Di calcio, di musica, di politica, di medicine, di medici, di fotografia. Di costumi. Di società. E, ovvio, di cinema.
Carlo Verdone è un uomo che approfondisce, si appassiona, sviluppa e sintetizza; è un uomo che non vive passivo, ma è uno dei pochi in grado di ragionare e immaginare il domani, non solo dietro o davanti la macchina da presa. In questi dieci e passa anni Il Fatto lo ha coinvolto spesso, e lui ha sempre regalato il suo tocco; di seguito riportiamo alcuni dei passaggi chiave tratti da interviste rilasciate a Marco Travaglio, Silvia Truzzi, Andrea Scanzi, Malcom Pagani e chi scrive. Buon compleanno.
Gli inizi.
“Le cantine umide, l’animazione dei burattini, i pezzi di pellicola che mio padre portava a casa e con i quali avevo un rapporto quasi fisico. Li passavo tra le dita, li squadravo. I miei, a 10 anni, mi regalarono una 8 millimetri e una bobina. Dentro c’era un filmino, La vendetta dei visi pallidi. Dopo qualche anno, riuscii ad acquistare una cinepresa a 80.000 lire. Nel 1970. Un sacco di soldi per quei tempi, raccolti con la questua tra gli zii. Me la vendette Isabella Rossellini, la più bella ragazza di Roma”.
Il centro sperimentale.
“Rossellini, a cui devo tanto, senza capire che il clima era cambiato, aveva messo in piedi un ciclo di lezioni su una speciale cinepresa appena prodotta dalla Nasa. I militanti ammettevano solo cinema politico e un giorno, uno di Lotta Continua, tradito dalla noia, si alzò, si girò di spalle e fece un peto. Non rise nessuno. Rossellini fece cadere lentamente la Chesterfield, disse soltanto: ‘La lezione è finita’ e andò via. Non l’abbiamo più rivisto”.
Prima volta con Sordi.
“Sarà stato il ’56, un inverno freddo, la neve sui marciapiedi. Non sapevo chi fosse Sordi. In famiglia però se ne parlava sempre e quando passavamo sotto casa sua, mio padre mi erudiva: ‘Abita qui’. Un giorno scendo le scale, individuo l’appartamento e comincio a lanciare pietre. Si affaccia un’ombra, non ho mai capito se fosse lui o la sorella: erano uguali. Un vocione: ‘Non rompere i coglioni ragazzino, vattene via, Sordi dorme e il sonno è sacro, non te l’hanno insegnato?’”.
Molti anni dopo…
“Una sera esco da un ristorante con Alberto, aveva quasi ottant’anni. A metà di un vialetto inciampa e cade, resta a terra qualche secondo, nessuno dei presenti lo aiuta, solo io mi precipito. A un certo punto un signore gli rivolge la parola: ‘Se semo invecchiati, eh Albè!’. In macchina Sordi riflette con tristezza: ‘Tanto veniamo dimenticati tutti’”.
Lui e la medicina.
“Da ragazzo iniziai a leggermi tutta l’Enciclopedia medica della Curcio Editore. Ero convinto che avrei scelto Medicina all’università. A un certo punto, però, arrivai alla definizione di ‘tracoma’, un disturbo oculare serio. In quel periodo soffrivo con gli occhi e mi ero quasi convinto di averne uno. Capii di essere troppo emotivo”.
Amici e farmaci.
“Mi chiamano a qualsiasi ora. Anche a cena: con una mano mangio e con l’altra do consulenze. È una passione che ho sempre avuto. Una passione privata. Non ho lauree, formulo solo ipotesi e poi dico di andare da un medico vero. Altrimenti sarei un pazzo. Questa passione mi ha anche procurato la nomea di ipocondriaco, ma non lo sono mai stato. Come non sono mai stato depresso. Ho sofferto di attacchi di panico per sei/sette mesi, nel 1979, quando ho patito il passaggio da ragazzo timido a persona famosa: quella nuova vita mi faceva paura. Ne sono uscito senza tanti farmaci, e con un bravissimo psicologo”.
Ispirazione.
“Sono sempre stato curioso dei tic, delle fragilità, della mitomania, dell’assoluta mancanza del senso del ridicolo di molti tipi che incontravo o incrociavo velocemente in un bar, in farmacia, in treno o dal barbiere. Mi bastava sentirli parlare e atteggiarsi per risalire al loro dna caratteriale. Non ho quasi mai sbagliato”.
Dubbi.
“Il lavoro dell’attore mi sembrava un impegno per gente senza paura, piena di assoluta passione e con un perfetto autocontrollo. Non credevo minimamente di avere tali qualità. Timido, riservato, timoroso, credevo di essere inadeguato a presentarmi davanti a un pubblico pagante”.
La mamma.
“La prima persona che credette in Carletto come attore, incoraggiandomi ad affrontare il mio primo importante e terrorizzante spettacolo teatrale nel 1977 con un calcio nel sedere. ‘Vai in scena, fregnone! Perché un giorno mi ringrazierai…’. E infatti non c’è giorno che non la ringrazi”.
Il padre.
“Non voleva. Conosceva la realtà del cinema, le difficoltà per intraprendere e restare in questo mondo: per lui era un mestiere complicato, pericoloso, pieno di fragilità. Diceva: ‘O sei da primo in classifica, o meglio lasciar perdere. E non so se puoi riuscirci. Studia e pensa a un posto sicuro’. Allo stesso tempo mi consigliava i film da vedere, mi regalava le tessere dei cineclub, i libri di Maupassant, Cechov, Gogol, Verga, Deledda… tutta la letteratura di fine Ottocento, primi del Novecento. È stato eccezionale”.
Vita e cinema.
“Ho sposato il mio lavoro, anche a costo di mettere da parte altri aspetti della vita: quello della scrittura prima, della regia e recitazione poi, sono un impegno perenne, ho la testa sempre lì”.
1971.
“Sono partito con due amici per la Polonia, viaggio che ha ispirato anche Un sacco bello; nei film ho spesso riportato esperienze vissute, mi sono preso in giro. A quel tempo eravamo convinti che, grazie alle penne, le calze, i dischi dei Beatles, di Little Tony, di Bobby Solo, ce l’avrebbero data con il frisbee”.
Un successo alla distanza.
“Tutti i miei film, compreso Compagni di scuola, hanno ottenuto il tributo dopo un po’. Lì per lì ho preso critiche, alcune brutte, soprattutto con Bianco, Rosso e Verdone, ricordo un articolo di Repubblica: ‘Che ci fanno tre cretini sull’autostrada’. Pensai: ‘Ho sbagliato’. Poi mi venne in soccorso Sergio Citti: lo incontro un pomeriggio, ascolta il mio dispiacere, e alla fine: ‘Sbattitene, hai girato un film de ’na poesia straordenaria, la scena del cimitero vale tutto’. Aveva ragione”.
Compagni di scuola.
“Mario Cecchi Gori mi tirò in faccia il copione. Duecentoventi pagine di sceneggiatura sparse per la stanza e l’umiliazione di dover raccogliere i fogli dal pavimento: ‘Sei impazzito? A Natale vuoi prendere sberle da tutti? Il film è verboso. Parlate, parlate, parlate. E poi? Che succede? Niente’. E aggiunse: ‘Spero che il risultato sia comunque buono, per me e soprattutto per te’. Poi sparì. Ci incontrammo tempo dopo il primo montato. Si accesero le luci. Mario si alzò, mi abbracciò, mi diede due schiaffetti: ‘Bravo. Mi hai fregato. Mi inculi sempre’”.
Sergio Leone.
“Mio fratello, che lo conosceva bene, mi chiese un appuntamento. ‘Ti cerca da un’ora, dice se lo chiami’. ‘Ma davero?’. Non faccio in tempo a finire e squilla l’apparecchio. ‘Sono Sergio Leone’. ‘Maestro’. ‘Chiamame Sergio. Puoi venì domani alle sei che parlamo?’. ‘Volentieri, sono molto emozionato’. Si udì solo un mugolio. L’indomani ero nervoso, mi fermai due volte a fare pipì, poi suonai prendendo subito la scossa. Mi aprì un cameriere giamaicano simile a Bob Marley. Macchiato di sugo. Poi cani ovunque, oggetti, fotografie, copioni. E una voce: ‘So’ qua’”.
Alla regia.
“Era convinto che Bianco, Rosso e Verdone sarebbe stato un insuccesso clamoroso: ‘Furio è un personaggio sbagliato. La gente lo rifiuterà’. O anche: ‘Quando lo sento parlare mi viene voglia di spezzare una penna’. Organizzò una proiezione privata con Sordi, Monica Vitti e Paulo Roberto Falcao. Sordi si complimentò, Vitti annuì, Leone si tranquillizzò, Falcao che del film non aveva capito niente aguzzò la vista e ottimizzò: ‘Come si chiama la figlia della coppia russa all’Autogrill? È italiana?’. Era la figlia di Giorgio Arlorio, lo sceneggiatore”.
Momenti di crisi.
“Quando uscì C’era un cinese in coma, nel 2000, avvertii che il pubblico si era un po’ stancato di me. Avevo fatto una commedia troppo amara, ancora più crepuscolare di Compagni di scuola. Mi dissi: ‘Qual è il modo migliore di non perdere un’altra battaglia?’. ‘Non partecipare alla battaglia’. Mi presi due anni per girare il mondo con i figli, per godermeli, per riconquistarli”.
Musica.
“Like a Rolling Stone resta ancora oggi una delle canzoni della mia vita, oltre a A Day in the Life dei Beatles e Strangers in the Night”.
Addio al suo mito.
“L’omicidio di Lennon aveva spazzato via, in un secondo, quegli ultimi frammenti di ideali che ci avevano accompagnato per quasi vent’anni. Era come se avesse preso fuoco il mio scaffale di dischi e qualcuno mi avesse strappato dal cuore le emozioni più intime”.
Fotografare il cielo
“Una passione liberatoria per chi, come me, ha dedicato e dedica ancora la sua vita artistica alla commedia, alla risata. Finalmente, attraverso la fotografia, potevo riappropriarmi della mia vera indole: contemplativa, malinconica spesso solitaria. Quando scatto non voglio nessuno accanto, è un momento ‘mistico’ è solo mio”.
Maledetto il giorno che t’ho incontrato.
“Quel film è stato un po’ terapeutico. C’era molto di me: l’amore per la musica rock, per Jimi Hendrix, per l’Inghilterra, la psicoanalisi, l’ipocondria. Molti tra il pubblico si ritrovarono: non sapete quanta gente parte con i sacchi delle medicine. Quando arrivai in Inghilterra avevo portato la Magnesia San pellegrino. Come entro a Londra, alla dogana mi fanno aprire la valigia. C’era una polvere bianca in un sacchetto, l’agente mi guarda e dice: ‘What is this?’. Io l’inglese lo parlavo poco, non sapevo come dirgli che mi serviva per andare in bagno. Così me la sono messa sulla lingua per fargli vedere che era effervescente. E facevo il gesto sulla pancia per dire ‘funzioni corporali’. Attorno m’insultavano tutti: ‘Ma che ti porti sempre ’ste medicine dietro…”’.
Il dopo…
“Lo dico sempre ai miei due figli: ‘Ragazzi, il giorno che papà se ne va, dovete fare un bel museo Carlo Verdone, esporre i miei 200 mila cimeli, i dischi che amo. E metterci all’ingresso la mia moto, bella lucidata’. Loro fanno le corna, si turano le orecchie, mi mandano a quel paese: ‘Pa’, hai rotto le palle!’”.