Stop per un mese 380 mila famiglie restano senza rdc

Quando si dice pessimo tempismo: proprio in queste settimane, con la recrudescenza del Covid, abbiamo pure quasi un milione di persone che hanno perso il Reddito di cittadinanza. Molte di loro torneranno a prenderlo già a fine novembre, ma intanto devono passare un mese senza un euro in tasca.

Paradosso nel peggior momento possibile: a ottobre sono scaduti i primi 18 mesi dall’avvio del sussidio anti-povertà, che ha esordito ad aprile 2019. Per legge, dopo un anno e mezzo, anche se i requisiti restano, l’assegno si ferma per un mese. Le 381 mila famiglie della prima “infornata” sono ora decadute dal beneficio: lo hanno preso a fine settembre e dovranno arrangiarsi fino al 30 novembre. Quando almeno i 298 mila nuclei che ne hanno fatto nuovamente richiesta dovrebbero tornare a ricevere l’aiuto.

Coincidenza di rara sfortuna: pochi giorni dopo la fine del primo ciclo, infatti, l’ultimo decreto del presidente del Consiglio ha limitato in particolare il commercio e la ristorazione. Proprio i settori che avrebbero potuto offrire un’ancora di salvezza, perché è lì che i beneficiari del Reddito riescono a trovare più frequentemente lavoro, di solito con contratti brevi, come dicono i dati Anpal.

A ottobre, i percettori di Reddito sono passati dai 3,1 milioni del mese prima a 2,2 milioni. Scesi soprattutto in Campania, da 741 mila a 529 mila, e in Sicilia, da 603 mila a 416 mila. Era prevedibile e nei mesi scorsi era scattato l’allarme, ma non è stata prevista una proroga straordinaria per coprire il mese di stop. L’Alleanza contro la povertà – formata da associazioni, terzo settore, sindacati ed enti locali – ha chiesto di eliminare la sospensione mensile (che adesso, a cascata, colpirà molte famiglie che hanno presentato la domanda dopo aprile 2019) e di allentare i requisiti per ottenere il Reddito di cittadinanza e di emergenza (quest’ultimo, al momento, ha raggiunto oltre 700 mila persone).

“Di Battista in segreteria B. collabora? Ben venga”

Sulla sua entrata in segreteria prende tempo. Ma se si sostiene che tutto nel M5S sembra ruotare attorno ad Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio è netto: “Non si può più dipendere da una singola persona, quella fase è finita. Per questo abbiamo bisogno di un organo collegiale”.

Dai delegati agli Stati generali è arrivata la richiesta di un M5S dotato di sedi. Volete diventare un partito a tutti gli effetti?

Dotarsi di una struttura non significa diventare un partito, ma adeguare le potenzialità del Movimento ai territori e all’azione di governo. Guidiamo la settima potenza mondiale, lo trovo naturale. Più che altro sono i partiti che cercano costantemente di emularci. Noi ci tagliamo lo stipendio, rinunciamo al vitalizio, promuoviamo percorsi di democrazia diretta. Altrove non vedo un modello simile.

I delegati suggerivano anche di avvalersi del 2 per mille per finanziarsi, ma il reggente Vito Crimi ha detto no. Che ne pensa? In fondo, in un’era di cambiamenti…

Crimi ha fatto bene, il M5S rinuncia da sempre al finanziamento pubblico. Credo che l’obiettivo di ogni forza politica sia lavorare per i suoi cittadini e raccogliere dagli stessi liberi contributi per portare avanti il suo progetto. Quando cominciano i problemi di cassa significa che il problema è con coloro che ti sostengono.

Ora va deciso come e con chi comporre la segreteria. Lei vi entrerà?

In un mese al massimo definiremo ogni dettaglio. L’importante è che sia un organo in grado di decidere in tempi rapidi e idonei alle attuali responsabilità di governo in questa fase delicatissima. Per quanto riguarda il mio ingresso, farò le mie valutazioni a tempo debito.

E quali saranno i criteri in base ai quali deciderà?

Voglio leggere con attenzione i contributi dei delegati, che confluiranno in un documento. Il punto sono i progetti, i programmi. L’era delle leadership carismatiche è finita: Salvini è sempre più debole, e anche le altre forze politiche si reggono su una struttura.

Di Battista si è detto pronto ad accettare un ruolo, a patto che vengano rispettate determinate condizioni. Lo vorrebbe in segreteria? E che ne pensa di queste condizioni?

Parlare di condizioni secondo me non è l’approccio giusto per costruire insieme. Credo che Alessandro abbia intenzione di entrarci, altrimenti tanto rumore per cosa? Se decidesse di farlo ne sarei felice, come lo sarei per altri amici di percorso.

Di Battista ha parlato anche di persone che si genuflettono davanti ai padroni. E Crimi non ha affatto gradito.

Tutti noi ci siamo sempre battuti in questi anni contro chi, dall’alto della sua supremazia morale, ci puntava il dito contro. Sono convinto sia stato male interpretato, soprattutto se era rivolto verso chi ha tirato la carretta fino a oggi, e ha permesso ad altri di dedicarsi alla propria vita personale. Sia chiaro: nessuno si è mai genuflesso ai poteri forti e alcuni ministri hanno visto potenziata la propria tutela per aver fatto scelte coraggiose. Io difendo questa squadra che lavora notte e giorno da anni.

Davide Casaleggio ha disertato il congresso parlando di “decisioni già acquisite”.

L’aver subito ribadito la regola dei due mandati smentisce questi pregiudizi.

La regola potrete cambiarla con calma in futuro…

Se vogliamo ragionare con la malafede possiamo anche sciogliere il M5S. Io la penso diversamente. E comunque una deroga è già stata introdotta per i consiglieri comunali, e la sindaca di Roma Virginia Raggi ha potuto ricandidarsi.

Per Rousseau vuole un contratto di servizio oppure pensa a una nuova piattaforma?

Ritengo che determinate funzioni, come la certificazione delle liste, debbano passare al Movimento. La parte software invece si può regolare con un contratto.

Sul Corriere della Sera il dem Goffredo Bettini ha scritto che “il segnale di collaborazione di Forza Italia va raccolto”, aprendo a un allargamento della maggioranza.

In questo momento serve il massimo dialogo, e ognuno può portarlo avanti dalle proprie posizioni. Bettini, che stimo, ha ricordato che l’appello di Berlusconi arriva da una forza di opposizione. E anche il capo di FI ha precisato questo.

Il M5S è contrario a un ingresso di FI nel governo?

Non mi risultano richieste di questo tipo.

Avete varato un emendamento per proteggere Mediaset dalla scalata di Vivendi. È uno scambio con Berlusconi, no?

Nessuno scambio. C’è stata un’azione molto chiara da parte del ministero dello Sviluppo economico per tutelare un’azienda italiana, come abbiamo sempre fatto.

Avete nominato come nuovo commissario della Sanità calabrese Eugenio Gaudio, che verrà affiancato come consulente da Gino Strada. Ma non era meglio puntare solo su Strada? Tra l’altro Gaudio è ancora indagato.

Tra la nostra scelta ideale e quella realmente possibile c’erano di mezzo tre ministeri e una Regione. Ora bisogna ripartire e lavorare, ripartendo dalla soluzione proposta dal Mef e dal ministero della Salute.

I governatori non approvano le fasce territoriali per la pandemia.

Abbiamo elaborato questo sistema perché la salute va tutelata nella maniera massima, ma c’è anche un sistema economico da proteggere. Nelle aree dove i contagi sono più bassi bisogna evitare di chiudere.

I poteri delle Regioni vanno rivisti?

Sì, bisogna rimettere mano all’impianto. Questa pandemia ha evidenziato troppi problemi decisionali.

Lo schiaffo di Salvini a Zaia: Fontana non molla la sua Liga

In guerra tutto è lecito, attacchi frontali, scaramucce, imboscate, perfino i dietrofront. In quest’ultima piroetta si è esibito Lorenzo Fontana, leghista veronese ultracattolico, deputato, ex ministro, vicesegretario federale e segretario regionale della Liga Veneta. Domenica aveva annunciato di essere stato nominato da Matteo Salvini responsabile del dipartimento “Famiglia e valori identitari”, per preparare il programma di governo della Lega. Quindi in Veneto si sarebbe dimesso. Ma aveva esagerato, tracciando l’identikit del successore. Non uno della vecchia guardia leghista né uno degli Zaia-boys o degli amministratori cresciuti all’ombra di Zaia. Fontana aveva auspicato “che il profilo possa essere quello di uno dei nostri bravi giovani su cui ho investito”. Come se il nome sia già pronto. Uno schiaffo lumbard ai veneti, che l’hanno presa molto male, sentendosi colonizzati da un nuovo centralismo. E una dichiarazione di guerra di Salvini a Zaia. Il governatore, gelido, ieri ha detto: “Non ero a conoscenza di nulla, sono stato avvisato domenica verso le 11 dal segretario Fontana. Tutto qui”. E non ha voluto commentare (“Penso ai malati di Covid”) il sospetto che Salvini stia commissariando il Veneto. E anche l’autonomismo di Zaia. Allora Fontana ha inserito la retromarcia. “Non mi sono dimesso. Non ci sono stati problemi. Se ci sarà un cambio alla guida della Liga veneta, sarà decisione di Salvini. Con lui c’è un buonissimo rapporto”. I veneti (e Zaia) sono avvertiti: la scelta è solo del Capitano. E qualche colonnello, come Andrea Tomaello, commissario provinciale di Venezia, ha assicurato: “Fontana traghetterà il partito al congresso. Non si nominerà un altro commissario. Salvini e Fontana sono amici”. Salvini e Zaia adesso sono meno amici di quanto già non fossero due mesi fa. E il Capitano ha lanciato la sua opa sul Veneto, come fecero Umberto Bossi nel ’98 con il segretario Fabrizio Comencini e lo stesso Salvini nel 2015 con Flavio Tosi. Entrambi espulsi.

Nuovo incarico per la vigilessa di Renzi: sarà il consigliere giuridico della Bellanova

In principio fu Alessio De Giorgi, storico social media manager di Matteo Renzi, il primo a trovare riparo e impiego come digital strategist al ministero delle Politiche agricole, regnante Teresa Bellanova. Poi è stata la volta del professor Marco Fortis che dell’ex rottamatore è stato consigliere economico a Palazzo Chigi e che, da un paio di mesi, è stato arruolato pure lui dalla ministra. Che oltre che occuparsi di dieta mediterranea, vino e caciocavallo, è pure capo delegazione al governo per Italia Viva, la creatura nata dalla scissione dal Pd con grandi ambizioni anche se mai decollata nei consensi. Bellanova non dispera e anzi pensa al rilancio dalla ridotta renzianissima del Mipaaf dove continua a fare acquisti. Da ultimo si è assicurata anche i servigi di Antonella Manzione, già punta di diamante degli anni ruggenti del Giglio magico a Palazzo Chigi, quasi che i bei tempi dovessero presto tornare: sarà il suo consigliere giuridico, anche se al ministero, per la verità ne avrebbe già uno. Ma tant’è. Del resto Manzione, data in corsa anche per il posto di direttore generale nella regione Toscana di Eugenio Giani, offrirà i suoi uffici fino alla fine del mandato del ministro pur continuando a rimanere al Consiglio di Stato. Dove è stata nominata nel 2016 tra mille polemiche, addirittura più infuocate di quelle che accompagnarono il suo arrivo, due anni prima, a Roma per volere di Renzi che l’aveva piazzata a capo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi della presidenza del consiglio, facendola traslocare da Firenze dove dirigeva i Vigili urbani. Per via di quell’incarico così ambito, si era attirata critiche e invidie: a sentire i bene informati fu addirittura Maria Elena Boschi a volerla fuori da Palazzo Chigi dove invece lei sarebbe rimasta ben volentieri anche con Paolo Gentiloni. Prevalse la scelta di allontanarla, anche a prezzo di qualche forzatura pur di accordarle una buonissima uscita: la nomina a consigliere di Stato, nonostante le mancassero un paio d’anni per arrivare all’età minima prevista (all’epoca ne aveva 53 contro i 55 richiesti). E al curriculum non proprio in linea con gli standard di eccellenza richiesti a Palazzo Spada che per quel tipo di ruolo esige di norma pedigree a cinque stelle: professori universitari, magistrati e avvocati di lungo corso, o dirigenti di primissimo ordine. Non proprio dettagli che fecero infuriare i magistrati amministrativi contro la sua sponsorizzazione da Palazzo Chigi avallata dai vertici del Consiglio di Stato che nel suo caso chiusero due occhi: l’Anma, l’associazione di categoria, ha fatto ricorso contro la sua nomina che è ancora sub iudice a Palazzo Spada dove Manzione si è acquartierata non bene, ma benissimo. Anche se il Giglio magico non si scorda mai.

Svimez: per il Nord lavorano i 100mila tornati al Sud

Da nord a sud per lavorare: l’effetto pandemia ha in molti casi invertito il flusso degli spostamenti come tradizionalmente conosciuto. Secondo una indagine realizzata da Datamining per conto della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, il cosiddetto “South Working” vede 45mila addetti che da marzo sono in smart working dal Sud per le grandi imprese del Centro-Nord. Ne sono state analizzate 150, ma se si tiene conto anche piccole e medie (difficili da rilevare) si stima che il fenomeno potrebbe aver riguardato circa 100mila lavoratori meridionali sui due milioni generalmente occupati nel centro-nord. Secondo l’associazione “South working – Lavorare dal Sud”, che ha contribuito al rapporto, l’85,3 per cento degli intervistati (il campione è di 2mila) andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Circa l’80% ha tra i 25 e i 40 anni, con alti titoli di studio, principalmente in ingegneria, economia e giurisprudenza, e ha nel 63% dei casi un contratto di lavoro a tempo indeterminato. La maggior parte delle aziende intervistate ritiene che i vantaggi siano la maggiore flessibilità negli orari di lavoro e la riduzione dei costi fissi delle sedi fisiche. Ma, allo stesso tempo, teme la perdita di controllo sul dipendente, il necessario investimento da fare a carico dell’azienda e i problemi di sicurezza informatica. Tra i vantaggi per i lavoratori, ci sono il minor costo della vita e le abitazioni a basso costo. Fra i contro, i servizi sanitari e di trasporto di minor qualità, poca possibilità di far carriera e minore offerta di servizi per la famiglia. “Il ‘South working’ – ha detto Luca Bianchi, presidente di Svimez – potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di deaccumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio e che stanno compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese”.

Mafia, colpo alla Società foggiana: 40 arresti De Raho: “Ora è il primo nemico dello Stato”

Sono tre le “batterie” mafiose colpite dall’ultima maxi operazione contro la “Società foggiana”, la federazione criminale che governa il nord della Puglia. Sono 38 le persone finite in carcere e una ai domiciliari, tutte ritenute affiliate o vicine ai clan Sinesi-Francavilla, Moretti-Pellegrino-Lanza e Trisciuoglio-Tolonese-Prencipe, protagonisti della guerra criminale che terrorizza il territorio dauno. L’inchiesta condotta da polizia, carabinieri, Direzione nazionale antimafia, Dda di Bari e Procura di Foggia ha portato alla luce nuovi elementi e conferme alle accuse giunte con l’inchiesta “Grande carro”. Una di queste è il controllo a tappeto delle attività economiche: il racket era imposto anche alle imprese funebri – costrette a pagare 50 euro per ogni funerale – grazie a un dipendente comunale che passava ai clan i nomi dei deceduti. Tra gli indagati anche Federico Trisciuoglio, boss della Società foggiana, e Pasquale Moretti, figlio del boss Rocco. Una mafia “divenuta il primo nemico dello Stato”, l’ha definita il procuratore nazionale, Federico Cafiero De Raho.

Open, l’ascesa di Lotti e l’addio Bianchi: “Priorità i soldi a Luca”

C’è un momento preciso in cui, a giudicare dai documenti dell’inchiesta fiorentina sulla fondazione Open, per Luca Lotti inizia un luminoso futuro al di là dell’Arno. E quel momento arriva nel dicembre del 2011. Il futuro sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e ministro dello Sport, in quel periodo, è il capo di gabinetto di Matteo Renzi al Comune di Firenze. Il suo nome compare in un appunto allegato a una email archiviata da Alberto Bianchi, che di lì a poco diventerà il presidente di Open, e gli investigatori della Guardia di Finanza annotano: “A partire dal documento in esame, si delinea il ruolo di primo piano di Luca Lotti, personalità che ricorre in particolare tra le figure da porre a presidio della Fondazione e per l’individuazione di collaboratori, con il ruolo di responsabile del calendario degli impegni di Matteo Renzi”. Insomma, il sodalizio iniziato al Comune di Firenze, nel dicembre del 2011, si incrementa ulteriormente. Poi le cose cambiano: vediamo che succede sette anni dopo, il 18 marzo 2019, quando l’esperienza di governo e la scalata a Palazzo Chigi sono ormai un ricordo. A spiegarcelo, in un altro appunto sequestrato, è sempre Bianchi che ha da poco concluso una chiacchierata con Renzi.

Sono diversi, a quanto annota l’avvocato, gli argomenti trattati a margine di una “riunione operativa” sulla vicenda giudiziaria che aveva coinvolto i genitori dell’ex premier: Tiziano Renzi e Laura Bovoli, nel febbraio del 2019 finiscono ai domiciliari nell’ambito di un’inchiesta per bancarotta. Misura cautelare revocata pochi giorni dopo, l’8 marzo. Scrive Bianchi: “Lunga conver. (conversazione, ndr) con MR (Matteo Renzi, ndr), a margine della riunione operativa sulle vicende dei suoi genitori”. Poi sviscera per punti una serie di argomenti. Bianchi annota: “Business. (…) Scettico su opportunità di un unico mega contenitore con dentro lui, Marco, Luca, io e chissà chi altro. E – dice – priorità n. 1 è soldi x Luca, n. 2 restituire a Alberto, n. 3 ecc, meglio diversificare (tradotto: non ha voglia di legami in società con Luca. Del resto, Marco me lo aveva detto)”.

Scrivendo “soldi per Luca”, il legale sembra parlare di Lotti. Ma a quali soldi si riferisce? Fonti vicine a Bianchi ci spiegano che in quell’appunto si faceva riferimento a soldi in sospeso per la Leopolda, la kermesse del renzismo, e che bisognava cercare Lotti. Insomma non si tratta di soldi da versare all’ex ministro. Riferendosi a Renzi, però, Bianchi annota anche altro: “Non ha voglia di legami in società con Luca”. Quando scrive questa circostanza, Lotti aveva una grana giudiziaria: era già finito indagato (ora è a processo per favoreggiamento e rivelazione di segreto) in uno dei filoni dell’inchiesta Consip. Fatto sta che la frase appuntata da Bianchi sembra sintetizzare il tramonto di quel rapporto tra Renzi e Lotti, saldato nel 2011, che con gli anni sembra andare scemando. Fino a culminare, appena sei mesi dopo quell’appunto: nel settembre del 2019 Renzi fonda Italia Viva, con Lotti che sorprendentemente resta nel Pd. Ma torniamo all’appunto di Bianchi. “Fondazione MR (Matteo Renzi, ndr). – scrive il legale –. Gli ho detto che se ci dobbiamo riflettere, dobbiamo farlo fin dall’inizio, in modo sistematico. Anche perché, dice, se la chiama ‘MR’ non è cosa che si possa aprire e chiudere tipo Open”.

Tra le annotazioni di quel giorno, Bianchi poi aggiunge: “Mi chiede come va il mio lavoro, quanti costi fissi ho, quanti siamo ecc. Chiede se dopo fine sua esperienza di governo il fatturato è diminuito. Rispondo la verità: a parte caso Toto (l’azienda che opera nel settore delle costruzioni e nella gestione di molti progetti infrastrutturali in Italia e nel mondo, ndr), mio fatturato (calato, cresciuto) indifferente”. Ecco, se fosse vero quanto scrive Bianchi, sarebbe piuttosto singolare che un ex presidente del Consiglio agganci all’esperienza governativa i fatturati delle persone a lui vicine, come appunto lo era Bianchi.

Quest’ultimo annota infine le impressioni della sua telefonata di quel giorno con Renzi: “L’ho trovato veloce come sempre, acuto, infingardo (in senso buono), mai riservato. Gli ho detto che vanno trovati al + presto i 400 x Leopolda 9. Dice che se non arrivano ‘va a prenderli lui’ (vabbè). Molto incerto in fondo sul fatto se la sua esperienza si sia conclusa o no”.

Al di là dei commenti personali, gli appunti di Bianchi si rivelano essere una bussola per ricostruire, tassello dopo tassello, quello che è stato il Giglio magico. E di cui Lotti era protagonista indiscusso fino alla separazione di Renzi dal Pd. Da quel momento, i destini politici dei due si sono separati, per poi ricongiungersi nell’inchiesta di Firenze: entrambi, con l’ex ministro Maria Elena Boschi e con l’avvocato Alberto Bianchi, sono indagati per concorso in finanziamento illecito.

Il presunto aiutino alla figlia del pm

È stato preside di Medicina, poi rettore della Sapienza di Roma. Eugenio Gaudio, oggi 64enne, anatomo patologo e neo commissario della Sanità calabrese, era stato a lungo il vice del discusso Luigi Frati, da cui aveva ereditato l’ateneo più grande d’Europa, dove i medici si passano il testimone. Dal 20 aprile era consigliere del ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi. Curriculum accademico di tutto rispetto, Gaudio è coinvolto nella maxi inchiesta della Procura di Catania su presunti concorsi universitari truccati, indagato per concorso morale in turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Le ipotesi di bandi cuciti su misura e favoritismi, nell’estate 2019, costarono la sospensione all’allora rettore di Catania, Francesco Basile e a nove capi dipartimento. L’inchiesta, che vede tra i 60 indagati l’ex sindaco di Catania, Enzo Bianco, è stata chiusa tra gennaio e luglio, con l’ex Magnifico della Sapienza nel secondo troncone. A breve la Procura valuterà le singole posizioni per decidere se chiedere il processo o l’archiviazione.

Un professore, in un’intercettazione, lo chiama “l’amico romano”. Il presunto intreccio tra rettori serviva a consentire il passaggio da associata a ordinaria alla professoressa Maria D’Agata che insegna Anatomia e istologia, figlia di Vincenzo, ex procuratore di Catania. Padre e figlia sono indagati e con loro, oltre a Gaudio, l’ex rettore Basile e l’allora preside di Scienze Biomediche Filippo Drago. Il dilemma sarebbe stato sulle modalità del concorso, se riservarlo agli interni o aprirlo a tutti. D’Agata, secondo l’accusa, sosteneva di avere parlato con Gaudio: “Lui dice che se si presenta un premio Nobel ovviamente vince lui”. Posizione che Gaudio ha ribadito in un’intervista in cui respingeva le contestazioni indicando di non avere preso parte a commissioni a Catania. Il 19 settembre 2017 le cimici registrano anche il riassunto che Drago fa al rettore etneo di un incontro che avrebbe avuto con Gaudio. “Molti idonei possono venire dalla Germania, quindi dice è molto rischioso per la prima fascia fare articoli 18”, che è appunto la procedura aperta. Passò con l’altra.

Un commissario nei guai e Strada ai Covid hospital

Quattro ospedali da campo tra Reggio e Catanzaro. Il premier Conte ieri ha sentito nuovamente Gino Strada per dargli questo incarico, ma ancora non c’è nulla di formalizzato e lo stesso fondatore di Emergency ribadisce: “Ho dato la disponibilità a Conte, ma dobbiamo ancora definire per cosa e in quali termini”.

Intanto dopo Saverio Cotticelli, che si è dimenticato il “piano Covid” e dopo Giuseppe Zuccatelli, immortalato in un video mentre propaganda l’inutilità della mascherina, il governo ha nominato commissario l’ex rettore Eugenio Gaudio. Dal Pd a Forza Italia, passando per la Lega, festeggiano tutti, o quasi, per la nomina del nuovo commissario ad acta della sanità calabrese.

Sull’asse Calabria-Roma ieri si è giocata una partita difficile, iniziata con la telefonata del ministro Roberto Speranza a Zuccatelli travolto dalle polemiche sul video in cui spiegava che le mascherine non servono per combattere il coronavirus. Risultato: “Sono rispettoso delle istituzioni. Me l’ha chiesto il ministro e un secondo dopo le mie dimissioni sono state sul tavolo”. In Consiglio dei ministri, il cilindro da cui è uscito il successore è stato quello di Conte. È stato il premier a portare a Palazzo Chigi il nome dell’ex rettore della Sapienza di Roma Gaudio, cosentino di origine, indagato a Catania nella maxi inchiesta sui presunti concorsi truccati all’università etnea. Sarà lui a dover risanare la sanità calabrese e affrontare l’emergenza Covid. Il fondatore di Emergency, però, non sarebbe del tutto fuori dalla partita: “Gino Strada ha confermato la disponibilità a far parte della squadra, anche con una delega speciale, che in Calabria sta fronteggiando le criticità dell’attuale emergenza sanitaria”. Fonti di Palazzo Chigi fanno filtrare l’accoppiata Gaudio-Strada: “Due nomi autorevoli che possono aiutare la sanità calabrese a ripartire”.

In sostanza, se Gaudio sarà commissario, Gino Strada potrebbe essere il “consulente per il Covid”. Per Conte, il suo compito sarebbe quello di costruire ospedali da campo tra Catanzaro e Reggio Calabria dove il sistema sanitario regionale è maggiormente in affanno.

Il grillino Nicola Morra non sta facendo mistero delle sue riserve sulla nomina di Gaudio: “Da presidente della commissione parlamentare antimafia avevo chiesto una filosofia e dei nomi che indicassero una svolta netta e radicale. Gaudio non la rappresenta a mio avviso. C’era la necessità di portare persone che non abbiano alcun condizionamento da subire dalla Calabria”. Ed è sempre Morra che lancia l’allarme: “Non va bene Gaudio se si vuole fermare l’avanzata dell’infiltrazione ‘ndranghetista e del malaffare in Calabria. Non è un nome all’altezza di Strada”. Nome che, tra l’altro, non compare nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi. Il perché lo spiega lo stesso Strada sempre sui social: “Il tandem con Gaudio non esiste. Ribadisco di aver dato al presidente del Consiglio la mia disponibilità a dare una mano in Calabria, ma dobbiamo ancora definire per che cosa e in quali termini. Sono abituato a comunicare quando faccio le cose, quindi mi trovo a disagio in una situazione in cui si parla di qualcosa ancora da definire”.

La Basilicata ferma la scuola L’Abruzzo rosso ci ripensa

Da oggi scuole elementari e medie chiuse in Basilicata. A deciderlo, con una ordinanza, il presidente della Regione Vito Bardi che ha stabilito didattica a distanza fino al 3 dicembre per “diminuire la diffusione del virus” ma soprattutto “la conseguente pressione sulle strutture ospedaliere lucane”. Ha parlato di “assunzione della piena responsabilità politica” e ha preso come riferimento un monitoraggio che avrebbe condotto la task force regionale dal 24 settembre al 12 novembre e che avrebbe registrato incrementi elevati di positivi (anche del 26a per cento) nelle fasce d’età scolare salvo poi dover ammettere che sono numeri in linea con quelli degli adulti. Contraria l’Anci Basilicata. “Tutti gli impegni assunti dalla Regione nelle settimane scorse sono stati disattesi: mappatura del personale della scuola e somministrazione di tamponi rapidi per tenere sotto controllo la situazione”. Il ministero ha inviato una lettera per chiedere spiegazioni. Resta chiusa la Calabria, mentre la Campania prepara invece la riapertura dal 24 novembre per l’infanzia e le prime classi della primaria. Tutti provano a fare come gli pare, salvo poi tornare indietro e spesso alla luce dei numeri. Nei giorni scorsi a minacciate di chiudere era stato il sindaco di Palermo, salvo poi fare marcia indietro dopo l’intervento e il dialogo con il ministero dell’Istruzione. Ancora, l’Abruzzo ieri era pronto (pare con il beneplacito del ministro della Salute, Roberto Speranza) a emanare una ordinanza di chiusura totale ma la decisione è stata sospesa. “C’è stata una discussione molto ampia e siamo tutti d’accordo di non poter accogliere, neanche volendo , la richiesta da parte del Gruppo Tecnico Scientifico. L’attuale disciplina di legge non consentirebbe alle famiglie di affrontare questo problema”.