Può accadere solo negli intricati meandri dell’ipocrisia torinese e, soprattutto, in quelli ancora più ambigui del giornalismo subalpino. Torinesi, falsi e cortesi. Insomma, può accadere che, per dirla in breve, il master di Giornalismo dell’Università di Torino, intitolato a Giorgio Bocca (uno di Cuneo, un partigiano di Giustizia e Libertà che quell’ipocrisia non aveva mai condiviso, sino a rifugiarsi a Milano dopo le prime esperienze alla torinese Gazzetta del Popolo), affidi l’inaugurazione del suo biennio, destinato a sfornare tra due anni una ventina di nuovi e, si spera, liberi giornalisti, a John Elkann, figlio dello scrittore Alain e della figlia di Gianni Agnelli, Margherita. Soprattutto, padrone di Fca ed editore “impuro” del Gruppo Gedi, dov’è riuscito a mettere le mani su Repubblica. Affiancandola a La Stampa, nella commistione contro natura di “Stampubblica”. In una concentrazione di testate, potere mediatico, interessi imprenditoriali e istituzionali che non ha pari in Italia, con la sola eccezione di Silvio Berlusconi e delle sue tv: quel Berlusconi un tempo grande obiettivo proprio di Repubblica e del Gruppo Espresso.
Il giovane presidente di Gedi, e lo spin doctor che gli ha preparato le risposte per le domande degli allievi giornalisti, ha così potuto approfittare di una ribalta senza precedenti, messa a disposizione dall’ateneo torinese e dall’Ordine regionale dei giornalisti che ha il compito di “sorvegliare” il master. Qualcosa che non si era mai visto in precedenza, né tra gli anni 50 e 60, quando il sindacato dei giornalisti piemontesi era guidato da Giovanni Giovannini, futuro vicedirettore de La Stampa e poi suo amministratore delegato, sino ad approdare alla presidenza della Federazione degli editori, né tra gli anni 70 e 80, quando quella leadership era esercitata da dirigenti sindacali legati al Pci e alla sinistra sociale democristiana. Molti di loro lavoravano a La Stampa e oggi non ci sono più: ma se potessero ancora parlare, quegli uomini e quelle donne, quei giornalisti, adesso insorgerebbero contro gli organizzatori dello spot pubblicitario gratuito allestito per Elkann. Come se un convegno sulla tutela delle piccole botteghe fosse aperto dal presidente di Esselunga.
Chiamato a parlare di giornalismo digitale, tra molti imbarazzi da parte degli allievi, il tentennante nipote dell’Avvocato ha regalato senza contraddittorio dati sul successo web di Gedi (dati che sarebbe interessante sottoporre a fact checking proprio nei corsi del master), pensieri banali sul futuro della professione giornalistica – “Bisogna conoscere e utilizzare al meglio gli strumenti dell’informazione di oggi, ma ancora di più imparare a usare quelli di domani” –, versioni edificanti sull’effettiva retribuzione per i collaboratori precari del suo gruppo e consigli padronali per il contratto collettivo del lavoro giornalistico che attende da anni di essere rinnovato.
Il problema, però, non è Elkann (il giudizio su di lui va destinato, piuttosto, a che cosa sarà il futuro di Fca in Italia e soprattutto a Torino) e neppure le possibili e auspicabili reazioni della Federazione nazionale della stampa italiana e del sindacato piemontese rispetto alle sue “veline” sulla giusta retribuzione dei collaboratori del gruppo Gedi e sulle sorti del contratto di lavoro. Ben più grave e sconsiderato, invece, è quel diritto lussuoso e smodato di tribuna concesso a un padrone che, nelle risposte ai quesiti presenti nei manuali sull’esame di Stato per l’abilitazione alla professione giornalistica, viene ancora indicato per fortuna come “editore impuro”, con l’immediato corollario che definisce l’assenza di “editori puri”, dal secondo dopoguerra a oggi, il “grande male del giornalismo italiano”. Il problema vero, insomma, è quello dell’ipocrisia: l’ipocrisia dei maggiordomi.