Scontri, spie e dossier: la guerra dei De Cecco

Se fosse un impasto di semola, questa storia sembrerebbe il frutto a grana grossa di una cattiva setacciatura. Su De Cecco, terzo produttore mondiale di pasta dopo Barilla ed Ebro Foods, non pesano solo le indagini raccontate dal Fatto per l’acquisto di grano francese riportato invece come materia prima pugliese – nonostante l’accordo con l’Antitrust del dicembre scorso che prevede la trasparenza ai consumatori sulla provenienza della materia prima –, ma anche problemi di altra natura. L’azienda che ha sede a Fara San Martino (Chieti) e Pescara è in mano ai tre rami della famiglia del fondatore Giovanni, con le azioni distribuite tra 22 parenti. Nel 2019 il gruppo, con 859 dipendenti, ha prodotto 200mila tonnellate di pasta che ha esportato in 120 Paesi. Dal 1985 la De Cecco produce anche olio, dal 2006 i sughi pronti firmati dallo chef pluristellato Heinz Beck e dal 2012 prodotti da forno. Nei mesi scorsi, per la seconda volta in 12 anni, ha rinviato la quotazione in Borsa. In passato il fondo di private equity Advent aveva condotto una due diligence mirata all’acquisto, poi sfumato, di una quota di minoranza.

Da lungo tempo la De Cecco è teatro di durissimi scontri di governance con l’esodo di dirigenti tra accuse penali, dossieraggi e denunce per mobbing. Come spieghiamo nell’articolo a fianco, sono emerse anche segnalazioni di anomalie nella semestrale 2019 e irregolarità nelle comunicazioni obbligatorie di un minibond. Contattata con largo anticipo su tutti i dettagli di questa inchiesta, la società non ha risposto nel merito, ma il 12 novembre ha inviato una nota degli avvocati Franco Coppi e Marco Spagnuolo in cui lamenta che non le sarebbe stato consentito “né di comprendere l’esatto perimetro delle informazioni richieste né di fornire una lettura diversa” delle domande poste su “circostanze sconosciute” e minaccia azioni legali. Dopo la nostra richiesta, il 13 novembre il presidente Filippo Antonio De Cecco ha trasmesso una lettera aperta ai dipendenti nella quale afferma che “le notizie delle quali si prospetta la pubblicazione sono false e prive di obiettività”. Il giorno dopo è emersa l’indagine della Procura di Chieti per l’ipotesi di reato di frode in commercio sull’acquisto di 4.575 tonnellate di grano importato dalla Francia ma registrato come pugliese. Tre gli avvisi di garanzia: al presidente, al direttore acquisti Mario Aruffo e all’ex responsabile controllo qualità Vincenzo Villani, licenziato a maggio.

Il primo mancato sbarco in Borsa

La famiglia da 134 anni non ha mai mollato la presa ferrea sull’azienda. Il primo progetto di quotazione del dicembre 2007 fu fermato a febbraio 2009. Nel 2008 la fusione delle controllate Molino, Delfin e Prodotti Mediterranei nell’allora controllante La Fara, a sua volta confluita nella nuova capogruppo Fratelli De Cecco, creò plusvalenze da consolidamento per 160 milioni contabilizzati come riserve. Ma la Guardia di Finanza il 25 settembre 2008 contestò la “presunta elusività dell’operazione di fusione inversa per incorporazione dell’ex controllante” per la quale nel 2012 la De Cecco ha pagato 14,1 milioni all’Agenzia delle Entrate. Il 25 febbraio 2009 l’Antitrust ha multato l’azienda per 1,4 milioni, insieme ad altri pastifici e all’Unione industriali pastai per un totale di 12,5 milioni, per un cartello sui prezzi di mercato.

I conti dell’azienda e la spartizione in famiglia

Dal 2008 al 2019 i ricavi consolidati sono cresciuti da 319 a 458 milioni e l’utile da 8,5 a 13,7, mentre i crediti verso clienti sono scesi da 67 a 33. Tra il 2015 e il 2019 la De Cecco ha prodotto utili per 56 milioni, ma i soci ne hanno prelevati 65,7: 11,3 come dividendi, gli altri 54,4 attribuendosi la riserva versamenti in conto futuro aumento di capitale, creata stornando 70,4 milioni nel 2012, della quale a fine 2019 restavano 16 milioni. Nel solo 2018, quando l’azienda sembrava di nuovo fare rotta verso la Borsa, i soci si sono spartiti 24,8 milioni. Nel 2019 il gruppo aveva 192 milioni di debiti con le banche, 36 per l’emissione di obbligazioni e 102 verso fornitori, questi ultimi quadruplicati rispetto al 2008.

La seconda mancata quotazione

Da anni a Fara il monarca assoluto è il 76enne presidente operativo Filippo Antonio De Cecco. Il suo stile di gestione emerge da un’email interna inviata il 28 giugno 2016 a tutti i dirigenti nella quale stabiliva che “qualsiasi informazione richiesta a ciascuno di voi per relative aree di competenza” dal presidente dell’organo di vigilanza 231 “dovrà essere prodromicamente autorizzata per iscritto dal sottoscritto”. Secondo la legge, l’organismo 231 è una struttura societaria di controllo i cui compiti non possono essere messi preventivamente in discussione da nessuno. A maggio 2018, quando l’entrata in Borsa sembrava vicina, la De Cecco assunse come amministratore delegato Francesco Fattori, manager di lungo corso in multinazionali alimentari. Fattori avrebbe dovuto prendere le redini del gruppo, ma si scontrò con forti resistenze. Il primo aprile 2019 alcuni soci chiesero la convocazione del consiglio di amministrazione per togliere le deleghe al presidente. La sua reazione fu immediata: il 9 aprile Filippo Antonio, il fratello Giuseppe Adolfo e Giuseppe Alfredo De Cecco denunciarono per rivelazione di segreto aziendale Fattori (il quale, contattato, preferisce non commentare). Il giorno dopo la Procura di Pescara fece scattare a suo carico perquisizioni personali, locali e informatiche. Fattori fu licenziato. Dal 2018 dalla De Cecco sono usciti per dimissioni o licenziamento 15 dirigenti, quasi tutta la prima e buona parte della seconda linea, oltre a una ventina di altri funzionari. Il Fatto ha contattato tutti i dirigenti usciti, parlando con alcuni di loro che però non vogliono apparire. Con il licenziamento dell’amministratore delegato Fattori, partiva la purga interna: secondo quanto scritto dall’azienda nelle contestazioni contro un dipendente, Fattori si sarebbe avvalso della “segreta collaborazione di soggetti interni”. Durante la cena aziendale del Natale scorso, il presidente Filippo Antonio De Cecco in un discorso ha affermato: “Abbiamo affrontato l’anno senza la ‘banda Fattori’: tutti fuori. Volevano mandare a casa me, a casa ci stanno loro. Lui è indagato. Insieme a lui ci sono altri personaggi che facevano parte del gruppo dirigente, anche loro sono indagati”.

Battaglia sulla gestione. In cda arriva Gianni Letta

La famiglia dei soci è spaccata in due. Il 22 gennaio scorso, i due ad Saturnino e Giuseppe Aristide De Cecco, unici membri del Cda insieme al presidente, si sono dimessi da consiglieri. In una lettera aperta ai dipendenti hanno scritto che “i cambiamenti nell’organizzazione aziendale” e “l’assenza di un flusso informativo adeguato dal presidente non ci consentono di proseguire nel mandato. Le numerose attività del presidente, in assenza di condivisione e informazione del cda anche sull’organizzazione aziendale, hanno contribuito all’alterazione, allo stato attuale irreversibile, degli equilibri di gestione”. All’assemblea del marzo scorso, dopo aver acquisito la proprietà del 4% e il 4,59% in usufrutto con diritto di voto da Giuseppe Adolfo, Filippo Antonio si è presentato come socio di maggioranza relativa con il 23,59%. Insieme a lui, Giuseppe Adolfo e Giuseppe Alfredo nel nuovo cda sono entrati Annunziata De Cecco, Eugenio Ronco Municchi e il dirigente Adriano Consalvi. Poi tre esterni: l’eminenza forzista, l’abruzzese Gianni Letta, Mario Boselli, presidente onorario della Camera nazionale della moda, e Bruno Pavesi, ex consigliere delegato dell’Università Bocconi.

Dossieraggi e cimici

Ma le tensioni sono di lunga data. Già nel maggio del 2006 l’agenzia investigativa Tony Ponzi riceveva dal “committente presidente Filippo Antonio De Cecco” l’incarico a svolgere indagini private, costate 120mila euro e condotte tra giugno e luglio. Una riguardava la vita privata del vicepresidente Giuseppe Aristide De Cecco. Un’altra, non connessa alla prima, la vita privata di una dipendente del ristorante Le Paillotes, di proprietà del presidente, e di suo marito. Da allora il clima non pare cambiato: il 4 marzo scorso il quotidiano Il Centro di Pescara ha riferito la scoperta di una microspia nell’ufficio di Filippo Antonio De Cecco. Ogni mulino vuole la sua acqua.

Giochi, Mps, regali vari: nel testo grossi favori e le solite micronorme

Una legge di bilancio è sempre molte cose. Ci sono i numeri macro e i provvedimenti più strombazzati e poi c’è una folla di piccole norme poco pubblicizzate che spesso nasconde sorprese e, altrettanto spesso, non dovrebbe proprio esserci in quella legge: è vietato, infatti, inserire nella manovra di finanza pubblica norme microsettoriali, localistiche o ordinamentali. E allora: cosa c’è in questa nuova legge di Bilancio? In attesa dell’alacre lavorio parlamentare, parecchie cose gustose. Partiamo dalle più grosse quanto a impatto sul mercato e sulla cittadinanza.

Mps. Il Monte dei Paschi oggi è del Tesoro, che però vuole venderlo e allora arriva il regalino fiscale: la conversione delle “Dta” (le svalutazioni sui crediti che diventano sconti fiscali) per le banche che si fondono. Quella che si prende Mps, per usarli, dovrà però essere più grande di Siena: la norma pare scritta per Unicredit, dove s’è appena insediato in cda l’ex ministro Padoan, l’uomo che nazionalizzò il Monte nel 2017.

Bingo. Non manca neanche il tradizionale settore dei giochi. Oltre ai soliti interventi per fare cassa, c’è un rinvio di due anni (a marzo 2023) della gara per le concessioni del Bingo. Questa volta la causa è il Covid (le sale sono chiuse), ma la proroga dura dal 2014. Oggi non si possono fare i bandi: le norme in alcuni Regioni e Comuni (che vogliono limitare i giochi d’azzardo) impedirebbero di far continuare l’attività delle sale che lo Stato mette a bando. C’è pure un contenzioso alla Consulta: per i concessionari, i canoni di proroga sono troppo alti.

Iqos. Non è Natale senza una normetta a favore di Philip Morris: salta l’accisa del 25% su sigarette elettroniche e altro, niente rincari.

Tor Vergata. All’università di Roma 3 vengono dati 25 milioni per chiudere il contenzioso con la Vianini (che poi sarebbe Caltagirone), a quel punto i terreni e l’incompiuta “Città dello Sport” dovrebbero passare all’Agenzia del Demanio che con 3 milioni all’anno dovrebbe garantire manutenzione e messa in sicurezza dell’area: per concludere il campus sportivo (quello della Vela di Calatrava) costerebbe 300 milioni e non è chiaro per farci cosa. C’è però ancora chi spera che sia lì che alla fine la As Roma di calcio decida di fare lo stadio: siamo alla mossa preliminare.

Studiosi. C’è la Fondazione per il futuro delle città (11 milioni in tre anni), c’è Studiare Sviluppo del Mef (3 milioni in due anni), c’è il Fondo per la promozione dell’uso consapevole della risorsa idrica (1 milione in due anni per fare “campagne informative”) e c’è l’Istituto Italiano di Cybersicurezza con cui il premier Conte ha fatto incazzare un po’ tutti (10 milioni l’anno).

Spese e spesucce.Sei milioni e mezzo per finire “Mantova Hub”, 10 milioni per trasformare l’Istituto Luce da Srl in Spa, dieci milioni ad Anpal Servizi come “contributo al suo funzionamento”, 15 milioni ai patronati (un vero classico), 10 milioni l’anno in più all’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) per “ulteriori attività” dovute al Covid; 24 milioni l’anno all’Enac per assumere 280 persone circa; quasi 54 milioni per ripianare un buco previdenziale per gli anni 2016-2020 dei professori delle università private, alle quali vanno anche 30 milioni di contributo straordinario.

Giornali. Gli editori vogliono soldi direttamente nelle loro tasche (e i partiti formalmente sono d’accordo), ma in ogni caso per i giornali qualcosa già c’è: un credito d’imposta del 50% per chi fa pubblicità appunta su quotidiani e riviste, anche online.

L’ente inutile. Non manca neanche un altro grande classico delle manovre ovvero la norma per sistemare problemi in una società che non dovrebbe esistere: l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania e Irpinia (Eipli) è in liquidazione dal 2011, dovrebbe essere sostituito da un’altra società, ma non s’è ancora trovato il modo di chiudere il tutto e quindi i contratti a termine di Eipli vengono prorogati per l’ennesima volta di sei mesi (fino a giugno 2021 stavolta).

Alle Camere 800 milioni per comprarsi la manovra

Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Di sicuro, all’ora di cena, non lo sanno alla Camera: si parla qui non dell’araba fenice, ma del più prosaico ddl Bilancio 2021, volgarmente detta “manovra”. Questa legge così importante, stabilisce un’altra legge, dovrebbe essere depositata in Parlamento entro il 23 ottobre: siamo vicini al mese di ritardo. Com’è noto, il primo Consiglio dei ministri ad approvare il ddl fu quello del 16 ottobre, “salvo intese” però, che evidentemente hanno preso parecchio tempo per essere trovate: un nuovo Cdm ha ri-approvato la manovra lunedì sera e ora il sacro manufatto dovrebbe finalmente arrivare alla Camera, che sarà la sola ad esaminare ed emendare il testo, visto che non c’è tempo per permettere anche al Senato di farlo (il via libera deve arrivare entro dicembre). Una sorta di monocameralismo di fatto.

Secondo le ultime indiscrezioni, la sessione di bilancio a Montecitorio inizierà sabato 21 novembre con un rapido giro di audizioni (tre o quattro giorni), a quel punto la commissione avrà circa tre settimane per l’esame vero e proprio, l’aula della Camera potrà fare ben poco, il Senato nulla: la formalizzazione del calendario arriverà oggi in un’apposita conferenza dei capigruppo. Una situazione, questa, che di certo potrebbe irritare più di qualcuno in quella che da Costituzione sarebbe la sede del potere legislativo.

E qui arriva l’articolo 208 (della bozza, per ora) della manovra, che si occupa del “Fondo per far fronte a esigenze indifferibili che si manifestano nel corso della gestione”: istituito ai tempi di Matteo Renzi, viene “incrementato di 800 milioni di euro per l’anno 2021 e 400 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2022”. Ecco, questo Fondo dal nome bizzarro è in sostanza lo spazio di spesa che viene lasciato ai parlamentari per i loro emendamenti: negli anni scorsi è arrivato a valere 150 milioni, ora veleggia verso il miliardo in una manovra da 38 totali. È il lasciapassare contrattato tra l’esecutivo e la sua maggioranza per una navigazione tranquilla: i senatori, per le loro richieste, dovranno chiedere un favore ai deputati, ma quest’anno va così, c’è il Covid…

I precedenti storici non lasciano ben sperare. Il Fondo viene ripartito ogni anno attraverso uno o più Dpcm e la lista degli interventi del passato non è proprio commendevole: una serie di piccole sovvenzioni, a volte magari meritevoli, ma senza attinenza con una manovra di finanza pubblica. “Alle esigenze parlamentari – spiega a sera una fonte del Tesoro – andrà circa la metà della cifra, il resto serve a norme condivise col governo”. Campa cavallo.

Grana Recovery (che rallenta) Nuovo litigio anche sul Mes

“Chi rallenta il processo di approvazione del Next Generation Eu e del Bilancio ‘21-27 si assume una seria responsabilità”. Il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola, ha passato la giornata in video conferenza con gli omologhi europei, nel Consiglio degli Affari generali. Con Polonia e Ungheria ferme sulla minaccia di veto per il meccanismo che lega la concessione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Il Recovery non si cambia: è la posizione degli altri 25. Ma una soluzione non c’è. “La presidenza di turno tedesca si sforzerà di arrivare ad una buona soluzione, 24 ore al giorno, sette giorni a settimana”, ha detto il ministro tedesco agli Affari europei, Michael Roth. E comunque vada, il rischio che i fondi Ue arrivino molto in ritardo è sempre più concreto. Mentre l’Italia è in mezzo all’ennesimo passaggio non facile a livello europeo, il clima nella maggioranza peggiora di ora in ora. “Il Mes è un capitolo chiuso”, dice Luigi Di Maio. “Lo decide il Parlamento”, replicano i capigruppo del Pd. Tra i dem l’irritazione nei confronti degli alleati di governo cresce. Ma nel mirino c’è soprattutto David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, che ha dichiarato che bisogna cancellare i debiti dovuti alla pandemia e riformare il Mes. Dando così il via a Di Maio. I suoi colleghi di partito l’hanno considerato un modo per accreditarsi con M5s per puntare al Colle. “L’Italia lavora per il contenimento del debito”, ha chiarito ancora Amendola. In Parlamento la trattativa per dare il relatore di minoranza alla manovra avanza a fatica. “Conte e M5S si sono messi mezzo di traverso”, dice un parlamentare Pd impegnato in prima persona. E così Sergio Mattarella torna a richiamare alla collaborazione istituzionale.

Soldi & lobby: Giarrusso a rischio

Si era presentato agli elettori col nomignolo di “Iena”, un modo per farsi riconoscere che gli aveva pure causato qualche screzio con il noto programma di Italia 1 di cui era stato inviato. Ora però Dino Giarrusso, eletto nel 2019 al Parlamento europeo con i 5 Stelle, rischia l’espulsione proprio per colpa di quella campagna elettorale e di tre donazioni private da circa 15 mila euro, che sarebbero contrarie alle regole interne del Movimento.

Il caso scoppia lunedì sera, quando Report manda in onda un servizio che rivela tre finanziamenti ricevuti da Giarrusso lo scorso anno. Il primo è da parte di Ezia Ferrucci, ceo della società Bdl lobbyng srl che bonifica 4.800 euro. La Bdl si occupa “di rapporti con gli organi istituzionali e con diversi decisori pubblici” per conto di grosse aziende, tra cui la British American Tobacco o la casa farmaceutica milanese Bracco.

Il secondo finanziamento – altri 5 mila euro – arriva invece da Carmela Vitter, moglie di Piero Di Lorenzo, ovvero il titolare della Irbn di Pomezia, azienda che qualche mese fa lo stesso Giarrusso ha ben pubblicizzato sui propri profili social perché impegnata nella meritoria ricerca sul vaccino contro il coronavirus.

La terza donazione è invece della Promedica, una società che si occupa di tecnologia sanitaria con sede in Sicilia: 4.900 euro che portano il totale delle donazioni sospette, appunto, vicino ai 15 mila euro.

Nulla di illecito, beninteso, perché i bonifici sono stati registrati secondo norma, ma Vito Crimi ha deciso di segnalare il caso ai probiviri del Movimento perché Giarrusso potrebbe aver violato le regole interne del Movimento, rischiando così l’espulsione. Il motivo è un vademecum stilato dai 5 Stelle alla vigilia delle Europee del 2019, secondo cui “ogni candidato non può accettare donazioni da parte di uno stesso soggetto complessivamente superiori a 3 mila euro”. Cifra ampiamente superata dai tre finanziamenti di cui si è occupato Report.

Giarrusso si dice tranquillo, giura di aver “rispettato la legge e le regole interne del Movimento”, ma confessa anche una certa disattenzione: “Quello è un vademecum interno, legato solo alle elezioni europee, che onestamente mi era sfuggito”. In una diretta Facebook, l’ex inviato delle Iene si giustifica poi ricordando che la stessa Ferrucci aveva già donato 4 mila euro al Movimento durante la campagna per le Politiche del 2018. Altri tempi, e forse anche altre regole.

Inciucio FI-dem: ritorsioni della Meloni nelle Regioni

“Non c’interessa di che colore è il gatto, l’importante è che prenda il topo”. Così Renato Brunetta fotografa la situazione sulla possibile collaborazione di Forza Italia alla manovra di Bilancio, in arrivo in Parlamento. Nel senso che a contare saranno i contenuti. Prima il merito e poi il metodo. E il metodo può essere quello di scrivere la manovra col governo, addirittura con un doppio relatore, uno della maggioranza e un forzista. Il dato politico, però, è che sulla finanziaria il partito berlusconiano viaggia su un binario diverso rispetto a Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Sulle proposte economiche, infatti, il centrodestra va diviso e stamattina sarà FI a presentare le sue. In 34 slide cui ha lavorato lo stato maggiore del partito, a partire da Brunetta, e che punteranno ad aiutare famiglie, imprese e sanità. “Vogliamo andare incontro soprattutto ai non garantiti: partite Iva, lavoratori autonomi e imprenditori”, spiega la capogruppo a Montecitorio, Mariastella Gelmini.

Tra le misure, ci sono indennizzi a chi non ha introiti e a chi ha dovuto chiudere l’attività e il “semestre bianco fiscale”. “Poi la palla passerà al governo ma a noi interessano i temi” osserva Brunetta. Secondo cui “bisogna fare tutto il possibile”, dice l’ex ministro, ispirandosi al whatever it takes di Mario Draghi. Sullo scostamento di bilancio, poi, l’appoggio forzista è assicurato, “ma non sarà a costo zero”, avverte Gelmini.

Sul dialogo tra FI e maggioranza s’inseriscono però altri piani e altre partite. Come si è visto con l’emendamento salva-Mediaset per rendere più ardue le scalate estere ad aziende italiane. Sulla questione Vincent Bollorè, patron di Vivendi, ha scritto una lettera al premier Conte per chiedere al governo di fermare tutto, minacciando un ricorso alla Corte di giustizia europea per violazione delle norme sulla concorrenza.

Vivendi, come ha rivelato l’Huffington Post, si sente “discriminata” e vuole vederci chiaro su una mossa che, se ha fatto esultare la parte barricadera di Mediaset, si dice abbia rovinato il lavorìo di quella moderata, che con i francesi aveva intavolato una trattativa. Piani sovrapposti, in cui entra anche il dialogo sul prossimo inquilino del Colle, dove però contano molto pure le questioni locali.

Durante la riunione telematica di martedì era infatti Giorgia Meloni la più arrabbiata con Berlusconi che da giorni mandava troppi segnali di “larghe intese” alla maggioranza: “Silvio, non fare giochi strani, prendi le distanze da Conte – gli avrebbe detto la leader di FdI – ricordati che governiamo insieme in 15 regioni”. Un messaggio arrivato forte e chiaro alle orecchie dell’ex premier e dei suoi colonnelli che infatti notano strane manovre nelle regioni: prima l’estromissione dalla giunta Toti in Liguria e poi il tentativo in Lombardia di cacciare l’assessore di FI Giulio Gallera e adesso altri segnali preoccupanti. Come il caso Abruzzo dove il governatore di FdI Marco Marsilio ha rimosso l’assessore al Turismo forzista Mauro Febbo ed è in rotta con gli azzurri perché sarebbero stati loro a far approvare la convenzione per il ritiro del Napoli da 6 milioni in piena emergenza Covid, finita in Procura.

Tensioni pure nelle Marche, conquistate dal FdI Francesco Acquaroli, sulla gestione dell’emergenza. Tant’è che il messaggio lo manda Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI alla Camera e cognato di Meloni: “Queste manovre non hanno senso”.

Il Tesoro stronca il “modello Genova” di De Micheli: ferma la lista delle opere

Doveva essere la svolta per “sbloccare” e “sburocratizzare” gli appalti delle grandi opere in Italia. S’intende l’estensione urbi et orbi del “modello Genova”, cioè i commissari straordinari che operano in deroga a quasi tutto, eccetto normativa antimafia, penale e poco altro. Peccato però che sia tutto bloccato. Nei giorni scorsi, con una nota asciutta di due pagine, la Ragioneria dello Stato ha sostanzialmente stroncato la lunga lista di opere da commissariare inviata al Tesoro dal ministero delle Infrastrutture (Mit) guidato da Paola De Micheli.

Per capire serve fare un passo indietro. A ottobre 2018 il governo gialloverde, ministro Danilo Toninelli, decise di nominare un commissario straordinario per ricostruire il ponte Morandi di Genova. Il commissario ha agito in deroga agli obblighi di legge, soprattutto quelli di dover fare le gare. Ad aprile 2019 l’ennesimo “Sblocca cantieri” ha reso possibile usare questo modello anche altrove, previa però lista delle opere da commissariare e nomi dei commissari e relativo decreto della presidenza del Consiglio (Dpcm) proposto dal Mit e controfirmato dal Tesoro. Nulla è stato fatto fino a luglio 2020, quando il governo giallorosa ha varato il “decreto Semplificazioni”, anche in questo caso prevedendo e ampliando la figura dei commissari. Oggi è ancora tutto fermo. E veniamo all’ultima puntata.

A fine ottobre il Mit ha spedito al Tesoro la lista delle opere da commissariare, ben 50 infrastrutture: 13 stradali, 16 ferroviarie, una di “trasporto rapido di massa”, 7 idriche, 2 portuali e 12 di “edilizia statale”. Ce ne sono di enormi come l’AV ferroviaria Fortezza-Verona (5 miliardi); Brescia-Padova o la Napoli-Bari, ma anche la diga di Maccheronis (Nuoro) o la Metro C di Roma. Il 9 novembre il ministero di Roberto Gualtieri ha risposto allegando il giudizio firmato dal ragioniere generale, Biagio Mazzotta. Il tecnico del Tesoro contesta che l’elenco sia troppo lungo, perfino più lungo della lista precedente inviata a febbraio, ma soprattutto che è “un mero elenco” privo di “alcuna indicazione circa il livello progettuale e gli aspetti finanziari dei singoli interventi (costo, coperture e fonti di finanziamento) né fornisce alcun elemento informativo atto a giustificare la necessità di procedere alla nomina di un commissario straordinario. Inoltre, non sono indicati i Cup degli interventi, come espressamente previsto dalla norma”. Parliamo dei codici che identificano un progetto d’investimento pubblico senza i quali non ci può essere un monitoraggio. In sostanza, il Mit viene accusato, nel momento in cui trasmette un elenco di 50 opere da commissariare, di non essere in grado di giustificare per quali ragioni, economiche o tecniche, ha deciso di seguire questa strada. Eppure il decreto Semplificazioni prevede l’ipotesi del commissario per opere “con un elevato grado di complessità progettuale”, “particolare difficoltà esecutiva o attuativa” e “complessità delle procedure tecnico-amministrative”. Invece, nota la Ragioneria con disappunto (“si esprime contrarietà”), che “tra le opere da commissariare sono inseriti interventi, quali quelli proposti dal ministero dell’Interno che, oltre a essere di modesta entità, trattandosi per lo più di ristrutturazioni di immobili sede di caserme e commissariati, non rientrano nel perimetro di applicazione della norma, non rivestendo carattere strategico”.

L’idea che servano commissari in deroga a tutto per ristrutturare una dozzina di caserme in giro per l’Italia (dalla “Boscariello” di Napoli alla “Ilardi” di Genova) fa talmente indispettire la Ragioneria che Mazzotta è costretto a ricordare al Mit che “la nomina di un commissario straordinario determina oneri, connessi al compenso e all’eventuale supporto tecnico-amministrativo che gravano sul quadro economico dell’opera sottraendo risorse destinate alla sua realizzazione”. Insomma, “il commissario deve essere limitato a opere di rilevanza strategica” e basta, non se ne può abusare, e va spiegato perché vi si ricorre. Sembra banale, ma evidentemente serve ribadirlo. Il “modello Genova” può attendere ancora un po’.

“Tariffe dirottate sugli utili”: anche Roma indaga su Aspi

Non solo Genova. Anche la Procura di Roma ha aperto un fascicolo su Autostrade. Truffa è il reato per il quale si procede (non ci sono indagati). L’inchiesta nasce da una denuncia presentata da alcune associazioni (tra cui il “Comitato zona arancione Ponte Morandi”) rappresentative di interessi diffusi e in cui si mette nel mirino il comportamento del concessionario, cioè Aspi, facente capo alla famiglia Benetton. Nell’esposto si parte dal crollo del Ponte Morandi, il 14 agosto 2018. “Il valore infrastrutturale del Ponte Morandi – è scritto nell’esposto – determinava uno stravolgimento della viabilità cittadina e autostradale con riflessi impressionanti sulle attività economiche e sulla vita quotidiana” di molte persone. “Nell’autunno del 2019 – si aggiunge – si verificavano numerosi disservizi che paralizzavano diversi tratti della rete autostradale ligure”. Secondo i denuncianti “è legittima (…) l’esigenza di fare chiarezza sulle ragioni che hanno condotto a tale ‘infarto’”.

Alcuni cittadini e associazioni lamentano “un calo di fatturato” e “un aumento dei costi” e chiedono alla Procura di andare alla radice del problema verificando “l’ipotesi che il crollo del ponte non sia stato un tragico e imprevedibile evento (…), ma l’ordinaria, prevedibile e accettata conseguenza di una gestione viziosa del servizio autostradale…”. “Quel che si ipotizza nel caso di Aspi – riporta l’esposto – è che gli investimenti già previsti nel nodo di Genova (la c.d. Gronda o Bretella Voltri-Rivarolo), per 1,8 miliardi di euro, non siano stati effettuati ma, la tariffa, che presupponeva ex ante tali investimenti (art. 18 Convenzione Unica), sia rimasta invariata”.

Il punto è la destinazione dei soldi non spesi: “La tariffa anziché essere utilizzata per lavori sulle opere potrebbe essere stata utilizzata, almeno in parte, per rimborsare altre poste economiche, comunque non legate all’erogazione del servizio, bensì a beneficio degli azionisti di controllo”. Nella denuncia si parte quindi dal 2002. “Successivamente al 2002 (dopo l’approvazione del IV atto aggiuntivo con lo ‘spostamento’ di una serie di opere in un nuova componente tariffaria)”. Da allora “sarebbe entrata nel patrimonio di Autostrade, tramite la tariffa base forfettaria una somma oltremodo significativa”. Secondo l’esposto “l’effettiva quota destinata ai lavori di manutenzione e implementazione sarebbe stata sempre fortemente limitata, con l’esito dei gravi disservizi”. Quando Il Fatto si era occupato dell’esposto (prima che fosse aperta un’inchiesta) fonti di Aspi spiegavano: “I lavori della Gronda non sono iniziati per ragioni non imputabili alla società e le manutenzioni non pesano sulla tariffa. Inoltre sono state effettuate con ritmi superiori a quelli precedenti alla cessione al privato nel 1997, e comunque non inferiori a quelli degli altri concessionari europei. Nel 2019, dopo il crollo del ponte, le manutenzioni sono aumentate del 40 per cento”. La palla ora passa ai pm che dovranno valutare la fondatezza dell’esposto.

“Covid-19, processi a rischio e possibili scarcerazioni”

La Direzione distrettuale antimafia di Torino lancia un allarme: nei grandi processi, se un imputato detenuto risulta positivo al Covid-19 si rischiano rinvii lunghi, scarcerazioni per decorrenza dei termini della custodia cautelari e procedimenti stralci. “Il problema esiste ed è serissimo”, sostiene il procuratore capo di Torino, Annamaria Loreto. Ieri la Dda ha mandato una lettera dalla Direzione nazionale antimafia. Il problema “dovrebbe essere affrontato con adeguati strumenti di carattere normativo”, spiega Loreto. Giovedì, durante una pausa del processo Carminius-Fenice, un detenuto ha saputo di essere positivo, ma asintomatico, ed è stato portato in cella, dove rimarrà in isolamento per due settimane prima di un nuovo tampone. Il suo difensore ha chiesto il rinvio per legittimo impedimento e il presidente del collegio ha dovuto rinviare al 16 dicembre. Salteranno così sei udienze. Non è l’unico caso. Ieri è risultato positivo anche l’imputato di un altro processo contro la ’ndrangheta in corso ad Asti.

Sms Princi a Nasty dopo l’omicidio: ‘Tesoro stai bene?’

“Come stai tesoro, sono tanto in pensiero per te”. È l’ultimo messaggio di Giovanni Princi ad Anastasia Kylemnyk, fidanzata di Luca Sacchi, ucciso nella notte tra il 23 e 24 ottobre 2019 con un colpo di pistola alla testa davanti a un pub in zona Colli Albani. Il messaggio, inviato il giorno dopo l’omicidio, è stato letto dal maresciallo William Massari, del Nucleo investigativo dei carabinieri all’udienza davanti alla Corte d’Assise di Roma. Al messaggio di Princi, Anastasia non risponde. Dalle analisi delle chat sui telefonini delle persone coinvolte, si scopre che la fidanzata di Luca, subito dopo l’omicidio, cancellò l’applicazione Signal, utilizzata da tutte le persone coinvolte, che garantisce maggior anonimato rispetto a Whatsapp. I principali imputati sono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, i 20enni di San Basilio accusati di concorso in omicidio volontario insieme con Marcello De Propris, che consegnò loro la pistola, e la fidanzata di Luca, Anastasia, sia parte lesa per l’aggressione subita che imputata, con l’accusa di violazione della legge sugli stupefacenti.