In Lombardia basta che paghi 450 euro per “curarti a casa”

“Un tampone rapido a domicilio 75 euro; tre tamponi fatti nello stesso domicilio, solo 55”. È una delle offerte che da giorni i privati propongono ai sospetti Covid-positivi lombardi. Un odioso mercato della salute, raccontato già dal Fatto, e alimentato dall’inefficienza pubblica e dalla volontà di fare cassa dei gruppi privati. E così, al lombardo sfibrato da settimane di attesa di una chiamata dell’Ats per un tampone che non arriva mai, non resta che andare in Rete, scorrere i tariffari e fissare un appuntamento. Preparando i soldi. Per un molecolare naso-faringeo si va dai 125 euro di Multimedica, ai 120 del Centro Diagnostico Italiano, passando per i 90 di Auxologico e Gruppo San Donato, fino alla più “economica” Humanitas, 57 euro. E, siccome la sanità lombarda (“la ex migliore d’Italia”) oggi non riesce ad assicurare nemmeno uno straccio di visita domiciliare, ecco che ci pensa il privato, come raccontato ieri da Tpi.it. Il Gruppo San Donato propone un pacchetto su misura: con 90 euro assicura al paziente Covid un primo consulto medico da remoto – video o telefonico –, 15 minuti di visita. Con l’aggiunta di ulteriori 450 euro, fornisce una visita “specialistica” nella propria abitazione con tanto di esame del sangue, radiografia toracica, saturazione e referto finale. Eventualmente c’è la presa in carico, ma quella non rientra nel pacchetto, il cui pagamento comunque deve essere effettuato in anticipo.

Il San Raffaele offre cioè a pagamento ciò che ogni Usca assicura gratis a ciascun cittadino nelle regioni dove sono state attivate. Ma, siccome le Usca l’assessore Giulio Gallera non le ha attivate, in Lombardia ci si arrangia. Cioè si paga. Chi può. Chi non può pagare, attende. Una degenerazione estrema che ha fatto insorgere associazioni –Medicina Democratica che è tornata a chiedere il commissariamento della sanità lombarda – e le opposizioni. Il capogruppo M5S Massimo De Rosa presenterà oggi una mozione per chiedere un calmiere ai prezzi delle prestazioni dei privati, a partire dai tamponi. Pietro Bussolati del Pd aveva chiesto dieci giorni fa che test e tamponi fatti privatamente fossero rimborsati dalla Regione. Inascoltato.

E, intanto, il privato incassa. Non solo, il Pirellone ha anche deciso di riversare sulle loro strutture una serie di prestazioni non legate al Covid, sottraendole alle quelle pubbliche. Un esempio, la cardiochirurgia: con la delibera del 21 ottobre scorso (confermata il 2 novembre) è stata dirottata quasi in toto su San Raffaele, Policlinico San Donato e Monzino. Solo la cardiochirurgia dell’ospedale pubblico di Legnano resta aperta. Idem per l’oncologia, indirizzata in massima parte allo Ieo.

Ma perché questa operazione che lascia al pubblico i pazienti Covid e ai privati il resto (e una quota minoritaria di positivi)? Perché i conti dei privati non vanno bene: in parte perché il “turismo sanitario” da altre regioni si è praticamente azzerato; in parte perché per loro i pazienti Covid rappresentano una diminuzione degli incassi, visto che assicurano rimborsi più bassi. Molto meglio fare tamponi e vaccini a pagamento e continuare ad effettuare più operazioni possibile, compatibilmente col livello quattro di emergenza che ha quasi azzerato la chirurgia elettiva.

Un fenomeno che gli attuali vertici della sanità lombarda sembra non abbiano alcuna intenzione di arginare. Del resto, non è un mistero che per la campagna elettorale del 2018 Gallera ricevette erogazioni liberali proprio dalla galassia della sanità privata, come rivelato dal Fatto. Secondo la “Dichiarazione e rendiconto candidato Gallera Giulio”, tra i suoi sostenitori spicca la “Fondazione sanità futura”, la quale staccò un assegno da 10 mila euro. Il board di quella fondazione raccoglie i big della sanità privata, concorrenti sul mercato, ma uniti nella lobby: il presidente è il prof. Gabriele Pelissero, presidente del San Raffaele e vice presidente dell’Università Vita-Salute San Raffaele, nonché presidente Nazionale di Aiop, l’Associazione italiana di ospedalità privata. Vicepresidente è invece Dario Beretta, dg dell’Istituto Clinico San Siro (Gruppo San Donato) e attuale presidente di Aiop.

Altro vaccino quasi pronto: ok al 94%, si tiene in frigo a casa

Dopo Pfizer (efficace al 90%) e il rilancio russo su Sputnik V (“il nostro al 92%) arriva anche Moderna, l’altra azienda americana, quella di Anthony Fauci: efficace al 94,5%. Annunci che, al momento, per l’Italia cambiano poco: il Consorzio promosso da Italia, Germania e Francia in ambito Unione europea ha già fatto le spartizioni. E dei contratti complessivi che l’Ue sottoscriverà con i colossi farmaceutici a Roma spettano in prima battuta (da gennaio 2021 se tutto fila liscio) 70 milioni di dosi. Se il vaccino di Pfizer arriverà certamente prima – l’approvazione dell’agenzia americana è prevista tra fine novembre e Natale –, quello di Moderna seguirà a ruota col vantaggio di non dover essere conservato a -80° come il primo, basteranno normali frigoriferi domestici. Particolare che dovrebbe aiutare logistica e distribuzione, che in Italia sarà gestita in ogni caso in modo centralizzato dal ministero della Salute come già annunciato dal commissario Domenico Arcuri.

Intanto Ursula von der Leyen, presidente della commissione Ue, annuncia altri accordi: “Oggi autorizziamo un nuovo contratto con Curevac per il vaccino contro il Covid-19, che ci permetterà di assicurarci fino a 405 milioni di dosi. Questo è il quinto contratto per il nostro portafogli di vaccini e stiamo lavorando a un sesto proprio con Moderna. In questa fase non sappiamo ancora quale vaccino si rivelerà efficace. L’Ema, l’agenzia europea del farmaco, li autorizzerà solo dopo una valutazione attenta ed è per questo motivo che abbiamo bisogno di un portafogli di vaccini ampio e basato su tecnologie diverse”. Ogni Stato membro, ha assicurato, “riceverà il vaccino allo stesso tempo, su base percentuale, e alle stesse condizioni”. Lo studio Cove per il vaccino mRna-1273 di Moderna ha arruolato 30mila partecipanti a cui sono state somministrate due dosi. Lo studio è stato condotto in collaborazione col National institute of allergy and infectious diseases. Moderna presenterà, come già Pfizer, una richiesta d’autorizzazione all’uso per emergenza all’agenzia americana del farmaco Fda. Questa analisi preliminare “positiva del nostro studio di Fase 3 ci ha dato la prima conferma clinica che il nostro vaccino può prevenire Covid-19, incluse le forme gravi”, ha dichiarato Stéphane Bancel, amministratore delegato di Moderna. Il vaccino Moderna, a differenza di quello di Pfizer, rimane stabile a temperature standard di refrigerazione tra 2° e 8° C per trenta giorni, per la conservazione a lungo termine resiste a -20° C per sei mesi.

L’azienda prevede di disporre di 20 milioni di dosi entro la fine del 2020 da destinare agli Stati Uniti e fa sapere di essere “sulla buona strada” per la produzione totale di 500 milioni-1 miliardo di dosi nel 2021. L’Agenzia europea del farmaco (Ema) ha annunciato l’avvio della procedura del rolling review anche per questo vaccino, ovvero il primo passo dell’iter di approvazione sulla base dei risultati preliminari degli studi. La stessa procedura è stata avviata pure per il vaccino messo a punto da AstraZeneca con l’università di Oxford e l’Irbm di Pomezia. Intanto, scatta la fase 3 della sperimentazione anche per il vaccino della Janssen, società che fa capo alla multinazionale americana Johnson&Johnson.

Terapie intensive: Arcuri litiga coi medici e il Sud è in affanno

Ci vorrà ancora questa settimana per verificare il consolidamento della relativa stabilizzazione dei contagi in Italia, di cui parlano da giorni esperti di governo e non. I dati di ieri contano poco, come ogni lunedì meno tamponi e meno positivi: i nuovi casi notificati dalle Regioni sono stati 27.354 contro i 33.979 di domenica ma a fronte di 152.663 test contro 195.275. I morti sono stati 504 contro 546. L’indice di positività, la cui affidabilità è relativa visto che alcune Regioni inseriscono anche i test antigenici e altre no, risale al 17,9%: oscilla tra il 16 e il 17% dai primi di novembre. Negli ospedali, ci sono altre 489 persone nei reparti ordinari (totale 32.536, da giorni oltre il record della prima ondata, 29.010 il 4 aprile) ma nei giorni peggiori sono aumentate anche di mille; altri 70 pazienti si sono aggiunti nelle terapie intensive dove in tutto sono 3.492, un numero sempre più vicino ai 4.068 del 3 aprile che è il dato più alto dall’inizio della pandemia.

RianimazioniI medici smentiscono Arcuri

Proprio sulle terapie intensive il commissario straordinario Domenico Arcuri, ieri mattina, ha detto che non c’è pressione. “Al picco abbiamo avuto nel nostro Paese circa 7 mila pazienti in rianimazione, duemila di più della totale capienza dei reparti”, ha detto Arcuri riferendosi a tutti i pazienti (non solo Covid) che erano ricoverati nelle rianimazioni ad aprile. “Oggi – ha proseguito – abbiamo circa 10 mila posti di terapia intensiva e arriveremo a 11.300 nel prossimo mese. Attualmente ci sono circa 3.300 ricoverati in terapia intensiva (per Covid, ndr), quindi la pressione su questi reparti non c’è”. Carlo Palermo, segretario dell’Anaao Assomed che è il sindacato dei dirigenti medici, ha replicato che “i posti disponibili e attivi sono valutabili intorno a 7.500” perché “la dotazione organica attuale di rianimatori e infermieri specializzati garantisce con questi numeri sicurezza e qualità delle cure”. Palermo ricorda che “circa il 60% di questi letti è occupato da pazienti con malattie gravissime come ictus, infarti, politraumi, stati di choc, sepsi e insufficienze multiorgano” e che “la soglia del 30%, indicata come livello di allarme, è intorno a 2.300 ricoveri”. Undici Regioni sono oltre. Insomma, sottolinea Palermo, su 11 mila posti “circa 3.500 sono solo sulla carta”.

Si lavora anche per decongestionare le Asl e i reparti ordinari: il ministero della Salute e Agenas hanno fatto accordi con i medici di famiglia in 7 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Lombardia, Piemonte, Alto Adige, Val d’Aosta e Veneto) e oggi potrebbero farne altri: riguardano i tamponi e le cure a domicilio.

Regioni Il contagio corre di più al sud e in Piemonte

L’ultimo monitoraggio indica che Rt, il tasso di riproduzione, al 4 novembre era sceso da 1,72 a 1,43 a livello nazionale. Ma in alcune Regioni aumenta. Il virus non corre ovunque alla stessa maniera. Confrontando i dati trasmessi al ministero fra il 2 e il 15 novembre e quelli dal 19 ottobre al 1° novembre, l’incidenza ogni 100 mila abitanti in 14 giorni è passata da 474 a 742 casi, con un aumento del 56% che è molto inferiore a quello dei primi di ottobre quando i positivi raddoppiavano in 7/8 giorni. L’aumento maggiore si verifica in Basilicata, Puglia e Calabria – le prime due arancioni e la terza rossa – che hanno meno casi ma li hanno visti aumentare rispettivamente del 139,1%, del 90,5% e dell’85% dal 2 novembre. Subito dopo l’Emilia-Romagna (arancione): più 80,9%. Poi il Piemonte: più 78,2%. Lì il virus corre più che in Lombardia (più 46,5%), in Toscana (più 34,5%) e Liguria (più 23,2%), le prime due rosse e la terza arancione in base ai dati precedenti che erano peggiori. A metà strada anche il Lazio (47,5%, gialla). Male il Veneto (74,95) L’Abruzzo è al 63,5% e da domani inasprirà le misure previste per la zona arancione senza chiudere tutte le scuole.

Battista’s List

Tenetevi forte, perché la notizia è clamorosa: nei processi penali non tutti vengono condannati, ma c’è anche chi viene assolto. Noi, che seguiamo la cronaca giudiziaria da una trentina d’anni, questo sospetto lo covavamo da un po’. Ma ora, grazie a un esemplare articolo di Pierluigi Battista sul Corriere, il sospetto diventa certezza. Battista, che mai abbiamo incontrato in un’aula di tribunale (è un mago dei travestimenti), fa “l’elenco dettagliato delle sentenze di assoluzione che nella Seconda Repubblica hanno scagionato amministratori e politici risultati innocenti dopo essere stati stritolati per anni da inchieste e processi con grande clamore sui media”. E parte da Antonio Bassolino, l’unico ad avere ottimi motivi per lamentarsi: 19 indagini senza condanne sono troppe per non interrogarsi sui pm e i gup che si sono occupati di lui. Ma, per il resto, la Battista’s List è piena di condannati e di prescritti che il nostro crede assolti. Raffaele Fitto e Filippo Penati sono stati per metà assolti e per metà prescritti (il secondo dopo aver giurato che avrebbe rinunciato alla prescrizione). Beppe Sala è stato condannato in primo grado e prescritto in appello (dopo aver proclamato: “Non voglio la prescrizione, ma l’assoluzione”).

Luigi Vignali, ex sindaco di Parma, è così innocente che ha patteggiato 2 anni per corruzione: cioè s’è condannato da solo, ma s’è scordato di avvertire Battista. Nicola Cosentino è stato condannato a 4 anni per corruzione in Cassazione, ma Battista si crede il quarto grado di giudizio e l’ha assolto lui. Roberto Cota, beccato a farsi rimborsare dalla Regione spese personali, mutande verdi incluse, è stato assolto in primo grado e condannato in secondo, sentenza annullata dalla Cassazione che ha ordinato un nuovo appello, dunque non l’ha “assolto”. Già che c’è, Battista infila pure due ex ministri mai indagati, Lupi e la Guidi, che si dimisero dal governo Renzi l’uno per una storia di ordinario familismo, l’altra per l’emendamento pro petrolieri regalato al fidanzato lobbista. Fatti veri e imbarazzanti, anche se non erano reati: infatti fu l’Innominabile e non i pm cattivi ad accompagnare i due ministri alla porta. Per fare buon peso, Battista aggiunge pure gli archiviati, cioè quelli che vengono indagati per verificare una notizia di reato e poi si scopre che non ci sono motivi o prove sufficienti per processarli: il pd campàno Graziano e il forzista Schifani (mai processato e dunque mai assolto). Eppure, se cercava altri plurindagati e plurimputati sempre assolti/prosciolti/archiviati quanto e più di Bassolino, Pigi ne aveva due belli grossi e famosi: Antonio Di Pietro e Virginia Raggi. Ma quelli sono veri, quindi ha preferito evitare.

Montessori “l’irrequieta” (nel rapporto con il Duce)

“Va bene: questa Montessori sembra sia una grande irrequieta”. Tale commento, Benito Mussolini lo appone il 13 gennaio 1933 sul margine di un fascicolo compilato da un suo uomo sulla pedagogista. Un’annotazione autografa che proviene dai più recenti e inediti rinvenimenti documentali presso l’Archivio Centrale dello Stato intestati all’Opera Nazionale e quello personale di Maria Montessori compilato dagli informatori dell’Ovra, che gettano nuova luce sul rapporto che la filosofa ebbe con il duce, ma soprattutto sul successo in Italia e all’estero del Metodo montessoriano grazie alla propaganda fascista. Quella appena letta, infatti, è la prova della rovinosa china della loro relazione verso la metà degli anni ’30, che però non ha nulla a che vedere con le formule entusiastiche che la nostra utilizzava negli anni ’20. In una missiva a Mussolini del ’26 scriveva: “Il fine che mi propongo di diffondere anche nelle scuole della mia patria, è un metodo che, rispettando i sacri diritti dell’infanzia, mira a formare il carattere e a dare la piena coscienza del proprio valore, risponde agli alti principi, alla profonda dottrina di cui l’E.V. si è fatto banditore”.

E, dopo avergli suggerito che il suo metodo poteva sposare il fascismo e viceversa, diviene membro onorario del partito e nel 1928 lo definiva il “centro irradiante nella sua razza, di cui Lei è il Salvatore”. Una precisazione però va fatta: il loro fu un incontro di ambizioni. Se da un lato, Montessori – che già dagli inizi del 900 riscuoteva successo all’estero – voleva che il suo Paese fosse il centro diffusore dei suoi progetti pedagogici, dall’altro, Mussolini aveva bisogno di un intellettuale la cui influenza internazionale potesse esaltare l’orgoglio fascista. A incrinare tutto ci pensa il denaro. All’indomani dell’approvazione dei Patti Lateranensi e il voto plebiscitario del ’29, il regime entra nella fase di massimo consenso e non ha più bisogno di un’intellettuale di regime che intanto si lamenta per il mancato sostegno economico e i paletti burocratici. Così, compreso l’andazzo, la studiosa inizia un volontario esilio fuori dall’Italia tra conferenze: Spagna, Francia, Sud America, India, Olanda (dove si spense nel 1952). Ecco, dunque, la verità (assai stringata) sulla parentesi fascista della pedagogista, raccontata dal professor Fabio Fabbri, grazie ai documenti inediti reperiti negli ultimi anni, in Maria Montessori e la società del suo tempo (Castelvecchi), una raccolta di saggi monografici a cura di Fabbri che incorniciano – come suggerisce il titolo – la studiosa nella sua profondità storica nell’anniversario dei 150 anni della sua nascita.

Un altro aspetto meglio illuminato nel volume è il femminismo montessoriano, che nel suo intervento la docente Liviana Gazzetta definisce “utopico”, con un riferimento appropriatissimo a Thomas More, e che Montessori – come scopriamo da un suo discorso pubblico del 1899 tornato alla luce – chiama “femminismo scientifico”. Per due motivi: da un lato, desiderava che la donna nuova si formasse e addentrasse “nel campo delle scienza positiva”, dall’altro ciò doveva andare di pari passo con la rivoluzione industriale. Le teorie della pedagogista, lettrice di Mary Wallstonecraft e attenta ai movimenti transnazionali, sposano quelle della neonata International Woman Suffrage Alliance, l’associazione nordamericana per il suffragio universale. Nel 1899, al congresso a Londra dell’IWSA, pronuncia a gran voce “‘Fate agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi stesse’. Fate, cioè lavorate; ma lavorate per gli altri, cioè per la società”. Riecheggia, nelle parole della filosofa, la sua formazione religiosa che pure dà una profonda impronta al suo Metodo e agli studi sull’infanzia. Tuttavia, negli anni in cui Elizabeth Arden distribuisce rossetti rossi alle suffragette newyorchesi scese in strada a esigere il voto per le donne, Montessori stravolge l’iconografia mariana, o meglio le conferisce una connotazione civile. Alla conferenza del 1902 all’Associazione della stampa di Roma equipara la donna nuova alla Vergine, una “Maria sociale che vive per il figlio e per l’umanità”, l’emblema di un’utopia femminista altruista.

Rifiutando il simbolo di Eva di subordinazione all’uomo, in quello stesso discorso, prosegue: “La vittoria sociale della donna sarà una vittoria materna, destinata a migliorare, a rendere più forte la specie umana”. Constatando che la vittoria sociale da lei preconizzata non si sia avverata, o almeno non totalmente, è importante sottolineare però la sensibilità intellettuale, allarmante per l’epoca, di una donna per cui – denuncia Fabbri – vi è una “quasi totale assenza di interesse storico” nonostante sia la donna italiana più geniale del 900. E dire che venne anche candidata al Nobel per la Pace per tre anni di fila (1949- 50-51) senza mai vincerlo: ma questo è un destino comune a molti altri genii.

I nazionalisti e il Tigray: sfida allo Stato “accentratore”

Per il premier etiope Abiy Ahmed non c’è motivo di preoccuparsi. Agli osservatori internazionali, come le Nazioni Unite e l’Unione africana, allarmati nel vedere il secondo paese più popoloso d’Africa sprofondare nella guerra civile, il capo del governo ha ripetuto: l’offensiva militare nella regione del Tigray in corso dal 4 novembre mira solo a “ripristinare lo stato di diritto”. Si tratterebbe cioè di una banale operazione per ristabilire l’ordine nel faccia a faccia con le autorità regionali ribelli? Non è esattamente l’atmosfera che si respirava nei giorni scorsi a Gondar, città della regione dell’Amhara, a circa 200 km dal luogo degli scontri, da dove molti soldati e miliziani partono per andare a combattere contro le truppe del Tigray.

Un’atmosfera di guerra. Una “guerra all’antica, con conquiste territoriali, miliziani inviati al fronte e discorsi di odio”, osserva il sociologo Mehdi Labzaé, ricercatore al Centro francese per gli studi etiopi, presente sul posto quando sono scoppiate le ostilità. In città, racconta, sono stati montati dei tendoni per invitare le persone a donare il sangue. Si legge: “Il tuo sangue per i nostri eroi”.

I miliziani raccolgono denaro e cibo per i soldati nelle strade o tramite il porta a porta. Sulla strada per il fronte, il sociologo si è imbattuto in “camion pieni di uomini che andavano a combattere”. Nella direzione opposta, ha incrociato ambulanze e militari di ritorno in città che avevano “perso dei fratelli” e diverse “cerimonie a lutto” nella zona più vicina al fronte. Di lutti ce ne sono già stati tanti: a combattere contro i secessionisti del Fronte di liberazione popolare del Tigray (Flpt) non sono stati inviati solo militari dell’esercito federale (fedeli al primo ministro Abiy Ahmed), ma anche, accalcate nei camion diretti a nord, le “forze speciali” della regione dell’Amhara vicino al Tigray, i “fanno”, gli ausiliari volontari dell’esercito regolare, e i miliziani del “qebele” (“villaggio”), incaricati di garantire l’ordine a livello locale. Gli effettivi dell’esercito federale etiope sono “stimati tra 100 mila e 120 mila uomini”, contro i “250 mila uomini del Flpt”, sottolinea il ricercatore René Lefort, specialista dell’Etiopia. Almeno la metà degli effettivi federali sono riuniti nel “Comando Nord”, che si trova nel Tigray, il cui controllo, dal 4 novembre scorso, è rivendicato di volta in volta dall’una o dall’altra parte. Il taglio della rete telefonica e di Internet dall’inizio dell’offensiva non permette di stilare un bilancio esatto del numero delle vittime. Il sociologo Mehdi Labzaé, che il 9 novembre ha potuto raggiungere Dansha, nel Tigray, ritiene che i primi scontri nella città abbiano causato “diverse centinaia di morti”. L’esercito federale non ha sepolto tutti i corpi per dimostrare il “coraggio delle sue forze”.

Come si è arrivati a questo punto? Come è possibile che il giovane primo ministro Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019 per i suoi sforzi di riconciliazione con l’Eritrea, lodato per la sua apertura politica e i progressi in materia di libertà di stampa, si sia trasformato in capo di guerra? L’entrata in guerra dell’esercito federale è il risultato di un’escalation di tensioni tra Abiy Ahmed e i dirigenti del Flpt. Due i motivi principali. In primo luogo, le lotte interne alla coalizione al potere dal 1991, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf), in cui il Flpt ha giocato un ruolo di primo piano fino a quando Abiy Ahmed ha preso il potere nell’aprile 2018. Ma soprattutto, il primo ministro e le autorità del Tigray sono in profondo disaccordo ideologico sulla forma da dare allo Stato etiope, sul grado di autonomia da concedere alle regioni e sul principio dell’etnia come criterio per la rappresentanza politica.

“Il problema è che la decolonizzazione dell’impero etiope non è mai stata completata – sostiene René Lefort –. Il sistema del “federalismo etnico”, che doveva essere una soluzione equilibrata per completare la decolonizzazione, è stato distorto dall’ex primo ministro Meles Zenawi a favore del Tigray. La posta in gioco oggi è la costruzione del potere sulle rovine di questo impero”. In questa battaglia, Abiy Ahmed e il Flpt incarnano due tendenze radicalmente opposte. “Abiy Ahmed è un unitarista, sostenitore di uno Stato forte e centralizzato – riassume Lefort –. Il Tpfl invece difende l’idea di stati regionali forti e di un capitale debole”. Ne sono seguite una serie a catena di provocazioni. A inizio ottobre, il governo federale ha sospeso i suoi aiuti finanziari al Tigray, una somma tra 200 e 250 milioni di euro, secondo lo storico Paulos Asfaha, ricercatore all’università di Ginevra, specialista del’Etiopia contemporanea.

Un mese prima, la regione ribelle aveva organizzato delle elezioni contro la volontà di Addis Abeba. Il governo federale aveva deciso di rinviare le elezioni generali previste per agosto a causa della pandemia di Covid-19, un rinvio interpretato dagli avversari, comprese le autorità del Tigray, come un comodo pretesto per restare al potere. L’esito militare di questa escalation è stata comunque una sorpresa per molti. Paulos Asfaha ha notato durante i suoi soggiorni nel Tigray nel 2018 e nel 2019 che sempre più contadini venivano armati dalle autorità regionali. “Ma quando la tensione è salita – ha spiegato –, sembrava che queste milizie fossero state mobilitate per una dichiarazione unilaterale di indipendenza, non per la guerra”. Ufficialmente il primo ministro ha inviato le truppe in risposta all’attacco di basi militari federali da parte delle forze del Tigray, che invece negano. Indipendentemente da chi ha aperto il fuoco per primo, una cosa è certa: questa guerra non è solo il riflesso di gravi dissensi nelle élite politiche etiopi. Essa è stata accolta con favore anche da parte degli abitanti delle regioni interessate, che la vedono come un’opportunità per ottenere giustizia. Per i gruppi nazionalisti dell’Amhara (regione a sud del Tigray), il conflitto è l’occasione per reclamare i distretti di Wolqayt e Tsegedé annessi alla regione del Tigray nel 1991, ma che loro considerano “storicamente” appartenenti all’Amhara. “Ci sono categorie della popolazione felici di fare la guerra – spiega lo storico Paulos Asfaha –. Ciò può essere spiegato per il modo in cui l’Etiopia è divisa a livello amministrativo: diverse “nazioni-etnie” si sono sentite lese, in particolare gli Amhara, a causa della divisione delle nuove province alla fine del regime di Mengistu Haïle Mariam nel 1991. Dei territori che consideravano propri – aggiunge lo storico – furono attribuiti ad altre regioni. La guerra, in questo contesto, è un modo per vendicare questo crimine. In ogni caso, è simbolicamente centrale per la mobilitazione”. Il sostegno popolare è una realtà anche nel Tigray, secondo l’analisi pubblicata il 5 novembre dall’International Crisis Group (Icg). “Le autorità regionali sembrano beneficiare del sostegno importante di circa 6 milioni di abitanti del Tigray”, scrive l’Ong specializzata nell’analisi dei conflitti armati, il che suggerisce che “la guerra potrebbe essere lunga e sanguinosa”.

Anche se le truppe federali riuscissero rapidamente a prendere il sopravvento, grazie in particolare alla loro forza aerea, come promesso da Abiy Ahmed, ciò non implicherebbe necessariamente un ritorno alla pace. Innanzi tutto perché la geografia regionale non è favorevole alle forze filogovernative. “Il Tigray è una regione molto montuosa e i suoi abitanti sono abituati alla guerriglia: anche se domani tutte le città venissero “liberate”, sacche di resistenza potrebbero durare per anni”, osserva Paulos Asfaha. In secondo luogo perché le controversie all’origine della crisi non si risolveranno in un batter d’occhio. “Forse la guerra durerà formalmente solo una settimana – osserva lo storico –, ma il processo di riconciliazione, data l’entità delle controversie, sarà molto lungo”.

Traduzione di Luana De Micco

Rieccoli. Tra i progetti ferroviari del ministero c’è il Roma-Pescara, l’ennesimo inutile e costoso Tav

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato due articoli molto critici sull’utilità e l’urgenza di due grandi opere ferroviarie ad alta velocità (o meglio “Alta Capacità”), una al Sud (la Napoli-Bari) e una al nord (la Fortezza-Verona), che in tutto costeranno ai contribuenti non meno di sedici miliardi. Come sempre capita in questi casi, nessuno ha fiatato portando contro-argomentazioni di sorta. Qualsiasi investimento va bene, di questi tempi. Tanto a pagare e la collettività (magari anche con i soldi provenienti dal Recovery fund)

La politica e i fan della spesa in questo genere di grandi opere plaudono, ma non hanno di che festeggiare: queste infrastrutture sono ad altissima intensità di capitale, occupano poca gente (forse di più in Cina: le talpe per scavare i tunnel sono spesso fatte lì). Effetti anticiclici, dati i tempi di costruzione, zero.

Il tutto è poi condito con una clamorosa fake-news: “I soldi ci sono”. Quanti? Si fa a chi le spara più grosse, si varia dai 130 a 300 miliardi. Ovviamente sono solo importi approvati dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), che approva tutto. Approvati tra l’altro quando le prospettive di crescita del traffico erano ben più favorevoli che ora.

Adesso però è arrivato il terzo annuncio-bomba: si fa una linea nuova tra Rom e Pescara. Secondo il documento “Italia Veloce” del Ministero è una linea AV, e i costi (a preventivo), vicino ai 7 miliardi, confermano. È previsto un servizio fantastico, un treno ogni mezz’ora! (48 treni/giorno cioè meno di quanti potrebbero transitare su una linea a semplice binario). La tratta sottrarrà anche traffico alla futura Napoli-Bari, probabilmente già poco affollata, ma non importa.

Poi le ferrovie sono utili all’ambiente, no? No! Con questi livelli di traffico, lo danneggiano. L’ordine di grandezza del traffico per mandare in pari una linea nuova dal punto di vista delle emissioni di CO2 “di cantiere”, cioè perché queste emissioni siano compensate dai risparmi per il traffico che sottrae ad altri modi di trasporto più inquinanti, è di 60 treni pieni al giorno. Ma solo se una buona parte del traffico è sottratta all’aereo, se no ce ne vogliono di più.

Non parliamo poi delle famigerate e inutili analisi costi-benefici: con questi numeri, sarebbe un massacro (ma tanto non si fanno più). Rimangono gli aspetti finanziari: cioè quanto pagherebbero i non numerosi utenti per l’investimento, tema rovente adesso per la questione Autostrade, dove gli utenti rischiano di pagare molto caro, per far tornare i conti della vendita per i Benetton. Nessuna paura, qui gli utenti posson star tranquilli: pagano tutto i contribuenti (anche perché altrimenti il traffico da modesto diventerebbe nullo).

Per concludere: con le opere ferroviarie il temuto “assalto alla diligenza” ai soldi del “Recovery Fund” è già partito alla grande, addirittura prima che arrivi la diligenza.

 

Cosa resterà dell’economia di guerra dell’era Covid-19

Vari capi di Stato hanno dichiarato di “essere in guerra” durante la pandemia. Linguaggio e pratiche richiamano lo scenario bellico: zone rosse, coprifuoco, lockdown, infermieri “in trincea”, commissari, resilienza. Donald Trump ha invocato il Defence Production Act, adottato durante la guerra di Corea, per indurre General Motors a produrre ventilatori per le terapia intensive. Bombardati da bollettini sull’avanzata del nemico invisibile, i cittadini europei si sentono assediati e impauriti. Per mettere le cose nella giusta prospettiva tornano utili paragoni con quel che di buono ci hanno lasciato le “economie di guerra” del Novecento.

Governi più grandi. All’inizio della Prima guerra mondiale il governo britannico consumava l’8% del Pil, verso la fine il 40. Dopo la Seconda guerra mondiale, sia per finanziare la ricostruzione che per sostenere le popolazioni, i debiti pubblici europei esplosero. In Germania raggiunse il 200%, in Francia il 250, in Gran Bretagna più del 300%. Anche oggi la necessità di affrontare la crisi-Covid ha fatto lievitare l’indebitamento, mentre il deficit complessivo dei Paesi europei ha raggiunto quasi 1.000 miliardi. Il capo economista della Banca mondiale ha detto: “Prima ti occupi di combattere la guerra, poi ti preoccupi di come finanziarla”. Dopo il secondo conflitto mondiale questi debiti vennero ridotti con aumento della capacità fiscale degli Stati (legata alla crescita), inflazione, rinegoziazioni e cancellazioni del debito, nonché con l’introduzione di fiscalità molto progressive che in Gran Bretagna arrivavano all’89% per i più ricchi. Oggi, come allora, si pone il problema di contenere l’accumulo di debito pubblico evitando il ritorno a politiche di austerità e con strumenti fiscali per promuovere società meno diseguali.

Riconversione. Durante entrambi i conflitti molte produzioni furono riconvertite al servizio dello sforzo bellico: Renault passò dalle autovetture ai camion da guerra. Nel secondo dopoguerra, gli europei non avrebbero tollerato speculazioni sulle loro spalle. Il risultato fu che in molti Paesi furono spazzati via con nazionalizzazioni gli oligopoli privati che bloccavano crescita e investimenti nei settori strategici, dall’energia ai trasporti. Con la crisi Covid, molte aziende hanno ricevuto finanziamenti pubblici, dalla Fiat con garanzie statali per 6,3 miliardi, alla tedesca BioNTEch che con Pfizer sta sviluppando il vaccino. Il problema, come ricorda Mariana Mazzuccato, è se basta che lo Stato intervenga nella fase di rischio non avendo poi il dovuto peso, magari subentrando nella proprietà e facendo partecipare i cittadini ai dividendi, quando questi investimenti hanno successo.

Ricostruzione. Lo European Recovery Program (meglio conosciuto come Piano Marshall) durò dal 1948 al 1951 e sborsò aiuti statunitensi a fondo perduto pari a circa il 2 per cento del Pil dei Paesi riceventi. Il Recovery and Resilience Facility (il cuore del Next Generation EU) ne prevede 312,5 miliardi, pari a circa lo 0,3% del Pil dell’Unione da spendersi entro il 2024. Il Piano Marshall aveva molti vincoli politici, principalmente la lotta al comunismo internazionale. Anche il ben più timido NGEU arriva con una minaccia del ritorno del Patto di stabilità e con vincoli all’intervento statale che rischiano di bloccare una rapida transizione dalle fonti fossili.

Il lavoro. Le mobilitazioni di massa e lo sforzo bellico accrebbero il potere delle organizzazioni dei lavoratori. Non a caso la prima organizzazione internazionale vera e propria fu l’Organizzazione internazionale del lavoro creata nel 1919, appena dopo la Grande guerra. Questi movimenti giocarono un ruolo propulsivo sia nelle nazionalizzazioni europee del secondo dopoguerra che nella creazione delle “economie miste”, così come nel sostenere il modello statunitense di alti salari. Durante la crisi Covid assistiamo a una “mobilitazione inversa” che limita i settori non essenziali: al colmo della pandemia, gli Usa spendevano il 6% del Pil in supporto ai disoccupati. Si pone dunque il problema mobilitare i settori più svantaggiati con consistenti aumenti di occupazione pubblica in scuole, sanità e cura del territorio. Allo stesso tempo, in un momento di difficoltà delle organizzazioni sindacali, c’è la necessità di sostenere i redditi con salari minimi e partecipazione nei luoghi di lavoro. Si parla di “resilienza” e di “green deal” ma i fondi dell’Ue (così quelli nazionali) si muovono ancora nell’orizzonte della conservazione piuttosto in quello di una mobilitazione delle energie, dell’innovazione e della coesione sociale, di dimensioni adatte ad una sfida di carattere bellico.

 

“It’s the economy”: il ceto medio bianco ha licenziato Trump

Le elezioni americane hanno sparigliato le carte in tavola. Interpretarle con un approccio ideologico rischia di essere fuorviante oggi più che mai. È necessario guardare e incrociare i numeri con attenzione. Gli exit poll di Edison Research (usati dalle maggiori testate statunitensi) sembrano dirci che l’identity politics non funziona più. O meglio, pensare che a una certa appartenenza etnica sia naturalmente collegata una certa mentalità politica (conservatrice per i bianchi, progressista per gli altri) non ci spiega perché Trump abbia migliorato i suoi risultati proprio fra le minoranze, passando dal 21% al 26% dei consensi.

L’effetto-Obama aveva illuso molti commentatori (e politici) che i non-bianchi fossero ormai un bacino elettorale stabile e sicuro per i democratici. Non è così. Quello che è successo con il voto dei latinos lo mostra plasticamente. Nella contea di Miami-Dade (Florida), Trump è passato dal 34,1% al 46% e ha ridotto il suo margine di svantaggio verso il candidato democratico da 29 punti a poco più di 7. Se allarghiamo lo sguardo all’intera Florida (che si è tinta del rosso repubblicano), il supporto di Trump fra i latinos è balzato dal 35% al 47%. Ora voliamo in Texas, dove nel 2016 solo il 34% degli ispanici era trumpiano. Oggi lo è il 41%. Nella valle del Rio Grande, al confine con il Messico, Biden ha vinto in alcune contee con un margine molto più ristretto di quanto fece la Clinton. Allo stesso tempo, però, in Arizona non è successo niente di simile. Gli ispanici, infatti, sono restati fedeli ai democratici. Anzi, in questo Stato storicamente repubblicano i dem hanno guadagnato terreno, vincendo anche la battaglia per il Senato.

Insomma, non tutti gli stati funzionano allo stesso modo. Ma si può dire anche che non esiste un “voto latino” omogeneo. Non è detto che gli ispanici abbiano caratteristiche di voto prevedibili in base alla loro appartenenza etnica.

L’appeal populista-conservatore di Trump ha fatto presa sulla religiosità di molti latinos (il 52% degli ispanici anti-aborto lo ha votato) e sulle preoccupazioni di chi, ormai integrato, teme l’immigrazione di massa. E non è finita qui. A livello aggregato il 32% del voto latino è andato a Trump (era il 28% nel 2016).

Se scorporiamo gli elettori per reddito, hanno votato Biden il 64% di chi guadagna meno di 50mila dollari e il 74% di chi guadagna fra 50mila e 100mila dollari. Chi guadagna di più ha votato Trump con una maggioranza del 61%. I latinos ricchi hanno interessi diversi da quelli dei latinos poveri. Perciò, votano diversamente.

Anche le altre minoranze votano repubblicano più di prima. La quota di trumpiani fra gli afroamericani è passata dall’8% al 12%, fra gli asiatici dal 27% al 34%, fra gli altri dal 36% al 41%. La quota di LGBT che ha votato Trump è quasi raddoppiata: dal 14% del 2016 al 27% del 2020. E fra i bianchi? Nella maggioranza etnica del Paese Trump ha visto ridursi il suo vantaggio da 20% a 17%. Qualcosa è cambiato rispetto a quattro anni fa, quando il magnate newyorkese era stato votato in massa dai left-behind del Midwest: bianchi, non laureati, a medio-basso reddito.

Oggi quel plebiscito non c’è stato. Mentre a livello nazionale il vantaggio di Trump fra i bianchi non laureati è stato del 37%, nel Midwest si è fermato al 30%. Sembra che la fascia demo-geografica su cui Trump aveva costruito la sua vittoria del 2016 si sia in parte disaffezionata. Gli effetti di ciò si sono visti. La marea rossa che aveva investito quegli Stati chiave nel 2016 si è ritirata. Con qualche eccezione: l’Ohio, ad esempio, è più trumpiano oggi di quattro anni fa.

A livello nazionale, il sostanziale vantaggio di Trump fra i bianchi non laureati è solo leggermente calato, mentre i rapporti di forza si sono invertiti per i bianchi laureati. Questi, infatti, quattro anni fa avevano scelto The Donald con un leggero scarto. A questa tornata, invece, hanno preferito Biden.

Riassumendo: Trump ha raccolto più consensi fra le minoranze (soprattutto nelle fasce più abbienti) e ha perso terreno nel Midwest. Un occhio attento sa riconoscere una tendenza sottostante: la rilevanza dell’appartenenza di classe.

Il margine di svantaggio di Trump è rimasto più o meno stabile fra le classi popolari. Fra la piccola e la media borghesia, fascia di elettorato che lo aveva trascinato alla vittoria nel 2016, il suo consenso è crollato: Trump è passato da un margine di +3% sul candidato democratico a uno svantaggio pari a -15%. Ha guadagnato invece nella fascia più abbiente del ceto medio e nell’alta borghesia (da +1% a +17%) e fra i super ricchi (da -0,8% a un pareggio).

Le politiche economiche dell’amministrazione Trump hanno giocato un ruolo nello spostare gli equilibri. Un’impressione confermata da un dato: la stragrande maggioranza di chi ritiene che la condizione economica della propria famiglia e dell’economia in generale siano migliorate negli ultimi quattro anni ha votato Trump. Chi esprime sull’economia un giudizio negativo ha invece scelto Biden con percentuali altrettanto bulgare.

Nel 2016 gli emarginati avevano creduto alle promesse di Trump. Ma chi ha guadagnato in termini materiali dalle sue politiche economiche sono stati soprattutto i benestanti. E questo ha pesato nelle urne.

Nei Paesi più poveri lo spettro delle cure “lacrime e sangue”

La notizia dell’imminente arrivo di un vaccino efficace contro il Covid-19 ha scosso i mercati. Con una possibilità concreta di vaccinazione su larga scala ci si proietta su quale possa essere il mondo del post pandemia. Il nuovo mondo dovrà affrontare la gestione dell’eredità lasciata dalle imponenti misure fiscali e monetarie messe in atto per attenuare gli effetti della crisi. Pur essendo un problema comune a tutti gli Stati, non può aver soluzioni univoche e indistinte. I Paesi emergenti e in via di sviluppo avranno gli strascichi maggiori.

Stando ai dati ai dati del Fondo monetario internazionale (Fmi) queste economie, escludendo il caso atipico della Cina, avranno alla fine del 2021 una crescita inferiore di circa otto punti rispetto a quella stimata prima della pandemia. Una perdita quasi doppia rispetto a quella che avranno le economie sviluppate. Lo shock che gran parte di questi Paesi ha dovuto affrontare non aveva precedenti, un mix esplosivo fatto di caduta della domanda interna associata ad un calo di quella estera, crollo dei prezzi del petrolio, azzeramento dei flussi turistici e una cospicua riduzione delle rimesse degli emigrati. Le istituzioni internazionali sono intervenute con prestiti d’emergenza per attenuare gli effetti di questo shock facendo in modo che gli Stati più in difficoltà potessero destinare parte delle risorse al contenimento degli effetti economici della pandemia. Dal mese di marzo il Fondo monetario internazionale ha erogato circa 280 miliardi di dollari di prestiti ai Paesi emergenti. Nel complesso, se si esclude la Cina, il debito pubblico nelle economie emergenti e in via di sviluppo aumenterà quest’anno di 680 miliardi di dollari, il 10% del loro Pil, ed il prossimo anno di circa 1000 miliardi, arrivando a circa 13 mila miliardi di dollari. Il modo con cui ridurre gradualmente le misure di supporto all’economia e allo stesso tempo riuscire a gestire e rinnovare le scadenze del debito accumulato sarà la sfida dei prossimi anni. Ridurre troppo presto il supporto fiscale, prima che la domanda proveniente dall’estero abbia ripreso vigore, potrebbe far deragliare la crescita e compromettere in molti casi la sostenibilità dei debiti. Ma anche mantenere troppo a lungo le misure espansive potrebbe portare allo stesso risultato, causando un peggioramento del saldo dei conti con l’estero, quindi in una perdita di fiducia nella moneta e conseguente fuga di capitali. Per le economie sviluppate ormai è opinion condivisa che il riassorbimento dei debiti pubblici non possa che passare da un lungo periodo di politica monetaria e fiscale espansiva, ma per quelle emergenti, appese alla fiducia dei mercati sempre pronti a colpire, il rischio è che si passi dai tradizionali programmi di aggiustamento macroeconomico, le famose “riforme”, politiche lacrime e sangue per comprimere la domanda interna e riportare in pareggio i conti con l’estero (l’Italia le ha sperimentate con il governo Monti).

In alcuni casi il default non potrà essere evitato comunque. Argentina, Ecuador, Belize e Libano hanno dovuto dichiarare bancarotta quest’anno. Lo Zambia ha annunciato poche settimane fa di sospendere il pagamento degli interessi su alcune emissioni. Secondo Goldman Sachs anche Iraq, Sri Lanka, Angola e Gabon sono a un passo dal default. Anche Stati di dimensioni ben più grandi come Sud Africa e Turchia stanno flirtando con una situazione di dissesto. In altri casi la ristrutturazione, anche se non conclamata, potrebbe esser necessaria per ricevere il programma di supporto finanziario del Fondo monetario. L’impostazione del Fmi è abbastanza chiara e ripetuta dal capo economista Gita Gopinath: “Dove il debito è insostenibile deve essere ristrutturato il prima possibile per liberare fondi necessari ad affrontare la crisi”.

Ad attenuare il rischio che l’accumulo di questa montagna di debito porti ad un fallimento incontrollato di numerosi Stati emergenti ci sono però le condizioni espansive della politica monetaria dei Paesi sviluppati. I tassi nulli o negativi nei Paesi più evoluti si traducono nella possibilità anche per i Paesi emergenti di mantenere tassi relativamente bassi sul debito e ridurne il peso degli interessi. Inoltre, i nuovi programmi di quantitave easing delle principali banche centrali hanno riattivato i flussi finanziari internazionali ed evitato il rischio, molto concreto a marzo/aprile, che i Paesi più deboli venissero prosciugati da fughe incontrollate di capitali. Nessuno sa quanto a lungo continueranno queste condizioni finanziarie, ma è ragionevole ipotizzare la normalizzazione non possa non tener conto dei riflessi che la domanda dei Paesi emergenti (che valgono il 40% al Pil mondiale) ha sulle economie sviluppate.

Evitare una brusca transizione verso il mondo del post-pandemia è nell’interesse di tutti.