70 sfumature di Verdone

Di calcio, di musica, di politica, di medicine, di medici, di fotografia. Di costumi. Di società. E, ovvio, di cinema.

Carlo Verdone è un uomo che approfondisce, si appassiona, sviluppa e sintetizza; è un uomo che non vive passivo, ma è uno dei pochi in grado di ragionare e immaginare il domani, non solo dietro o davanti la macchina da presa. In questi dieci e passa anni Il Fatto lo ha coinvolto spesso, e lui ha sempre regalato il suo tocco; di seguito riportiamo alcuni dei passaggi chiave tratti da interviste rilasciate a Marco Travaglio, Silvia Truzzi, Andrea Scanzi, Malcom Pagani e chi scrive. Buon compleanno.

Gli inizi.

“Le cantine umide, l’animazione dei burattini, i pezzi di pellicola che mio padre portava a casa e con i quali avevo un rapporto quasi fisico. Li passavo tra le dita, li squadravo. I miei, a 10 anni, mi regalarono una 8 millimetri e una bobina. Dentro c’era un filmino, La vendetta dei visi pallidi. Dopo qualche anno, riuscii ad acquistare una cinepresa a 80.000 lire. Nel 1970. Un sacco di soldi per quei tempi, raccolti con la questua tra gli zii. Me la vendette Isabella Rossellini, la più bella ragazza di Roma”.

Il centro sperimentale.

“Rossellini, a cui devo tanto, senza capire che il clima era cambiato, aveva messo in piedi un ciclo di lezioni su una speciale cinepresa appena prodotta dalla Nasa. I militanti ammettevano solo cinema politico e un giorno, uno di Lotta Continua, tradito dalla noia, si alzò, si girò di spalle e fece un peto. Non rise nessuno. Rossellini fece cadere lentamente la Chesterfield, disse soltanto: ‘La lezione è finita’ e andò via. Non l’abbiamo più rivisto”.

Prima volta con Sordi.

“Sarà stato il ’56, un inverno freddo, la neve sui marciapiedi. Non sapevo chi fosse Sordi. In famiglia però se ne parlava sempre e quando passavamo sotto casa sua, mio padre mi erudiva: ‘Abita qui’. Un giorno scendo le scale, individuo l’appartamento e comincio a lanciare pietre. Si affaccia un’ombra, non ho mai capito se fosse lui o la sorella: erano uguali. Un vocione: ‘Non rompere i coglioni ragazzino, vattene via, Sordi dorme e il sonno è sacro, non te l’hanno insegnato?’”.

Molti anni dopo…

“Una sera esco da un ristorante con Alberto, aveva quasi ottant’anni. A metà di un vialetto inciampa e cade, resta a terra qualche secondo, nessuno dei presenti lo aiuta, solo io mi precipito. A un certo punto un signore gli rivolge la parola: ‘Se semo invecchiati, eh Albè!’. In macchina Sordi riflette con tristezza: ‘Tanto veniamo dimenticati tutti’”.

Lui e la medicina.

“Da ragazzo iniziai a leggermi tutta l’Enciclopedia medica della Curcio Editore. Ero convinto che avrei scelto Medicina all’università. A un certo punto, però, arrivai alla definizione di ‘tracoma’, un disturbo oculare serio. In quel periodo soffrivo con gli occhi e mi ero quasi convinto di averne uno. Capii di essere troppo emotivo”.

Amici e farmaci.

“Mi chiamano a qualsiasi ora. Anche a cena: con una mano mangio e con l’altra do consulenze. È una passione che ho sempre avuto. Una passione privata. Non ho lauree, formulo solo ipotesi e poi dico di andare da un medico vero. Altrimenti sarei un pazzo. Questa passione mi ha anche procurato la nomea di ipocondriaco, ma non lo sono mai stato. Come non sono mai stato depresso. Ho sofferto di attacchi di panico per sei/sette mesi, nel 1979, quando ho patito il passaggio da ragazzo timido a persona famosa: quella nuova vita mi faceva paura. Ne sono uscito senza tanti farmaci, e con un bravissimo psicologo”.

Ispirazione.

“Sono sempre stato curioso dei tic, delle fragilità, della mitomania, dell’assoluta mancanza del senso del ridicolo di molti tipi che incontravo o incrociavo velocemente in un bar, in farmacia, in treno o dal barbiere. Mi bastava sentirli parlare e atteggiarsi per risalire al loro dna caratteriale. Non ho quasi mai sbagliato”.

Dubbi.

“Il lavoro dell’attore mi sembrava un impegno per gente senza paura, piena di assoluta passione e con un perfetto autocontrollo. Non credevo minimamente di avere tali qualità. Timido, riservato, timoroso, credevo di essere inadeguato a presentarmi davanti a un pubblico pagante”.

La mamma.

“La prima persona che credette in Carletto come attore, incoraggiandomi ad affrontare il mio primo importante e terrorizzante spettacolo teatrale nel 1977 con un calcio nel sedere. ‘Vai in scena, fregnone! Perché un giorno mi ringrazierai…’. E infatti non c’è giorno che non la ringrazi”.

Il padre.

“Non voleva. Conosceva la realtà del cinema, le difficoltà per intraprendere e restare in questo mondo: per lui era un mestiere complicato, pericoloso, pieno di fragilità. Diceva: ‘O sei da primo in classifica, o meglio lasciar perdere. E non so se puoi riuscirci. Studia e pensa a un posto sicuro’. Allo stesso tempo mi consigliava i film da vedere, mi regalava le tessere dei cineclub, i libri di Maupassant, Cechov, Gogol, Verga, Deledda… tutta la letteratura di fine Ottocento, primi del Novecento. È stato eccezionale”.

Vita e cinema.

“Ho sposato il mio lavoro, anche a costo di mettere da parte altri aspetti della vita: quello della scrittura prima, della regia e recitazione poi, sono un impegno perenne, ho la testa sempre lì”.

1971.

“Sono partito con due amici per la Polonia, viaggio che ha ispirato anche Un sacco bello; nei film ho spesso riportato esperienze vissute, mi sono preso in giro. A quel tempo eravamo convinti che, grazie alle penne, le calze, i dischi dei Beatles, di Little Tony, di Bobby Solo, ce l’avrebbero data con il frisbee”.

Un successo alla distanza.

“Tutti i miei film, compreso Compagni di scuola, hanno ottenuto il tributo dopo un po’. Lì per lì ho preso critiche, alcune brutte, soprattutto con Bianco, Rosso e Verdone, ricordo un articolo di Repubblica: ‘Che ci fanno tre cretini sull’autostrada’. Pensai: ‘Ho sbagliato’. Poi mi venne in soccorso Sergio Citti: lo incontro un pomeriggio, ascolta il mio dispiacere, e alla fine: ‘Sbattitene, hai girato un film de ’na poesia straordenaria, la scena del cimitero vale tutto’. Aveva ragione”.

Compagni di scuola.

“Mario Cecchi Gori mi tirò in faccia il copione. Duecentoventi pagine di sceneggiatura sparse per la stanza e l’umiliazione di dover raccogliere i fogli dal pavimento: ‘Sei impazzito? A Natale vuoi prendere sberle da tutti? Il film è verboso. Parlate, parlate, parlate. E poi? Che succede? Niente’. E aggiunse: ‘Spero che il risultato sia comunque buono, per me e soprattutto per te’. Poi sparì. Ci incontrammo tempo dopo il primo montato. Si accesero le luci. Mario si alzò, mi abbracciò, mi diede due schiaffetti: ‘Bravo. Mi hai fregato. Mi inculi sempre’”.

Sergio Leone.

“Mio fratello, che lo conosceva bene, mi chiese un appuntamento. ‘Ti cerca da un’ora, dice se lo chiami’. ‘Ma davero?’. Non faccio in tempo a finire e squilla l’apparecchio. ‘Sono Sergio Leone’. ‘Maestro’. ‘Chiamame Sergio. Puoi venì domani alle sei che parlamo?’. ‘Volentieri, sono molto emozionato’. Si udì solo un mugolio. L’indomani ero nervoso, mi fermai due volte a fare pipì, poi suonai prendendo subito la scossa. Mi aprì un cameriere giamaicano simile a Bob Marley. Macchiato di sugo. Poi cani ovunque, oggetti, fotografie, copioni. E una voce: ‘So’ qua’”.

Alla regia.

“Era convinto che Bianco, Rosso e Verdone sarebbe stato un insuccesso clamoroso: ‘Furio è un personaggio sbagliato. La gente lo rifiuterà’. O anche: ‘Quando lo sento parlare mi viene voglia di spezzare una penna’. Organizzò una proiezione privata con Sordi, Monica Vitti e Paulo Roberto Falcao. Sordi si complimentò, Vitti annuì, Leone si tranquillizzò, Falcao che del film non aveva capito niente aguzzò la vista e ottimizzò: ‘Come si chiama la figlia della coppia russa all’Autogrill? È italiana?’. Era la figlia di Giorgio Arlorio, lo sceneggiatore”.

Momenti di crisi.

“Quando uscì C’era un cinese in coma, nel 2000, avvertii che il pubblico si era un po’ stancato di me. Avevo fatto una commedia troppo amara, ancora più crepuscolare di Compagni di scuola. Mi dissi: ‘Qual è il modo migliore di non perdere un’altra battaglia?’. ‘Non partecipare alla battaglia’. Mi presi due anni per girare il mondo con i figli, per godermeli, per riconquistarli”.

Musica.

“Like a Rolling Stone resta ancora oggi una delle canzoni della mia vita, oltre a A Day in the Life dei Beatles e Strangers in the Night”.

Addio al suo mito.

“L’omicidio di Lennon aveva spazzato via, in un secondo, quegli ultimi frammenti di ideali che ci avevano accompagnato per quasi vent’anni. Era come se avesse preso fuoco il mio scaffale di dischi e qualcuno mi avesse strappato dal cuore le emozioni più intime”.

Fotografare il cielo

“Una passione liberatoria per chi, come me, ha dedicato e dedica ancora la sua vita artistica alla commedia, alla risata. Finalmente, attraverso la fotografia, potevo riappropriarmi della mia vera indole: contemplativa, malinconica spesso solitaria. Quando scatto non voglio nessuno accanto, è un momento ‘mistico’ è solo mio”.

Maledetto il giorno che t’ho incontrato.

“Quel film è stato un po’ terapeutico. C’era molto di me: l’amore per la musica rock, per Jimi Hendrix, per l’Inghilterra, la psicoanalisi, l’ipocondria. Molti tra il pubblico si ritrovarono: non sapete quanta gente parte con i sacchi delle medicine. Quando arrivai in Inghilterra avevo portato la Magnesia San pellegrino. Come entro a Londra, alla dogana mi fanno aprire la valigia. C’era una polvere bianca in un sacchetto, l’agente mi guarda e dice: ‘What is this?’. Io l’inglese lo parlavo poco, non sapevo come dirgli che mi serviva per andare in bagno. Così me la sono messa sulla lingua per fargli vedere che era effervescente. E facevo il gesto sulla pancia per dire ‘funzioni corporali’. Attorno m’insultavano tutti: ‘Ma che ti porti sempre ’ste medicine dietro…”’.

Il dopo…

“Lo dico sempre ai miei due figli: ‘Ragazzi, il giorno che papà se ne va, dovete fare un bel museo Carlo Verdone, esporre i miei 200 mila cimeli, i dischi che amo. E metterci all’ingresso la mia moto, bella lucidata’. Loro fanno le corna, si turano le orecchie, mi mandano a quel paese: ‘Pa’, hai rotto le palle!’”.

L’odissea del polipo Di Mare: dai pannoloni alle palpatine

Il destino è nel cognome: nel vasto acquario della televisione pubblica, Franco Di Mare è un timoniere navigato, protagonista di una rotta insolita che gli ha fatto toccare terra nei piani alti di Viale Mazzini, alla guida della terza rete nazionale. Che c’azzecca Di Mare con Rai3 in epoca giallorossa? Qual è il legame con i Cinque Stelle, quale amicizia gli ha permesso di legittimarsi agli occhi di un movimento – per restare in tema marino – che doveva aprire le istituzioni italiane come una scatoletta di tonno? Misteri della Rai.

Franco Di Mare, come quasi tutti quelli che hanno fatto carriera nella tv di Stato, è un maestro delle traiettorie trasversali. Naviga di poppa e di bolina, a destra e a sinistra, coi rossi, con gli azzurri e pure con i gialli.

Inizia da giornalista di cronaca giudiziaria, fa la gavetta nell’Unità del Pci a cavallo degli anni 80, dopo la caduta del Muro di Berlino (e delle relative cortine ideologiche) entra in Rai. Al Tg2 è inviato di guerra per due lustri, prima di scoprire la sua natura di gattone da salotto televisivo: dal 2003 conduce Unomattina. Il resto è storia recente: in epoca gialloverde (e poi giallorossa) il suo profilo rimbalza impazzito nei toto-nomine che riguardano metà delle poltrone della Rai, spinto a forza dai grillini. Alla fine plana sulla direzione di Rai3, mentre il suo amico Mario Orfeo – paradosso: erano considerati una gran coppia di renziani – si prende il Tg della terza rete.

Sembra il morbido approdo di una lunga navigazione, partita nel lontano 1991. E invece per Di Mare sono giorni di tempesta. L’ha preso di mira, di brutto, Striscia la notizia. Il nostro, pur abituato ai teatri di guerra, è entrato in un conflitto che rischia di essergli fatale con Bianca Berlinguer. Il motivo è l’epurazione di Mauro Corona, ex ospite fisso di Cartabianca, prima di essere allontanato per le offese sessiste (“stai zitta gallina”!) pronunciate in diretta contro la conduttrice. Berlinguer e Corona hanno fatto pace, ma Di Mare – malgrado le insistenze di lei – non ha nessuna intenzione di farlo rientrare. Il motivo è nobile, Franco è franco: Corona ha offeso il genere femminile, la tv di Stato ha il dovere di trasmettere i giusti valori, su questo non si transige.

Il problema è che le questioni di principio calzano male sulle spalle di Di Mare, come un vestito di parecchie taglie più grande. Il programma di Antonio Ricci ha rovistato nell’umido della carriera del direttore di Rai3 e ha raccolto diverse incoerenze con l’immagine di paladino della dignità femminile. E quindi ecco spuntare video di archivio in cui un Di Mare un po’ polipesco e indubbiamente maschilista fa lo spiritoso, allunga gli occhi e in un caso pure le mani sulle avvenenti colleghe di Unomattina, Sonia Grey e Irene Ferri. Il direttore non ci sta, verga un lungo post su Facebook in cui difende la sua integrità e aggiunge pure che Sonia Grey gli ha scritto un messaggio privato per smentire tutto: altro che molestie, “si trattava di scherzi tra noi di cui rideva l’intero studio”. Invece la stessa Grey contatta Striscia per dire come stanno le cose: “Non ho fatto alcun post a difesa di Di Mare. Ho solo lasciato un commento sulla sua pagina perché lui mi ha chiesto il favore di farlo! Sono stata strumentalizzata, mi dissocio”.

Non è una gran figura. E non contribuiscono all’immagine del direttore di Rai3 le altre perle di un rosario di gaffe, come il servizio in diretta con il finto testimone di mafia (un attore che leggeva un copione) o il simpatico aneddoto raccontato dalla collega Giovanna Botteri: “Ho conosciuto Franco alla festa del suo divorzio. Gli ho regalato un paio di slip leopardati – sghignazza l’inviata dei Tg Rai – lui se li è infilati e ha ballato sul tavolo in mutande”. Brividi.

Poi c’è il capolavoro supremo, la marchetta reale. È l’anno 2008, siamo a Pescara, Di Mare è ingaggiato per presentare dal palco la festa del cinquantesimo compleanno della Fater Spa, l’azienda italiana leader nella vendita di detersivi, assorbenti e pannolini. L’anchorman Di Mare lancia di fronte a una platea divertita “un’edizione speciale del Tg1”. Una meraviglia: un telegiornale finto (condotto da un vero mezzobusto della Rai, Attilio Romita) che è una vera marchetta di 7 minuti per la Fater. Si mostrano Tampax e Pampers à gogo, montati insieme alle dichiarazioni apologetiche di politici italiani e stranieri (Prodi, Veltroni, Sarkozy, Bush jr). Il momento clou è il finto Angelus di Benedetto XVI per consacrare i pannoloni e chi li produce. Il servizio pubblico diventa privato a una festa aziendale: Di Mare e Romita vengono censurati dall’Ordine dei giornalisti (ma le carriere vanno avanti). Il direttore con la qualifica in Pampers disse che non ne sapeva nulla, era successo tutto a sua insaputa. Ma il video trasmesso dal Fatto Quotidiano mostrava il suo sorriso gigione e compiaciuto sul palco, subito dopo la trasmissione della marchetta. Ne è passata di acqua da allora.

In aula il jihadista della strage mancata che ispirò Eastwood

Alla strage sventata sul treno Thalys Amsterdam-Parigi, nell’agosto 2015, e i suoi eroi americani, Clint Eastwood aveva dedicato un film nel 2017. Il processo per quell’attentato fallito si è aperto ieri a Parigi, dove si tiene, da settembre, anche il processo per gli attentati del gennaio 2015 (ora sospeso a causa di casi Covid tra gli imputati). Alla sbarra compare Ayoub El Khazzani, marocchino, 31 anni, che deve rispondere di tentato omicidio in relazione a un attentato terrorista. Rischia l’ergastolo. Quel 21 agosto El Khazzani era salito sul treno alla stazione di Bruxelles; aveva a disposizione un kalashnikov, 270 munizioni, un coltello e una pistola. Alle 17.45, uscì dalla toilette a torso nudo, con il fucile a tracolla. Si imbatte prima in Damien A., parigino di 28 anni, eroe dimenticato da Eastwood, che tenta di bloccarlo. Interviene anche Mark Moogalian, docente di Inglese alla Sorbona di 51 anni, che strappa l’arma al terrorista, ma viene ferito. È a quel punto, sentendo gli spari, che entrano in scena Anthony Sadler, Alek Skarlatos e Spencer Stones, tre militari statunitensi in vacanza, che riescono a immobilizzare l’attentatore. Alle 18,12 il treno si ferma ad Arras e i tre eroi consegnano El Khazzani alla polizia. Solo tempo dopo gli inquirenti hanno scoperto che dietro l’attentato c’era Abdelhamid Abaaoud, il belga di origini marocchine che sarebbe diventato il “cervello” degli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015. El Khazzani, che nel 2014 si era stabilito a Molenbeek, un quartiere di Bruxelles, era partito nel maggio 2015 per raggiungere l’Isis in Siria. Qui incontra Abaaoud e con lui rientra in Belgio mischiandosi tra i migranti. Agli inquirenti El Khazzani ha poi detto che il suo solo bersaglio quel giorno erano gli americani. Che all’ultimo aveva cambiato idea e non aveva potuto sparare. Per il suo avvocato, El Khazzani si è deradicalizzato e ora passa il suo tempo a studiare il francese. Oltre a lui compaiono sul banco degli imputati tre presunti complici. Il verdetto è atteso per il 18 dicembre.

Governo di unità, fumata nera

È vero che non si dirime in una settimana un conflitto civile, diventato con il tempo sempre più internazionale, iniziato ben 9 anni fa. Ma la considerazione dell’inviata dell’Onu in Libia Stephanie Williams al termine del forum delle Nazioni Unite sul paese post Gheddafi, tenutosi lungo tutta la scorsa settimana nella confinante Tunisia, ha un sapore comunque amaro. Dai dossier genuini, mischiati a quelli falsi serviti al tavolo negoziale, alla fine non è emerso il nome di chi guiderà l’amministrazione di transizione. Il processo di stabilizzazione è stato delineato all’inizio di quest’anno a Berlino per proseguire, dopo un nuovo passaggio da remoto nella città tedesca, a Ginevra dove alla fine di ottobre è stato firmato un cessate il fuoco permanente in tutta la Libia. L’accordo è avvenuto nell’ambito dei colloqui della Commissione militare congiunta libica (5+5) che riunisce i rappresentanti del governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu, guidato dal dimissionario Fayez al Sarraj, e delle autorità dell’Est del paese, cioè la Cirenaica sotto la guida del generale Khalifa Haftar.

I negoziati di Tunisi sono andati più avanti tracciando una tabella di marcia per le elezioni presidenziali e parlamentari che i 75 partecipanti hanno deciso di fissare per il 24 dicembre 2021. Un successo indubbio questa data ma che può rimanere un guscio vuoto se non si riuscirà a mettere d’accordo tutte le parti, comprese le tribù e i clan non solo della Tripolitania e Cirenaica, ma anche quelle annidate a sud nel Fezzan. Sono quelle che contribuiscono maggiormente alla filiera del traffico di migranti verso l’Europa. Le parti rivali continueranno a parlarsi da remoto entro la settimana per concordare il meccanismo in grado di decidere questi nomi. Più che un passo avanti sembra un passo indietro. Un altro motivo di preoccupazione è il fatto che le parti rivali non hanno compiuto progressi sulla questione della uscita dal suolo libico di militari e mercenari di forze straniere (Turchia, Russia, Egitto, Emirati) con le loro armi sofisticate sempre inviate dalle nazioni che sostengono questo o quel fronte. L’accordo di cessate il fuoco di ottobre aveva fissato un termine di tre mesi entro cui le forze straniere dovranno lasciare la Libia. Nel frattempo nella città costiera di Sirte – linea rossa tra Tripolitania e Cirenaica – i delegati militari del premier dimissionario Sarraj, basato in Tripolitania, e del generale Haftar, si sono incontrati assieme agli inviati della missione Onu per discutere su come ricomporre le forze a guardia degli impianti petroliferi. La milizia che li controlla attualmente è fedele alle truppe di Haftar. Per gli interessi energetici dell’Italia, che sostiene da sempre il governo di Accordo Nazionale di Sarraj, un cambiamento anche in questo senso è cruciale.

Anatema del Machu Picchu. Via sei presidenti in 30 anni

Più di Machu Picchu, la città perduta, il primo governatore inca Pachacutec, il vero mistero insondabile del Perù resta la maledizione dei presidenti. Sei in 30 anni: arrestati, inquisiti, latitanti, nonché suicidi per corruzione. Sette, se si conta anche Manuel Merino, il presidente ad interim sostituto del dimissionario Martin Vizcarra indagato per appropriazione indebita di fondi pubblici, autosospesosi a sua volta domenica, in seguito alle proteste di piazza dei sostenitori di Vizcarra. Gli scontri sono sfociati in disordini, i disordini in violenza, la violenza della polizia – denunciata anche da Amnesty – in repressione, portando alla morte di due giovani dimostranti, Jack Pintado Sánchez e Jordán Inti Sotelo Camargo.

Ma il vuoto di potere che il Perù sta attraversando, seppur aggravato dalla pandemia, non è che l’ultimo terremoto politico dal 1990. Era il 2000 quando Alberto Fujimori, eletto nel ’90 scappò in Giappone, avendone la nazionalità perché accusato di corruzione e violazione dei diritti umani. Lì annunciò le sue dimissioni. Autoesiliatosi, sfuggì alla giustizia fino al 2005, quando arrestato, trascorse sei mesi in carcere per ben 12 reati. La prima condanna arriverà nel 2007: sei anni per corruzione. Robetta certo, se confrontata con i 25 anni per la mattanza di Barrio Altos del 1991, nella quale furono assassinate 15 persone, e quella della Cantuta, in cui morirono nove studenti e un professore. Fujimori venne condannato anche per il sequestro di un giornalista e di un imprenditore e, nel 2007, confessò di essersi intascato 15 milioni di dollari di fondi pubblici. Nel 2015 arrivarono altre due condanne: sei anni per aver pagato deputati transfughi da altri partiti, spionaggio telefonico e appropriazione di fondi delle forze armate e dell’intelligence per finanziare mass media per la sua rielezione. Per chiudere in bellezza, Fujimori fu accusato di aver ordinato la sterilizzazione forzata di 331 mila donne indigene. A concedergli un piccolo momento di libertà con l’indulto, nel 2017, poi revocatogli, fu l’allora presidente Pedro Pablo Kuczynski, a sua volta arrestato nel 2019 perché coinvolto nell’inchiesta Lava Jato durante il suo mandato di ministro dell’Amministrazione pubblica dell’ex capo di Stato Alejandro Toledo. Kuczynski si era dimesso nel 2018 per aver colloborato con il gigante brasiliano delle costruzioni Odebrecht, sempre da ministro. A proposito di Toledo (2001-2006), dal 2017 l’ex presidente è latitante. Arrestato ubriaco in California con l’accusa di aver ricevuto 36 milioni di dollari a sua volta dalla Odebrecht per favorirla negli appalti, è in attesa di estradizione.

A far scalpore l’anno scorso è stato il suicidio dell’ex capo di Stato Alan García (1985-1990 e 2006-2011), che non ha retto la richiesta d’arresto a suo carico sempre per il filone dello scandalo Odebrecht e prima che la polizia lo prendesse, si è sparato un colpo in testa. Ha retto meglio l’urto il suo successore, Olanda Humala (2011-2016), accusato con sua moglie di riciclaggio di denaro e legami con la trama Odebrecht: tre milioni di dollari ricevuti dall’impresa per la campagna elettorale. Humala e consorte hanno trascorso più di 300 giorni in prigione preventiva, alla fine dei quali il Tribunale costituzionale ha decretato il decadimento delle accuse a loro carico. Per molti analisti il mistero della maledizione dei presidenti in realtà si nasconderebbe nell’eterna lotta tra potere politico e giudiziario oltre che in quella intestina tra i partiti Azione Popolare e Alleanza per il Progresso. Da cerniera farebbe la peculiarità della Costituzione peruviana che prevede la decadenza presidenziale per incapacità morale. Entrata in vigore nel 1839, la norma ha fatto fuori già quattro presidenti.

The Donald non molla: ok a trivellazioni nell’Artico

Dopo il piano anti-Coronavirus, ecco un piano per il rilancio dell’economia: tessera dopo tessera, Joe Biden e Kamala Harris costruiscono il mosaico della loro America post-pandemia. C’è l’obiettivo di creare almeno 11 milioni di posti di lavoro e di ridurre le diseguaglianze economiche e sociali.

Anche Trump ha i suoi piani: ha annunciato che avvierà il processo formale per vendere alle compagnie petrolifere i diritti per estrarre petrolio e gas nella regione artica, in Alaska. Una procedura che potrebbe concludersi prima del 20 gennaio, data dell’insediamento del nuovo presidente, rendendo più difficile per l’Amministrazione Biden che si oppone alla trivellazione dell’Artico in Alaska, bloccare l’iniziativa. Inoltre, Trump si appresta a ordinare questa settimana il ritiro di altre truppe da Afghanistan e Iraq; avrebbe già avvisato i comandi delle truppe nei due Paesi con un warning order che prevede di portare entro il 15 gennaio a 2.500 – da 4.500 – il numero dei soldati in Afghanistan, e a 2.500 da 3.000 quelli in Iraq.

Per il resto il magnate presidente, che deve cancellare l’impressione d’un mezzo passo indietro data domenica, insiste: “Siamo di fronte alle elezioni più disoneste della storia”, twitta, tornando a parlare di brogli pro Biden e attaccando Dominion, la società che ha fornito il sistema di voto a oltre 30 Stati Usa e che gli avrebbe sottratto centinaia di migliaia di preferenze. L’emergenza vera resta il Coronavirus, che ha ormai superato gli 11 milioni di casi. Alle 12 ieri sulla East Coast, la Johns Hopinks University contava oltre 11.080.000 contagi nell’Unione e oltre 246.500 decessi. Il virus non ha mai viaggiato così veloce negli Usa. Il virologo Anthony Fauci, della task force della Casa Bianca contro il Covid, vuole iniziare la cooperazione con il team Biden. Trump preferisce polemizzare con i media: “I Paesi europei sono colpiti dal virus della Cina. Ma alle fake news non piace parlarne!”; come se i guai dell’Europa alleviassero quelli dell’America. Il presidente in esercizio e quello eletto si fanno la guerra anche sul lancio della navicella Crew Dragon, con quattro astronauti a bordo, verso la Stazione spaziale internazionale in orbita intorno alla Terra. Incredibilmente, ‘Sleepy’ Joe ruba il tempo a ‘grillo’ Donald: “Una conferma del potere della scienza e di ciò che possiamo realizzare sfruttando innovazione, ingegnosità e determinazione”, scrive congratulandosi con la Nasa e con SpaceX.

Trump, è l’ora dei tribunali. Dagli affari al sesso rubato

Oltre al contenzioso elettorale, sono sei le battaglie legali da privato cittadino che aspettano Donald Trump all’uscita dalla Casa Bianca, il 20 gennaio prossimo. La Cnn si porta avanti e le mette in fila. Eccole:

Come funzionavano I conti della Trump Organisation?

Se ne occupa il procuratore di Manhattan, Cyrus Vance jr., stella del firmamento legale democratico e figlio del segretario di stato dell’Amministrazione Carter. Contenzioso nato dal passaggio di denaro dai fondi dell’Organisation a una serie di presunte amanti di Donald, prima dell’elezione a presidente, tramite l’ex avvocato Michael Cohen, poi condannato a tre anni di carcere per il suo ruolo in irregolarità finanziarie durante la campagna elettorale del 2016. Cohen ha dichiarato durante una testimonianza giurata al Congresso di non aver dubbi sul fatto che Donald sapesse di quei pagamenti. Da qui l’inchiesta si è estesa a sospetti di frodi bancarie, assicurative, fiscale e falsificazione di documenti pubblici. Sono otto anni di dichiarazioni delle tasse e conti societari che Trump ha rifiutato a lungo di consegnare alla procura.

Trump ha “aggiustato’ il valore dei suoi beni?

Indaga il procuratore generale dello Stato di New York. Sempre secondo Cohen, Donald e altri membri della sua famiglia “avrebbero gonfiato il valore dei propio beni quando volevano entrare nella lista Forbes dei più ricchi, e li avrebbero sgonfiati per ridurre le imposte sui redditi immobiliari”.

La questione degli “emoluments”

Sono i procuratori generali di Maryland e Washington Dc ad accusare il presidente uscente di aver violato una clausola della costituzione che proibisce a funzionari federali di ricevere emolumenti, cioè benefici economici, regali o vantaggi di altro genere da governi stranieri senza l’autorizzazione del Congresso. Da presidente, Trump si è impegnato a non seguire i propri affari ma non ha mai rinunciato alla proprietà né messo in un trust le proprie attività, continuando a guadagnare da alberghi e resort; in particolare, sostiene l’accusa, dall’ospitalità di delegazioni straniere nel suo hotel di Washington Dc. Una prima sentenza, che aveva archiviato l’accusa per un difetto di legittimazione, è stata ribaltata da un secondo giudizio e Trump è andato alla Corte Suprema, che ora controlla con una maggioranza di giudici in quota conservatrice. C’è anche una seconda azione legale per la stessa violazione e il conseguente conflitto di interesse, questa avanzata fra gli altri anche da una catena alberghiera e un gruppo di ristoratori.

Gli abusi e il tentativo di nasconderli

Nel giugno del 2019 la giornalista ed editorialista americana Elizabeth Jean Carroll, oggi 76enne, ha accusato The Donald di aver abusato di lei negli anni 90. Il presidente ha negato ogni addebito dichiarando “Non è il mio tipo” e ha tentato, tramite il Dipartimento di Giustizia di bloccare l’azione legale. Tentativo sventato da un giudice federale.

Lo show delle molestie con diffamazione

Summer Zervos è stata una delle concorrenti al programma The Apprentice che ha lanciato la carriera televisiva di Trump, allora protagonista in veste di uomo d’affari di successo. Zervos accusa il presidente di averla molestata nel 2007, durante lo show. Lui ha negato ma Zervos gli ha poi fatto causa per diffamazione per averle dato della bugiarda in pubblico. Nel 2019 Trump ha perso un primo tentativo di chiudere la vicenda giudiziaria, che è stata sospesa fino alla fine della sua presidenza.

Affari di famiglia

La 56enne nipote di Donald, Mary Trump, psicologa e autrice del best-seller Troppo e mai abbastanza: come la mia famiglia ha creato l’uomo più pericoloso del mondo, uscito malgrado i tentativi del presidente di bloccarne la pubblicazione, ha fatto causa allo zio accusandolo di frode per privarla della parte che le spettava dell’eredità del nonno. Infine, la questione dell’ostruzionismo del presidente nell’inchiesta sulle presunte interferenze russe nella campagna presidenziale del 2016. Il titolare dell’inchiesta ed ex direttore dell’Fbi, Robert Mueller, nel luglio del 2019, ha dichiarato sotto giuramento che Trump, una volta privato delle prerogative presidenziali, potesse essere perseguito per falsificazione di prove e ostruzione all’indagine.

Al grande albero io non ci credo

“L’albero intricato” è l’ultimo libro che ho scritto. Quando scrivo non mi limito a raccontare la storia della scienza, ma scrivo delle persone che hanno fatto e fanno la scienza, che poi alla fine è un processo umano: perché “le persone, pure quando leggono di scienza, vogliono prima di tutto leggere storie”.

Nel 2012 negli Stati Uniti usciva Spillover e, dopo la pubblicazione, ero in giro alla ricerca di un’idea per il libro successivo. Mi capitò di leggere un articolo su un fenomeno di cui non avevo mai sentito parlare: il trasferimento genico orizzontale. Normalmente pensiamo che i geni si spostino solo in senso verticale, da una generazione alla successiva, dai nonni ai genitori e fino ai nipoti. Se dovessimo disegnare la storia dell’evoluzione, la storia della vita, come un albero, immagineremmo quindi gli spostamenti genici dal tronco ai rami più grossi, per proseguire sino a quelli più periferici, attraverso un movimento verticale. Il trasferimento genico orizzontale è invece molto controintuitivo, è differente: perché teorizza che i geni si possano muovere anche orizzontalmente tra un ramo e un altro, tra una diramazione e un’altra, non più solo dal tronco verso i rami.

I geni possono quindi attraversare i confini di specie, o passare da un regno a un altro. (…) Come prima reazione ho pensato fosse impossibile. E ho iniziato a realizzare quanto il concetto di “trasferimento genico orizzontale” fosse così affascinante da chiedermi se sarei stato in grado di scriverne un libro. Mi rendevo conto di quanto fosse tecnico e in un qualche modo astratto: sarebbe stato difficile scrivere a partire da questo concetto una storia umana e intrigante, non solo illuminante ma anche piacevole per un lettore normale. Durante le mie ricerche, mi sono così imbattuto in un personaggio, un uomo che non conoscevo e che era morto sei mesi prima che iniziassi a interessarmi al tema: Carl Woese. È stato un microbiologo dell’Università di Urbana-Champaign, Illinois, a oggi lo definirei il biologo più importante del 900 di cui non avete mai sentito parlare. (…) Charles Darwin fu il primo a proporre un albero della vita evolutivo, quale rappresentazione di come la vita sulla Terra si sia sviluppata per 3,8, forse 4, miliardi di anni. Woese era interessato a studiare la storia ancora più antica, andando a ritroso oltre quei 3,8 miliardi di anni e arrivando al punto in cui la vita aveva preso il via, iniziando a ramificarsi.

Fino ad allora gli scienziati dividevano gli organismi viventi in procarioti (batteri, ovvero cellule semplici non dotate di strutture complesse come un nucleo) ed eucarioti (cellule complesse dotate di nucleo, come quelle del nostro corpo). Nell’autunno del 1977, quell’uomo che posa spavaldo per la copertina del New York Times, seduto alla sua scrivania con i piedi poggiati sul ripiano, davanti a una lavagna piena di appunti e cifre, aveva scoperto “una forma di vita separata”, un “terzo regno” di forme biologiche che si aggiungeva ai due già conosciuti: quell’uomo era Carl Woese.

Negli anni 60 e 70, quello che si conosceva della struttura cellulare era unicamente dato da ciò che era visibile al microscopio. RNA e DNA, le due molecole genetiche, sono composte da quattro lettere che si ripetono in diverse combinazioni. Sequenziare il genoma significa capire come queste lettere si compongano nella lunga e complessa molecola. Woese ebbe un’idea: prese una molecola universale che si trovava in tutte le forme di vita – da quelle batteriche a quelle più complesse – e cercò di sequenziarla in diverse creature, per poi compararle tra loro e vedere quanto queste fossero simili. Con l’aiuto di alcuni studenti e colleghi iniziò a mettere a punto questo metodo, quando non esistevano ancora macchinari complessi per sequenziare il genoma, utilizzando sostanze tossiche e chimiche, macchinari ad alta tensione, solventi esplosivi e fosforo radioattivo nel suo laboratorio di Urbana. Alcuni degli studenti di allora che ho rintracciato mi hanno detto che è un miracolo che non siano tutti morti.

Woese, con questo sistema, trovò il modo di estrarre questa molecola universale particolare da diverse forme di vita, la divise in parti e sequenziò in ognuna delle parti le lettere attraverso l’elettroforesi, sistema che crea una pista elettromagnetica per i frammenti di queste molecole. Vedendoli correre su questa pista ne osservò la diffusione e capì che poteva distinguere le lettere in ciascun frammento. In questo modo aveva creato un genoma per ognuna delle creature che stava sequenziando. Per comparare questi genomi non aveva a disposizione computer potenti, fece tutto a mano con la matematica.

La sua prima grande scoperta fu che esisteva un regno della vita di cui nessuno era a conoscenza: creature monocellulari che apparivano come batteri al microscopio. Attraverso il suo sistema si rese conto che non si trattava di batteri: erano più vicini agli esseri umani o agli animali che ai batteri stessi. Fu così che disegnò il terzo ramo nell’albero vita, quello degli archei, le forme di vita complessa più antiche mai conosciute. (…) Altri scienziati iniziarono a utilizzare il metodo di Woese e giunsero a un’altra grande scoperta: il trasferimento genico orizzontale. Compresero che certi geni non sarebbero potuti passare da un ramo all’altro dell’albero della vita in verticale, dovevano essere passati lateralmente da una specie a un’altra, da una generazione all’altra, da un regno della vita all’altro. Eravamo ormai negli anni 80-90, e il sequenziamento genetico era diventato più semplice e automatizzato. Se a Woese erano serviti anni e sostanze pericolose, ora bastava un computer e il tempo di un pomeriggio. La raffigurazione complicata dell’albero della vita si faceva sempre più intrecciata e complessa.

Charles Darwin non avrebbe potuto nemmeno immaginarlo. Non era più possibile disegnarne il tronco e i rami: perché i rami si fondono l’uno con l’altro, divergono e convergono allo stesso tempo, passando da uno a un altro orizzontalmente. L’albero della vita non era più un albero, ma una rete.

E anche noi stessi siamo un mosaico di forme di vita. L’8% del genoma umano consiste in residui di retrovirus che hanno invaso il Dna dei nostri antenati. Sono i “resti” dei trasferimento genico orizzontale, in anni e anni di evoluzione della specie.

 

Approvata un’arma terapeutica

Mentre constatiamo l’incremento lineare e continuo (non esponenziale) dei soggetti infettati da SarsCoV2, ci raggiunge una buona notizia. Dopo mesi di studi, senza riscuotere attenzione comunicativa per i lenti e continui progressi (chissà perché piace solo parlare di vaccini e non di terapie), arriva, quasi sottovoce, la notizia che un anticorpo monoclonale, prodotto dalla Ely Lilly, è stato registrato dalla Fda (Food and drug administration), l’agenzia americana che deve approvare farmaci o test diagnostico, prima di essere disponibile in commercio. È la prima volta che si può contare su un’arma terapeutica mirata contro SarSCoV2. Si tratta di un anticorpo monoclonale, cioè che viene prodotto dal paziente durante la malattia Covid-19, che è stato industrialmente “clonato”, cioè riprodotto in milioni di copie, perché dalla singola arma si possa ottenere un arsenale. Qual è la differenza tra anticorpi monoclonali e vaccino? Gli anticorpi sono “soldati” che il nostro sistema immune è pronto a schierare quando viene aggredito da virus o batteri. Umani o sintetici, sono progettati per legarsi a recettori molto specifici sui germi e combatterli. I vaccini sono farmaci che inducono il corpo a produrre anticorpi, in presenza di una specifica infezione. I farmaci composti da anticorpi monoclonali sono “terapie”, quelli composti da vaccini hanno lo scopo di prevenire la malattia. La nostra speranza è di avere entrambi disponibili. Oggi, come l’esperienza virologica aveva previsto, possiamo festeggiare una prima conquista della ricerca. La vittoria sul virus più auspicabile è avere un vaccino efficace e sicuro, cosa non semplice quando si ha a che fare con un virus a Rna, come il Coronavirus. Oggi, grazie agli anticorpi monoclonali e al cocktail di farmaci già in uso, la maggior parte dei malati guariscono. Con certezza si può affermare che, appena il nuovo farmaco sarà disponibile, potremo mirare a livelli molto più elevati di successo.

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Cum poco Gaudio: in Calabria serve solo la svolta Strada

Gino Strada è una delle persone più oneste, appassionate e competenti di questo Paese. Eppure il governo attuale, fino a prova contraria di centrosinistra, l’ha relegato a mero “consulente” della sanità calabrese. Follia pura, tenendo conto che al governo c’è pure quella forza, il Movimento 5 Stelle, che sette anni e mezzo fa voleva Strada addirittura al Quirinale.

Strada è sempre stato una delle figure più odiate da questo orrore di (centro)destra che ci ritroviamo. In un podio dei più detestati dai fascio-berlusconian-sovranisti, se l’è sempre giocata con Dario Fo e Daniele Luttazzi. Non stupisce quindi che, non appena ha cominciato a circolare il suo nome come sostituto del mitologico Zuccatelli, la destra abbia cominciato a ruttare i consueti fonemi beceri. Meloni, Santanchè, La Russa, Spirlì. E ovviamente Salvini, che blatera da giorni di una Calabria ai calabresi. Un altro modo per sbarrare la porta al “comunista” Strada. Peccato che Salvini, per gestire la Lega in Calabria, non abbia scelto un calabrese bensì uno di Treviglio: povero Cazzaro Verde, non ne becca mai mezza e lo votano sempre meno (ma sempre troppo).

Qui però il problema non è la pochezza della destra, ma la pavidità del governo. La nomina di Zuccatelli, un passato come candidato di Sel, sarà stata anche fatta in buona fede e non per logiche lottizzatorie, ma si è rivelata disastrosa. Non solo per le sue dichiarazioni di fine maggio (non fine febbraio!) in cui negava l’utilità della mascherina e se la prendeva con lo strapotere dei virologi. Pochi giorni fa, Zuccatelli aveva pure inviato al programma Rai Titolo V un articolo che (secondo lui) dimostrava l’inutilità delle mascherine. Recidivo, il fenomeno. E pure involontariamente comico, perché quell’articolo non era che un pezzo tratto da un micro-sito appartenente alla caricaturale galassia leghista teocon, che peraltro titolava male (rovesciandone il senso) un pezzo per nulla anti-mascherine di Affari Italiani. Zuccatelli sarà anche un genio, ma in questi giorni ha fatto di tutto per dimostrare il contrario.

Ieri si è tardivamente dimesso (su pressione di Speranza), ma il governo ha di nuovo nicchiato su Strada, affidando in serata l’incarico di Commissario al calabrese Eugenio Gaudio, ex rettore dell’Università Sapienza, con Strada ridotto appunto a “consulente”. Perché? Strada ha raccontato di avere ricevuto una chiamata da Conte, ma che poi la cosa si sia fermata lì. Nessuna richiesta formale ufficiale. Lui è restato disponibile, a patto però che il suo ruolo non fosse di mera rappresentanza (e ora il ruolo di “consulente” potrebbe esserlo). L’idea di ricorrere a lui in Calabria è antica e risale a marzo. La prima a pensare a lui è stata Jasmine Cristallo, sardina di Catanzaro molto attenta alla sua Regione. Quando ha cominciato a vacillare (cioè subito) Zuccatelli, l’ipotesi Strada è stata rilanciata dal senatore M5S Nicola Morra, che vive a Cosenza e conosce bene la Calabria. Chi è che non vuole Strada Commissario? È sgradito a Mdp perché Zuccatelli doveva restare in quanto “cosa sua”? Non piace a parte del M5S perché sul tema immigrazione fu (giustamente) durissimo coi grillini durante il Salvimaio? Sarebbe infantile e idiota. Non piace alla parte ancora renziana del Pd? Oppure è Italia Viva a non volerlo perché “troppo” di sinistra? O magari è qualche potente capobastone regionale a fargli la guerra? Tutte ipotesi orribili. Ieri anche Renzi e Mdp si sono espressi a favore di Strada, ma alla fine è stato scelto Gaudio. E il governo ne sta uscendo male. Anzi malissimo.