Elkann inaugura la scuola di giornalismo: che ipocrisia

Può accadere solo negli intricati meandri dell’ipocrisia torinese e, soprattutto, in quelli ancora più ambigui del giornalismo subalpino. Torinesi, falsi e cortesi. Insomma, può accadere che, per dirla in breve, il master di Giornalismo dell’Università di Torino, intitolato a Giorgio Bocca (uno di Cuneo, un partigiano di Giustizia e Libertà che quell’ipocrisia non aveva mai condiviso, sino a rifugiarsi a Milano dopo le prime esperienze alla torinese Gazzetta del Popolo), affidi l’inaugurazione del suo biennio, destinato a sfornare tra due anni una ventina di nuovi e, si spera, liberi giornalisti, a John Elkann, figlio dello scrittore Alain e della figlia di Gianni Agnelli, Margherita. Soprattutto, padrone di Fca ed editore “impuro” del Gruppo Gedi, dov’è riuscito a mettere le mani su Repubblica. Affiancandola a La Stampa, nella commistione contro natura di “Stampubblica”. In una concentrazione di testate, potere mediatico, interessi imprenditoriali e istituzionali che non ha pari in Italia, con la sola eccezione di Silvio Berlusconi e delle sue tv: quel Berlusconi un tempo grande obiettivo proprio di Repubblica e del Gruppo Espresso.

Il giovane presidente di Gedi, e lo spin doctor che gli ha preparato le risposte per le domande degli allievi giornalisti, ha così potuto approfittare di una ribalta senza precedenti, messa a disposizione dall’ateneo torinese e dall’Ordine regionale dei giornalisti che ha il compito di “sorvegliare” il master. Qualcosa che non si era mai visto in precedenza, né tra gli anni 50 e 60, quando il sindacato dei giornalisti piemontesi era guidato da Giovanni Giovannini, futuro vicedirettore de La Stampa e poi suo amministratore delegato, sino ad approdare alla presidenza della Federazione degli editori, né tra gli anni 70 e 80, quando quella leadership era esercitata da dirigenti sindacali legati al Pci e alla sinistra sociale democristiana. Molti di loro lavoravano a La Stampa e oggi non ci sono più: ma se potessero ancora parlare, quegli uomini e quelle donne, quei giornalisti, adesso insorgerebbero contro gli organizzatori dello spot pubblicitario gratuito allestito per Elkann. Come se un convegno sulla tutela delle piccole botteghe fosse aperto dal presidente di Esselunga.

Chiamato a parlare di giornalismo digitale, tra molti imbarazzi da parte degli allievi, il tentennante nipote dell’Avvocato ha regalato senza contraddittorio dati sul successo web di Gedi (dati che sarebbe interessante sottoporre a fact checking proprio nei corsi del master), pensieri banali sul futuro della professione giornalistica – “Bisogna conoscere e utilizzare al meglio gli strumenti dell’informazione di oggi, ma ancora di più imparare a usare quelli di domani” –, versioni edificanti sull’effettiva retribuzione per i collaboratori precari del suo gruppo e consigli padronali per il contratto collettivo del lavoro giornalistico che attende da anni di essere rinnovato.

Il problema, però, non è Elkann (il giudizio su di lui va destinato, piuttosto, a che cosa sarà il futuro di Fca in Italia e soprattutto a Torino) e neppure le possibili e auspicabili reazioni della Federazione nazionale della stampa italiana e del sindacato piemontese rispetto alle sue “veline” sulla giusta retribuzione dei collaboratori del gruppo Gedi e sulle sorti del contratto di lavoro. Ben più grave e sconsiderato, invece, è quel diritto lussuoso e smodato di tribuna concesso a un padrone che, nelle risposte ai quesiti presenti nei manuali sull’esame di Stato per l’abilitazione alla professione giornalistica, viene ancora indicato per fortuna come “editore impuro”, con l’immediato corollario che definisce l’assenza di “editori puri”, dal secondo dopoguerra a oggi, il “grande male del giornalismo italiano”. Il problema vero, insomma, è quello dell’ipocrisia: l’ipocrisia dei maggiordomi.

 

Dizionarietto semplice delle regole anti-covid

Nel dibattito pubblico sulla pandemia e le misure che progressivamente prende il governo, sembra prevalere l’atteggiamento di chi, allarmato dai dati, obiettivamente preoccupanti, lamenta la difficile comprensione delle regole via via più stringenti (i Dpcm, complessi e difficili da comunicare) e invoca la misura drastica di un lockdown generalizzato. Sarebbe indubbiamente la misura più semplice, ma anche la più preoccupante, per l’azzeramento di tutti gli altri valori.

Su un altro versante, tutt’altro che inascoltati, stanno coloro che gridano alla compressione delle libertà fondamentali e alla “dittatura sanitaria”, incluso chi in altri periodi invocava “pieni poteri”. Vorrei provare a descrivere, in maniera semplificata, quella che a me pare la filosofia del nostro sistema decisionale. Non molto diverso da quello degli altri grandi Paesi europei.

Per un costituzionalista il punto fondamentale è la compatibilità tra le misure adottate e i princìpi costituzionali. La tutela della salute (valore primario) deve essere bilanciata con gli altri valori e diritti costituzionali (eguaglianza, libertà personale, circolazione, soggiorno, riunione, religione, istruzione, cultura, pensiero, diritto-dovere al lavoro, libertà d’iniziativa economica). Quest’atteggiamento preliminare è scolpito in tutti i testi normativi che richiamano i criteri di “proporzionalità” e ‘“adeguatezza”. Il nostro sistema decisionale somiglia a un tavolo, solidamente poggiato su quattro gambe, su cui vedo una bussola e un sofisticato sistema regolatore dei flussi. La bussola è essenzialmente in mano agli scienziati, il Cts, l’Iss, gli esperti che raccolgono i dati, li leggono e li trasmettono al decisore politico. Che non è un singolo, ma una complessa cabina di regia, che coinvolge governo e Regioni e che, secondo uno schema fondato sulla legge, apre e chiude in maniera calibrata il rubinetto che regola le varie attività e i movimenti delle persone. Mi sembra molto più responsabile questo schema rispetto alla misura del lockdown totale che, al di là dell’apparenza, ha pochi esempi in questo momento.

Vediamo dunque le quattro gambe del tavolo che regge i due strumenti richiamati.

La prima è quella dello stato di emergenza: dichiarato, sulla base del Codice della Protezione civile (d.lgsl. n.1/ 2018), per la prima volta il 31 gennaio 2020 e prorogato, con successivi atti, fino alla stessa data del 2021. Di fronte alla gravità della pandemia, poche persone di buon senso dubitano del suo fondamento. Il Codice della protezione civile consente di intervenire, per far fronte all’emergenza, con ordinanze temporanee, non molto diverse dai famosi Dpcm.

La seconda gamba è il rapporto Stato-Regioni. Anche in questo caso niente di nuovo sotto il sole. Le competenze in materia sanitaria sono regolate dalla Costituzione e dalla legge istitutiva del Servizio sanitario (l.n.883/78). Il Fatto ha spiegato molto bene come la nostra Sanità sia una competenza ripartita tra Stato e Regioni e quali siano le rispettive competenze. Negli ultimi provvedimenti è stato detto con chiarezza che le regole generali devono essere stabilite in maniera uniforme (Stato), ferma restando la possibilità di misure territoriali più restrittive (Regioni). Anche se le ultime ordinanze istitutive delle zone arancioni e rosse sono a firma del ministro Speranza, ai sensi dell’art. 32 legge n.883/78, sentiti i presidenti delle Regioni interessate.

La terza gamba del tavolo è costituita dai decreti legge. Questi sono fonti primarie, emanate dal presidente della Repubblica e convertite dal Parlamento. Le uniche fonti pensate per casi straordinari di necessità e di urgenza e le sole disposizioni che possono bilanciare le libertà costituzionali. In questi mesi sono stati emanati molti decreti legge, ma quello che costituisce l’ossatura della nostra terza gamba è soprattutto il d.l. n.19/2020,variamente integrato, che prevede, all’art.1, una trentina di “casi” nei quali è possibile regolare movimenti delle persone, aperture e chiusure delle attività, modalità di lavoro ecc.

La quarta gamba sono i Dpcm. Sono disposizioni ben conosciute: un modello non molto diverso dalle “ordinanze”. Costituiscono uno strumento duttile e tempestivo. Ci si lamenta perché sono minuziosi e perché sono troppi. In realtà sono disposizioni che si limitano ad attuare i decreti legge e hanno un’efficacia limitata nel tempo. I Dpcm non si accavallano gli uni con gli altri perché gli ultimi assorbono il contenuto di quelli precedenti. Per non creare confusione, con la sola indicazione del giorno di emanazione, sarebbe utile dar loro un titolo divulgativo, come avviene per i decreti legge. Questo faciliterebbe anche la comunicazione. L’esempio migliore è proprio quello dell’ultimo Dpcm del 3 novembre: il cosiddetto “Dpcm delle tre zone” (gialla, arancione e rossa). Questo assorbe tutti gli altri, dura un mese fino al 3 dicembre e ci auguriamo che possa essere anche quello più efficace.

 

Sui banchi “C’era davvero bisogno di obbligare i bimbi alla mascherina?”

Buongiorno, siamo nonni e vostri lettori: vorremmo esporvi un problema riguardante la gestione dei bambini in questa pandemia, di cui nessuno parla perché focalizzati sul colore delle Regioni. Secondo l’ultimo Dpcm, i bambini dai sei anni in su hanno l’obbligo di mascherina per l’intera durata dell’orario scolastico, quindi non solo in entrata, in uscita o in condizioni di movimento (per andare in bagno, per avvicinarsi alla lavagna…), ma anche seduti al proprio banco distanziati dagli altri, cioè tra le 6 e le 8 ore. I bambini sono stati gli unici a rispettare sempre tutto ciò che in questi mesi è stato loro imposto, sono stati chiusi in casa senza batter ciglio, gli è stato tolto lo sport, il gioco con gli altri, la socializzazione… da un giorno all’altro si sono ritrovati chiusi e isolati dal resto del mondo! Ora si ritrovano a scuola, luogo per eccellenza di socializzazione e condivisione, a dover sopportare situazioni più grandi di loro (ma comunque restano esempio per noi adulti perché accettano senza lamentarsi!):

– non possono più socializzare perché devono stare distanziati di almeno 1 metro gli uni dagli altri;

– non possono più condividere, non possono prestare una matita al compagno perché non devono scambiarsi oggetti;

– devono indossare la mascherina per muoversi, se hanno bisogno di andare in bagno o alla lavagna;

– non possono più giocare tra loro a ricreazione, possono solo mangiare la loro personale merenda e stare fermi.

Ora sacrificarli a tal punto, obbligandoli a indossare le mascherine per l’intero orario scolastico, che va dalle 6 alle 8 ore, pur mantenendo tutte le distanze, è davvero vergognoso! Rischiamo di avere effetti cronici psicologici sui bambini, costretti a subire tali disagi che non sono in grado di gestire vista l’età. Tra l’altro nessuno ancora sa se l’uso prolungato delle mascherine possa produrre effetti nocivi sulla salute fisica (dai semplici herpes a problemi respiratori o chissà cosa…). Inoltre, secondo i dati comunicati dalle istituzioni competenti, le scuole non risultano essere luoghi di contagio e le limitazioni dei precedenti decreti sembravano funzionare. Che bisogno c’era di imporre una ulteriore simile tortura ai bambini? Ci stanno obbligando a ritirare i bambini dalla scuola fino a diverse disposizioni? Perché finora abbiamo accettato tutto, anche l’inaccettabile, ma sottoporre i nostri figli e nipoti a questa nuova tortura che potrebbe avere effetti sulla loro salute fisica oltre che psichica, è inaccettabile.

Gianfranco Spina e Susanna Censi

Mail box

 

Il carcere serve a espiare e non a fare vittimismo

Ho finito di leggere l’intervento di Daniele Pifano (ex detenuto): a parte il fatto che non ho capito bene dove voglia andare a parare il Pifano, quello che mi ha colpito è il suo riferire la frase “appena posso uccido il figlio di qualche giudice, debbo far provare anche a loro cosa significa per un padre non poter abbracciare, baciare la propria creatura, i propri cari” che sarebbe stata detta da un camorrista dopo il colloquio con la moglie e il figlio. Da cittadino qualunque, penso che una persona che dice una cosa del genere non ha capito niente della vita, perché se è in carcere deve dare la colpa prima di tutto a sé stesso. Se non può abbracciare la moglie e il figlio deve assumersene la responsabilità e cambiare. Se questo camorrista uscisse dal carcere con queste idee in testa, sarebbe ancora un grosso pericolo per suo figlio e per la società tutta. Non accetto il vittimismo del delinquente: c’è sempre una scelta, magari non facile, ma c’è.

Alessandro Tiri

 

Quante adesioni alla mia petizione per il Sud

Avevo lanciato una petizione indirizzata al presidente Conte, ai ministri Speranza e Gualtieri, con cui ribadivo la mia pretesa di meritare di meglio degli ultimi due commissari alla Sanità. Ebbene, la mia è diventata la nostra petizione; infatti è stata sottoscritta da oltre 10.000 calabresi! Adesso credo, considerata l’altissima adesione, che sia giusto fare sapere che ci siamo e che sia giunto il momento di farlo sapere anche oltre i confini ed avere una visibilità nazionale.

Mariagrazia Raffaelli

 

Regioni, squisiti vitalizi e investimenti pari a zero

Sul Corriere, Galli della Loggia ha scritto sulla manifesta inutilità e dannosità delle regioni italiane che dovrebbero essere abolite, avendo tradito il dettato della mai attuata Costituzione. Sono diventate rubinetti da cui escono tonnellate di soldi solo per autoamministrazione e gestione di comodi. Ad esempio nella mia regione – il Molise – dagli anni 70 non viene costruita una strada decente, non si fa prevenzione per disastri naturali e non, le ferrovie non possono chiamarsi tali, però c’è una pletora di vitalizi e consiglieri con stipendi da capogiro.

Aldo Abbazia

 

Il M5S deve ripartire da vicinanza e dialogo

Gli Stati generali erano organismi, di origine feudale, di rappresentanza dei ceti sociali nello Stato francese prima della rivoluzione del 1789.

Evocare un organismo politico e una rivoluzione che, dopo pochi anni, generò Napoleone e i suoi deliri imperiali non mi sembra una idea brillante. Mi sembra più adatta l’idea di cambiare lo Statuto del Movimento 5 Stelle introducendo la regola che nelle regioni gli iscritti abbiano il potere di eleggere un rappresentante (non parlamentare) che vada a costituire una segreteria collegiale di 20 membri, che possa assicurare una costante presenza dei territori, capace di dialogare con i parlamentari eletti, senza più ricorrere a figure superate come il “capo politico”. Per essere nella Storia moderna bisogna semplicemente fare ciò che nessun partito politico fa: far decidere i propri iscritti.

Paolo De Gregorio

 

Non è necessaria tutta questa visibilità a B.

Ultimamente sento e vedo sempre più interviste a B. e questo mi preoccupa. Credo che gli si dia troppa importanza. Come si fa ad accettare che un pluricondannato proponga di partecipare alle decisioni economiche del Paese. Probabilmente si sta preparando ad essere scelto come prossimo Presidente della Repubblica, ma questa idea bisogna bloccarla in partenza. Capisco quelli di Mediaset, dei suoi giornali e Bruno Vespa, ma tutti gli altri potrebbero fare a meno di parlare di lui. Basterebbe solo ignorarlo.

Gabriele Napoletano

 

Occorre più cautela tra gli anziani (a spasso)

Perché la bocciofila vicino a casa mia è piena di ultrasettantenni e mia figlia di 12 anni non può uscire per andare a scuola? Non è una questione di rispetto verso la generazione che ha fatto risorgere l’Italia dopo la guerra, ma di buon senso. Se fossi celiaca e non potessi mangiare glutine, costringerei tutti i miei familiari a privarsene? Mi sembra che quella generazione dovrebbe manifestare un po’ più di maturità e non comportarsi ancora una volta come Luigi XV: après moi, le deluge.

Angelica Poggi

 

Salvini è ancora fedele alla sua idea sui detenuti?

Matteo Salvini, quando era al governo, sparava quotidianamente “boiate” seriali. Tra le tante, ricordo le sue sprezzanti parole nei confronti dei detenuti, che, a suo dire, dovevano “marcire in galera”. Ora, a parte l’evidente ignoranza dell’ex ministro sul dettato costituzionale, atteso che il suocero, l’ex parlamentare Verdini è in galera, attendo di sapere se il signor Salvini conferma coerentemente il suo pensiero, ovvero augurare al Verdini di marcire in galera.

Gabriele Bianco

Benetton: decenni di pubblicità-progresso buttati nel cesso

Il gatto dei Benetton, un persiano bianco che è la mente diabolica dietro ogni decisione della Spectre (Atlantia-Autostrade-Ponte Morandi-Aeroporti di Roma-Mapuche), è su tutte le furie. A giugno aveva suggerito al suo boss, che se lo accarezzava in grembo, di restituire tutto allo Stato e sparire dalla scena tomo tomo cacchio cacchio, ché era meglio, o doveva forse spiegargli il motivo?; ma adesso che le intercettazioni hanno svelato certi dettagli inverecondi (“massimizzazione dei profitti riducendo la manutenzione, a scapito della sicurezza pubblica”), e che la Spectre è crollata in Borsa, il persiano può finalmente rinfacciargli i consulenti inaffidabili, invidiosi della simpatia che il boss accordava a lui: il criceto di Mion (“Le manutenzioni vanno fatte in calare, più passa il tempo meno si fa, così distribuiamo più utili e la Spectre è contenta”), il siamese di Donferri (“I cavi del Morandi sono corrosi, va trafugato l’archivio del Polcevera, ci vuole un trolley bello grosso”), la tartaruga di Berti (“I cavi sono già corrosi? ’sti cazzi, io me ne vado”), il fox terrier di Castellucci (“Facciamogli sapere che siamo disposti a salvare Banca Carige con una ricapitalizzazione pagata dalla Spectre, purché il governo gialloverde non ci revochi la concessione autostradale. Il sorcio di Patuanelli mi ha pure telefonato per chiedermi di aiutarli a salvare Alitalia. ’Sti coglioni ci considerano ancora credibili, ma in aria non ci sono ponti che si ammalorano, li mortacci loro. E neppure barriere antirumore. Qualcosa ci inventeremo. Come le saldano le ali?”). “E così” si sfoga il persiano con il boss “adesso il canarino di Di Battista torna a invocare la revoca della concessione, e tutti hanno capito quanto siamo spregiudicati. Decenni di pubblicità-progresso firmate Toscani buttati nel cesso. E mo’ cosa facciamo, chiamiamo di nuovo le Sardine? Mona!”. In serata, neanche un lungo amplesso con la gatta d’Angora della De Micheli, conosciuta ai tempi di VeDrò, è bastato a calmare il persiano. “Dividendi per 13 miliardi di euro in vent’anni, e questi vanno a risparmiare su qualche centinaio di milioni di manutenzione!” dice, sgranocchiando nervosamente croccantini al salmone, mentre la gatta cerca di cullarlo con amorevoli fusa, invano. “Pure la resina non omologata sono riusciti a trovare! In quale smorzo, mi chiedo io! Oh, il Blu di Russia di Tomasi li avvisò che quei pannelli non andavano bene, ma il siamese lo mandò a fanculo, la tartaruga lo mandò a fanculo, e il fox terrier? Lo mandò a fanculo. E così il Blu di Russia ha spiattellato tutto al certosino di un pm genovese. Adesso sono cazzi: se si avvalora il grave inadempimento, si arriva dritti alla revoca senza indennizzo; e Cassa Depositi e Prestiti potrebbe decidere di stare fuori, così i risarcimenti restano sul nostro groppone. E magari ci fa causa anche lo Stato! Arresti domiciliari? Ai caselli autostradali, dovevano obbligarli! Offerti alla libertà creativa degli automobilisti. Pensa che bei video su TikTok”.

Nota a margine. In seguito ai fatti emersi, il consiglio di amministrazione di Atlantia ha deliberato di affidarsi a una società internazionale di audit per verificare se “sussistono comportamenti, da parte di dipendenti ed ex di alcune società del gruppo, contrari al codice etico dell’azienda”. E meno male che avevano un codice etico! Però, che peccato: senza, avrebbero potuto divertirsi a centrare coi bazooka gli autobus in gita scolastica, già che c’erano.

Cronache dalla seconda ondata. LUI: Posso entrarti da dietro? LEI: Lavoro, studio, salute o necessità?

 

Ecco le donne nel renzismo: utili solo se “pr” del capo

Gli appunti dell’ex presidente di Open Alberto Bianchi, del 2019, e la telefonata intercettata di Matteo Renzi al padre Tiziano, nell’aprile 2017, regalano due spaccati non proprio edificanti del renzismo applicato al mondo delle donne e delle strategie politiche, visto che le citate Maria Elena Boschi e Annalisa Chirico appaiono poco più che pedine utili a smaltare l’immagine del capo.

Non proprio un monumento al ruolo della donna in politica e nel giornalismo, verrebbe da dire. Partiamo dagli appunti di Bianchi, che nel 2019 si appunta il resoconto di un confronto con Renzi: “Su Meb insiste a dire che è brava, è ‘donna – quindi – tr…’, perché in politica sta una volta alla settimana, va alle presentazioni del suo libro. Dovrebbe, dice, darsi una dimensione familiare – moglie, fare un figlio – anche per migliorare la sua immagine, ma la trova renitente pure a rivelare il suo rapporto con Mugnai”. Renzi ha smentito tutto (“Parole non mie”). Bianchi ha riferito che l’appunto era una sua sintesi di ciò che in politica troppi pensano. Insomma, quel “su Meb insiste a dire…” aveva come soggetto “la politica”. Una specie di scrittura medianica. Magari dettava le parole lo spirito di Berlinguer o di Napoleone, chissà. Fatto sta che, se è certamente vero che quel “Meb è donna, è brava, quindi tr…” fosse un voler sottolineare uno stereotipo, il resto è frutto di un ragionamento strategico piuttosto avvilente. La Boschi, per attrarre consenso, dovrebbe dare una versione di sé più rassicurante, fare la moglie e la mamma, magari anche qualche centrotavola con l’uncinetto e, perché no?, stirare guardando la D’Urso. Quest’idea, di chiunque sia, appare piuttosto vetusta per una corrente che si vanta di valorizzare le donne con cariche e ministeri. E che ci si lamenti del fatto che la Boschi non abbia voglia di sbandierare una sua storia d’amore è qualcosa che ci si aspetta al massimo da Signorini, non certo dagli appunti dell’ex presidente di Open.

Passando invece alla telefonata di due anni prima tra Tiziano e Matteo (e qui Tiziano non parla con “la politica” o con un ectoplasma), salta all’occhio il passaggio sulla giornalista Chirico. Tiziano dice che si potrebbe pagare un’agenzia che recluti dei giornalisti (in quel periodo è indagato per traffico di influenze, serve qualcuno che lo difenda mediaticamente) e che gli hanno riferito quanto sia stata brava a Otto e mezzo

la Chirico. Matteo replica: “Lo so, l’abbiamo mandata noi”. E il babbo: “È efficace”. Poi Matteo scherza sui rapporti della Chirico con gli avvocati che iniziano con la B: “Le manca solo Bagattini”. Insomma, in questo caso una donna utile, efficace, “mandata da lui” come se stesse parlando del suo soldatino biondo o, al massimo, del suo ufficio stampa. Mica ribelle come la Boschi, che si rifiuta di imparare il punto croce.

Virus e governo, arrivano i mistici della “visione”

Nei dibattiti televisivi c’è sempre un momento in cui il più bravo sfodera l’argomento definitivo, l’arma letale, il poker d’assi servito: la Visione. Purtroppo, si obietta con aria grave e un po’ dolente, il governo Conte fa quello che può, improvvisa, si barcamena ma è privo di una Visione. A quel punto ammutolisco come quando il docente di Filosofia m’interrogava sulla critica della ragion pura. E mi coglieva in castagna sulla metafisica come scienza. Adesso come allora, digiuno della materia, mi arrabatto per cercare una definizione della miracolosa parola, e dopo avere escluso che si tratti della percezione degli stimoli luminosi, oppure del fenomeno mistico che percepisce fisicamente realtà soprannaturali celesti o diaboliche, trovo finalmente l’agognata spiegazione. Che traduco così: il governo Conte manca di una “idea” su come combattere la pandemia, di un “quadro complessivo”, di una “direzione di marcia”. Lo spiega bene Alessandra Ghisleri nel sondaggio pubblicato ieri su La Stampa

: “La politica – oggi – agli italiani appare impreparata e senza visione (la Visione!, ndr

) perché una delle caratteristiche angoscianti della crisi attuale è sicuramente l’incertezza su ciò che potrà accadere”. “Peraltro ogni decisione non appare mai limpida, chiara e trasparente e tutto ha sempre un velo di mistero, ad esempio la suddivisione per colore nelle tre zone rosse, arancio e giallo”. Può non sorprendere che per il 47,9 degli interpellati nella scelta cromatica “si è ceduto a ragioni politiche piuttosto che a un metodo scientifico basato su chiare analisi di dati aggiornati”.

Hanno tutto il diritto di pensarlo quei cittadini ignari che si sentono sballottati da un Dpcm all’altro (e di cui la Ghisleri ci fornisce la fotografia). Bisognerebbe spiegare loro che esistono i 21 parametri introdotti con decreto del ministro della Salute, Roberto Speranza. Non hanno l’aria di essere il frutto di un “metodo scientifico”, e non sarà proprio l’“analisi dei dati aggiornati” a renderli così mutevoli? E allora non sarà forse che l’incertezza e la confusione di cui si lamentano giustamente gli italiani sia anche il frutto di un’informazione ipercritica, volubile, superficiale, che non sa (o non vuole) prendere posizione? Per cui un giorno i 21 criteri di valutazione sono troppi, e il giorno dopo si denuncia “il velo di mistero” e si dà la colpa a un metodo di valutazione misterioso, opaco, insufficiente? Il paragone che spesso si fa tra il Covid e la guerra non funziona. Le guerre sono sempre opera dell’uomo, esse possono sfuggire al suo controllo solo nell’ipotesi di un conflitto nucleare che, infatti, le superpotenze cercano di sterilizzare. Più calzante appare l’analogia tra virus e terremoti. Mentre ci si rialza da una tremenda prima scossa ecco che ne arriva una seconda più devastante ancora. E chi ci governa improvvisa, si barcamena, fa quello che può, naviga a vista tremando al pensiero di una terza scossa che potrebbe nuovamente distruggere quel poco che resta in piedi. Ecco perché quando sento parlare di Visione penso a un fenomeno mistico.

Aspi e la “pezza” sulle barriere pagata in tariffa

La vecchia gestione di Autostrade voleva fare passare come migliorie, e quindi con un tornaconto economico, le spese per rimediare agli errori di progettazione delle barriere fonoassorbenti. È un particolare che emerge dalle carte dell’inchiesta che ha portato ai domiciliari l’ex amministratore delegato di Aspi, Giovanni Castellucci, e altri due ex manager, Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti, oltre a tre interdizioni. L’indagine riguarda le barriere fonoassorbenti presenti su parte della rete di Autostrade, ma considerate pericolose per gli automobilisti. La società avrebbe dovuto togliere quei pannelli e metterne di nuovi, ma per la logica del massimo risparmio per il massimo profitto nessuno comunicò la loro pericolosità.

“Parte delle spese sostenute da Aspi – si legge nell’ordinanza del gip di Genova – relative all’abbattimento delle barriere (pari a 39.676 euro) e la totalità delle spese sostenute per il rialzamento delle ribaltine a seguito delle lamentele (pari a 63.133 euro) relative al I Tronco sono state inserite dalla società nella voce contrattuale F2. Lo stesso per le attività di potenziamento delle piastre di ancoraggio resosi necessario per porre rimedio agli errori progettuali per cui presso l’Ufficio territoriale del ministero delle Infrastrutture di Genova è stata aperta una commessa con una ipotesi di spesa pari a circa 5.500.000 (di cui a oggi risultano spesi 302.000 euro)”. Il gip spiega però il perché di questa strana scelta. “La voce F2 concorre ad aumentare il valore del cespite autostradale oggetto di miglioria e fa parte di un obbligo di spesa contrattuale che Aspi si è assunto”. Tradotto: vi rientra la manutenzione straordinaria, che quindi viene remunerata in tariffa. Aspi doveva invece rimediare a un suo errore con la manutenzione ordinaria (a carico suo).

Il Recovery resta bloccato: veto di Ungheria e Polonia

Era nell’aria e ora è successo. Polonia e Ungheria hanno posto il veto su un punto dirimente per il prossimo Bilancio Ue e per il Recovery Fund: “Siamo in crisi”, riassume un diplomatico nel tardo pomeriggio. La cosa funziona così: i governi polacco e ungherese sono assai scontenti perché Consiglio e Parlamento europei, a maggioranza qualificata, hanno deciso di vincolare l’erogazione dei fondi comunitari al cosiddetto “rispetto dello stato di diritto”. Lo sono perché entrambi sono stati messi sotto inchiesta a Bruxelles proprio per non averlo rispettato. Il loro malumore si è allora scaricato su una decisione che, secondo le regole dell’Unione, richiede l’unanimità: la decisione – ieri al vaglio degli ambasciatori dei 27 presso l’Ue – di aumentare il tetto delle risorse proprie dell’Ue, cioè l’unico modo per far passare sia il prossimo Budget settennale (2021- 2017) che i 750 miliardi di Next Generation EU.

Ora, sintetizzando molto, tocca ad Angela Merkel – l’unica che ha poteri di pressione sufficienti sul blocco dell’est – convincere Polonia e Ungheria a tornare sui loro passi in qualche modo: un lavoro che inizierà fin dal Consiglio europeo di dopodomani (in videoconferenza). L’ennesimo stallo su bilancio europeo e Recovery è una brutta notizia per l’Italia. “Il potere di veto è obsoleto per l’Ue e dannoso per chi lo esercita”, twitta infatti il ministro per gli Affari Ue Enzo Amendola. Fin quando esiste, comunque, non è aggirabile. Perché, come dicevamo, è una brutta notizia per l’Italia? Perché la legge di Bilancio per il 2021 – approvata ieri con enorme ritardo dal Consiglio dei ministri dopo il primo round “salvo intese” del 16 ottobre – è in parte basata proprio sull’uso degli anticipi del Recovery Fund: 15 miliardi (su 39 totali di valore della manovra) che dovrebbero servire in capitoli anche vitali come il prolungamento del superbonus al 110% per le ristrutturazioni edilizie che finora ha funzionato molto bene (per ora è finanziato fino a giugno).

Restando alla manovra – arrivata mai così tardi in Parlamento (e si tenta di sedare possibili malumori lasciando agli eletti 800 milioni da destinare) – arriva alla discussione sostanzialmente già vecchia: certo nei 228 articoli che la compongono ci sono cose fondamentali come la cassa integrazione Covid, l’assegno unico per i figli da luglio, la stabilizzazione del taglio del cuneo fiscale, i fondi per la sanità (e altre non proprio indimenticabili, per la verità), ma la portata della crisi indotta dal virus e dalle chiusure s’è ingigantita dopo la decisione sui saldi di finanza pubblica, mettendo a rischio soprattutto la crescita del Pil proprio nel 2021. È tanto vero che quei saldi saranno modificati forse già questa settimana: è in arrivo un nuovo decreto Ristori, il terzo, per cui verrà chiesto uno scostamento di bilancio di circa 20 miliardi. Probabilmente non sarà l’ultimo.

Bettini “spinge” FI nella maggioranza Pd e 5S in silenzio

Riuscirà il Pd a spaccare il centrodestra e a portare definitivamente Forza Italia nel “campo democratico”? Il dialogo va avanti da prima dell’estate, da quando Nicola Zingaretti parlava con Silvio Berlusconi in vista di una legge elettorale proporzionale. Ma in questi giorni si va infittendo. Non senza qualche ostacolo. Il leader di FI non può rompere con la Lega e neanche con Giorgia Meloni, in ascesa continua. Non fosse altro perché governano insieme in 15 Regioni. E il Pd non si può esporre a aperture eccessive. Quantomeno per non irrigidire i Cinquestelle, colleghi di maggioranza.

I collegamenti sono attivi quotidianamente: Zingaretti parla con Gianni Letta, Goffredo Bettini (nella foto) tiene i rapporti con Antonio Tajani, che la settimana scorsa aveva chiesto un relatore di opposizione per la legge di bilancio. All’apertura di Forza Italia è seguito l’entusiasmo del Nazareno, con uscite che sembrano addirittura concordate. E così, domenica Berlusconi fa un’intervista e ieri Bettini sul Corriere arriva a evocare il rimpasto (invitando a “chiamare anche all’interno dell’esecutivo le energie migliori e necessarie per competenza e forza politica”). Le cose però non vanno del tutto lisce. Non è la linea della segreteria dem (almeno non quella ufficiale) e neanche quella di Berlusconi (“Non svenderei mai i nostri 25 anni di storia per una manovra politica di breve respiro…”, dice al Maurizio Costanzo Show). E così nel pomeriggio è lo stesso Bettini a far circolare l’interpretazione autentica delle sue parole: chiede un coinvolgimento parlamentare di FI, che però non si esaurirà con la Bilancio. In realtà è da più di un anno che il ruolo del fu kingmaker di Zingaretti è spingere i confini sempre un po’ più in là. Tanto che sono mesi che provoca malumori tra gli altri big dem.

Al di là delle ipotetiche larghe intese, che tutti smentiscono, il piano immediato del Pd è quello di coinvolgere Forza Italia nelle scelte presenti (i voti sullo scostamento di bilancio potrebbero essere necessari), ma poi punta a portare a casa il proporzionale, per permettere agli azzurri di essere la terza gamba, insieme a Renzi e a Calenda, di una coalizione democratica. Dentro la maggioranza, a parte le dichiarazioni di Vito Crimi contro il relatore di minoranza, c’è una sorta di silenzio assenso. Nei cinquestelle, Roberto Fico, anche per dare seguito all’invito di Sergio Mattarella a coinvolgere le opposizioni, e Federico d’Incà (ministro per i Rapporti con il Parlamento), che coordina i lavori e studia le possibili soluzioni (compresa quella del doppio relatore alla Bilancio), lavorano sulle Camere. Negli scorsi giorni Laura Castelli del M5S, sottosegretario all’Economia, ha sondato i componenti di FI della commissione Bilancio della Camera per capire se avevano proposte.

Giuseppe Conte non entra in campo direttamente. Resta fermamente contrario a ogni tipo di rimpasto, mentre nulla avrebbe da ridire sull’apporto di Forza Italia. D’altronde, era stato lui, l’anno scorso, prima che iniziasse l’emergenza coronavirus, a cercare di mettere insieme un drappello di Responsabili. E solo ieri agli Stati generali ha ricordato a M5s la necessità di fare compromessi. L’area di Bettini lavora anche ad orientare il governo: alla riunione di giovedì, c’erano, tra gli altri, Roberto Gualtieri e il suo plenipotenziario al Mef Claudio Mancini, insieme al ministro dell’Università, Gaetano Manfredi. Non a caso l’emendamento pro-Mediaset votato al Senato la settimana scorsa è uscito dal Mise, ma è stato approvato dal Mef. Avrebbe causato – dopo la trattativa portata avanti da Niccolò Ghedini – l’irritazione dello stesso Letta, che l’ha considerato un segnale troppo evidente del dialogo in corso. La versione del governo, letta in controluce, è interessante: non si tratta di un favore a Berlusconi, ma il tentativo di rallentare la scalata di Vivendi è a tutela dell’Italia in generale. Tutto torna.