La lezione di Elkann (sui giornali di Elkann)

Cosa c’è di meglio che possedere una manciata di giornali e usarli per regalare ai lettori lezioni (quasi) gratuite di giornalismo? Nulla, se ti chiami John Elkann. Il purissimo editore di casa Agnelli racconta il desolato presente e l’entusiasmante futuro dell’informazione in due sapide interviste sui quotidiani di famiglia, Repubblica e La Stampa. Doppia esclusiva: nessuno dei due direttori voleva prendere un buco. Sul giornale di Torino Elkann viene omaggiato con un richiamo in prima, su Rep deve accontentarsi di un paginone a quattro colonne. Malgrado la fantasia dei titolisti, i contenuti si sovrappongono. Elkann ci dice un sacco di cose che sappiamo già – soprattutto noi, interpreti residuali di questo mestiere in bancarotta –. Bisogna aprirsi ai social, “parlare a pubblici differenti con linguaggi diversi”. Bisogna trovare un nuovo modello produttivo, perché “in passato si sono trasferite gratis le notizie in rete” e “ora bisogna mettere contenuti di qualità” che qualcuno sia disposto a pagare. Bisogna soprattutto – ma questo non lo dice – ricorrere massicciamente a precariato, cassa integrazione, prepensionamenti e contratti di solidarietà. Che poi in fondo, con un editore così, vendere i giornali è l’ultimo dei problemi.

All’Agcom (ora cara a Silvio) c’è un conflitto d’interessi “leghista”

Proprio mentre il governo consente ad Agcom di tutelare Mediaset nel conflitto con Vivendi (facendo litigare Salvini e Berlusconi), il conflitto d’interessi torna sul tavolo del regolatore radiotelevisivo: un’interrogazione firmata da un gruppo di parlamentari M5S guidati da Alberto Airola che chiama in causa proprio la Lega. Il documento è stato depositato in Senato ed è in attesa del via libera alla presentazione da parte della presidente Alberti Casellati.

Al centro dell’interrogazione, che si rivolge alla presidenza del Consiglio e al ministero dello Sviluppo economico, c’è la nomina del consigliere Agcom, Enrico Mandelli, il cui nome era stato indicato proprio dalla Lega. Il tema, secondo gli interroganti, sono i conflitti d’interesse di Mandelli che, al pari degli altri commissari, non può “esercitare direttamente o indirettamente, alcuna attività professionale o di consulenza, essere amministratore o dipendente di soggetti pubblici o privati né ricoprire altri uffici pubblici di qualsiasi natura, ivi compresi gli incarichi elettivi o di rappresentanza nei partiti politici né avere interessi diretti o indiretti nelle imprese operanti nel settore di competenza della medesima autorità”. Pena la decadenza.

Ebbene, secondo quanto riferisce il documento, Mandelli – che è stato nominato commissario Agcom lo scorso 14 luglio – ha lasciato diversi incarichi in conflitto di interessi solo lo scorso 30 luglio. In particolare il neo commissario, che ha la delega proprio alle regolamentazione del settore audiovisivo, risultava amministratore unico di Telestar srl, consigliere di amministrazione di MUX 77 Digital television scrl, di Mux 88 Digital televisione scrl e di 7 Gold srl.

Ma non è questo il punto. Secondo “quanto risulta agli interroganti, il signor Enrico Mandelli ha ancora interessi indiretti nel network televisivo da cui proviene in quanto è il genero del proprietario di Telecity, il signor Giorgio Tacchino, di cui ha sposato una delle tre figlie”, impegnata anch’essa con ruoli di primo piano nell’emittente tv di famiglia: nel network, poi, risulta lavorare anche il figlio di Mandelli, Luca, “come d’altronde altri nipoti del proprietario”.

Telecity non è un’emittente qualsiasi della famiglia Tacchino. Come evidenzia l’interrogazione, si tratta di uno dei gruppi italiani “più importanti per fatturato (diverse decine di milioni di euro), addetti (diverse centinaia), rete di trasmissione e palinsesti (comprende varie reti televisive che coprono diverse Regioni)”. Inoltre l’azienda è molto attiva anche nella produzione di contenuti e nella gestione delle infrastrutture per il circuito “7 Gold” di cui Telecity fa parte e di cui Tacchino è presidente e amministratore delegato.

Gli interroganti, su queste basi, ritengono “incompatibile la permanenza – di Mandelli – come commissario Agcom”. “Si tratta di un’incompatibilità evidente e rappresentativa di quegli interessi indiretti che la norma cita” per evitare conflitti d’interesse. Come se non bastasse, “ad aggravare la posizione di Mandelli, inoltre, è il comportamento tenuto fin dal suo insediamento nel Consiglio dell’Autorità, durante il quale – già nelle prime riunioni e senza alcun impedimento sollevato da parte del segretario generale Nicola Sansalone – è stato relatore di importanti procedimenti e conseguenti provvedimenti di delibera, proprio in tema di infrastrutture relative al sistema radio-tv che riguardano alcuni concorrenti del network Telecity/7Gold”.

Una situazione di potenziale conflitto che non è stata però evidenziata dalla dirigenza Agcom. La stessa Authority, cioè, che nei desiderata dell’esecutivo si prepara ad avere l’ultima parola in tema di rispetto del pluralismo in caso di fusioni tra gruppi editoriali.

Il dialogo c’è, l’accordo no: il match Landini-Bonomi

“Niente scioperi”, ecco che cosa è in cima alla lista dei desideri del presidente della Confindustria Carlo Bonomi. Ieri mattina, ospite della Cgil al festival Futura 2020, lo ha detto durante un faccia a faccia con Maurizio Landini: il leader degli industriali vorrebbe sedersi a un tavolo con sindacati e governo per condividere il classico “patto per l’Italia”; nel frattempo, gradirebbe che non fossero portati i lavoratori in piazza.

Discutere, trovare soluzioni al difficile momento che sta attraversando la nostra economia, questo sì, ma niente contestazioni. Su questa seconda richiesta, Landini ha fatto finta di non sentire, mentre sull’altra ha richiamato il mondo delle imprese alle proprie responsabilità: “Più che patti – ha detto – io vedrei i contratti. Penso sia necessario rinnovare i contratti nazionali scaduti”.

Il dibattito, moderato da Lucia Annunziata, è stato subito dirottato sul tema caldo, quello che in questi mesi sta alimentando lo scontro tra sindacati e Confindustria. Circa 10 milioni di lavoratori con il contratto collettivo scaduto e, in diversi casi, le trattative sono finite in un pantano.

A Bonomi va riconosciuto di essersi mostrato abile, ieri, nel gioco del “tabù”, quello per cui bisogna sostenere un concetto senza mai nominarlo esplicitamente. E infatti, durante l’ora di confronto, non ha mai detto a chiare lettere di non voler riconoscere aumenti sui minimi salariali dei lavoratori, eppure quella è la sua posizione e in molti passaggi è emersa. Ad esempio quando ha respinto la proposta di Landini di detassare la crescita degli stipendi: “Non è quella la strada. Non è detto che mettere i soldi in tasca agli italiani si traduca in consumo. Meglio il welfare aziendale, come la sanità integrativa”. Poi un classico: “Lo scambio deve essere tra salario e produttività”.

Un modo per ribadire che le buste paga potranno crescere solo attraverso premi nelle imprese che vanno bene. Infine, rifacendosi al patto di fabbrica del 2018, che nell’impostazione confindustriale dovrebbe tradursi nel riconoscere solo aumenti legati all’inflazione.

Non ci sta però, il capo degli industriali, a essere accusato di non rinnovare i contratti: “Su 5,5 milioni afferenti alla Confindustria – ha fatto i conti – 1,6 milioni ha il contratto rinnovato e per la metà di questi è avvenuto durante la mia presidenza”. Landini gli ha ricordato che, benché si siano sbloccati quello della sanità privata e delle telecomunicazioni, resta fermo uno dei più importanti, quello dei metalmeccanici, proprio perché la Federmeccanica ha sposato in pieno la dottrina Bonomi sui salari.

Non poteva mancare la raffica di critiche al governo. “Fortemente negativo” il giudizio della Confindustria sulla gestione della seconda ondata pandemica. A seguire lamentele sparse sulla legge di Bilancio: “Sono spariti i due miliardi promessi dalla ministra Azzolina per gli Istituti tecnici superiori” così come “la cabina di regia sul Recovery Fund” e “il credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo”.

Landini, invece, ha ricordato l’impegno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a convocare le parti sociali dalla prossima settimana sui fondi europei: il leader del sindacato si augura non si traducano in “soldi a pioggia per le imprese”.

“Di Maio e gli altri big hanno il 70%”. Guerra di dati per frenare Di Battista

La segreteria prossima ventura è ancora da costruire, ma la conta è già partita. Ed è una ferita che lacera il Movimento, una faglia dietro a cui scegliersi la parte o almeno giocare, di tattica. “Penso sia doveroso pubblicare i voti sia dei delegati del sabato sia dei relatori della domenica” morde di prima mattina Davide Casaleggio, ormai un nemico di quasi tutti. Tranne che di Alessandro Di Battista: primissimo, nella votazione sulla piattaforma Rousseau con cui gli iscritti hanno scelto i 30 oratori che questo pomeriggio prenderanno la parola negli Stati generali.

Per questo Casaleggio invoca i dati sulle votazioni, come sta facendo ufficiosamente proprio lui, Di Battista. L’ex deputato e il manager sanno il peso di quei consensi. Come lo conoscono i vertici, a partire dal reggente, Vito Crimi. Irritato per l’entrata dura di Casaleggio, Crimi gli replica così: “Le regole d’ingaggio erano note, le preferenze verranno ufficializzate dopo l’elezione dell’organo collegiale”. Vero. Il reggente e gli altri maggiorenti sapevano dei rischi di un effetto conta. E avevano messo in conto una valanga di voti per Di Battista. Per questo, meglio attendere. “D’altronde – insiste Crimi – anche quando abbiamo eletto i candidati al Consiglio regionale della Campania, abbiamo tenuto le preferenze riservate fino alla votazione per il candidato presidente”. Ma in questo caso c’è di mezzo un congresso, dove decidere chi prenderà il controllo. Non a caso, fonti del Movimento in giornata diffondono un altro dato: “Luigi Di Maio, Paola Taverna e Roberto Fico, assieme ad altri big, hanno raccolto il 70 per cento in quella votazione”. Come a dire che la maggioranza ce l’hanno loro, i maggiorenti che vogliono la segreteria. Non Di Battista, che Casaleggio avrebbe voluto come capo politico. “Non vogliono votare un capo perché sanno che vincerei io” ripete da mesi l’ex deputato. Ieri ai tavoli degli Stati generali i 5Stelle a lui vicini hanno provato a rilanciare il tema del leader. Ma i documenti territoriali, la mappa del congresso, dicono che il corpaccione del M5S vuole un organo collegiale. E così andrà, anche se i delegati scenderanno nel dettaglio oggi: discutendo del numero dei membri e se prevedere un coordinatore o primus inter pares della segreteria (punto molto discusso già ieri). Di Battista ne è consapevole. Ma sa anche che i big vogliono tenerlo dentro la segreteria, perché fuori sarebbe più pericoloso. In pochissimi credono che possa guidare una scissione. Ma restando un passo di lato, da coscienza critica, potrebbe corrodere i nuovi vertici. E non solo, sussurra un veterano: “Il timore di Di Maio e di altri big è che a medio termine Giuseppe Conte possa prendersi il Movimento, facendo asse con Di Battista”. Quindi con l’eretico va trovato un accordo. E il 70 per cento che gli sventolano davanti dovrebbe indurlo a più miti consigli. Ma Di Battista attende. “Io parto sempre dai programmi, da cosa si vuole fare. Voglio capire innanzitutto questo, le poltrone vengono dopo” ha ribadito a chi lo ha sentito in queste ore.

Un deputato “dissidente” la butta lì: “La segreteria si può costruire anche tenendo dentro una minoranza robusta”. Cioè, senza lasciare Di Battista da solo. Nella cerchia di “Dibba” però molti gli ripetono di non accettare, di non cadere “nella trappola”. “E poi vogliono far votare i membri della segreteria singolarmente, non per squadre” assicurano. Ergo, Di Battista non potrebbe imporre un proprio organo. Un altro nodo, a margine delle trattative. E delle conte.

Stati generali col botto: i 5S mollano Casaleggio

Il capolinea è arrivato. E la fine del legame con la Casaleggio Associati – fondatrice con Gianroberto della “creatura” di Beppe Grillo – è ormai segnata. Da questi Stati Generali il primo a uscirne con le ossa rotte è lui, l’erede Davide, da mesi in crisi con i big del Movimento, per non parlare di quel che pensa di lui il corpaccione dei parlamentari. Così, ieri, nel primo giro di tavoli tematici, si è discusso a lungo del futuro di Rousseau. E non si è trovato uno che fosse uno disposto a difendere il manager milanese. A cui non rimane che una strada, ancora aperta: accettare un contratto di servizio, ma alle condizioni che stabiliranno gli altri. Oppure rifiutare, tanto a Roma fanno già sapere di essere pronti a “internalizzare” la piattaforma, ovvero ad arrangiarsi anche senza di lui. Anche – è questa l’altra novità dirompente – superando il tabù del finanziamento pubblico e accedendo ai fondi del 2 per mille ai partiti.

Che tirasse una brutta aria, s’era capito dal mattino, quando Casaleggio junior – che negli ultimi tempi ha sfoderato una loquacità mai vista prima – ha vergato su Facebook il suo j’accuse: “Ho ricevuto ieri l’invito a partecipare nella discussione di domenica. Ho deciso di declinare perché ritengo che se ci sono delle regole di ingaggio, queste debbano essere rispettate”. Ce l’ha con due aspetti in particolare: il vincolo dei due mandati – difeso da attivisti e assemblee territoriali, ma messo in discussione al primo punto della mozione di maggioranza – e il segreto sulle preferenze ricevute dai 30 oratori prescelti che, come noto, avrebbero dato una prima idea sull’orientamento della base rispetto alla nuova leadership (ne parliamo qui sotto, ndr). Crimi gli ha risposto ricordando che sin dalle “regole d’ingaggio” era previsto che i voti dei candidati fossero resi noti “dopo l’elezione dell’organo di direzione M5S”.

Ma ormai la rottura è consumata. Perché il punto non sono né le preferenze, né i due mandati. Ma il sospetto, ormai diffuso ad ogni livello, che sia stato Casaleggio a non essere trasparente, su due questioni rilevanti: i soldi e le votazioni su Rousseau. È la sintesi, un po’ brutale, della discussione che ha animato i tavoli di ieri, in cui si è parlato di “necessità di maggiore trasparenza nelle gestione delle risorse” (i famosi 300 euro che ogni eletto deve versare ogni mese) e del “miglioramento del rapporto tra iscritti e attivisti”. E qui la traduzione necessita di qualche riga in più, perché nella testa dei delegati M5S s’è fatta strada la consapevolezza che tra i 150mila aventi diritto di voto su Rousseau ci sia finito un po’ di tutto e che gli esiti delle consultazioni non possano essere affidati a questa mole di persone di cui non si conosce l’impegno nel M5S. Si immagina, quindi, di restringere la platea degli aventi diritto a quegli iscritti che davvero partecipano alla vita del partito. E per i quali, insistono, servono sedi fisiche dove incontrarsi sul territorio.

La decisione su come proseguire (contratto di servizio o piattaforma interna) non è ancora stata presa. Nel dubbio Casaleggio ieri ha fatto girare sul web delle slide in cui dimostrerebbe che la sua gestione ha fatto spendere solo 1 miliardo e 300mila euro l’anno (a tanto ammonterebbe la sua proposta economica in caso di appalto), mentre altri partiti – la Lega su tutti, ma anche il Pd – hanno i conti in rosso. Saluta da lontano i delegati, citando un ingegnere giapponese, Kaoru Ishikawa, che pare fosse solito dire: “Fate in modo che diventi un’abitudine discutere i problemi basandosi sui dati e rispettando i fatti che essi dimostrano”.

Ma quello di Rousseau non è l’unico nodo di cui si è dibattuto ieri. Nei circa 30 tavoli (10 per ognuna delle aree “Organizzazione”, “Regole e principi”, “Agenda politica”) il tema dei due mandati è rimasto tutto sommato in secondo piano, anche per non concedere un varco mediatico a Casaleggio e Di Battista, contrarissimi a toccarlo. Si è parlato di “valorizzare” le esperienze degli eletti in scadenza, magari nelle elezioni comunali o attraverso consulenze in Parlamento, ma la discussione di fatto è stata rinviata. Lo stesso vale per le alleanze: l’orientamento generale non crede nel rapporto organico con il Pd ma ragiona su “coalizioni” alle elezioni locali, se l’input arriva dal territorio. Poi resta il grande buco dell’identità, della crisi in cui si è precipitati in questi anni e di cui “qualcuno dovrà assumersi la responsabilità”. La squadra di governo finisce sotto esame e la promozione piena arriva solo per i ministri Bonafede e Dadone (ovvero piacciono le cose fatte in materia di giustizia e pubblica amministrazione), mentre sul resto nessuno si spertica in lodi particolari. Anzi: si discute parecchio di come garantire l’impermeabilità dei portavoce alle pressioni esterne (sono freschi della lettura delle intercettazioni sul caso Autostrade in cui sono finiti anche il ministro Patuanelli e la senatrice Lupo). Come al solito dicono che bisogna ripartire dai temi. E nella lista ci sono la lotta all’evasione, un miglior funzionamento del reddito di cittadinanza, un piano di transizione ecologica e, alla luce della pandemia, una riforma del Titolo V, quello che regola i poteri delle Regioni. Oggi però parlano i “big”, anche se – salvo ripensamenti dell’ultima ora – tra loro non ci sarà Beppe Grillo. Tutto quello che si è detto prima, l’esperienza insegna, rischia di fare la fine della sabbia al vento.

“Adesso zero polemiche: serve unità”

La Toscana da oggi è zona rossa e il governatore Pd Eugenio Giani è “sorpreso” e “amareggiato” perché i dati “sono migliorati rispetto a una settimana fa”. Ma non usa i toni di guerra del collega campano Vincenzo De Luca: “No, non mi appartengono: le istituzioni devono collaborare per dare un segnale di unità ai cittadini”.

Presidente Giani, come ha preso la notizia venerdì?

Mi ha chiamato Speranza ed ero sorpreso perché rispetto a inizio novembre, periodo a cui si riferiscono i dati, i contagi sono passati da 2.700 a intorno ai 2.000 e il rapporto tra contagi e tamponi è sceso dal 16 al 13%. La Toscana poteva restare zona arancione.

E adesso?

Adesso, come direbbe Dante, ‘cosa fatta capo ha’. Non condivido la decisione, ma la rispetto. E lavorerò per far rispettare le restrizioni ai toscani.

Ha sentito anche Conte?

Non l’ho sentito ma ci siamo incontrati a fine ottobre: ho un ottimo rapporto con lui e con il governo. Questo non è il momento delle polemiche: per essere autorevoli e rassicuranti le istituzioni devono collaborare e mandare un unico segnale ai cittadini. Serve unità. Io penso che alcuni criteri per stabilire le zone vadano rivisti, ma se il governo li ha decisi dobbiamo rispettarli: non farò mai una polemica politica.

De Luca chiede le ‘dimissioni’ del governo.

Mi sento molto lontano dai suoi toni e non li capisco. La mia posizione è di critica sui criteri e quindi casomai posso discutere con i tecnici, il governo non c’entra. Ma bisogna abbassare tutti i toni. E anche noi governatori dovremo fare mea culpa.

Nel merito: il tracciamento in Toscana è saltato.

A inizio novembre si tracciavano solo il 37% dei contatti, oggi sono stati assunti 500 giovani ed è salito al 65%.

L’indice Rt all’1,8 è il più alto d’Italia.

Con il calo dei contagi, sono sicuro che in questa settimana si sia abbassato. Poi entro l’8 dicembre avremo 700 posti letto in più nelle zone più colpite.

Chiederete allentamenti?

L’obiettivo è quello. Se i dati miglioreranno, come sta già avvenendo, spero che nella prima settimana di dicembre si torni arancioni per far vivere il Natale ai toscani con più tranquillità.

Cosa ne pensa dell’operato del governo della pandemia?

Ha costruito delle buone basi su cui lavorare e non poteva prevedere la seconda ondata. È stato giusto che abbia preso decisioni forti. Criticarlo ora è ingeneroso: se guardiamo come stanno in Francia e Spagna, direi che il governo si è comportato discretamente.

Vuole un’alleanza con il M5S in vista delle comunali del 2021?

La strada è quella, sulla base dei programmi. In consiglio condividiamo molto, come il ruolo dello Stato in Mps.

Il Pd in difesa dello “sceriffo”: “Ad attaccarlo i ministri 5S”

Nicola Zingaretti non ferma Vincenzo De Luca. Nonostante l’esternazione del presidente della Campania sul “governo che deve andare a casa” e il richiamo a un esecutivo di “unità nazionale”. Anzi. Il segretario del Pd proprio venerdì pomeriggio ha lodato De Luca riconoscendogli “il merito di aver dato l’allarme”. Nessuna difesa del governatore, dicono al Nazareno, la frase del segretario è precedente. Ma fanno poi notare che sono stati i ministri di un governo della sua stessa maggioranza ad attaccare De Luca (riferimento a Di Maio e Spadafora). E che neanche questo va bene.

Ora De Luca è prima di tutto De Luca, ma è pur sempre un presidente del Pd. E in queste ultime settimane più volte Zingaretti l’ha in qualche modo coperto, nonostante lo scontro incandescente con il governo. Si può pensare a qualche piano concertato? Non ci sono le prove. Ma qualche indizio che le cose stanno cambiando, quanto meno nei rapporti di forza tra dem, M5S e premier sì.

Primo indizio. Il Pd in blocco ha intrapreso un dialogo con Forza Italia. Secondo indizio. Sono iniziati i tavoli di maggioranza e per il Pd partecipano tre degli esponenti più critici rispetto al governo: a quello sulle riforme, i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci, a quello sul programma Andrea Orlando (il vicesegretario), insieme a Cecilia D’Elia, responsabile donne. Terzo indizio: ieri c’è stata una riunione tra il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia e il responsabile enti locali, Nicola Oddati con i segretari di Regione e quelli delle città metropolitane per chiedere di abbassare il livello delle polemiche con i presidenti di Regione; perché, per dirla con Boccia, “non possiamo permetterci di polemizzare con i presidenti di Regione: sono i nostri primi interlocutori, indipendentemente da se siamo in maggioranza o opposizione, anche di fronte, a volte, a evidenti scorrettezze o a tentativi di scaricare la responsabilità su altri livelli istituzionali”. Piani inclinati verso un clima di unità nazionale.

De Luca si “compra” letti vuoti nelle cliniche private

I pazienti Covid arrivano col contagocce. Ma per le cliniche private nella Campania del governatore Vincenzo De Luca, “nelle more” di un decreto ristori in via di approvazione, sarebbe già tutto pronto per liquidare in anticipo posti letto Covid ancora vuoti e prestazioni sanitarie ancora non erogate. Come a marzo. Nonostante le polemiche di allora, e i dubbi della Guardia di Finanza sulla legittimità dei pagamenti, e la conseguente indagine della Corte dei conti su un presunto danno erariale da quasi 20 milioni di euro in favore di 56 case di cura.

Eppure ci risiamo. Il filo diretto tra la Regione Campania e le cliniche private si rinnova tra le pieghe di un documento dell’Unità di crisi anticoronavirus che il Fatto ha potuto consultare. Risale al 27 ottobre, è la lettera di manifestazione di disponibilità all’allestimento di posti letto Covid rivolta ad Aiop ed Aris, le associazioni di categoria delle case di cura private, per fronteggiare la seconda ondata dell’epidemia. Con il tariffario: 1000 euro per posto di terapia intensiva non occupato, 360 euro per posto di media intensità di cura non occupato, 180 euro per posto di degenza a bassa intensità di cura non occupato. Somme “a titolo di acconto” e “salvo conguaglio”.

“Per come è scritto il documento, si rischia di pagare due volte questi posti letto Covid vuoti, dalla Regione e dal governo ‘ai sensi dell’emanando decreto’ che il Parlamento ancora non ha approvato e dove ci sarà battaglia per introdurre un obbligo di rendicontazione”, afferma Valeria Ciarambino (M5s), vicepresidente del consiglio regionale campano. Ciarambino e la Cgil Campania sono gli autori degli esposti che hanno dato il via alle indagini della Corte dei conti durante la prima ondata di marzo. Allora fu predisposto un accordo valido per tre mesi che offriva alle cliniche private 700 euro per ogni giornata di degenza in terapia sub intensiva e 1200 per la terapia intensiva ma soprattutto si riconosceva il 95 per cento del budget mensile assegnato ogni anno alle singole cliniche a prescindere dal valore reale della produzione.

Coinvolgere la sanità privata nella guerra al virus è una mossa necessaria, vista la sofferenza della sanità pubblica. Le cliniche campane hanno risposto all’appello “offrendo circa 1500 posti letto in pochissimi giorni”, scrive il presidente di Aiop Campania Sergio Crispino in una nota all’Unità di crisi, che però sottolinea l’anomalia tutta campana dell’ordine di sospendere ogni attività di elezione e ambulatoriale. “Disposizione che per le Case di cura merita di essere rivista – parole di Crispino – in quanto in nessuna parte del Paese è stata adottata, ed invece sono state adottate disposizioni più coerenti con la possibilità assistenziale delle Case di cura che hanno indotto a indirizzare i pazienti non Covid dalle strutture pubbliche alle strutture accreditate, per consentire alle prime di poter allestire i posti letto disponibili per contrastare l’emergenza epidemiologica”. Sintesi: chi ha bisogno di curarsi di altro non sa più dove andare. E i privati, senza degenti ordinari, reclamano ristori adeguati.

Intanto il carteggio con l’Unità di crisi ha accolto la richiesta Aiop che il trasporto dei malati Covid in clinica avvenga a cura del servizio pubblico. Ma ne arrivano? “I medici – sostiene Ciarambino – ci riferiscono che dai privati arrivano solo pochi pazienti Covid non critici, prima accolti presso i pronto soccorso e le strutture pubbliche e poi trasferiti da loro. Ecco perché gli ospedali sono allo stremo”. Fonti dell’Unità di crisi replicano: “Le tariffe dell’accordo coi privati sono quelle nazionali e non vengono applicate per i posti di terapia intensiva, a più alto costo, in quanto al momento non c’è bisogno”.

“Amministratori pro-life”: ecco la nuova rete in Italia

Sono tanti, inseriti in strutture ramificate a livello internazionale. Sono politici, medici, amministratori locali, intellettuali, magistrati, docenti universitari. Tutti antiabortisti e con un punto di riferimento in Europa: la federazione “One of Us”. Fondata nel 2014 a Bruxelles, sulla spinta dell’iniziativa legislativa popolare europea ideata e promossa due anni prima da Carlo Casini con cui si chiedeva – 2 milioni di firme raccolte – l’“esplicita protezione giuridica della dignità e del diritto alla vita di ogni essere umano, fin dal concepimento, nei settori di competenza dell’Ue nei quali tale protezione risulta di particolare rilievo”. A oggi “One of Us” raccoglie 48 associazioni in 28 Paesi ed è presieduta dallo spagnolo Jaime Mayor Oreja, ex parlamentare europeo del Partito popolare. In Italia, il loro faro è il Movimento per la Vita costituito proprio da Carlo Casini (morto pochi mesi fa) e guidato ora dalla figlia Marina. Ed è ad esso, ai suoi militanti, che guardano i sindaci, gli assessori, i consiglieri comunali che nel Bresciano hanno dato vita, poco più di un anno fa, ad “Amministratori per la famiglia”.

Un gruppo – la cooptazione avviene quasi sempre attraverso il passaparola – che conta adesso oltre 130 membri, per un totale di 33 Comuni. La matrice politica è quella del centrodestra. Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia. Poi c’è una vicinanza alle posizioni del Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi. Anche se tutti i componenti assicurano che tra di loro sventolano più bandiere. “Si va dai partiti del centrodestra ai popolari cattolici passando dall’area civica”, hanno detto, poco più di un mese fa, alla conferenza stampa con la quale, a Brescia, si sono presentati, forti dell’appoggio di Massimo Gandolfini, presidente del Family Day. In quell’occasione hanno esibito anche il loro primo trofeo: la mozione consiliare “Sostegno alla vita nascente”. Vale a dire l’atto che impegna un Comune a dare un sussidio alle donne che scelgono di non abortire, a garantire sostegni economici al Movimento per la vita e ai suoi Cav-Centri di aiuto alla vita. E poi a istituire la Festa della famiglia e la Festa della vita; a distribuire materiale informativo per aiutare le donne con una “gestazione difficile” a causa di malformazioni del feto; a coinvolgere le scuole.

 

L’apripista è stato Marone, 3mila anime sul lago d’Iseo

Il Comune di Marone, poco più di tremila abitanti, si affaccia sul lago d’Iseo. Ha fatto da apripista, il 16 dicembre del 2019. Una iniziativa del sindaco Alessio Rinaldi (centrodestra) che ha convinto anche le opposizioni (area civica). Così, il via libera alla mozione è stato all’unanimità. Poi, nel silenzio, lo hanno seguito tutti gli altri. Prevalle, Flero, Castel Mella, Cazzago San Martino, Bagnolo Mella, Ghedi, Montirone: tra questi, il paese più grande non supera i ventimila abitanti. È arrivato anche il Comune di Iseo, questa volta finendo sulle cronache, perché le opposizioni hanno abbandonato con clamore l’aula. Alla fine l’approvazione è scattata in nove comuni (solo a Brescia, città guidata dal centrosinistra, la mozione è stata respinta).

Ma altre amministrazioni si stanno accodando, come ha assicurato alla testata La nuova bussola il portavoce di “Amministratori per la famiglia”, Mario Fortunato, delegato di Fratelli d’Italia, a Brescia, per il dipartimento “Vita, pari opportunità, famiglia e valori non negoziabili”. “Sono già in contatto con i miei pari grado pugliesi, toscani, umbri”, ha spiegato Fortunato. “Il nostro desiderio è di mettere l’esperienza bresciana a disposizione di tutte quelle province che sentono l’urgenza di favorire le nascite. A livello comunale non possiamo abrogare la legge 194, ma possiamo educare al rispetto per la vita”.

La mozione “Sostegno alla vita nascente”, così, è diventata un fac-simile in 12 punti. Da distribuire, per fare proseliti. “Ci hanno chiamati dalla provincia di Lecco e dal Bergamasco, dalla Toscana e persino dalla Sicilia”, dice Giovanna Prati, assessore al Bilancio di Iseo, alla quale si devono la presentazione e l’approvazione della mozione nel suo comune. “L’ho portata come consigliere comunale perché faccio parte della rete”, prosegue Prati. “Il nostro intento è quello di avviare politiche a sostegno della famiglia e della maternità, ci riuniamo periodicamente. Abbiamo realizzato diverse iniziative e questa della mozione è, al momento, la più avanzata. Ma non è un’azione di contrasto alla legge 194. Vogliamo sostenere la maternità, soprattutto di fronte a situazioni di disagio economico”.

 

Con 513 progetti Gemma “assistite” 11mila gestanti

Per ora nessun comune ha cominciato a erogare i sussidi alle donne. La mozione, del resto, prevede – qualora il contributo diretto non sia possibile – sostegni anche economici a programmi “di aiuto alla vita nascente, istituiti da associazioni operanti sul territorio, quali il Progetto Gemma”. Un progetto che è targato proprio Movimento per la Vita, attraverso la Fondazione Vita Nova, che sostiene “attività assistenziali, educative e culturali in favore della vita umana sin dal concepimento”. In pratica, ha il compito di offrire un contributo alle donne di 160 euro al mese, per 18 mesi, fino al primo anno di vita del bambino, a patto che portino avanti la gravidanza.

L’ultimo bilancio sociale del Movimento risale al 2018 e riepiloga quanto fatto in quell’anno, attraverso i suoi quasi 350 Centri di aiuto alla vita: 513 progetti Gemma, dalle regioni del Nord a quelle del Sud, per assistere quasi 11mila gestanti; così, si legge, sono nati 7.271 bimbi. Intanto i ginecologi obiettori di coscienza continuano ad aumentare, come certifica l’ultima relazione al Parlamento del ministero della Salute (dati 2018). Oggi sono circa 7 su 10, il 69%: nel 2005 erano il 58,7%. Diminuiscono invece gli aborti: 76.328, in calo del 5,5% rispetto al 2017.

 

Movimento per la vita e galassia europea

Anche di questi numeri si parla da venerdì al 40° Convegno nazionale del Movimento per la Vita. Terminerà oggi. E mostra i muscoli, la forza di una rete globale. Partecipano parlamentari europei (come la slovacca Anna Záborská, del Movimento Cristiano-democratico), presidenti di federazioni nazionali pro-vita (come la spagnola Alicia Latorre), la coordinatrice di “One of Us”, Ana Del Pino. In agenda anche le relazioni con gli enti locali, potenziali finanziatori. E per questo avrebbero dovuto partecipare anche Manuela Lanzarin, assessore alla Salute del Veneto, e il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna. All’ultimo momento li hanno trattenuti, dicono, impegni urgenti e improrogabili. Presente, invece, Alessandro Martini, assessore al Personale del Comune di Firenze. Martini è del Pd. “Nell’ambito di un progetto di aiuto alle donne e ai bambini – dice – il Movimento per la Vita è un interlocutore importante. E io mi rendo disponibile a fare da ponte sui temi che riguardano l’integrazione dei servizi pubblici con altre realtà. Da parte della città di Firenze c’è la massima apertura”. Donne avvisate.

Renzi a pranzo da Romeo “Si parlò di Biden e Nato”

Alfredo Romeo stavolta deve essere davvero arrabbiato. Al Fatto che gli chiede se la richiesta di restituire il contributo da 60mila euro del 2012 alla Fondazione Open (spedita all’ex presidente Open Alberto Bianchi e a Luca Lotti e Matteo Renzi per conoscenza) sia soltanto una provocazione, l’imprenditore replica: “Ma quale provocazione? I 60 mila euro li voglio davvero. Mi servono”. Probabilmente la delusione nel leggere la corrispondenza del 2017 nella quale Bianchi chiedeva a Lotti e Renzi di restituire i soldi dopo il suo arresto, deve essere acuita dall’ottimo stato dei rapporti con il segretario di Iv.

Quando gli chiediamo del suo incontro con Renzi in occasione della visita al suo giornale, Il Riformista, replica: “Matteo Renzi è venuto a pranzo da me, abbiamo parlato di politica, se Joe Biden avrebbe vinto e del suo incarico alla Nato”.

La lettera di Romeo somiglia alla reazione di un grande amante tradito che chiede indietro l’anello pegno di amore.

Il titolo è dritto: “Renzi mi voleva restituire i 60 mila euro? Ecco il mio Iban…”. Nel testo si legge: “lei (Bianchi) avrebbe chiesto a Lotti se fosse il caso di darmi quella cifra indietro. Lotti si disse contrario poiché lo riteneva un boomerang facendosi forte anche del parere di Renzi. Se non pensate sia un boomerang e avete cambiato idea, Vi vengo incontro e i 60.000 euro me li restituite. Le indico l’Iban (…) per la restituzione molto opportuna anche alla luce delle intercettazioni che La riguardano effettuate dalla magistratura negli uffici della Consip. Le rammento anche che il finanziamento della sua Fondazione non fu spontaneo come tutte le erogazioni liberali effettuate dal gruppo Romeo ma fu esplicitamente richiesto dalla tesoreria del Pd della Campania”.

La donazione di 60mila euro alla Fondazione vicina a Renzi avviene nel 2012 quando il sindaco di Firenze sfida alle primarie Bersani e perde.

Renzi a Report, che nell’autunno 2013 gli chiede conto del finanziamento a Open da un soggetto allora condannato in primo grado, replica: “So che c’è stato un versamento che fu molto dibattuto, quello di Romeo, un imprenditore napoletano molto discusso (…) se fossi stato io in quelle condizioni, se avessi capito e saputo io avrei suggerito di non farlo”.

Romeo non digerisce l’irriconoscenza e quando viene assolto in Cassazione definitivamente da tutte le accuse chiede a Alfredo Mazzei, allora tesoriere del Pd della Campania vicino ai renziani, una riabilitazione pubblica da parte di Renzi, diventato segretario e premier. Mazzei non riesce a portarlo dal novello Re sole della politica italiana. Carlo Russo, amico e compagno di pellegrinaggi di Tiziano Renzi riesce invece a portarlo dal tesoriere del Pd Francesco Bonifazi il 4 marzo del 2015 e al cospetto di Tiziano Renzi, il 16 luglio del 2015, secondo l’ipotesi dei pm, Tiziano nega.

Poi a fine dicembre del 2016 esplode il caso Consip, il primo marzo 2017, i magistrati romani arrestano Romeo e a quel punto Bianchi chiede a Luca Lotti, consigliere di Open, se sia il caso di restituire il finanziamento. Lotti è contrario e Renzi (formalmente estraneo a Open) la pensa come lui. I soldi restano in cassa fino alla liquidazione e chiusura di Open rispettivamente nel 2018 e 2019.

Alfredo Romeo e Matteo Renzi riallacciano i rapporti recentemente ma l’armonia salta quando La Verità pubblica le carte dell’indagine di Firenze e Romeo scopre che Bianchi, mentre lui finiva in carcere, voleva prendere di nuovo le distanze da lui restituendo i 60 mila euro.

L’avvocato Romeo, indagato per traffico di influenze e turbativa di asta con Tiziano Renzi a Roma e imputato per la corruzione di un ex funzionario Consip in un altro filone, a quel punto sbotta e scrive la richiesta di restituzione dei soldi a Bianchi, Lotti e Renzi. Con due messaggi velenosi. Il primo è il riferimento alle intercettazioni del colloquio tra Bianchi e l’amministratore delegato di Consip allora in carica. Bianchi nel novembre del 2016 accompagnava nell’ufficio di Marroni l’amministratore delegato di un competitor di Romeo: Marco Canale della Manutencoop.

Inoltre Romeo ricorda nella sua lettera che il versamento alla Fondazione (che i pm di Firenze stanno cercando di dimostrare sia un’articolazione del Pd) fu sollecitato non dal tesoriere della Fondazione ma da quello del Pd in Campania. Al Fatto, Romeo conferma: “La richiesta di fare il contributo alla Fondazione Open fu fatta da Alfredo Mazzei e mi presentò lui Bianchi”. Poi aggiunge: “Ovviamente nella lettera alludo alla conversazione di Luigi Marroni e Alberto Bianchi con Marco Canale di Manutencoop. Nessuno mi ha contattato per una risposta alla lettera ma la mia non è una provocazione. I 60 mila euro mi servono”. Al Fatto fonti vicine al vertice dell’ex Fondazione Open fanno sapere che la restituzione non è nemmeno ipotizzabile perché Open non esiste più.