Caso tipico di equilibrio, grande dignità e rispetto nei confronti delle istituzioni. Esaurita la causa di autobeatificazione, si passa alle vite dei congiunti. La figlia Ludovica lavora a Mediaset e Publitalia ’80, poi “per ragioni familiari si dedica esclusivamente al cicloturismo”, diventando subito “un punto di riferimento per il mondo a due ruote”, ma anche “nel mondo del web”, dove “è conosciuta come Ladybici”. Accipicchia. Spiace che, nella fretta, sfugga alla biografa l’impiego di Ladybici a capo della segreteria di mammà.

Poi c’è il figlio Alvise, “violinista, manager e direttore d’orchestra”, che voi non ci crederete, ma è “considerato uno dei talenti emergenti degli ultimi anni”. Cuore di mamma. Voi direte: ma perché vi fa causa? Perché il Fatto “ha imbastito una pressoché quotidiana campagna di dileggio dell’attrice (sempre lei, ndr)”. E non perché abbiamo pubblicato fatti falsi (sono tutti veri), ma perché lei è “donna, per di più eletta nella lista di Forza Italia”. Insomma, siamo sessisti: mica come il suo capo, sempre così rispettoso del gentil sesso fin dalla più tenera età. Segue una lista di articoli improntati al “vituperio e vilipendio” che avrebbero leso la sua immacolata reputazione e rovinato la sua vita e la sua famiglia: tipo quelli sulle strabilianti coincidenze fra i concerti di Alvise in giro per il mondo e le sue missioni istituzionali nelle stesse località, anche le più remote ed esotiche, tipo Colombia e Azerbaijan (dov’è popolarissima e tutti la vogliono); e sul suo strano vitalizio extralarge, esteso agli arretrati del Csm, in barba ai regolamenti parlamentari.

A noi parevano fior di notizie, non su una passante, ma sulla seconda carica dello Stato, che potrebbe pure diventare la prima (Dio ci conservi Mattarella). Invece per lei dare notizie vere è “stalking mediatico” e “fuoco di fila circa tre volte la settimana”, prima e dopo i pasti. La prova? Siamo “l’unica testata nel panorama della stampa ad aver mantenuto un tale atteggiamento”, mentre le altre non le danno mai fastidio. Il che – testuale – “allontana qualsiasi ipotesi di oggettiva esigenza notiziale”. L’idea che noi facciamo i giornalisti notiziali e altri i camerieri servili non la sfiora. E dire che si crede “in primis giurista”. Infatti ci accusa di averla “colpita nei suoi affetti più cari” e, per tutta risposta, ci colpisce nel portafogli. Però si contenta di poco: 150mila euro. E “non certo per finalità di locupletazione personale”: solo per lenire un po’ “l’incidenza negativa” dei nostri articoli “sulla qualità di vita dell’attrice”. Si è sentita poco bene? Peggio: è “condizionata dall’automatica insorgenza di remore ogni qual volta ella, come madre, si trovi a condividere esperienze e successi dei figli”. Pensa di nominare Ludovica da qualche parte? Ecco insorgere automatica la remora: oddio, cosa scriverà il Fatto? Non solo. La “campagna mediatica la turba, avvilisce e scoraggia dal partecipare ai concerti del figlio Alvise” e addirittura “la induce a rinunziare spiacevolmente e ingiustamente alla propria presenza ai concerti, e alla passione per la musica”: non mette più su nemmeno un disco, per dire, “quando la musica è interpretata e diretta dal figlio”. Non so voi. Ma io, nei panni del Maestro Alvise, qualche domanda me la farei.

“Sì, sono forte. Ma non voglio dimenticare i miei 15 anni”

“Tutto è una sorpresa”. Esordisce così Benedetta Pilato, brillante nuotatrice tarantina classe 2005 specialista dello stile rana, nel commentare questi giorni a Budapest per l’International Swimming League (la Champions del nuoto) dove ha fatto faville. Nella prima giornata di gara delle semifinali, il 14 novembre scorso, Benedetta vince la gara dei 50 rana, stabilendo il nuovo record italiano: 28,86, diventando anche la prima italiana a scendere sotto i 29 secondi. Ma non basta: il giorno dopo, ecco il bis nei 100 metri. Arrivata stavolta seconda, Benny (questo il suo nome di battaglia) completa le vasche in 1’ 03’’ 55, tempo che è il nuovo record italiano. L’abbiamo raggiunta al telefono alla fine di un giorno di riposo dalle gare: “Solo dalle gare, però – spiega – oggi ne ho approfittato per fare i compiti e studiare, anche se ogni giorno seguo le lezioni a distanza”. Quindicenne con in testa le canzoni di Jovanotti, iscritta al liceo scientifico a Taranto ma tesserata per il Circolo Aniene di Roma, pronunciare il nome di Benedetta Pilato equivale dunque a dire “record”. L’anno scorso ai Mondiali di nuoto a Gwangju in Corea del Sud, era stata l’atleta azzurra più giovane a debuttare in un campionato mondiale, la più giovane medagliata e la prima italiana a scendere sotto il muro dei 30 secondi nei 50 rana. E che avesse qualcosa di speciale – un misto di entusiasmo e fuoco – lo si era notato già in quell’occasione quando, con al collo l’argento, sfoggiava un’acconciatura eccentrica: metà capelli rossi e metà biondo platino.

Cos’era successo?

Se ci penso, mi viene ancora da ridere. Ora svelo un piccolo segreto: quando entri in nazionale c’è una specie di simpatico battesimo. I maschi vengono rasati in modo strano, e noi ragazze invece giochiamo con la tinta. Quello fu il mio.

Ma torniamo ai successi di oggi. Cosa rappresentano i record di questi giorni?

Moltissimo. Si è trattato di una conferma. L’anno scorso, dopo la medaglia a Gwangju, si era scatenata molta aspettativa su di me. E, ammetto, ero impreparata, la mia famiglia era impreparata. Ho fatto fatica a gestire quell’attenzione mediatica. Seppure una campionessa, non voglio dimenticarmi di essere una ragazzina. Ed è con questo spirito che voglio continuare a nuotare: divertirmi. Per me, il nuoto è divertimento. Non voglio pensare oggi che domani potrebbe essere il mio lavoro, come spero. Voglio restare così, leggera. E la leggerezza mi permette di trasformare l’aspettativa degli altri che credono in me in forza per migliorarmi. È vero che con il mio allenatore (Vito D’Onghia, ndr) siamo ambiziosi, ma voglio vivermi gara dopo gara.

Quindi delle finali di sabato lì a Budapest possiamo parlare?

Sì, certo: sono molto ambiziosa, lo ripeto, e ho ottime sensazioni sulle mie prestazioni.

La Pilato campionessa sta rubando qualcosa a Benedetta quindicenne?

A volte mi mancano le uscite, gli amici. Oppure, poiché mi piacciono le materie scientifiche (tranne la fisica, ride) all’università vorrei iscrivermi a Medicina ma, se le cose continuano ad andare così come mi auguro, non avrò il tempo di frequentare ogni giorno. Però, la felicità per la vita che mi sono scelta supera tutto e non mi sento “derubata”, anzi, tutti i sacrifici li faccio per me, perché voglio diventare una grande campionessa.

Quando hai iniziato a nuotare?

A due anni mi hanno messo in acqua e non ho più smesso. La passione, al principio, fu di mio padre, che da ragazzo nuotava a livello agonistico, ma era più per farmi fare uno sport completo. All’inizio, i miei genitori nemmeno volevano gareggiassi, perché temevano trascurassi la scuola. Poi a cinque anni disputai la prima gara, mi piacque e ho continuato.

E la svolta, quando è arrivata?

Diciamo che sono sempre stata abbastanza brava, ma nel 2018, a 13 anni – un’età da gare juniores – mi sono qualificata per i Campionati italiani Open senior. Sono partita per Riccione e ho vinto la medaglia d’argento. Anche se, devo dire, che è difficile allenarsi al Sud. Mancano le strutture. Io vivo a Taranto e ho avuto la fortuna di trovare l’allenatore giusto, ma per allenarmi in una piscina da 50 m devo arrivare a Bari o a Roma.

Cosa non si fa per le Olimpiadi, giusto?

(Ride, pausa) Mi auguro di continuare così, e di continuare a vivere il nuoto e la mia vita così: con umiltà e divertimento.

“Re Nudo”: la rivista che ha fissato il sesso, i suoni e la politica degli anni Settanta

“Re Nudo nasce nell’ambito di una società di mutuo soccorso, per riportarci a pensare che stiamo sbagliando direzione, che è necessario riconnetterci con noi stessi. E questa non è fantasia, non è esoterismo: è saggezza” scrisse Fabrizio De André, uno dei tanti illustri compagni di viaggio del “primo giornale rivoluzionario a colori” di cui esce, il 26 novembre, un’antologia esauriente. Mezzo secolo dopo il debutto della rivista che ha illuminato a giorno la controcultura e il pensiero alternativo post-sessantottino. Centrale, a modo suo, nei tumultuosi e magmatici anni settanta, di cui è stata un gioioso contravveleno stampato. Piombo buono e creativo contro quello delle P38. 406 pagine selezionate dal fondatore Andrea Majid Valcarenghi: “Majid” perché lui, come tanti, in pieno 1977, annus mirabilis e horribilis del movimento e dell’autonomia, si rifugiò in India folgorato sulla via di Osho, l’originale, di cui divenne persino ambasciatore al suo rientro in Italia. Dentro il volume, edito da Interno 4 Edizioni, trovate un “reader’s digest” dei suoi articoli, con perle epocali come le interviste a William Burroughs e Allen Ginsberg e la stratificazione di testimonianze, per dirne qualcuno, di Enzo Jannacci e Francesco Guccini, Giorgio Gaber e Franco Battiato, Dario Fo e Vasco Rossi. Femminismo e outing omosessuale, antiproibizionismo e psichedelia, situazionismo francese e provos olandesi, comuni hippie e ricerca spirituale, culto del tempo libero “liberato” e controinformazione, grande musica internazionale e istanze ecologiste ante litteram. Provocazioni e critica delle istituzioni totali, lotta di classe e fumetti, buddismo e giustizia sociale: quando il privato era politico, ma poteva anche essere un viaggio senza dogmi a mare aperto. Lanciato nella Milano fine sixties, ottenebrata dalla strage di Piazza Fontana, il primo numero di Re Nudo uscì nel novembre del 1970. Il primo fermo biologico di questo mensile eccentrico e anticonformista c’è stato nel 1980: un ciclo, editoriale e generazionale, si era chiuso per sempre. È poi tornato in edicola nel 1996, ma in maniera completamente diversa, ascetica e zen. Restano impressi nell’immaginario collettivo gli eventi pop/rock che il giornale organizzò dal 1971: i cosiddetti festival del proletariato giovanile (il suo parco-lettori di riferimento), happening di massa che trovarono il loro zenit e punto di non ritorno nell’edizione 1976 del parco Lambro a Milano. Altri tempi. Come il loro slogan: “Cambiamo la vita, prima che la vita cambi noi”.

Ora basta con questi compagni. “Non si può suonare gratis”

Riportiamo parte di una discussione pubblicata nel giugno del 1976 su “Re Nudo”; un confronto tra Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Nanni Ricordi, Gianfranco Manfredi e Stefano Segre dopo una serata al Palalido.

Guccini: “Questa storia dei Palazzi. Non sono nati per la musica: li usi perché è una struttura grande, e avendo solo una sera a disposizione…”.

Gaber: “Perché solo una?”

Guccini: “Partiamo da situazioni diverse: io sono molto brado, non sono un professionista, anche se ormai lo faccio di mestiere, più o meno, perché non mi riesce di fare altro. Però io che faccio spettacoli è solo un anno e mezzo, anche se sono 10 anni che suono e faccio canzoni. E questo proprio perché io questa cosa qui non la volevo fare. E mi sono lasciato coinvolgere, anzi, sono stato coinvolto, costretto a farmi coinvolgere, per le telefonate e le richieste. Sai cosa ti dico? Sto cercando l’occasione buona per smettere di fare i Palazzetti. E poi non sono un cazzo d’accordo sul discorso: la musica gratis. Una cazzata! E c’è un gran casino, perché questa gente rivendica la musica gratis in nome della tradizione popolare, non è mai stata gratis, l’individuo musicale, che era uno che suonava e cantava in mezzo ad altri che non suonavano né ballavano, era remunerato in un certo modo, e allora, noi non dobbiamo mangiare? Però è giusto, quando la gente s’incazza e dice: arriva il superdivo, va su, ci racconta le sue cazzate, se ne va, e poi noi rimaniamo con le nostre sfighe. La musica è nostra, facciamocela noi, dicono. Va bene, benissimo, bravi, io me ne sto a casa mia, non me ne frega niente… Però quando c’è la fabbrica occupata o qualsiasi altra cosa, chiamano a suonare me e non Giovanni Spupazzoni. Allora bisognerebbe agire in maniera diversa, adesso non so se lo spettacolo tradizionale ha ancora un suo valore. Un po’ sì. D’altra parte bisognerebbe trovare un altro modo, che so, ci dovrebbe essere un’organizzazione di un certo tipo, ma non selvaggia, fatta artigianale, perché allora alternativo vuol dire brutto. Ma andare avanti così non è possibile, Io per esempio, adesso, ho 400 richieste di spettacoli, e ci son dentro tutti: Lotta Operaia, Potere Continuo, Avanguardia Proletaria, gli Incazzati Rossi. E tutti fanno spettacoli, e tutti mi vogliono. E io mi trovo a fare uno spettacolo, e quelli che m’han chiamato, m’hanno rotto per mesi, mi rendo conto che di me non gliene frega un cazzo. Sanno però che Guccini richiama un certo numero di persone, e quindi lo fanno per soldi”.

Gaber: “C’è il grosso equivoco: ti usano come un divo di sinistra. Cioè questo qui è uno che richiama. Non gliene frega un cazzo di quello che fai te. E tutto è ancora fermo a Vittorini e Togliatti: la politica è una cosa e la cultura è un’altra. Non c’è nessun tipo di rapporto tra iniziativa politica e contenuto di quello che andiamo a cantare. Ma su questo bisogna fare chiarezza, perché poi è anche ricattatorio; mi incazzo quando mi fanno i ricatti: o vieni, o se non vieni non sei un compagno! Ma vaffanculo! Allora non sono un compagno, la coscienza sporca io me la sento lo stesso, e non è che me la pulisca così”.

Guccini: “Ho una storia esemplare. Il circolo di Ottobre di Treviso decide di organizzare una serie di spettacoli. Affittano un tendone a 600.000 lire a sera. E già questo è allucinante, perché nessuno si prende la briga di fare il culo a questo signor X che becca seicentomila lire senza fare un cazzo. Poi per la prima sera chiamano Schultz. Fanno una serata buca. E mi arriva la telefonata: ‘Vieni, altrimenti andiamo nella merda, siamo rovinati”. D’accordo. Arrivato su, ci siamo messi d’accordo: tirate via le 600 mila, tirata via la SIAE, abbiamo deciso il 50%. Alla fine del concerto, arriva sul palco l’organizzatore. ‘Cari compagni, sapete che è arrivato Schultz che ci ha chiesto trecentomila lire’ e giù fischi. ‘È venuto il compagno Paraponzi e gli abbiamo dato 40 mila lire’. E tutti ad applaudire. ‘Guccini ha chiesto cinquecentomila lire’. E giù fischi della madonna! Io dico: scusate, non ho capito bene…!! M’avete fatto venire fin qua che io non volevo; io ho preso centomila lire meno di questo signore del tendone che nessuno nomina; abbiamo tirato via la Siae e tu mi prendi per il culo? E poi si sono incazzati. Gente che saliva e diceva: quando io penso che l’operaio in un mese prende duecentomila lire, tu ti fai in una sera mezzo milione… E allora anch’io ti dico che ho le mie spese, non sempre suono, non ho la pensione, non ho la mutua…”.

Porro apre il circo: Mary Jo Maglie e la salma di Sgarbi

Nicola Porro è molto attivo sui social. Ogni giorno o quasi ci regala una diretta social in cui, con la scusa di commentare i fatti del giorno, fa sempre le stesse cose: difende Salvini, dileggia Conte, percula le Sardine, offende Massimo Galli e insulta il Fatto Quotidiano. Durante il lockdown mi faceva molto tenerezza, perché era il contraltare d’insuccesso delle mie Scanzi Live. Un costante vorrei ma non posso che mi inteneriva non poco.

Ha pure un sito tutto suo, dove ospita un campionario di fenomeni mica da ridere. Più che un sito, il suo è un Circo Barnum per freak neuronali.

(..) Porro, cinquantun anni e sartoria di medio pregio, conduce come (forse) noto il talk show Quarta Repubblica. E il titolo è ottimo, perché non vuol dire un cazzo: proprio come il programma. Gli ospiti pressoché fissi sono le spoglie mortali di Sgarbi e l’uomo dal cognome doppiamente fallico Capezzone, a conferma di come le disgrazie non vengano mai sole. Nell’ecosistema buffamente lunare di Rete 4, che dopo il Rinascimento abortito di Gerardo Greco ha vissuto la più greve delle restaurazioni, Porro è il finto equidistante: dunque il peggiore. Laddove Giordano e Del Debbio si divertono un mondo con la loro ostentata faziosità antisinistrorsa, il poro Porro si traveste da economista bipartisan (sic) e invita una foglia di fico di sinistra (che spero riceva cachet enormi, altrimenti è bischera parecchio) per sembrare oggettivo. E per esporla alla mitraglia delle spoglie mortali di Sgarbi, del doppiamente fallico Capezzone e della Maglie.

Porro vive il dramma straziante di avere notorietà, senza però vantare un pubblico disposto a seguirlo (a meno che non sia gratis). I suoi libri hanno vendite stitiche, non genera appartenenza e se facesse spettacoli a pagamento non riempirebbe neanche il tinello di Fassino. Spiace.

Maria Giovanna Maglie, detta (da me) Mary Jo Jersyes, è la Murgia di destra.

Entrata in Rai grazie a Craxi, uscita dalla Rai grazie alle “spese pazze”. Adoratrice dell’ultima Fallaci. Trumpiana sfegatata, salviniana indemoniata, meloniana di rimbalzo.

Però ha anche dei difetti.

Vive su Rete 4, dove la usano come doberman in quota rosa, e sui social, dove ha meno seguito di Facci. Ascoltarla è un piacere, leggerla un dovere.

Le va poi riconosciuta una dote spiccata: svetta in eleganza. In ogni suo gesto e azione, si avverte come un che di Audrey Hepburn. Essa è Vita, Nume e Luce. Il Faro della conoscenza che illumina il nostro diuturno sconcerto.

Sia dunque somma lode a Mary Jo.

Si chiama Christian D’Adamo. Su Facebook si definisce così: “Naziskin, omofobo, xenofobo, antidemocratico, anticostituzionale, anticomunista e antisemita”. Un intellettuale, ecco.

Trentadue anni, pizzaiolo. Candidato a Fondi (Latina) alle elezioni amministrative all’interno della lista “Mastrobattista sindaco”. La polemica viene meritoriamente innescata dall’Anpi. Fondi è un feudo di Forza Italia. Roberto Maroni, allora ministro dell’Interno, chiese due volte senza esito lo scioglimento per mafia del consiglio comunale. A settembre la lotta per il sindaco è stata tutta a destra: o Forza Italia, o Mastrobattista (e il pizzaiolo naziskin).

Anche il candidato sindaco, l’avvocato Giulio Mastrobattista, è al centro delle critiche. Mastrobattista ha pubblicamente commentato una fotografia (non compromettente) postata dal pizzaiolo fascio, scrivendo quanto segue: “Quando vedo giovani come te il mio cuore si riempie di gioia, perché il futuro è vostro”.

E se il futuro è di quelli come D’Adamo, siamo alla canna del gas. Mastrobattista (Fratelli d’Italia) era stato accusato in passato anche di avere fatto il saluto romano, ma lui ha sempre negato. In merito al naziskin D’Adamo, presente nella sua lista, ha preso (solo alla fine) le distanze: “Siamo contrari a qualsiasi atto che vada contro ai principi della Costituzione, coniata su specifici valori”.

Tira proprio una brutta aria.

Ritiro truppe da Afghanistan e Iraq: conferma dal Pentagono

La Washington dei due presidenti è una rissa continua. Nel Congresso, che torna a riunirsi – ha davanti quattro settimane utili e a gennaio, s’insedierà quello uscito dal voto del 3 novembre – e alla Casa Bianca, dove tutti respirano aria di smobilitazione, tranne Donald Trump, che non abbassa la guardia.

Sul Campidoglio, litigano sulle misure a sostegno dell’economia Democratici e Repubblicani; ma litigano soprattutto fra di loro i democratici. In discussione c’è la carica di speaker della Camera, che Nancy Pelosi, 80 anni, vorrebbe conservare per almeno un’altra legislatura, mentre la sinistra vorrebbe un’alternanza: politica e generazionale. Nell’Amministrazione, consiglieri e collaboratori del magnate presidente faticano a tenerlo a bada: per il New York Times, Trump ha sondato il suo staff sull’ipotesi d’un attacco a un sito nucleare iraniano, ma ne sarebbe stato dissuaso: si ipotizza si tratti del sito di Natanz, dove, secondo l’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Teheran continua ad accumulare e arricchire uranio. Intanto il Pentagono conferma ritiro delle truppe da Afghanistan e Iraq. Il presidente eletto Joe Biden continua a mettere insieme la sua squadra e a parlare con i leader di mezzo Mondo. Addirittura “calorosa” – la definizione è di fonti di Gerusalemme – la telefonata con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che pure è sempre stato molto vicino a Trump (e viceversa). Ieri, Biden ha annunciato nuovi membri del suo staff alla Casa Bianca: scelte che promuovono donne e uomini della sua campagna, che saranno coordinati dal capo di gabinetto Ron Klain. Spicca, fra le molte donne, Jen O’Malley Dillon, la manager della campagna e ora la ‘numero due’, mentre Mike Donilon, lo stratega, sarà consigliere politico.

Il clan Bolsonaro si lecca le ferite

Non erano semplici elezioni municipali nel Paese che conta 165mila morti per Covid-19 e oltre 5 milioni di infetti: le preferenze espresse dalla popolazione domenica scorsa in Brasile erano un test per le elezioni del 2022, l’anno in cui pianifica di ricandidarsi il presidente dell’ultradestra Jair Bolsonaro. Brutte notizie per lui: questa tornata elettorale è giàstata registrata dagli osservatori come quella della “sconfitta dei bolsonaristi”. Supportati dal governo, erano in corsa sei candidati negli Stati federati: solo due ce l’hanno fatta, mentre quattro degli uomini del presidente sono stati sconfitti dalla giovane generazione di politici di sinistra. Nella terza città del Brasile, a Belo Horizonte, il conservatore Bruno Engler, 23 anni, ha ottenuto solo ciò che gli ha lasciato Alexandre Kalil, che ha raggiunto la vittoria con il 63% delle preferenze totali. Alfredo Menezes, amico di lunga data di Bolsonaro, ha perso nella città amazzonica di Manaus. Patricia Domingon, che secondo il presidente doveva estirpare via il “comunismo del nord-est”, è uscita sconfitta a Recife, capitale del Pernambuco. A Rio, raggiunge il secondo turno l’impopolare evangelico Marcelo Crivella, ma i dubbi che otterrà la carica permangono.

Il commentatore politico Josias de Souza, ritiene che “di tutte le Waterloo inflitte a Bolsonaro domenica scorsa, la più devastante è stata quella di San Paulo”, dove Celso Russomanno ha dovuto cedere il passo ad un altro candidato di destra, Bruno Covas, che sfiderà al ballottaggio del prossimo 29 novembre una delle nuove punte di diamante della sinistra brasiliana, Guilherme Boulos. A urne chiuse, Joao Doria, governatore della regione, ha dichiarato senza mezzi termini: “La democrazia ha vinto, Bolsonaro ha perso”. Nel Paese sudamericano ha avuto un buon risultato quella che qualcuno già chiama la nuova generazione sinistra, eletta in una città dopo l’altra con le sue teste d’ariete: Monica Benicio, vedova dell’attivista Marielle Franco, siederà al comune di Rio come membro del Partito socialista; Manuela D’Avila, del Partito comunista, ha trionfato a Porto Alegre; Marilia Arraes, Partito dei lavoratori, e il socialista Joao Campos sono stati eletti a Recife. Queste elezioni sono state una sconfitta anche per il clan familiare del presidente: ha più che perso suo cugino, Marcos Bolsonaro, che a Jaboticabal ha ottenuto solo il 4% delle preferenze, poco più di mille voti, ed è uscita sconfitta anche l’ex moglie, Rogeria Bolsonaro, non eletta a Rio. Ha vinto, ma con oltre 35mila voti in meno del primo mandato, suo figlio Carlo. La reazione del ‘Trump brasiliano’ a ciò che è successo domenica nel Paese che l’ha acclamato nel 2018 assomiglia a quella del suo omologo americano: Bolsonaro nega la sconfitta, la sua e quella dei suoi fedelissimi.

“Roman è sparito dopo l’arresto: neppure da morto l’ho riavuto”

Da oltre 100 giorni un vasto movimento democratico in Bielorussia si sta mobilitando per mettere fine alla dittatura imposta da Alexander Lukashenko al Paese, ormai da oltre 26 anni. Le forze di sicurezza hanno risposto spesso in modo violento e ci sono stati dei morti; uno di questi si chiamava Roman Bondarenko, aveva 31 anni. Ecco cosa ci ha raccontato sua madre Lena.

Cos’è successo la sera del- l’11 novembre, quando è stato arrestato suo figlio?

I vicini di mio figlio, verso le 22, hanno visto persone in borghese e mascherate entrare nel cortile del rione dove lui viveva e per l’ennesima volta hanno iniziato a togliere dalle pensiline i nastri biancorossi (i colori della bandiera nazionale del 1919, simboli dell’opposizione, ndr). Roman è stato fra coloro che sono usciti dalle case per capire cosa accadeva. È stato gettato per terra dai poliziotti mascherati e avrebbe battuto la testa. Poi, dopo altre percosse, è stato caricato su un pulmino. Alcuni giornalisti dicono che in seguito avrebbe trascorso circa un’ora e mezza negli uffici del distretto centrale della polizia di Minsk. Dopo mezzanotte, è stato portato all’ospedale in condizioni critiche: secondo la diagnosi aveva un edema cerebrale, un trauma cerebrale, numerosi ematomi, contusioni e graffi. Roman ha subito un intervento chirurgico, ma i dottori non sono riusciti a salvarlo. Gli sono stata tutto il giorno vicino alla terapia intensiva, le sue condizioni erano molto gravi e i dottori dicevano che le possibilità che sopravvivesse erano una su mille. Era collegato a diversi dispositivi, era tutto bende e contusioni. Poi sono tornata a casa. Più tardi mia figlia ha detto di chiamare in ospedale perché girava la voce che fosse morto e verso le 20 mi è stato confermato.

Chi era suo figlio?

Era un ragazzo normale. Si era laureato all’Accademia delle belle arti, lavorava come direttore in un negozio. Era anche insegnante di disegno, dava lezioni ai bambini. Il servizio militare lo aveva svolto nelle forze speciali. Era contro il governo ma non aveva partecipato alle manifestazioni negli ultimi mesi. Ora vorrei davvero solo che la gente sapesse cosa sta succedendo in questo paese, sapesse che qui le persone sono assolutamente indifese. E spero davvero che le forze dell’ordine avviino un procedimento penale. Non voglio vendette ma mi auguro vivamente che la giustizia prevalga e coloro che sono responsabili della sua morte vengano punite in base alla legge.

È stata contattata dalla polizia o da organi governativi?

No, anzi, sono stata due volte con mia nipote Olga alla procura generale e non hanno voluto darmi il corpo di mio figlio. Mi hanno fatto aspettare fino alle 11 e poi mi hanno rimandata a casa. Il ministero degli interni ha detto che ‘il ragazzo è stato arrestato e poi detenuto secondo le regole’ e che ‘si era ferito durante una rissa’. Il presidente Lukashenko ha anche affermato in un discorso pubblico che Roman era stato trovato ubriaco dalla polizia, ma questo non è vero. I medici (seppur in forma anonima) hanno pubblicato un documento che conferma che Roman era assolutamente sobrio al momento del ricovero in ospedale: ‘L’etanolo nel sangue è dello 0%’ hanno confermato le analisi.

Via dal Tigray, nelle fauci del Jihad

Attraverso il confine con il Sudan, migliaia di etiopi terrorizzati e affamati hanno abbandonato il proprio Paese dove la settimana scorsa è scoppiato un conflitto tra forze federali e regionali del vasto Stato settentrionale del Tigray, una fascia limitrofa anche all’Eritrea con cui Addis Abeba aveva firmato la pace nel 2018. Le reazioni del Sudan e dell’Eritrea, per motivi diversi, giocheranno sicuramente un ruolo sull’evolversi della guerra civile etiope, ma intanto Khartum, reduce da un anno di “rivoluzione”, si trova a subire per prima la nuova crisi migratoria.

Il Commissariato dell’Onu per i Rifugiati ha lanciato un allarme forte e chiaro già la scorsa settimana sulla sorte tragica che attende la maggior parte dei profughi etiopi, mentre l’Europa guarda preoccupata allo spostamento di nuove masse di sfollati che potrebbero raggiungere nei prossimi mesi il Nord Africa e quindi l’Italia, via barconi. Chi non riuscirà a risalire fino ai porti del Maghreb (soprattutto Libia e Tunisia) è perché con molta probabilità sarà rimasto intrappolato tra gruppi jihadisti e clan etnici che da anni collaborano in nome del dio denaro. Le rotte dei migranti, sia profughi di guerra che “economici”, sono gestite da anni da bande criminali dedite al traffico di esseri umani, droga e armi. Questa filiera oscena è diventata con il tempo sempre più lunga per aumentare il profitto dei singoli gruppi criminali e assieme le pene di chi sta fuggendo. Essendo l’Etiopia il secondo paese più popoloso del continente africano, poco più di 100 milioni di abitanti, è prevedibile che l’escalation militare in corso porterá tanti nuovi clienti ai gruppi di mercenari. Sotto le insegne dell’Aqmi (al Qaeda nel Maghreb islamico), dell’Isis e degli Shebaab somali e del Sahel, questi sequestrano e rivendono i profughi alle tribu collocate lungo i confini, tra cui quello libico meridionale porta d’ingresso nel Maghreb per chi arriva dalla rotta sudanese e da quella nigerina. Il Sudan e il Niger sono entrambi paesi del Sahel – la fascia di territorio dell’Africa subsahariana – diventato noto decenni fa per la carestia e ora per il montare della marea del terrorismo islamico tra dune e savane. Uno dei paesi più colpiti dal 2015 a oggi è il Burkina Faso il cui destino risente di quello del vicino Mali.

Ma non è solo il Sahel a essere devastato dagli attacchi jihadisti. Nell’est africano sono molti i paesi colpiti dai tagliagole di Allah. Recentemente alla lista che comprende Somalia e Kenya, sono stati purtroppo aggiunte le aree forestali a cavallo tra la Tanzania e il Mozambico. I migranti economici di molte nazioni africane, guarda caso povere seppur spesso piene di idrocarburi (la cosiddetta maledizione del petrolio, ndr) e i profughi di guerra si trovano dunque sempre più circondati dai trafficanti di uomini jihadisti. Nel frattempo la situazione in Etiopia è sempre più tesa e anche l’Eritrea è tornata in fibrillazione a causa dei razzi sparati dai ribelli del Tigray caduti sul suolo. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed, vincitore l’anno scorso del premio Nobel per la Pace grazie alla storica firma che ha messo fine a un conflitto decennale, è sempre più determinato a bloccare il Fronte di liberazione popolare del Tigray, Tplf. I vertici dell’organizzazione tigrina avevano costituito il partito che ha dominato la politica etiope (pur essendo l’etnia tigrina minoritaria) per decenni per finire spodestato dalle rivolte popolari a favore di Abiy (di etnia Oromo, la più popolosa) che da allora ha cercato di consolidare il potere anche attraverso la pace con l’arcinemico del Tplf, l’Eritrea.

Il Tplf non se ne è andato in silenzio: a settembre, il governo regionale che guida ha tenuto elezioni locali che il governo centrale si è rifiutato di riconoscere. Il 3 novembre ha quindi preso il controllo del personale, dell’hardware militare e delle attrezzature dal Comando settentrionale dell’esercito federale, spingendo Addis Abeba a dichiarare guerra a una regione che rimane sede di una parte considerevole dell’attuale governo federale etiope. Abiy ha a lungo accusato la vecchia guardia del Tplf di cercare di sabotare il suo governo e le sue presunte riforme. Ma ora, di fronte a una guerra a tutto campo contro un formidabile nemico, il risultato dipenderà dalle scelte dei vicini dell’Etiopia: Sudan ed Eritrea. Ieri il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, ha detto via Twitter che l’Etiopia è pronta ad “accogliere e reintegrare” migliaia di cittadini in fuga dallo Stato regionale dei Tigray e ha promesso di “proteggere i loro averi” e di “garantire la loro pace al ritorno.” I profughi sarebbero 25mila secondo l’Onu; per Medici senza frontiere (Msf) il numero “potrebbe essere più alto e si prevede che aumenti nei prossimi giorni. Le persone sono sparse tra rifugi di fortuna e campi ufficiali. Hanno bisogno di tutto: riparo, acqua, cure, cibo”.