Che cosa significa dunque, per noi discepoli di Gesù, “non dimenticare i poveri”? Che cosa comporta essere “chiesa povera e per i poveri”? Tentiamo un piccolo esame di coscienza personale e comunitario.
Dimentichiamo i poveri quando ci attacchiamo ai beni in modo da farne la nostra “roba”, invece di condividerli e metterli in circolo; quando tiriamo i remi in barca, rassegnati davanti all’ingiusta distribuzione delle ricchezze; ogni volta che, in nome del realismo, smettiamo di sognare un mondo umano, dove le sperequazioni scandalose alle quali ci siamo abituati spariscano, e ogni volta che, sognando, non restiamo ben desti per costruirlo; dimentichiamo i poveri se rinunciamo a testimoniare la risurrezione del Signore innestando nella nostra storia quotidiana i germi del regno di Dio, iniettando pillole di speranza, andando incontro a quei poveri, a quegli umiliati, a quei perdenti che ci salveranno, perché risveglieranno in noi le energie migliori – capacità di dono, gratuità, reciprocità, fraternità – spesso narcotizzate da un mondo indifferente, assuefatto alle disparità e alle violenze. Non ci ricordiamo dei poveri quando trascuriamo lo spirito delle beatitudini, e confidiamo nella triplice alleanza tra potere, denaro e spregiudicatezza. Non ci ricordiamo dei poveri quando gestiamo arbitrariamente i beni della chiesa – che esistono in vista della condivisione – per scopi personali o ecclesiastici di grandezza, interesse, prestigio o proprio beneficio.
Il cammino, anche per la chiesa, è in salita: probabilmente la conversione economica è una delle più faticose; e le beatitudini rimangono qualche volta alla porta delle nostre comunità, dei nostri organismi pastorali e amministrativi, e soprattutto del nostro cuore. L’opposto di non dimenticare è ricordare, cioè ricollocare nel cuore, la prima beatitudine.
E ora diciamolo in positivo, pensando in particolare alle nostre comunità cristiane: parrocchie, enti e diocesi. Possediamo dei beni che sono stati acquisiti attraverso offerte, donazioni, eredità; gestiamo strutture e amministriamo denaro. Spesso le “ricchezze della chiesa” producono in realtà l’effetto del fumo negli occhi: alcuni si lasciano abbagliare dagli ori e dagli stucchi delle cattedrali, dai “tesori” dei musei ecclesiastici o dall’imponenza delle basiliche; e ne traggono magari motivo per criticare la chiesa “ricca”. Non pensano che, in gran parte, i monumenti d’arte, che non costituiscono beni commerciabili, sono frutto di comunità che nei secoli scorsi li hanno commissionati e pagati, creando e incentivando lavoro; e non pensano nemmeno a quante risorse occorrano oggi per custodirli, mantenerli e offrirli ancora ai fedeli e ai turisti, favorendo una nuova circolazione di attività e lavoro. Altre strutture, come le canoniche e gli altri ambienti parrocchiali, gli edifici per le scuole materne o le case di riposo, i campi sportivi o le aree verdi, sono e devono essere al servizio del territorio. In alcuni casi i bilanci sono in perdita, sia per difficoltà oggettive sia per gestioni poco accorte. E la situazione, a causa della pandemia, è notevolmente peggiorata, dal punto di vista economico, anche per le parrocchie e per gli altri enti ecclesiastici. “Una chiesa povera e per i poveri” non è quella che butta alle ortiche il suo patrimonio, ma che – senza entrare in logiche economico-finanziarie di puro profitto – ne verifica continuamente l’effettiva finalità pastorale e assistenziale, perché sia sempre al servizio della missione evangelica: annuncio del vangelo, celebrazione dei misteri del Signore, carità e giustizia a partire dai più svantaggiati. I pastori dovranno certo evitare di ridursi ad amministratori e impegnare le loro migliori energie nella burocrazia gestionale, confidando piuttosto nella competenza di laici onesti, preparati e dotati di senso ecclesiale – cosa tutt’altro che scontata in una fase nella quale patiamo gravemente il sovrappeso delle strutture e della loro conservazione –, ma non potranno evitare di orientare il possesso dei beni, la loro gestione e il loro uso, alla logica del vangelo. Un’eredità utilizzata bene, in maniera tale da promuovere lavoro o aiutare i bisognosi, vale come e più di un buon corso di esercizi spirituali. Una somma rendicontata in modo trasparente, investita in attrezzature e attività utili alle persone, alle famiglie, alle fasce sociali più fragili, all’evangelizzazione e alle celebrazioni comunitarie, incide più di una meravigliosa predica.
Una volta, da parroco, ricevetti un’eredità non trascurabile in favore della parrocchia. Come utilizzare quel denaro? Ne parlai al Consiglio per gli affari economici e al consiglio pastorale riuniti in seduta congiunta. Le opinioni erano varie: aprire un conto a parte per le necessità segnalate dalla Caritas, acquistare una cucina per le sagre, inviare un’offerta ai missionari, creare nell’area verde un campetto per il calcio a cinque a uso dei ragazzi, acquistare un ambone in sostituzione di un vecchio leggio, completare la costruzione della sede scout… Cosa scegliere? A un certo punto un giovane disse: “Ma perché non li diamo ai poveri?”. L’idea sul momento sembrò spiazzare tutti, perché a nessuno era venuta in mente la parola “poveri”. Prendendo la palla al balzo, una signora esperta di conti e di bilanci chiese ai presenti di definire “i poveri”. E ci accorgemmo, dopo un’ora di confronto, che tutte le proposte avanzate in precedenza potevano favorire i poveri, sia soccorrendo chi non poteva procurarsi da sé i beni necessari (Caritas e missionari), sia incentivando il mercato del lavoro (acquisto cucina e ambone, costruzione campetto e sede scout); la circolazione di quel denaro in tal modo avrebbe messo in moto dei meccanismi di soccorso, condivisione e prevenzione (comprese la socializzazione e l’educazione), che costituiscono gli ingredienti della carità. Così l’eredità fu destinata in parti uguali a tutti questi obiettivi.
Oltre a gestire onestamente le risorse e a finalizzarle agli scopi per i quali esse esistono, si dovrà verificare attentamente la provenienza delle eventuali grosse offerte, per evitare il fenomeno della cosiddetta “pulitura” del denaro entro il meccanismo del riciclaggio, e interrogarsi più a fondo sul la destinazione delle strutture immobiliari, spesso ritagliate su situazioni molto diverse da quelle di oggi e il cui uso, quindi, esula talvolta dalle finalità originarie: come canoniche e case ormai quasi inutilizzate o strutture abitative e ricreative che hanno perso la loro funzione. Spesso assorbono energie mentali, tempo e risorse sproporzionati: e oltretutto rischiano di dare contro-testimonianza, perché evocano ricchezza, potere, prestigio… mentre in realtà sono talvolta di peso, economico e pastorale. La profezia evangelica richiede gesti coraggiosi, per quanto non avventati: vendite o donazioni totali o parziali, riconversioni dove possibile, dismissioni. “Non dimenticare i poveri” significa anche questo.