Aiutare i poveri non è una predica

Che cosa significa dunque, per noi discepoli di Gesù, “non dimenticare i poveri”? Che cosa comporta essere “chiesa povera e per i poveri”? Tentiamo un piccolo esame di coscienza personale e comunitario.

Dimentichiamo i poveri quando ci attacchiamo ai beni in modo da farne la nostra “roba”, invece di condividerli e metterli in circolo; quando tiriamo i remi in barca, rassegnati davanti all’ingiusta distribuzione delle ricchezze; ogni volta che, in nome del realismo, smettiamo di sognare un mondo umano, dove le sperequazioni scandalose alle quali ci siamo abituati spariscano, e ogni volta che, sognando, non restiamo ben desti per costruirlo; dimentichiamo i poveri se rinunciamo a testimoniare la risurrezione del Signore innestando nella nostra storia quotidiana i germi del regno di Dio, iniettando pillole di speranza, andando incontro a quei poveri, a quegli umiliati, a quei perdenti che ci salveranno, perché risveglieranno in noi le energie migliori – capacità di dono, gratuità, reciprocità, fraternità – spesso narcotizzate da un mondo indifferente, assuefatto alle disparità e alle violenze. Non ci ricordiamo dei poveri quando trascuriamo lo spirito delle beatitudini, e confidiamo nella triplice alleanza tra potere, denaro e spregiudicatezza. Non ci ricordiamo dei poveri quando gestiamo arbitrariamente i beni della chiesa – che esistono in vista della condivisione – per scopi personali o ecclesiastici di grandezza, interesse, prestigio o proprio beneficio.

Il cammino, anche per la chiesa, è in salita: probabilmente la conversione economica è una delle più faticose; e le beatitudini rimangono qualche volta alla porta delle nostre comunità, dei nostri organismi pastorali e amministrativi, e soprattutto del nostro cuore. L’opposto di non dimenticare è ricordare, cioè ricollocare nel cuore, la prima beatitudine.

E ora diciamolo in positivo, pensando in particolare alle nostre comunità cristiane: parrocchie, enti e diocesi. Possediamo dei beni che sono stati acquisiti attraverso offerte, donazioni, eredità; gestiamo strutture e amministriamo denaro. Spesso le “ricchezze della chiesa” producono in realtà l’effetto del fumo negli occhi: alcuni si lasciano abbagliare dagli ori e dagli stucchi delle cattedrali, dai “tesori” dei musei ecclesiastici o dall’imponenza delle basiliche; e ne traggono magari motivo per criticare la chiesa “ricca”. Non pensano che, in gran parte, i monumenti d’arte, che non costituiscono beni commerciabili, sono frutto di comunità che nei secoli scorsi li hanno commissionati e pagati, creando e incentivando lavoro; e non pensano nemmeno a quante risorse occorrano oggi per custodirli, mantenerli e offrirli ancora ai fedeli e ai turisti, favorendo una nuova circolazione di attività e lavoro. Altre strutture, come le canoniche e gli altri ambienti parrocchiali, gli edifici per le scuole materne o le case di riposo, i campi sportivi o le aree verdi, sono e devono essere al servizio del territorio. In alcuni casi i bilanci sono in perdita, sia per difficoltà oggettive sia per gestioni poco accorte. E la situazione, a causa della pandemia, è notevolmente peggiorata, dal punto di vista economico, anche per le parrocchie e per gli altri enti ecclesiastici. “Una chiesa povera e per i poveri” non è quella che butta alle ortiche il suo patrimonio, ma che – senza entrare in logiche economico-finanziarie di puro profitto – ne verifica continuamente l’effettiva finalità pastorale e assistenziale, perché sia sempre al servizio della missione evangelica: annuncio del vangelo, celebrazione dei misteri del Signore, carità e giustizia a partire dai più svantaggiati. I pastori dovranno certo evitare di ridursi ad amministratori e impegnare le loro migliori energie nella burocrazia gestionale, confidando piuttosto nella competenza di laici onesti, preparati e dotati di senso ecclesiale – cosa tutt’altro che scontata in una fase nella quale patiamo gravemente il sovrappeso delle strutture e della loro conservazione –, ma non potranno evitare di orientare il possesso dei beni, la loro gestione e il loro uso, alla logica del vangelo. Un’eredità utilizzata bene, in maniera tale da promuovere lavoro o aiutare i bisognosi, vale come e più di un buon corso di esercizi spirituali. Una somma rendicontata in modo trasparente, investita in attrezzature e attività utili alle persone, alle famiglie, alle fasce sociali più fragili, all’evangelizzazione e alle celebrazioni comunitarie, incide più di una meravigliosa predica.

Una volta, da parroco, ricevetti un’eredità non trascurabile in favore della parrocchia. Come utilizzare quel denaro? Ne parlai al Consiglio per gli affari economici e al consiglio pastorale riuniti in seduta congiunta. Le opinioni erano varie: aprire un conto a parte per le necessità segnalate dalla Caritas, acquistare una cucina per le sagre, inviare un’offerta ai missionari, creare nell’area verde un campetto per il calcio a cinque a uso dei ragazzi, acquistare un ambone in sostituzione di un vecchio leggio, completare la costruzione della sede scout… Cosa scegliere? A un certo punto un giovane disse: “Ma perché non li diamo ai poveri?”. L’idea sul momento sembrò spiazzare tutti, perché a nessuno era venuta in mente la parola “poveri”. Prendendo la palla al balzo, una signora esperta di conti e di bilanci chiese ai presenti di definire “i poveri”. E ci accorgemmo, dopo un’ora di confronto, che tutte le proposte avanzate in precedenza potevano favorire i poveri, sia soccorrendo chi non poteva procurarsi da sé i beni necessari (Caritas e missionari), sia incentivando il mercato del lavoro (acquisto cucina e ambone, costruzione campetto e sede scout); la circolazione di quel denaro in tal modo avrebbe messo in moto dei meccanismi di soccorso, condivisione e prevenzione (comprese la socializzazione e l’educazione), che costituiscono gli ingredienti della carità. Così l’eredità fu destinata in parti uguali a tutti questi obiettivi.

Oltre a gestire onestamente le risorse e a finalizzarle agli scopi per i quali esse esistono, si dovrà verificare attentamente la provenienza delle eventuali grosse offerte, per evitare il fenomeno della cosiddetta “pulitura” del denaro entro il meccanismo del riciclaggio, e interrogarsi più a fondo sul la destinazione delle strutture immobiliari, spesso ritagliate su situazioni molto diverse da quelle di oggi e il cui uso, quindi, esula talvolta dalle finalità originarie: come canoniche e case ormai quasi inutilizzate o strutture abitative e ricreative che hanno perso la loro funzione. Spesso assorbono energie mentali, tempo e risorse sproporzionati: e oltretutto rischiano di dare contro-testimonianza, perché evocano ricchezza, potere, prestigio… mentre in realtà sono talvolta di peso, economico e pastorale. La profezia evangelica richiede gesti coraggiosi, per quanto non avventati: vendite o donazioni totali o parziali, riconversioni dove possibile, dismissioni. “Non dimenticare i poveri” significa anche questo.

 

 

Report, nell’era talk brilla più forte

C’è voluto un videomessaggio di Sigfrido Ranucci per chiarire che l’allarme social in favore di Report, dato a rischio chiusura causa bassi ascolti, era una fake news. Dunque l’immunità assoluta al fake non esiste, se riesce a colpire perfino il programma-vaccino per eccellenza. Detto questo, le fake news sono come il bluff nel poker: per renderle contagiose bisogna saperle costruire, evocare quel che non esiste. Come diceva quello, “se non è vero, è verosimile”. È verosimile, anzi, è vero che Report è scomodo, non ha riguardi per nessuno, colleziona denunce; è verosimile che ai piani alti molti vorrebbero sbarazzarsene per la semplice ragione che è un programma di inchiesta esemplare. Immutabile nella scelta dei temi e nella tigna investigativa dai tempi di Milena Gabanelli, brilla più forte da quando siamo entrati nell’era del talk show. È fattuale.

Report – i fatti e nient’altro, a ogni costo – è l’esatto contrario del talk alla panna montata. Nei talk si fanno le stesse domande agli stessi ospiti sette giorni alla settimana; gli inviati di Report devono braccare i loro muti interlocutori mentre si arrampicano sugli specchi. Si tace più in venti minuti di Report di quanto si insinua e si pontifica in 24 ore di talk. Però in quei venti minuti si impara molto di più, per esempio, sulla gestione della pandemia in Italia. Si impara che sotto ferragosto in Sardegna le discoteche rimasero aperte sulla base di un fantomatico parere del Comitato tecnico scientifico, alla prova dei fatti rivelatosi l’amichevole email di un unico componente. Ma che, davéro davéro? Questo consesso che calcola col teodolite chi può entrare a scuola e in quanti possiamo sedere al bar si è lasciato sfuggire i privé della Costa Smeralda? Una svista? Una manipolazione? Un parametro sull’incidenza di vip in Costa Smeralda? E questo Cts di sapore orwelliano, di preciso cos’è? Ecco un’altra inchiesta che ci piacerebbe vedere, un lunedì sera su Rai3.

Mail Box

 

La scuola deve educare al senso di responsabilità

I casi di insaputismo sembra comincino dall’adolescenza. Hanno ragione a reclamare una scuola in presenza. Così come dicono il vero quando sottolineano che le classi sono un luogo sicuro. Ma le ragazze e i ragazzi che imitano Greta assecondati dai loro genitori, sembrano non sapere tutto ciò che accade prima e dopo l’ingresso a scuola. Assembramenti, mascherine abbassate per conversare e per fumare, baci e abbracci. Belle abitudini di socialità che, tuttavia, vanno sospese in questo tempo sospeso, a meno che si scelga di essere relegati a casa, tutti. La scuola colga l’occasione per educare al senso di responsabilità individuale e collettiva.

Melquiades

 

Le religioni definiscono i nostri comportamenti

Ilaria Capua: “Serve un lockdown volontario, io non esco mai di casa”. Anche il governo per evitare un lockdown generalizzato fa appello al senso di responsabilità. Una pia illusione in un paese che non ha sperimentato la rivoluzione etica della riforma protestante. Questa cultura ha favorito l’interiorizzazione delle norme etiche e ciò significa che il comportamento, prima di essere disciplinato da un regola imposta dall’esterno, viene governato da una norma interiore che si è sedimentata nella coscienza. Nella cultura cattolica, invece, la depositaria dei valori morali è una autorità esterna alla coscienza: la Chiesa. La conformità alle regole nella nostra cultura avviene spesso senza un intimo convincimento e, quindi, assume un carattere ipocrita e puramente esteriore.

Maurizio Burattini

 

In Campania non ci sono politici di buon senso

In Campania sono stati chiusi ospedali, mortificati medici e pazienti, costretti a elemosinare cure fuori regione, abbandonati a se stessi da medici di famiglia ridotti a scribacchini. Questo assurdo comportamento è dovuto a sciagurate scelte politiche protrattesi negli anni senza che nessun politico, giornale o medico lanciasse un solo allarme. L’inconsistenza verbale non ha ormai limiti. Nessuno vuole sentire la banale verità: le persone di buon senso non hanno aspettato chiusure o lockdown per proteggersi e proteggere dal Covid. Però è bastato il 2–3% stupido e incosciente della popolazione per scatenare questo dramma. La via d’uscita reale non è però il vaccino, ma una politica seria fatta da persone serie.

Guido Rapalo

 

Il direttore riconosce B. come “grande statista”?

Ieri mattina ascoltando la rassegna stampa di Mieli ho gioito per la citazione del “nostro” quotidiano. Non ho capito invece a cosa si riferisse Mieli quando riportava agli ascoltatori del programma un riconoscimento a B. di una statura da “grande statista” da parte di Marco Travaglio. È vero e mi sono perso qualche suo articolo? Perché Mieli deve far passare ai radioascoltatori una notizia non solo falsa, ma addirittura opposta a quello che è il reale concetto espresso da lei su Il Fatto? Chi non la legge non può immaginare che un autorevole esponente del giornalismo italiano possa distorcere in maniera così pesante il pensiero di un collega.

Marco Gambarini

 

Caro Marco, non so dove abbia letto che riconosco a B. la statura di statista. Da vent’anni e più non faccio che ripetere che B. è un delinquente e non ho mai cambiato idea.

M. Trav

 

 

“Report”, programmacoraggioso e pungente

Più passa il tempo e più mi convinco che i soldi spesi peggio nel mio budget familiare siano quelli per il canone Rai. Non è un investimento al servizio pubblico dal quale noi cittadini ci aspetteremmo il gesto nobile e dovuto di un’informazione costante e trasparente senza il fiato sul collo dei partiti. Ma un programma c’è per cui vale la pena investire: Report. Scaltro, coraggioso, documentato nei minimi particolari. Ed è proprio Report, scomodo nemico di noti politici, il programma da cancellare dai palinsesti Rai.

Silvia Colombo

 

L’idea di tassare i grandi del web in modo equo

Perché l’Ue, nella drammatica situazione pandemica, dove servono ingenti somme di denaro per curare gli ammalati, con atto d’imperio non procede a “tassare equamente” i giganti del web?

Luigi Caldana

 

Una sanità che deve fare i conti anche con la mafia

Sto leggendo molte critiche alla scelta di Gino Strada unitamente a quella di Gaudio e mi meraviglio che nobili penne del giornalismo non abbiano pensato che forse Strada può aiutarci. Ma accanto alla tecnicità della medicina ci serve anche l’organizzazione della macchina burocratica e amministrativa della medicina stessa che attualmente è nelle mani della mafia. Molte Usl sono state sciolte proprio per infiltrazione mafiosa! Dunque una collaborazione efficace potrebbe essere molto più appropriata che una conduzione unica e unilaterale. Anche perché continuando a puntare solo e soltanto sul nome di Strada lo si espone troppo “all’attenzione” di chi col suo intervento avrebbe tutto da perdere: cioè la mafia! A mio modesto parere la scelta fatta da Conte è ottima e spero solo che giungano a un accordo di fatto con Gino Strada che è insostituibile.

Giuseppe Mazzei

Covid e morti. È stato improvvisato tutto, pure il modo di comunicare

 

Per la prima volta ho letto, in modo esplicito (mi riferisco all’articolo della Dr.ssa Maria Rita Gismondo), un dubbio non solo sull’insieme dei dati Covid-19 che sono “sporchi”, ma per il fatto di aver menzionato la carenza dei dati dei decessi per Covid-19. Ma questo articolo, anche se nella direzione giusta nel fare chiarezza su quanto siano sporchi i dati che ci vengono forniti (senza alcun serio dibattito e contraddittorio) non sono sufficenti! Sappiamo che, sin dall’inizio, gli ospedali fornivano cause di morte “per” Covid anche se i decessi erano “per” e “con” Covid. Lontanissimi dal fare come la Germania e il Regno Unito. Come si può oggi pretendere che tutto l’apparato ospedaliero-sanitario modifichi il modo di contare? Se, fino a ieri, si contavano 400 decessi (“per” e “con” Covid) come pensate che oggi tale apparato fornisca correttamente le quantità di morti solo “per” Covid, riducendo il numero (per esempio) a 200? Le Istituzioni, i (?) tecnici (studiosi?) e l’apparato politico dovrebbe modificare una grande parte della loro coscienza. Credo che il virus Covid-19 esista e che sia anche mortale, ma credo anche, e con molta forza, che le cifre che sono fornite alla popolazione siano “sporche” così tanto da farle diventare farlocche.

Eugenio Girelli Bruni

 

Ringrazio per l’attenzione mostrata al mio articolo. I numeri che ci vengono dati, credo che non sempre siano politicamente strumentalizzati. Quello che penso è che la pandemia ci abbia colti indecorosamente impreparati. Chi si è trovato a gestire questa emergenza, si è trovato il cerino in mano che bruciava già da tempo. Ecco perché si improvvisa gran parte di tutto, persino il modo di comunicare. Se avessimo avuto un “reale” piano pandemico, come quelli che si leggono in altri Paesi (che spesso poi non li sanno applicare!), avremmo avuto indicazioni su come gestire anche la comunicazione dei casi, come contarli. Avremmo anche saputo quali figure inserire in un Cts, chi nominare come capo dell’emergenza. Ci sarebbero state nomine fatte dalla comparazione delle competenze e dei curricula, non come si è proceduto. Gentile lettore, oggi si può fare ben poco. Ho più volte implorato dati “puliti”. Ma come si possono avere se ogni Regione ha tempi e modi diversi di comunicarli? L’unica cosa che si può sperare è che la lezione resti e che ci sia più buona sanità “nazionale.”

Maria Rita Gismondo

Lombardia è No vax. Anziani abbandonati senza vaccinazioni

Vaccini è la parola magica di queste settimane; non si sente altro. Ieri sul Corriere il professor Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, parlava con toni sacrosantamente allarmanti del ritardo nella somministrazione dei vaccini antinfluenzali: “Sono uno dei tanti cittadini anziani che sta aspettando il vaccino anti-influenzale ma il medico di famiglia mi dice che non è ancora disponibile, eppure ho 92 anni, dovrei vaccinarmi come del resto faccio ogni anno”. Sarà un caso isolato? Macché: è proprio la Lombardia, regione che in questi mesi ha regalato tutto un altro senso all’espressione “No vax”. A Mantova per dire, una signora 79enne malata di cuore non ha ancora fatto il vaccino, che normalmente fa all’inizio di ottobre. Quest’anno a ottobre non c’era proprio, poi c’è stato ma non è mai stato somministrato. Motivo? Il giorno prima dell’appuntamento, è stato detto alla signora (che è nostra mamma, per dirla come va detta) di non presentarsi all’ambulatorio del medico di famiglia perché le dosi erano “esaurite”. Nemmeno il medico (che pure non è più un giovanotto) ha fatto il vaccino e per fortuna che si è comprato una buona scorta di mascherine, di cui non era stato dotato, per visitare i pazienti. Morale? Telefonare dopo il 23 novembre per prendere l’ennesimo appuntamento, nel frattempo restare in casa e sperare in un fato propizio.

È evidentemente scandaloso che i nostri anziani siano scoperti, proprio nell’anno in cui è importante riuscire a distinguere l’influenza stagionale dal Covid. Senza contare, come ha ricordato il professor Garattini, che “quattro nuovi studi internazionali ci dicono che campioni consistenti di over 60 vaccinati per l’influenza non sviluppano Covid-19 nel 15% dei casi”. La cosa è ancora più vergognosa se si pensa che la Lombardia è la Regione largamente più ricca d’Italia e per decenni ci hanno scassato i cabbasisi con il modello Lombardia. Modello un cavolo: qui il sistema sanitario non è in grado di garantire il vaccino alle categorie più a rischio (a differenza delle vicine Emilia e Veneto, per esempio), esattamente come la primavera scorsa, non si trovava una mascherina nemmeno a pagarla oro. Certo se siete ricchi e vi viene il Covid potete usufruire del kit a domicilio del San Raffaele, una specie di pacchetto Usca (le unità speciali che sul territorio si dovrebbero occupare dei pazienti Covid) alla modica cifra di 450 euro. In questi giorni si parla, con grande speranza, di altri vaccini, quelli anti covid. Ogni giorno sentiamo annunci sui progressi di questo o quel vaccino e si leggono perfino date possibili sulle somministrazioni alla popolazione per arrivare alla molto sospirata immunità di gregge, che potrebbe restituirci la libertà di vivere. Qui le nostre speranze si fanno più deboli: pensiamo a una campagna vaccinale come quella antinfluenzale in Lombardia e già ci immaginiamo chiusi in casa per un altro anno. Attilio Fontana, presidente della Regione, è molto preso dalla gestione della pandemia e pure dai fatti suoi, nella fattispecie la brutta storia della fornitura di camici commissionata all’azienda della famiglia della moglie, con relativa inchiesta in cui i pm definiscono “diffuso” il coinvolgimento di Fontana e dove spuntano conti in Svizzera e alle Bahamas (potevano mancare?). E non ha nessuna intenzione di andarsene. A fine luglio, rispondendo alle opposizioni che chiedevano le dimissioni, aveva detto in aula: “Pensate cosa sarebbe accaduto se non ci fossero state le Regioni ad affrontare l’emergenza sanitaria?” (risposta censurata). E ancora: “Non me ne vado, sono qui per voltare pagina”. Se non se ne va lui, saremo costretti a migrare in altri lidi: noi in attesa dell’immunità di gregge (e possibilmente dei vaccini), lui probabilmente dell’impunità di legge.

 

Pandemia e vip. La cura del virus è diventata uno vero status symbol

Ogni tanto fa bene rileggere i classici, ripercorrere testi antichi, ritrovare righe dense e dimenticate, tipo queste: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” (Autori Vari, Costituzione della Repubblica Italiana, 1947). Magari, rileggendo quella antica letteratura di fantascienza comodi comodi sul divano, si può attendere la pattuglia volante del San Raffaele di Milano, visita, radiografia, esami del sangue e saturazione: appena 450 euro, un affarone. Prima, però, una visita online, al telefono o su Skype per i più aggiornati tecnologicamente: 90 euro. Questo per dirvi se avete il Covid. Per curarlo, poi parliamone (Questa casa è sua? Ha miniere in Messico? Soldi da parte?).

Segue polemica, ovviamente (non ci viene risparmiato nulla), perché è seccante che la pandemia diventi un business, ma soprattutto è seccante (eufemismo) constatare la differenza tra il trattamento che riceve chi sborsa oltre 500 euro e chi invece imbocca il tunnel burocratico-sanitario di telefonate al medico, indicazioni sommarie (tachipirina, non cortisone!), attese snervanti, code per i tamponi, autoreclusioni per attendere l’esito.

Il risultato è che in una situazione delicata e pericolosa per tutti, la forbice delle diseguaglianze si allarga ancora. Come sempre la Lombardia fa scuola, il San Raffaele resta epicentro della cosmogonia formigoniana, il professor Zangrillo, che lì opera, invita a non affollare i pronto soccorso e curarsi a casa. Insomma, è l’oste che consiglia il vino.

Contemporaneamente, chi volesse, nella ridente città di Milano, procurarsi una dose di vaccino antinfluenzale, farà parecchia fatica rimbalzando come una pallina da flipper tra medico di base (Eh? Uh? Cosa?) e Ast, sportelli e code, anche avendone diritto in quanto categoria a rischio. Con una telefonata e 123 euro, invece, ecco la visita privata con vaccino incluso: tempi di attesa per l’appuntamento, cinque giorni. C’è anche la tariffa “smart”, solo 70 euro, ma i giorni di attesa diventano 15. Tempo (vostro), in cambio di soldi (sempre vostri). Finirà con una rivoluzione nell’empireo costoso degli status symbol: non più l’orologio, il telefono, la macchina, la casa al mare, ma il tampone in tempo reale, il vaccino sicuro, la visita domiciliare di un medico, addirittura di un’équipe, meglio di ostriche e champagne.

Ora, scandalizzarsi per tutto questo pare un po’ ingenuo: come durante il proibizionismo, il whisky si trova lo stesso, solo un po’ più caro. E del resto tra la medicina sul territorio e la terapia intensiva c’è questa grande terra di nessuno, un po’ incolta, un po’ incerta, faticosa da attraversare, dove il privato si getta come un cercatore d’oro. E questo è lo stato delle cose.

Ora sappiamo che più o meno in primavera (faccio una media tra le previsioni) ci sarà il problema (speriamo) del vaccino anti-Covid, e viene da chiedersi se le cose funzioneranno allo stesso modo. Cioè se dovremo rincorrere la nostra iniezione di tranquillità, rincorrerla, telefonare a raffica, chiedere agli amici oppure pagare, corsia preferenziale per cittadini solventi.

Insomma, quando (e se) arriverà il famoso vaccino (uno dei), si potrà controllare in modo rapido – tipo tampone di Zaia – se l’articolo 32 della Costituzione ha ancora un senso, oppure se avremo le solite cronache di vip, milionari e calciatori che esibiscono lo status symbol dell’immunità acquisita, pagando s’intende.

 

Se è una guerra, bisogna censurare i dati horror

Siamo in guerra, si dice, contro il Covid-19. È proprio questo “stato di guerra” che ha reso possibile al governo, peraltro condizionato fortemente nelle sue scelte non solo nel campo medico ma anche, indirettamente, economico, quindi in un’area molto vasta, da un gruppo di tecnici (ma non si era sempre detto che un governo di tecnici o informato dai tecnici era il contrario della Democrazia? Mah) di calpestare una serie di diritti costituzionalmente garantiti a cominciare da quello della libera circolazione dei cittadini. Uno scempio che dovrebbe far ululare o perlomeno guaire gli idolatri della Costituzione. Ma siamo in guerra, è vero, e quindi sono legittime misure emergenziali e anticostituzionali. Del resto anche nel Diritto romano, il padre di tutti i Diritti, era lecito sospendere le abituali garanzie repubblicane affidando tutto il potere a un Dictator: per esempio Quinto Fabio Massimo Cunctator che costrinse Annibale a una guerra, o per meglio dire a una non guerra, di logoramento. Ma il Dictator durava in carica un anno, qui invece non si sa bene quando finirà la dittatura politico-scientifica. Gli idolatri della Costituzione non si sono accorti peraltro che la Costituzione così come fu concepita e dettata dai nostri Padri fondatori non esiste più da tempo, sostituita da una “costituzione materiale” che si viene via via elaborando basandosi sui fatti nel loro incessante cambiare, fottendosene dei principi, così come scrive Giovanni Sartori (Democrazia e definizioni). Anche Norberto Bobbio che ha dedicato tutta la sua lunga vita allo studio della Democrazia, essendone un fervente partigiano, ammette che la Democrazia non è una democrazia, ma una poliarchia, cioè l’organizzazione di gruppi di potere sui quali l’influenza dei cittadini è minima se non nulla. Basti pensare al potere assunto nel tempo dai partiti. Dei partiti si occupa un solo articolo della Costituzione, il 49: ”Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma, partendo da questo unico articolo, i partiti hanno debordato in quasi tutti gli altri 139, assumendo poteri fuorvianti in tutto il settore pubblico e in parte di quello privato. Senza l’appoggio di un partito, quale che sia, non si vive. Quello che era un diritto è diventato un obbligo. Non si tratta di prendere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, ma di dichiarare fedeltà a un capo partito o a un sottocapo, così come in altri ambiti di quel potere “poliarchico” di cui parla Bobbio, a clan diversi, a lobby, a mafie di ogni genere, allo stesso modo in cui in epoca medievale il valvassore giurava fedeltà al feudatario e costui al Re.

Siamo in guerra, dunque. Ma allora dovrebbero valere anche le leggi di guerra e i diritti di guerra. Uno dei più importanti è il diritto alla censura. E il primo ad autocensurarsi dovrebbe essere proprio il governo politico-tecnico. Non si capisce che senso abbia dare ogni giorno l’elenco dei morti per Covid se non quello di terrorizzare una popolazione già terrorizzata. Lo stesso accadrebbe se si desse ogni giorno la lista dei morti per tumore, che in Italia sono circa 180mila l’anno, molti più dei morti per Covid.

La censura dovrebbe colpire epidemiologi, infettivologi, virologi e altri specialisti, chiamiamoli così, che sostengono una linea diversa da quella del governo o la mettono in dubbio, mandando così in ulteriore confusione i cittadini. In tempo di guerra questo si chiama “disfattismo” e i disfattisti finiscono in gattabuia.

Finita che sarà la pandemia bisognerà poi mettere in conto i “danni collaterali” provocati non dal Covid, ma dai vari lockdown che oltretutto basculando “stop and go” sono particolarmente stressanti per tutti, sia dal punto della tenuta nervosa delle persone che economico. Molte persone sono cadute in uno stato di depressione che abbassa le difese immunitarie e apre la strada non solo al Covid ma ad altre malattie ben più pericolose. Un’indagine, mi pare dell’Istat, ha rilevato l’aumento di un terzo nell’uso di psicofarmaci, di alcolismo, di droghe leggere e pesanti. E se per questo uso, o abuso, di stimolanti qualcuno ci lascerà la pelle, anche questi morti andranno messi in conto ai lockdown. Agli anziani è stato in pratica interdetto l’avvicinamento di qualsiasi persona, e la solitudine uccide più del fumo. Inoltre, essendo stata proibita a questi soggetti ogni attività motoria che non sia un angoscioso giro del palazzo, poiché il moto è decisivo per la salute degli anziani, anche le morti di costoro dovranno essere messe in conto ai lockdown. Ci sono infine persone che soffrono di patologie ben più gravi del Covid-19 che in questo periodo e nei mesi a venire non sono e non potranno essere curate adeguatamente. E anche questi morti dovranno essere messi in conto ai lockdown. Ma naturalmente anche questa è un’opinione che potrebbe cadere sotto la mannaia della censura.

 

Caro Massimo, nessuna censura. Non condivido (almeno in parte), ma pubblico.

m. trav.

 

Borat italiano infiltrato nel cerchio magico del presidente Conte

Se in Italia esistesse un Borat, cosa vedremmo nei suoi film? Mentre nel primo cercava di sposare Diletta Leotta, in questo l’obiettivo è più ambizioso: infiltrare il cerchio magico del presidente Conte. Le candid camera del Borat italiano, stavolta, intrappolano politici. Ecco le tre scene di cui si parla di più.

Borat incontra Conte. Nel tentativo di ingraziarsi il governo italiano, Borat pianifica di regalare al presidente del Consiglio Conte una famosa bertuccia che in Kazakhstan è una star dei film porno snuff. Appena giunto a Napoli, Borat apre la cassa da imballaggio che contiene la bertuccia, e invece ci trova suo figlio Totor e sua figlia Tatar. Sono gemelli (che è più di quanto si possa dire di Conte): si erano imboscati, e durante il viaggio, per sopravvivere, si sono mangiati la bertuccia. Privato dell’omaggio pongide, Borat decide di regalare sua figlia a Conte come sposa-bambina, e si presenta all’inaugurazione del nuovo ponte Morandi, sperando di riuscire a consegnargli il regalo mentre Conte sta parlando alle telecamere. “Come posso riuscire a imbucarmi all’inaugurazione senza dare nell’occhio?” si chiede il Borat italiano in voice-over. All’inizio si trucca da Davide Casaleggio, e accoglie chi arriva (“Lei ha versato le quote a Rousseau?” chiede a un compito Sergio Mattarella). Poco dopo, Borat si intrufola nel cesso mobile posizionato presso il gazebo della cerimonia, dove adotta un secondo mascheramento, stavolta come Beppe Grillo. Caricata la figlia Tatar su una spalla come un sacco di patate, Borat-Grillo raggiunge Conte interrompendo il suo discorso, un incidente che viene riportato solo da un piccolo quotidiano locale, poi fallito. “Ho portato la ragazza per te!” urla Borat-Grillo a Conte, prima di essere trascinato via dalla sicurezza. Da casa, nessuno ha visto nulla: il regista aveva prontamente staccato sulle Frecce Tricolori. Ma la parte più sconvolgente della scena non è lo scherzo di Borat-Grillo: è il filmato di Conte che dice: “I Benetton non hanno ancora capito che questo governo non accetterà di sacrificare il bene pubblico sull’altare dei loro interessi privati. Non siamo disponibili a concedere ulteriori benefici”. Ah ah ah! Come potrebbe, Borat, essere più ridicolo della vita vera?

Un tango in camera con Rocco Casalino. Dopo il flop con Conte, Borat decide di donare suo figlio Totor al portavoce di Conte, Rocco Casalino. Totor decide di intervistare Casalino da solo, in una stanza d’albergo, al termine di una sessione di trucco e parrucco che lo fa assomigliare a un attaccante miliardario portoghese. Quando Borat irrompe nella stanza per salvare suo figlio da quello che immagina essere un sacrificio carnale, trova i due che stanno bevendo superalcolici davanti a una schermata di trading online. In una breve sequenza, Casalino si infila la mano nel pacco: dichiarerà che si stava solo aggiustando la camicia, e in effetti è così, anche se la pubblicità del film non perderà l’occasione per marciarci, e insinuare una scena di seduzione, con la mano che si infila nel pacco ripresa da più angolazioni, e in zoom, e in slow motion, come commento sonoro gli agghiaccianti violini orchestrati da Bernard Herrmann per Psyco, finché Borat, vestito in lingerie di pizzo nero, li interrompe urlando: “Ha 15 anni, è troppo giovane per te” (L’attore che interpreta Totor, in realtà, ne ha 24). Confuso, Casalino se ne va. Borat e Totor corrono per le strade di Roma, pazzi di gioia: il kompromat è fallito, ma hanno ottenuto quello che volevano. E anche il produttore del film.

(1. Continua)

 

Un prontuario per scegliere il commissario

Peccato perché mal comune mezzo Gaudio era un titolo perfetto (senza contare che l’altro mezzo si chiama Strada, una festa per i giornali). Però al terzo flop governativo nella ricerca del commissario sanitario calabrese (che eguaglia i tre presidenti peruviani in una settimana), smettiamola di criticare e proviamo a dare una mano al ministro Speranza con un breve prontuario per non toppare la quarta volta. 1) Accertarsi che non soffra di sdoppiamento della personalità, di perdite di conoscenza e di sonnambulismo. Evitare che colleghi invidiosi iscritti alla massoneria, e/o alla ’ndrangheta non gli somministrino di soppiatto droghe e/o allucinogeni onde convincerlo di essere Ezechiele Lupo o il Mago di Oz. 2) Informarsi sulle pubblicazioni del candidato per verificarne il valore scientifico: per esempio, se 15 minuti di lingua in bocca servano come detonatore per misurare la carica virale, o rappresentino un’innocente vanteria erotica. 3) Individuato il possibile nome, consultare il casellario giudiziario e il bollettino dei protesti, indagare anche sui siti di scommesse e pornografici. 4) Interpellare il coniuge del prescelto (ma anche figli e congiunti, come da relativo Dpcm) sulle preferenze riguardo alla città di residenza. Registrare eventuale gradimento sulle località di vacanza: mare, lago, montagna, campagna. 5) Come da protocollo del presidente Spirlì, investigare sull’origine calabrese doc dell’esaminando, fino alla terza generazione: la consumazione continuativa di piatti a base di nduja e peperoncino fanno punteggio. 6) Da escludere i medici di riconosciuta fama internazionale, che hanno operato in zona di guerra, privi di padrinati politici e con trascorsi giovanili di sinistra. 7) Nel caso questi requisiti non fossero riscontrabili, recuperare i picchiatelli e gli stravaganti e i perditempo di cui sopra. Di sanità pubblica non sapranno una mazza, ma almeno ci fanno divertire.

Tanti debiti a breve e il caso del bond con Popolare Bari

Fare domande alla De Cecco può costare caro. Ne sa qualcosa l’ex responsabile finanziario ed ex direttore del controllo di gestione del gruppo che, in una email interna del 3 settembre 2019, chiedeva conto di “discrasie” emerse nel conto economico semestrale. A luglio 2019 l’azienda aveva rettificato i conti di giugno per 0,9 milioni di minori costi e 3,2 milioni di maggiori ricavi. Così, mentre da gennaio a maggio 2019 l’Ebitda (che esprime il margine operativo lordo) di gruppo valeva 12,9 milioni, il mese dopo era volato a 23,4 con un balzo di 10,5 milioni in un solo mese. Nell’area pasta e farine, l’Ebitda passava da 12,2 milioni tra gennaio e maggio ai 22,1 di giugno: +9,9 milioni. Dopo la segnalazione, il 12 dicembre 2019 il dirigente – che il 4 dicembre aveva sporto denuncia penale per mobbing nei confronti del presidente Filippo Antonio De Cecco – è stato licenziato. Il presidente è stato iscritto nel registro delle notizie di reato l’11 dicembre 2019 per molestie.

Nelle motivazioni con le quali il 9 giugno 2020 il pm di Chieti Lucia Anna Campo ha chiesto al giudice delle indagini preliminari l’archiviazione si legge, tra l’altro, che “si tratta di decisioni che l’indagato poteva assumere in virtù del ruolo rivestito all’interno dell’azienda e che, sia prese singolarmente che nel loro insieme, non assumono alcuna valenza penalistica. Appare poi evidente come si sia trattato di decisioni dovute alle tensioni presenti all’interno della compagine sociale”. Il 29 giugno l’ex dirigente si è opposto alla richiesta di archiviazione. Il gip non ha ancora deciso sulla richiesta di opposizione. La vicenda s’incastra con quella dell’emissione del minibond De Cecco 2018-2024 curato da Popolare di Bari. Il 29 novembre 2018 la De Cecco incassò 25 milioni dal titolo sottoscritto dalla pubblica Cassa Depositi e Prestiti (per 12,5 milioni), Ersel, Consultinvest AM, Confidi Systema, Volksbank e dalla stessa Popolare di Bari. Nello stesso anno, come spiega l’articolo nella pagina a fianco, i soci della famiglia De Cecco si sono spartiti 24,8 milioni prelevati dalla riserva versamenti in conto futuro aumento di capitale del patrimonio societario. Ma la distribuzione delle riserve patrimoniali tra gli azionisti della famiglia che controlla l’azienda di Fara San Martino non era finita. Come risulta da documenti interni, anche il 19 febbraio 2019 la De Cecco liquidava “debiti verso soci” per 2 milioni e altri 4 milioni il 12 marzo, prima ancora del giroconto di 10 milioni dalla riserva “versamenti soci conto futuro aumento di capitale” avvenuto il 6 maggio. Altri 4,2 milioni erano stati versati ai soci in quel mese.

Le regole del minibond (“covenant) per il 2019 fissavano il rispetto del rapporto 1,5 tra posizione finanziaria netta e patrimonio netto della De Cecco. Ma, dopo i pagamenti effettuati agli azionisti, a maggio il covenant veniva sfondato a 1,52. Sempre in base alle regole del minibond, il mancato rispetto del tetto avrebbe dovuto essere segnalato dalla società al mercato e a Borsa Italiana entro cinque giorni, invece la De Cecco l’ha comunicato solo il 7 gennaio 2020. La violazione delle norme sul titolo di debito avrebbe consentito agli obbligazionisti di ottenere il rimborso integrale anticipato. Il 24 aprile si è tenuta l’assemblea dei detentori del prestito da 21 milioni: l’azienda ha informato gli obbligazionisti sul mancato rispetto del regolamento del prestito e ha proposto di rinunciare al rimborso anticipato integrale. Vi hanno partecipato Cassa Depositi e Prestiti (detiene quote per 12,5 milioni su 21) e Fondazione PescarAbruzzo (quote per 2,5 milioni) che hanno deciso di rinunciare al rimborso integrale anticipato. Quest’ultimo avrebbe gravato sulla De Cecco che al 31 dicembre 2019 aveva 355 milioni di debiti consolidati, dei quali 136,7 verso le banche con scadenza entro un anno su un’esposizione bancaria totale per 191,8 milioni di euro.

Contattata con ampio margine di tempo su ciascuna di queste vicende, la De Cecco non ha risposto nel merito e minaccia azioni legali.