L’alto debito è qui per restare: come conviverci (specie in Ue)

Fra gli articoli di fede dell’economia mainstream, la repulsione per il debito pubblico era una delle più incrollabili. La crisi da Covid però ha fatto cambiare idea anche ai più conservatori. L’alto debito pubblico da “problema” è diventato “male minore” e oggi è una realtà con cui convivere: il suo aumento dovunque nel mondo è qualcosa da cui non si tornerà indietro.

La combinazione di maggiori spese, minori entrate e caduta dell’attività economica ha portato ad aumenti vertiginosi del rapporto debito/Pil. In Italia eravamo al 135% nel 2019: l’Ocse prevede che con la seconda ondata si salirà al 170%. La Germania, che negli anni scorsi s’era portata sotto la soglia di Maastricht del 60%, si troverà alla fine dell’anno all’83%. In Francia il balzo è impressionante: dal 98% al 122%. E lo è ancora di più in Spagna: dal 95% al 130%. Negli Usa il debito pubblico lordo (federale e locale) crescerà dal 109% al 132%. In Giappone, dove l’indebitamento pubblico ha smesso da tempo di essere un tabù, si salirà dal 225% al 248%.

Forse nel 2021 il rapporto debito/Pil si stabilizzerà in molti Paesi, ma di certo non tornerà ai livelli pre-crisi. Accantonata l’austerità, si può pensare a come far crescere l’economia in modo sano. Ma non sarà un lavoro facile. Tradotto: se sicuramente non si tornerà indietro, le idee sono meno chiare su come andare avanti.

Cancellazione. Come convivere con alti livelli di debito pubblico? La via più facile sembra la cancellazione del debito emesso durante la crisi: dato che le banche centrali ne hanno acquistato una parte notevole, potrebbero teoricamente eliminarlo dai loro libri contabili con un semplice tratto di penna. A ottobre, tuttavia, la presidente Bce Christine Lagarde ha escluso questa possibilità per l’Europa: sarebbe una violazione dei trattati, sostiene. Il problema, però, non è aggirare i trattati con interpretazioni “non convenzionali” (qualcosa che Mario Draghi ha fatto egregiamente in passato): per fronteggiare la crisi probabilmente il debito salirà ancora e cancellare quello emesso finora significherebbe solo calciare la palla più in là.

Perpetuities. C’è chi propone in alternativa l’emissione di titoli a lunga scadenza (30 o 50 anni) o addirittura perpetuities, cioè senza scadenza e a cedola fissa. Ne ha parlato John Cochrane della Stanford University e in Italia Francesco Giavazzi e Guido Tabellini: per i due prof della Bocconi i titoli perpetui dovrebbero essere garantiti dalla capacità comune degli Stati dell’Eurozona e supportati dalla Bce. L’obiettivo? Evitare una nuova crisi dei debiti sovrani dagli esiti imprevedibili. Ma non è scontato riuscire a piazzare le perpetuities sul mercato, soprattutto se devono farlo i singoli Stati.

Eurobond. Altri propongono l’emissione di veri e propri eurobond emessi da un ministero del Tesoro Ue. Fra chi ha parlato di questa possibilità c’è anche il tedesco Jeromin Zettelmeyer del Peterson Institute. Decine di paper e articoli sono stati scritti a riguardo. La questione principale, tuttavia, non è tecnica. Gli eurobond presuppongono una mutualizzazione sostanziale del debito, da discutere politicamente. Se qualcosa del genere è stato fatto con i fondi Sure per la cassa integrazione, per rendere gli eurobond una soluzione stabile è necessario un radicale cambiamento delle posizioni di molti governi e ampie fasce dell’elettorato. Improbabile, per ora.

Per aggirare questo dilemma, alcuni professori italiani (Amato, Belloni, Falbo e Gobbi) hanno delineato il progetto di un’agenzia del debito europea, un’idea già abbozzata da Juncker e Tremonti. Secondo questi studiosi questo organismo dovrebbe finanziare gli Stati dell’Eurozona con prestiti perpetui, eliminando il rischio di liquidità e considerando solo il rischio fondamentale di ogni Stato. L’agenzia del debito troverebbe sui mercati i soldi da prestare emettendo bond comuni. In questo modo si eviterebbero sia spread ingiustificatamente alti, sia una mutualizzazione politicamente difficile. E la Bce potrebbe acquistare i titoli comuni senza nessun ostacolo legale.

Tuttavia, applicare questa proposta significherebbe ridefinire radicalmente i rapporti fra istituzioni europee e Stati nazionali. Si colpirebbe direttamente il nodo irrisolto dell’euro: aver pensato che una competizione per l’accesso ai mercati del debito avrebbe portato maggiore efficienza. Non ha funzionato proprio così: la competizione per piazzare titoli di Stato ha aggravato le divergenze fra le economie nazionali e creato pericolose spaccature.

Rollover. Finora ci siamo concentrati sull’Europa, proprio perché qui il problema del debito pubblico è più spinoso. In ogni caso, in tutto il mondo la probabile tendenza nel prossimo futuro sarà un rollover continuo del debito da parte della banca centrale. Che vuol dire? Le banche centrali a scadenza rinnoverebbero i titoli, girando gli interessi al Tesoro: sarebbe come se quella parte del debito non esistesse (quindi cancellarlo ha poco senso). Anche in questo caso, però, il problema in Europa resterebbe: rendere strutturale il programma di acquisti della Bce senza cambiare i trattati è una scelta esposta a rischi legali (vedi corte costituzionale tedesca) e a ricatti politici, come la recente minaccia di ridurre gli acquisti per chi non accetta i prestiti Ue.

Buona parrucca a tutti. Era un ragno saggio travestito da riporto: calvizie, ogni rimedio vale

Oggi il mio amico Gennaro mi ha aperto la porta di casa con un parrucchino in testa, anzi un ragno in testa. Fino a ieri era calvo, non aveva un pelo, i suoi bulbi erano a riposo, ma era un uomo con una sua dignità. Se sei pelato, sei pelato, perché devi avere il complesso? Anche Yul Brynner era calvo, ma era un divo di Hollywood.

Con disinvoltura mi ha fatto entrare in casa, ci siamo accomodati in salotto e mi ha offerto un bel caffè. Ma come, ti conosco da anni, fino a ieri mi aprivi la porta senza capelli e oggi fai finta di nulla?

Così all’improvviso, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come fosse un prodigio della natura, un miracolato. Il tutto sorseggiando il caffè e disquisendo del tempo. Il posticcio si esprimeva molto più di Gennaro, ne aveva invaso la personalità. Si notava la differenza di colore tra i capelli veri e quelli falsi che viravano di tonalità e facevano un tutt’uno col como’. Ho cercato di portare il discorso su un tema che si avvicinasse al suo problema: la forma condiziona il contenuto? L’estetica ha una sua importanza? Ma vedevo che lui non raccoglieva la provocazione e cambiava rapidamente argomento: “La Juventus quest’anno è più forte dell’anno scorso, però anche il Milan non scherza, la Roma poi lasciamo perdere…”.

Ed ecco che all’improvviso il ragno che aveva in testa ha iniziato ad animarsi e a parlarmi mentre lui continuava a sorseggiare il suo caffè: “ Vedi…”, mi ha detto il ragno, “… questo signore che mi porto sotto, ora si sente completo, ha recuperato autostima grazie a me. Lo so, ti fa ridere, ma spesso dietro la farsa si nasconde un dramma”.

In effetti il povero ragno non aveva tutti i torti, pensa stare in testa a Gennaro 24 ore su 24: il vero dramma era il suo, e pensare che c’è gente che soffre di aracnofobia.

 

America oggi. Violenza, razzismo, poca memoria. E Trump occupa la Casa Bianca: il Congresso tace

Alessandro Portelli è uno scrittore che ha la capacità di vedere dettagli che sfuggono in un insieme di tempestose nuvole di storia che predicono uragano. Ha scritto (forse in un giorno) 200 pagine di eventi che accadono e stanno ancora accadendo per le strade, nei ghetti e nei palazzi americani del potere, nel resoconto dei media. L’Editore Donzelli ne ha fatto un libro che resterà, dopo che saremo stati lasciati, disorientati e storditi, nei rifiuti della tempesta. Il libro è Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari.

Sono pagine scritte come appunti immediati e non sono, come sarebbe facile ai tempi di Trump, un atto d’accusa; piuttosto di attenzione e di memoria. Fatti veri, accaduti all’istante della narrazione o tratti dai diversi archivi della vita americana, accostati con istinto investigativo in modo che la narrazione sia a maglie strette, senza variazioni e divagazioni. Se qualcuno ricorda quando il Tg serale dell’unica rete Rai iniziava con la frase “Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando”, adesso legge la voce di Portelli che annuncia: “Qui è l’Italia, da dove Portelli vi parla dell’America”; è ciò che accade nel libro. Portelli è un americanista (storia, politica, costumi, persone) piantato nella cultura italiana di oggi (non un tempo di festa) e sa quanto il fascismo conti, per interpretare il presente nel mondo, dunque in America. Portelli vede l’insieme (il razzismo feroce e commerciale) e la guerra di secessione rimasta film, romanzo, tradizione, reminiscenza scolastica; che ha dissolto, per tanti bravi americani, l’orrore della violenza intorno agli schiavi. È rimasta la realtà, la convenienza, il concetto e il lungo aggirarsi a mosca cieca per mettere in qualche punto definitivo (ma senza successo) i diritti civili e i diritti umani.

Il razzismo brulica, il mormorio spregevole (come quello del quotidiano italiano Libero che chiama, con sprezzo fascista “mulatta” la nuova vice presidente degli Stati Uniti Kamala Harris) si fa strada. E il corpo di Donald Trump, penosamente inadatto alla vita pubblica, spacca la scena e apre la breccia per il ritorno in forze di un vero e solido fascismo che non solo non ha pudore per ciò che è e per il male che porta, ma ne fa un vanto e un tratto di superiorità che ti garantisce il potere anche in caso di sconfitta elettorale. Ecco, il libro è tutto questo: suggerisce come l’America, da cui quelli come me (che ci hanno vissuto una vita) si sempre aspettati un salvataggio, adesso (tranne i protagonisti di Il ginocchio sul collo) ha un popolo silenzioso e un Congresso (il Parlamento) che non ha niente da dire sull’occupazione della Casa Bianca, sulla denuncia di una “grande truffa elettorale” che ha spostato, in uno strano miracolo, milioni di voti, su un voto a valanga che non produce conseguenze. E gli altri governi del mondo?

Portelli ha fatto le domande. E non sembra che avremo, in tempi brevi e civili, coerenti risposte.

 

Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo

Alessandro Portelli

Pagine: 160

Prezzo: 17

Editore: Donzelli

Arabia Saudita. Bin Salman lava i panni sporchi con la Formula 1

L’Arabia Saudita ha annunciato che ospiterà per la prima volta un Gran Premio di Formula 1 il prossimo anno, con una gara notturna nella città di Jeddah sul Mar Rosso. “Ospitare questo evento fa parte del progetto ‘Vision 2030’, con il supporto della nostra leadership e in particolare di Sua Altezza il Principe ereditario”, ha annunciato il ministro dello sport, il principe Abdulaziz bin Turki. Certo è che al palazzo reale stanno puntando molto sullo sport per lavare la brutta immagine del reame negli ultimi tempi. I difensori dei diritti umani l’hanno subito battezzato “sport wash”, lavaggio sportivo. Il regno ospita già il Dakar Rally, una maratona di 12 giorni attraverso il deserto arabo e la serie di Formula E completamente elettrica, oltre a una serie di eventi di boxe, golf e tennis. L’anno scorso ha anche ospitato le finali della Supercoppa italiana e spagnola, con le superstar Cristiano Ronaldo e Lionel Messi. E insieme al suo rivale nel Golfo, il Qatar, che ospiterà i Mondiali di calcio del 2022, l’Arabia Saudita è in competizione per ospitare i Giochi asiatici del 2030. Certo il programma sportivo fa parte di una spinta per attirare più turisti, affari e investimenti internazionali, poiché il regno ultra-conservatore vuole ridurre la sua dipendenza dai proventi del petrolio. Ma con il piano generale “Vision 2030” il principe ereditario Mohammed bin Salman mira soprattutto a proiettare un’immagine più moderata e sbarazzarsi di una brutta reputazione per gli abusi dei diritti umani e per l’esportazione di un’ideologia intransigente e oscurantista. In un paese che proibisce l’alcol ed è noto per la segregazione di genere, due terzi della popolazione ha meno di 30 anni. Le voci critiche affermano che la spinta sportiva mira anche a ridurre la frustrazione pubblica per una recessione economica e l’impennata della disoccupazione giovanile. Il programma di grandi dimensioni include di tutto, dal wrestling agli eventi equestri e perfino il lancio di un campionato di calcio femminile: un cambiamento importante considerando che le donne potevano entrare negli stadi come spettatrici solo da gennaio 2018. Sembra una rivoluzione ma non lo è.

 

Novembre è il nuovo dicembre: ce la faremo a vederci per Natale?

 

Non classificati

Santa Chiara. A Pontedera, nel quadro-presepe appeso alla terrazza del Municipio e ideato dall’artista senese Jacopo Pischedda, la Madonna ha il viso di Chiara Ferragni. “È una donna intelligente che usa la sua popolarità per mandare messaggi positivi, per questo l’ho raffigurata nel ruolo della Madonna”, ha spiegato l’artista. Ma non è la prima volta che il binomio Ferragni-arte scatena polemiche. A luglio fece discutere l’accostamento di Chiara Ferragni alla Venere del Botticelli, in occasione della visita, su invito, che la blogger fece al Museo degli Uffizi. A settembre Francesco Vezzoli aveva curato il numero di Vanity Fair sulle donne italiane e il loro potere. A illustrare l’intervista alla Ferragni, un’immagine della influencer ritratta come la “Madonna con Bambino” di Giovan Battista Salvi. All’epoca il Codacons l’aveva denunciata per blasfemia. A forza di critiche e attacchi, Chiara Ferragni comincia a starci simpatica.

 

Libri sotto l’albero!. Sottoscriviamo e volentieri pubblicizziamo la campagna promossa dall’Associazione italiana editori, il cui slogan è “Pensaci subito, non fare le code. In libreria il Natale è già iniziato”.“Nella situazione di incertezza che ci circonda invitiamo gli italiani a non aspettare l’ultimo momento. Novembre è il nuovo dicembre, per usare lo slogan di una felice campagna dei librai americani, ripresa anche nel Regno Unito e in Olanda – sottolineano insieme il presidente dell’Associazione Italiana Editori Ricardo Franco Levi e quello dell’Associazione Librai Italiani, Paolo Ambrosini -. Il libro non può essere considerato alla stregua di un semplice oggetto di consumo il cui acquisto è rinviabile, ma va ritenuto un bene essenziale, come già aveva indicato il governo nei decreti di aprile”. I libri nutrono l’anima e la mente: ne abbiamo bisogno adesso più che mai. Novembre è il nuovo dicembre, ma ce la faremo a incontrare i nostri cari (non solo per scambiarci i regali)?

 

Il meglio deve ancora venire. Perché Ligabue ha deciso di intraprendere la difficile carriera della musica? Lo racconta lui stesso nel libro fotografico, realizzato insieme a Massimo Cotto, “È andata così”. Correva l’anno 1982, Franco Battiato si esibiva a Correggio, terra natale del Liga. Era il tour per il mitico “La voce del padrone” (che conteneva Bandiera bianca, Centro di gravità permanente, Cuccurucucù). Sul palco, durante il concerto, volavano reggiseni e mutandine delle fan impazzite. Al rocker capitò di ascoltare una conversazione tra due fanciulle. Che faceva più o meno così: “Quanto è bono”, “Io me lo farei qui davanti a tutti”. E fu così che il Liga decise (per fortuna!) di diventare cantante e regalarci i suoi successi. Altro che “Vita da mediano”.

 

Show must go on. E’ stata presentata venerdì l’iniziativa Scena Unita, a favore dei lavoratori dello spettacolo che ha raccolto più di di settanta adesioni e due milioni di euro in due settimane. L’iniziativa non ha solo lo scopo di assistere i lavoratori in difficoltà, ma intende anche investire su progetti per far ripartire le attività. “Non è elemosina ma un atto dovuto” ha detto Fedez, che per primo ha lanciato l’idea di un fondo di sostegno per le maestranze dello spettacolo. Alla presentazione hanno partecipato anche Gianna Nannini, Gianni Morandi, Achille Lauro, Calcutta. Ma hanno aderito anche Claudio Baglioni, Gigi D’Alessio, Coez, Brunori Sas, Carlo Verdone, Maria De Filippi, Amadeus, Fiorello, Paolo Bonolis, Sabrina Ferilli, Chiara Ferragni e Vasco Rossi. La maggior parte della cifra è stata raccolta grazie all’adesione di Prime Video (un milione di euro) e Banca Intesa (250mila euro).

 

Virus Mondiale. Il calcio italiano esulta: positivi sia i calciatori sia il ranking Fifa

Okay, nel calcio italiano (come in tutto il Paese, peraltro) spuntano sempre più tamponi di calciatori positivi ma il problema, detto spassionatamente, non si pone: quel che conta è che ad essere positivo sia il ranking Fifa. Che per chi non lo sapesse è la graduatoria stilata dalla Federazione internazionale delle Federazioni associate (Fifa, appunto) che in base ai risultati ottenuti dalle nazionali ne stabilisce il livello: più la posizione nel ranking è alta, più aumentano i vantaggi.

Per fare un esempio, quando il 7 dicembre a Zurigo verranno effettuati i sorteggi per formare i gironi di qualificazione al mondiale criminalmente organizzato in Qatar dal 21 novembre al 18 dicembre 2022, le nazionali meglio piazzate saranno inserite nelle urne come teste di serie e avranno diritto a un sorteggio più morbido rispetto alle nazioni inserite in 2ª o 3ª fascia. E insomma, anche se la pandemia-Covid sta mettendo in ginocchio l’intero mondo colpendo e decimando anche le squadre di calcio, la vera, unica, lancinante preoccupazione dei reggitori del pianeta pallone italico è: non ripetere la catastrofica esperienza dell’avvicinamento ai mondiali del 2018 quando l’Italia, fuori dal lotto delle teste di serie, capitò nel girone della Spagna (che si piazzò prima), fu costretta a giocarsi il lasciapassare per Russia 2018 ai playoff delle seconde classificate e sconfitta dalla Svezia venne esclusa dal mondiale sessant’anni dopo l’ultima e unica volta, anno 1958, guarda caso il mondiale giocato in Svezia (e vinto dal Brasile del giovanissimo Pelè).

E dunque alla fine i conti tornano. Ricordate lo stupore per l’inutilissima (ma solo all’apparenza) amichevole organizzata il 7 ottobre a Firenze tra Italia e Moldavia, finita 6-0 (sic) mentre tutt’attorno infuriava la bufera di Juventus-Napoli non disputatasi per la positività dei napoletani e i divieti sanitari? E ricordate lo sbigottimento per la straniante amichevole organizzata sempre a Firenze mercoledì scorso, 11 novembre, tra Italia ed Estonia, finita 4-0 con due gol di tale Vincenzo Grifo, 27enne centrocampista del Friburgo che nessuno, a cominciare dal presidente federale Gravina, aveva mai sentito nominare?

Ma come, si eccepiva, il Covid sta facendo vittime ovunque, tutti si preoccupano di non far circolare inutilmente le persone e invece il nostro calcio se ne fa un baffo, e non bastassero gli obbligatori impegni da ottemperare in Nations League si scapicolla per aggiungere partite a partite, Moldavia, Estonia o Burundi tutto fa brodo, esponendo i calciatori a rischi di contagio e/o infortuni totalmente inutili? Per quale motivo?

Beh, ora lo sappiamo: per il ranking. Eh sì, perché aver spezzato le reni alla Moldavia e all’Estonia (10-0 il risultato aggregato: non esattamente un’impresa) ha fatto sì che l’Italia, che un tempo affidava le sue fortune ai gol di Gigi Riva e di Gianni Rivera, di Paolo Rossi e di Roby Baggio, si facesse largo nel ranking a discapito di Olanda, Svizzera, Galles e Polonia sgraffignando quella mezza lunghezza di vantaggio che farà ora la differenza al momento dei sorteggi mondiali. Se poi fra qualche giorno dovessimo scoprire che qualche azzurro, tornato all’ovile, è risultato positivo al Covid infettando a sua volta i compagni di club, e tutto alla fine andasse a carte quarantotto, ebbene: è quel che ci meriteremmo. Viva la Figc, viva l’Italia!

 

Il sovversivo. “Lottato molto, mangiato poco”. Vita avventurosa di un comunista del ’900

Insisto. Con il lockdown le storie italiane ti arrivano direttamente in casa. Perfino quelle che profumano di ottocento. Come l’autobiografia giuntami via posta tre-quattro giorni fa e che inizia così: “Dai miei nonni materni, la storia della mia famiglia è strettamente legata alla storia del movimento operaio da quattro generazioni. Generazioni che hanno lottato molto e mangiato poco”. Scritta più di 40 anni fa. Mi sono subito domandato chi oggi potrebbe scrivere della propria famiglia la stessa cosa. Lottato molto è possibile. Mangiato poco pure. Ma le due cose insieme sono nelle storie italiane di oggi abbastanza rare. Mentre erano tante a fine ottocento, quando nacque l’io narrante di questo breve libro, Autobiografia di un sovversivo (1898-1923), Giuseppe Alberganti.

Figlio di una famiglia socialista di Stradella, provincia di Pavia, il giovane Alberganti si gettò con passione nelle lotte operaie che stavano forgiando il partito comunista. E nel partito conquistò da subito ruoli di responsabilità. Incarcerato dal Tribunale speciale, esule in Francia, combattente in Spagna, confinato a Ventotene, partigiano con nome di battaglia Cristallo, alla testa dell’insurrezione antifascista in Emilia e a Milano, segretario della Camera del lavoro di Milano e segretario provinciale milanese del Pci fino al ’58, senatore e deputato, questo rivoluzionario di cui è sfumata la memoria si avvicinò al movimento studentesco della Statale, che lo accolse come simbolo di un comunismo intransigente nei principi ma aperto ai nuovi protagonisti giovanili della scena politica. Una storia lunga, complessa.

Giuseppe Alberganti, detto “Peppino”, fu eletto presidente del Movimento lavoratori per il socialismo, nato dal movimento studentesco. Morì una notte del ’79, appena tornato a Milano da un seminario tenuto a Riccione per suggellare la fusione del suo movimento con il Partito di unità proletaria, promessa di una nuova sinistra che si sarebbe insabbiata in un pugno di anni.

L’autobiografia parla a chi abbia passione per la storia. Ed è un’inesauribile seminatrice di immagini di vita collettiva. Più di un amarcord. Il “che cosa” più del “come”. Intenerisce leggere che due suoi fratelli si chiamavano Comunardo e Umano, e una sorella Avvenire. Stupisce dolorosamente che la sua famiglia materna (Ravazzoli) abbia partecipato alla decisione di espellere dal Pci lo zio Paolo, e che votò contro solo la nonna. Si freme di indignazione nel ripassare la condizione delle mondine, nelle quali la madre di Giuseppe veniva arruolata 40 giorni all’anno. E provi comunque meraviglia e rispetto davanti a una storia così, che arriva letteralmente da un altro mondo, anche se il protagonista l’hai conosciuto nella tua giovinezza, ossia l’altro ieri.

Così si è presi da gratitudine verso chi, avendo ricevuto nelle proprie mani questa breve autobiografia, inchiodata al 1923, ha deciso comunque di consegnarla al pubblico. Non per soldi o gentili encomi, ma solo per responsabilità verso chi da quarant’anni non c’è più e quelle memorie gliele aveva pur lasciate. Perché è giusto raccontare, senza assecondare l’onda ingenerosa della storia, che scarta chi non è stato vincitore e nemmeno è caduto da eroe.

Massimo Bianchi, giornalista, allora militante poco più che ventenne a cui l’Alberganti ottantenne aveva lasciato una cartella con 68 fogli scritti con la grafia inclinata, si è fatto scrupolo di trarla fuori dal cassetto. Non perché il comunista degli anni di ferro fosse il suo verbo ma semplicemente per rispetto. Perché la solidarietà tiene insieme i bisogni, i diritti, ma anche le generazioni. Quelle che vengono prima, con il loro dovere di non trasmettere debiti, crimini e strazi ambientali; quelle che vengono dopo, con il loro dovere di serbare la memoria e il senso delle vite. Specie se sono state spese per gli altri.

 

Zona rossa. Cronaca di una giornata tipo aspettando le feste: la priorità resta il cenone

 

Vivere isolati: “Non mi manca nulla, ma ho bisogno di tutto”

Ciao Selvaggia, scrivo dalla zona rossa giusto per condividere uno stralcio di giornata tipo di questo periodo. È passata una sola delle tre settimane di isolamento previste dall’ultimo Dpcm ed io mi sento sola. Anzi, per buona parte della giornata lo sono, weekend esclusi. Fino a tre settimane fa non avevo nemmeno il tempo di farmi una doccia perché avevo appena iniziato a lavorare (e tanto!) e quando avevo la giornata libera dormivo fuori. E mi sentivo così bene… nonostante le cose non andassero alla perfezione! Ora del lavoro non ne vedo neppure l’ombra e, a parte qualche incombenza da fare in casa, le mie giornate sono piuttosto vuote. Ho ordinato un puzzle che non arriva e mia madre mi ha regalato degli ombretti che non userò perché tanto le uniche uscite concesse sono per le sessioni di corsa nel comune di residenza. Correre mi piace, solo che dopo un tot di chilometri muscoli e polmoni chiedono pietà. In televisione c’è ben poco da guardare: sempre la solita solfa trita e ritrita. Di leggere non mi va perché il mio umore è nero come il carbone e la concentrazione in questo momento se n’è andata al diavolo.

Non parlo con nessuno: vedo mia madre quando torna dal lavoro ed insieme, prima di cenare, guardiamo La casa nella prateria in televisione. Sento il mio fidanzato una cosa come quattro volte al giorno con una media di tre minuti a telefonata durante le quali mi chiede come sto, se sono tranquilla… ed io gli rispondo “sì tutto bene, sai, mi tengo occupata, ho da finire di sistemare lo studio, c’è il muro da stuccare e i mobili nuovi da montare”. Che mi tengo occupata è vero; che sono tranquilla lo è un po’ meno… diciamo che mi sforzo di esserlo il più possibile ma a volte è difficile. A volte vorrei dirgli che mi manca, che vorrei un suo abbraccio e che pur di stare insieme guarderei pure X-Factor, programma che detesto con il 99% del mio corpo. Mi manca a tal punto che durante una sessione di corsa ho desiderato ardentemente che fosse a correre con me, cosa che non mi sarei mai immaginata in sei mesi di relazione per il semplice fatto che corre da più tempo e molto più veloce di me ed io mi vergogno come una bimba piccola costretta a parlare con una persona sconosciuta che le chiede molto dolcemente “come ti chiami, piccolina?”. Però non glielo dico che mi manca… né che mi sento sola. Forse gliel’ho detto un paio di volte, in due dei primi giorni di isolamento. Non glielo dico perché è più solo di me. E lui pensa che non gli dico nulla di come mi sento perché mi sono chiusa nei suoi confronti. Non è vero. Mi sforzo solo di essere forte ai suoi occhi perché non voglio che si senta responsabile del mio benessere. E poi lui con me non si lamenta di essere solo, quindi non vedo perché dovrei farlo io.

Ad ogni modo, mi manca anche il lavoro: non si può dire che fossi brava nel farlo ma davo il mio meglio. Ci provavo. Arrivavo a casa stanca, sì. Non avevo il tempo di uscire a correre, è vero. Però ero contenta di impegnare il mio tempo in qualcosa di utile per me stessa, che non mi facesse sentire frustrata come l’università. Vivo in una casa grande, ho degli animali, l’abbonamento a Sky, una libreria piena di libri che non ho ancora letto, una mamma che lavora e che per me sogna il futuro migliore possibile e un compagno con cui spero di costruirlo, quel futuro fatto di non so ancora che cosa… eppure mi sento come se mi mancasse la terra sotto ai piedi. Non so dare un nome a questo pezzo di vita che stiamo vivendo, tu?

Martina

“Presente”. Qualsiasi altro nome, oggi, rischia di diventare vecchio dopo pochi minuti.

 

Altro che pandemia, la vera emergenza è il panettone

Cara Selvaggia, continuo a sentir parlare di preoccupazioni per il cenone di Natale, tanto che anche virologi e il premier Giuseppe Conte si sono dovuti scomodare sulla fondamentale questione: si farà il cenone o no? Beh, scusa la franchezza ma io mi auguro che questa gente che non dorme la notte al pensiero di non potersi fare due giri di tombola o di non potersi scofanare con la lasagna di nonna, si strozzi col cotechino, prenda la scossa accendendo l’albero, perda tutti i suoi averi in un giro di poker con lo zio ricco. Ma cosa ce ne frega dell’abbuffata natalizia con una pandemia in corso e gente il cui cenone sarà la mensa di un ospedale o, peggio, il liquido di una flebo al braccio? Io davvero mi vergogno a sentire questa gente, questi argomenti. Dovevamo capire le priorità, con questa pandemia, e invece le priorità sono rimaste il panettone e il cotechino. Che tristezza.

Lucia

E aspetta perché a proposito di priorità, passata la questione cenone, da gennaio si comincerà a parlare di Sanremo tutti i giorni…

 

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Covid, l’odio e il trash della seconda ondata: addio balconi dell’amore

 

Ti prego non mi uccidere il mood. Nelle parole di Raffaele Bruno (Direttore del reparto di Malattie Infettive all’Università degli Studi di Pavia) riguardo l’attuale condizione del personale sanitario, si scorge uno degli aspetti più allarmanti della seconda ondata: “All’inizio mancava la conoscenza del virus e c’era l’adrenalina che spingeva ad aiutarsi reciprocamente. Adesso sappiamo meglio che cosa aspettarci, ma in un arco temporale indefinito. Non si vede un orizzonte vicino e questo genera esasperazione. Ci sentiamo più soli e avvertiamo crescere l’ostilità attorno a noi. La solidarietà dei mesi di marzo e aprile è svanita proprio adesso, proprio quando avremmo più bisogno di tranquillità”. Il tempo dei balconi è ormai alle spalle, la solidarietà non è più il sentimento dominante e medici e infermieri, quelli che fino a ieri erano eroi magnificati in ogni discorso pubblico, non godono più della riconoscenza e dell’acclamazione generale. Anzi, vengono percepiti come fastidiosi menagramo che cercano di prolungare l’epidemia per continuare ad essere al centro dell’attenzione. “Ti prego non mi uccidere il mood, dai. Chi se ne frega dei tuoi ‘ma’, dei tuoi ‘se’, dei tuoi ‘bla-bla’? Voglio stare in good time”: ecco dalla canonizzazione siamo passati a Ghali.

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Non ce n’è vergogna. In questi mesi i sindaci italiani ne hanno viste di tutti i colori: c’è chi ha dovuto rincorrere i propri cittadini sul lungomare per convincerli a mettersi la mascherina, chi ha avuto flash mob di commercianti inviperiti davanti al portone di casa, chi è stato costretto a emanare ordinanze restrittive per tamponare le maglie larghe di alcuni presidenti di Regione. Ma una delle scene più indisponenti da vedere è toccata a Leoluca Orlando. La signora Angela Chianello, diventata celebre per l’affermazione “non ce n’è coviddi” pronunciata durante un’intervista televisiva, è infatti una concittadina del sindaco di Palermo. La neo influencer, che grazie al suo tormentone che ammicca a tutti coloro che negano l’esistenza del virus ha raggiunto 170mila follower su Instagram, ha pensato bene di tentare un altro colpo per speculare ancora un po’ sull’approccio antiscientifico declinato in salsa trash: un video musicale in cui balla e canta la frase “non ce n’è coviddi”. Se ha funzionato in prosa figuriamoci in musica. Oltre alle evidenti violazioni dell’etica e del buongusto, la Chianello è stata denunciata per avere organizzato uno spettacolo in spiaggia, dunque su area demaniale, senza le necessarie autorizzazioni rilasciate dalla questura. A questo si sono sommate le sanzioni previste dalle norme anti Covid, dovute alla presenza di alcuni giovanotti danzanti senza mascherina. Il povero Orlando, disgustato dall’accaduto, ha commentato così: “La volgarità è tale che rischio di usare parole ancora più volgari del comportamento di questa signora, preferisco non commentare. Se ci sarà un processo penale nei suoi confronti costituirò il Comune parte civile”. Come se i guai non fossero già abbastanza. Solidarietà.

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Consumismo. Il Natale “spirituale” di Conte e i laici Pasolini e Calvino contro lo shopping

Benché presidente del Consiglio, a Giuseppe Conte è vietato parlare del Natale. Il premier è stato inondato di sfottò e critiche sia per il Babbo Natale con la mascherina (rispondendo alla letterina del piccolo Tommaso) sia per aver detto una frase di buon senso sul Natale come momento di “raccoglimento spirituale”.

E così, ancora una volta, destra salviniana e giornaloni moderati sono stati unanimi nella sentenza di condanna contro Conte: “Giù le mani dal Natale”. La boiata più grande, per non dire cazzata, l’ha scritta Massimiliano Panarari sulla Stampa che ha tirato in mezzo lo Stato igienista ed etico. Come se non vivessimo in un drammatico tempo straordinario d’emergenza pieno di incertezze, per molti versi peggiore di un periodo bellico. Invece no. Ecco all’orizzonte il profilo teocratico del premier, dittatore sanitario ed etico, che si vuole sostituire al papa e costringerci a fare un Natale da frate trappisti (Libero e La Verità).

Mettendo da parte la letterina di Tommaso, che cosa ha detto Conte sul Natale spirituale? Queste parole: “Il Natale non lo dobbiamo identificare solo con lo shopping, fare regali e dare un impulso all’economia. Natale, a prescindere dalla fede religiosa, è senz’altro anche un momento di raccoglimento spirituale. Il raccoglimento spirituale, farlo con tante persone non viene bene”. Diciamo, allora, che Conte non solo ha fatto una riflessione umanista (non una prescrizione etica) determinata dalle circostanze, visto che il 25 dicembre cadrà durante questa seconda ondata del Covid. Ma ha pure sollevato un punto che avrebbe meritato ben altro dibattito: la dimensione intima, non solo consumista, della festa più sentita dell’anno.

Senza scomodare papi e santi, vale la pena ricordare cosa scrisse un laico come Pier Paolo Pasolini in un tempo ordinario (non d’emergenza) nel 1969 sul Natale asservito al capitalismo (rubrica “Caos” di Tempo del 4 gennaio 1969): “Sono tre anni che faccio in modo di non essere in Italia per Natale. Lo faccio di proposito, con accanimento, disperato all’idea di non riuscirci; accettando magari di oberarmi di lavoro, di rinunciare a qualsiasi forma di vacanza, di interruzione, di sollievo”. Per questo motivo: “Per il nuovo capitalismo, che si creda in Dio, nella Patria o nella Famiglia, è indifferente. Esso ha infatti creato il suo nuovo mito autonomo: il Benessere. E il suo tipo umano non è l’uomo religioso o il galantuomo, ma il consumatore felice d’esser tale”.

Infine c’è il Natale di Marcovaldo descritto da Italo Calvino: “E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra ‘tredicesima mensilità’ e ‘ore straordinarie’. Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio”. È la frenesia commerciale che ci fa accantonare lo spirito del Natale. Ma se lo dice Conte non va bene.