Patti d’acciaio e tradimenti: così nacque il giglio magico

Nel 2012 la rivista americana Foreign Policyinserisce l’economista Luigi Zingales nell’elenco dei 100 pensatori più influenti al mondo. Accanto al suo – unici due italiani nella lista – c’è il nome di Mario Draghi. Non era scontato per nessuno annoverare Zingales tra i propri sponsor ma, nel novembre 2011, quando parte la sua scalata alla segreteria del Pd e a Palazzo Chigi, Matteo Renzi può vantare un sostenitore d’eccezione: Zingales è molto propositivo. Ed è il segno di quanta fiducia si riponesse in Renzi per rivoluzionare la politica italiana. Seguire la parabola di Zingales all’interno del renzismo è un esercizio interessante. L’economista fa infatti parte di quella ristrettissima cerchia che dà il via all’ascesa di Renzi. Gli atti dell’inchiesta fiorentina sulla Fondazione Open – che vede indagati Matteo Renzi, Marco Carrai, Luca Lotti, Maria Elena Boschi e Alberto Bianchi per finanziamento illecito – restituiscono il quadro (su fatti non penalmente rilevanti), dal punto di vista documentale, di quanto accadeva in quei giorni.

Zingales nei primi giorni di novembre 2011 scrive a Marco Carrai e Renzi e riferisce di aver coinvolto altri due economisti – Luigi Guiso e Antonio Merlo – nel progetto politico che ruota intorno al sindaco di Firenze. L’economista scrive al presidente della futura fondazione Open, Alberto Bianchi: “Questi due colleghi che ho reclutato sono di prima qualità ed excited. Non vogliamo perdere momento. Stagli sotto per favore”. Zingales ha già messo a fuoco tre aspetti del progetto sull’associazione: “struttura organizzativa”, “trasparenza”, “policy briefing”. Spiega che la parte economica del “programma” la gestirebbe lui. Poi aggiunge: “Ogni 3-4 giorni il circle of trust fa una conference call di circa mezz’ora in cui noi economisti a turno aggiorniamo Matteo, Marco e gli altri membri sulla situazione economica e ogni volta approfondiamo un argomento. La persona essenziale qui è Matteo. Lo scopo è quello di tenerlo costantemente aggiornato e portarlo up to speed nelle discussioni. Idealmente, partecipiamo tutti. Questo in aggiunta alle varie riunioni organizzative in cui discuteranno le varie opzioni. Se voi ci date l’ok su questo noi cominciamo a preparare i nomi e a selezionare i documenti necessari. Avremmo anche bisogno di un breve statement of principles scritto da Matteo su quali sono i principi ispiratori della sua campagna. Questo ci serve da sottomettere alle persone che vogliamo contattare”.

Ecco, uno dei cento pensatori più influenti del mondo, è disponibile a supportare l’ascesa di Renzi e mette a disposizione tutte le sue competenze. Nelle stesse ore inizia a prendere corpo quella che poi sarà la classe dirigente del renzismo: il suo “giglio magico”. Il 5 novembre, discutendo proprio della mail di Zingales, Bianchi scrive a Carrai. Si inizia discutere di “cerchi”, di un “nucleo duro”, di chi dovrà nei fatti prendere le decisioni. “Sull’associazione – scrive Bianchi a Carrai – occorre avere le idee molto chiare. Intanto va fatta subito. C’è bisogno di articolare, organizzare, non può essere tutto flou. In essa c’è un nucleo duro, e uno o più cerchi intorno, più variabili e flessibili. Il nucleo è quello di chi, alla fine, decide cosa si fa e come lo si fa. È indispensabile che chi decide sia, insieme a Matteo, un numero ristrettissimo di fidatissimi seri. Starei per dire solo tu e lui, o comunque in più solo chi tu e lui giudicate di massima fiducia…”.

Pochi giorni dopo Bianchi inizia a ipotizzare il modello organizzativo di una “struttura a medusa” che abbia come testa la Fondazione e come tentacoli i comitati. Nel frattempo Zingales continua a macinare idee. Il 15 novembre, in uno scambio di mail con Carrai e Bianchi, scrive di aver contattato Larry Grisolano, che ha lavorato alla campagna presidenziale di Joe Biden del 1988 e poi per Barack Obama, il quale gli ha predisposto delle note. Zingales aggiunge: “O facciamo il salto di qualità nelle prossime settimane o amici come prima”. Nei giorni successivi metterà Bianchi in contatto con Antonio Merlo per l’organizzazione del fundraising.

Tre anni dopo, nel febbraio 2014, Renzi diventa presidente del Consiglio. Nomina Claudio Descalzi alla guida di Eni. Nel cda dell’ente petrolifero entra a far parte anche Zingales. Ma sarà un’esperienza travagliata: nel 2015 deciderà di dimettersi. A febbraio scorso, in un’intervista a L’Espresso, citata anche negli atti d’indagine, Zingales ha dichiarato: “Mi ero illuso che Renzi rappresentasse il cambiamento, ma il cambiamento non c’è stato. L’unica condizione che avevo chiesto per accettare la mia nomina all’Eni era la volontà politica di voltare pagina nell’azienda e garantire trasparenza nei contratti internazionali. Mi era stato garantito il massimo sostegno, che non c’è stato”. In quegli anni emerge infatti lo scandalo per la presunta tangente pagata da Eni per acquisire il giacimento Opl 245 in Nigeria – per la quale Descalzi è a processo per corruzione internazionale – e Zingales si scontra più volte in cda chiedendo la massima trasparenza sulle operazioni internazionali. Sarà oggetto anche di un attacco ordito attraverso un depistaggio, costruito con un fascicolo giudiziario farlocco, che mirava a depotenziare l’inchiesta milanese su Opl 245.

Un fascicolo che mirava a dimostrare l’esistenza di un complotto contro Descalzi, totalmente inventato, portò all’iscrizione di Zingales e della sua collega in cda, Katrina Litvak, per concorso in diffamazione di Descalzi. A istruire il fascicolo sul falso complotto contro Descalzi fu il pm di Siracusa Giancarlo Longo, su input dell’avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara. Longo ha poi patteggiato per corruzione in atti giudiziari. E tra i testimoni che aveva convocato c’era mezzo Giglio Magico: l’imprenditore Andrea Bacci (l’unico che riuscì a interrogare, prima che gli venisse tolto il fascicolo), Marco Carrai e Luca Lotti.

I primi numeri (e il Cts) tengono aperta la scuola

“Ieri ho incontrato il Comitato tecnico scientifico per un aggiornamento. La situazione nelle scuole è monitorata attentamente. Dalla riunione sono emersi in particolare due elementi: i ragazzi più giovani si contagiano meno degli adulti”: la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, commenta così i segnali arrivati dalla riunione del Cts di venerdì, nel corso della quale è venuto fuori soprattutto il forte rischio di ricadute psicologiche sugli studenti in caso di chiusura prolungata. Più che segnali, in verità, sono veri e propri orientamenti di buona parte dei membri del omitato (il coordinatore Miozzo e i professori Villani e Locatelli su tutti) a favore della necessità di tenere le scuole aperte. Se c’è da rischiare, è la sintesi della posizione di molti, meglio farlo sulla scuola. Tanto più che i primi dati dell’incidenza dei contagi in età scolare, cioè tra i 3 e i 18 anni, (con andamento simile in tutte le regioni) mostrano che l’andamento è in linea con quello dei contagi totali e che a fine ottobre quello settimanale era addirittura inferiore (in media 215 casi circa su 100mila persone contro circa 350). Questa settimana, i focolai associati alla scuola sarebbero stati 375, il 2,2 % del totale.

Le premesse sono ovviamente di cautela: i dati recenti, quelli delle ultime due settimane, ancora non sono completi anche se quelli preliminari suggeriscono che dal 20 ottobre i casi in età scolare non crescono allo stesso ritmo degli altri. Inoltre, sembra che abbiano raggiunto una certa staticità, un “plateau”, che però dovrà essere confermato dalle informazioni che arriveranno nelle prossime settimane. Pure in quel caso bisognerà tenere conto del numero e della tempestività dei tamponi effettuati, anche a fronte delle scuole superiori e medie chiuse nel frattempo. Un altro punto focale – già anticipato nei giorni scorsi prima dal presidente dell’Iss Brusaferro e poi anche dal premier Conte – è l’effettiva incidenza più bassa nelle fasce d’età più basse (al 26 ottobre la fascia 11-18 anni copriva circa il 70 per cento dei contagi tra i 3 e i 18), senza però che sia possibile identificare con certezza se sia per una minore trasmissibilità, per una minore capacità diagnostica o per un minor numero di contatti a rischio.

Il punto è quindi sempre lo stesso: se non si riesce a tracciare il contagio, a ricostruire la catena di trasmissione (e non ci si riesce) non è possibile dire quale siano causa e origine del contagio. Dunque, a parità di carenza di informazioni, non resta che decidere (politicamente?) quale sia l’attività su cui rischiare. Forse tra banchi distanti, trasporto controllato, mascherine obbligatorie, staticità e finestre aperte, la scuola (soprattutto dei più piccoli) è al momento il posto più sicuro e controllabile.

Questa serie di informazioni almeno per il momento sembra aver placato le spinte alla chiusura che arrivavano da diverse parti e aver garantito la salvaguardia dello status quo sulla scuola, che rimarrà invariato fino allo scadere dell’ultimo dpcm. Al ministero, dove il dato della settimana scorsa sui positivi nella popolazione studentesca è dello 0,4 per cento, si pensa al dopo: al Cts è stato chiesto formalmente se, come e dove si stanno usando i test rapidi, nell’ottica di poterli introdurre anche in ambito scolastico per un uso immediato, così come di sapere se in uno scenario di restrizioni più forti sia possibile, e anzi sensato, mantenere aperta la scuola anche alla luce del fatto che l’andamento dei contagi nelle fasce più giovani della popolazione appare più lento.

Come curarsi a casa: meglio l’aspirina dell’idrossiclorochina

Saturimetro sempre a portata di mano. Sì a paracetamolo, aspirina e cortisonici ma no all’idrossiclorochina, che al momento risulta inefficace. Il farmaco che Matteo Salvini vorrebbe gli fosse somministrato in caso di contagio – come da sue dichiarazioni del 6 novembre – è stato inserito dall’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) fra le terapie non raccomandate per il Covid-19, nell’ambito delle linee guida sulla “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione dal Sars-Cov-2”. Inutili anche gli integratori vitaminici e alimentari (vitamina D, lattoferrina, quercitina). Il documento è ora al vaglio del ministro della Salute Speranza e ha lo scopo di uniformare il lavoro dei medici di famiglia per la gestione domiciliare dei pazienti, anche gravi, in una fase in cui i posti letto negli ospedali scarseggiano.

Ai medici di base vengono prospettati cinque stadi della malattia: asintomatica o presintomatica, lieve, moderata, severa e critica. A seconda dell’evoluzione vengono consigliati dei farmaci. Promosso il paracetamolo, utile per abbassare la febbre in fase sintomatica. Bene anche il cortisone, specialmente in pazienti il cui quadro clinico non migliora entro 72 ore, ma questo tipo di farmaci non deve essere utilizzato in maniera continuativa. L’eparina, invece, va utilizzata nei casi più gravi, soggetti che non siano immobilizzati a causa dell’infezione; anche il Remdesivir, farmaco anti-artrite reumatoide, va somministrato in maniera oculata: il suo beneficio sembra dimostrato solo in ossigenoterapia.

Tra i farmaci non raccomandati, ci sono gli antibiotici, “come per tutte le infezioni virali”, specifica il documento – altre associazioni farmacologiche come Lopinavir/ritonavir, Darunavir/ritonavir o cobicistat, e soprattutto l’idrossiclorochina. Quest’ultimo farmaco ha fatto molto discutere nei giorni scorsi. Ci sono studi indipendenti, pubblicati su riviste di settore, che paventano l’efficacia dell’antireumatico in chiave Covid, nonostante il parere negativo dell’Oms.

Il dibattito che ne è nato ha spinto il leader della Lega, una settimana fa, a dichiarare che “l’idrossiclorochina è un farmaco usato in Cina, Germania e tanti altri Paesi: se mi ammalassi io la chiederei”. L’Aifa sostiene che “numerosi studi clinici randomizzati ad oggi pubblicati concludono per l’inefficacia” anche se “l’uso in pazienti ambulatoriali con malattia lieve e in fase iniziale potrebbe essere meritevole di un ulteriore approfondimento”. L’Iss, inoltre, consiglia il monitoraggio costante della saturazione dell’ossigeno: sotto il 92% a riposo, bisogna chiamare il 118.

È raccomandato poi non utilizzare l’aerosol se in isolamento con altri conviventi, avere un’idratazione e nutrizione appropriata e non interrompere altre terapie croniche in corso. “Si tratta di uno strumento molto utile che permette ai medici di famiglia un’omogeneità di trattamento”, afferma Antonio Magi, presidente dell’Ordine dei Medici di Roma. Critici invece i sindacati. “Sono procedure che già eseguivamo – afferma Pina Onotri, segretaria generale dello Smi – Attendiamo ancora di essere messi in condizioni di visitare i pazienti a casa, con strumentazione adeguata per ecografie ed esami del sangue”.

Ancora più duro Pier Luigi Bartoletti, vicesegretario Fimmg e responsabile Usca per la Regione Lazio: “Servirebbero meno protagonismi e più fatti. Queste non sono delle linee guida, ma libere argomentazioni basate su esperienze personali. Ma quali esperienze poi? Insieme al professor Emanuele Nicastri dello Spallanzani avevamo già redatto le nostre note interne di gestione, ma non ci siamo fatti tutta questa pubblicità”.

Locatelli e Rezza: “Il virus frena”. Regioni rosse verso l’arancione

Nelle slide mostrate ieri dal professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, Lombardia e Piemonte sono già arancioni perché l’ultimo calcolo di Rt, che si ferma al 4 novembre, le colloca nello scenario 3 (Rt tra 1,25 e 1,5) e non più nel 4 (Rt oltre 1,5) che prevede le chiusure regionali. La Lombardia è a 1,46 e il Piemonte a 1,31 dopo aver superato o sfiorato 2. “Alcune Regioni che avevano Rt da zona rossa sembrano andare incontro a una de-escalation”, ha spiegato il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero della Salute. Per i tecnici può essere l’effetto delle misure del 25 ottobre (bar e ristoranti chiusi alle 18, stop a palestre e piscine).

Lombardia e Piemonte non diventeranno arancioni, le ordinanze durano 15 giorni e sono in vigore dal 6 novembre. Semmai, alla scadenza, il ministro Roberto Speranza potrebbe attenuare le restrizioni nelle province di Bergamo e Brescia, le più colpite dalla prima ondata e le meno colpite oggi: se si guarda all’incidenza, calcolata sui dati regionali 31 ottobre-13 novembre, Varese, Monza/Brianza, Como e Milano sono al primo, al secondo, al terzo e al quinto posto, dai 1.569 positivi ogni 100 mila abitanti di Varese ai 1.373 del capoluogo, mentre Brescia è 64esima (506, sotto la media nazionale a 710) e Bergamo 91esima (345). Il Piemonte, che ha sei province tra le venti più colpite (Torino è settima: 1.182), sta peggio della Lombardia: passano ben 9 giorni tra i sintomi e diagnosi, quando la media è 3 e la Lombardia è a 5. In generale c’è “una decelerazione che andrà confermata – ha detto Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità – e questo deve essere motivante per andare avanti con le misure stringenti”.

Ieri il bollettino segnava 37.255 nuovi casi, meno dei 40.902 di venerdì ma con 227.695 tamponi contro 254.908. I tamponi positivi sono il 16,4%, il dato sembra assestarsi dopo la progressione di ottobre (da 3 al 14%). I morti aumentano e saranno gli ultimi a diminuire: ieri 544 contro i 550 di venerdì. Frenano un po’ i ricoveri, ieri 484 (1.041 venerdì), ma la situazione degli ospedali resta drammatica, quindici Regioni sono fuori dalle soglie. Nei reparti ordinari siamo a 31.398 degenti, da tre giorni oltre il picco del 4 aprile (29.010). In terapia intensiva sono 3.306, sempre più vicini ai 4.068 del 3 aprile: ieri sono aumentati di 76, ieri l’altro di 60. Fino a qualche giorno fa l’aumento superava i 100 al giorno, poi è iniziata la frenata sottolineata ieri da Locatelli.

Anche Liguria e Sicilia, arancioni, vedono Rt scendere, rispettivamente, da 1,37 a 1,1 e da 1,28 a 1,13: nelle slide sono già gialle. Restano invece nello scenario 4 le altre aree rosse: la Val d’Aosta (Rt a 1,74 e l’incidenza ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni a 1.263, sesta in Italia) e Bolzano (Rt a 1,59 e 1.429 casi ogni 100 mila, quarta in assoluto). La Calabria, altra regione rossa, ha visto una diminuzione di Rt a 1,38, ha un numero molto inferiore di casi e sarebbe quasi da scenario 2, ma è ritenuta “non valutabile” per altri problemi: per dirne uno comunica la data di inizio sintomi, indispensabile per calcolare Rt, solo per il 33,7% dei casi, quando la soglia è il 60% (solo Basilicata, 52% e Val d’Aosta, 45,7%, sono sotto). Campania e Toscana, invece, sono rosse perché l’Rt (al 4 novembre) è salito rispettivamente a 1,62 e 1,8 mentre la media scendeva da 1,72 a 1,43.

Undici regioni, nelle slide dell’Iss, sono a rischio perché hanno ridotto il tracciamento e le indagini epidemiologiche o vedono aumentare il rapporto positivi/tamponi o manca il personale: sono Val d’Aosta, Lombardia, Alto Adige, Toscana, Calabria (rosse), Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia (arancioni), ma anche Lazio, Veneto e Sardegna (gialle). Ci va vicina l’Emilia-Romagna, arancione perché Rt è a 1,4 e i focolai aumentano più che altrove: tra il 2 e l’8 novembre 7.317 positivi non riconducibili a catene di trasmissione note su circa 12 mila, solo Lombardia e Piemonte hanno valori assoluti più alti. E il Lazio, dove gli ospedali tengono più che altrove, vede un aumento di casi che potrebbe far scattare l’arancione al prossimo monitoraggio.

Esame di immaturità

Vorrei tanto che fosse vera una delle balle che si raccontano sul mio conto: e cioè che sarei il capo occulto, o addirittura palese, dei 5Stelle. Almeno capirei qualcosa dei loro Stati generali, che si tengono via web causa Covid: prima sui territori, ieri e oggi a livello nazionale. Da gennaio, uscito Di Maio, non hanno un capo eletto dalla base, ma un reggente di transizione, Vito Crimi, che in dieci mesi è invecchiato di dieci anni appresso alle beghe da asilo Mariuccia di galli e galletti. Fra qualche giorno verrà eletto dagl’iscritti un vertice collegiale di 5 persone (ma qualcuno ne vorrebbe 7). E questa è l’unica buona notizia: il partito di maggioranza relativa, principale azionista del governo Conte, non può più restare acefalo. Le altre sono pessime. Grillo è distante e silente, anche se non si esclude un colpo di teatro in extremis. Casaleggio jr. s’è tirato fuori perché “è già stato tutto deciso” e tra chi “scrive le regole” c’è chi “non le rispetta” (qualche bonifico in ritardo): cioè ha capito che non può decidere tutto lui e l’orientamento maggioritario è quello di usare la piattaforma Rousseau come struttura di servizio e non più come segreteria-ombra e cassa-ombra. La Appendino, candidata ideale al nuovo direttorio, l’ha impallinata un giudice con una sentenza lunare, ma soprattutto l’incapacità del M5S di riammetterla dopo l’autosospensione, alla luce dei fatti oggetto della condanna che non ledono minimamente la sua moralità (una posta del bilancio comunale inserita nell’anno sbagliato). Di Battista non ha ancora detto se si candida; però vuole un M5S equidistante da centrodestra e centrosinistra, ma senza far cadere il governo M5S-centrosinistra; paragona gli (ex?) amici ministri all’Udeur, anche se Mastella alla Giustizia debuttò con l’indulto e Bonafede con la Spazzacorrotti, la blocca-prescrizione, il nuovo voto di scambio e le manette agli evasori; e chiede, come Casaleggio, che non si deroghi al limite dei due mandati e si pubblichino i risultati del voto dell’altroieri dove pare sia arrivato primo (ma non era l’elezione del capo politico, né un concorso di bellezza: soltanto la scelta dei 30 relatori che parleranno oggi).

Regolette, formulette, schede, mandati, scontrini, quote sociali, piattaforme online: ma a chi interessa ‘sta sbobba? Siamo nel pieno di una pandemia mondiale che sta cambiando il pianeta e impone a tutti un nuovo Welfare, un nuovo ambientalismo, un nuovo modello di sviluppo. E i 5Stelle, cioè la forza politica italiana più attrezzata per storia e Dna a dare risposte innovative sul futuro, oltreché la spina dorsale del governo con un buon premier indicato da loro e una serie di buoni ministri, che fanno?

Si accapigliano su minutaglie da trapassato remoto che non fregano niente e non scaldano nessuno. Ieri, ai tavoli tematici, i 305 delegati hanno parlato di cose serie. E si spera che producano un nuovo programma all’altezza di questa fase drammatica e appassionante. Però, mediaticamente, chi ha la responsabilità di comunicare il percorso ha proposto all’opinione pubblica il solito spettacolo autoreferenziale di questioncine e ripicchine, tanto meschine quanto odiose e noiose. Proprio mentre al governo i 5Stelle danno prova di maturità e anche di capacità, nella gestione interna regrediscono all’infanzia, mostrando un’immaturità e un’inadeguatezza che ingigantiscono il vuoto lasciato dai due padri fondatori: l’uno distante, l’altro defunto. Nei momenti cruciali, Grillo e Gianroberto Casaleggio si erano sempre mostrati all’altezza del compito, dando prova di pragmatismo e flessibilità. Anche rispetto alle sacre regole interne che, non essendo i 10 Comandamenti o la Costituzione o il Codice penale, si possono cambiare o derogare, perché sono al servizio del Movimento (non viceversa). Una classe dirigente non si improvvisa: buttare a mare quella faticosamente formata in questi anni per il tabù del terzo mandato, o qualche scontrino in ritardo, o una sentenza su un bilancio comunale sbagliato, sarebbe follia. Basta spiegarlo e la base capirà, come l’ha già capito per la Raggi che si candida per la terza volta. Persino il più occhiuto custode delle regole, Casaleggio senior, era pronto a cambiarle per il bene del M5S: infatti nel 2015 pressò Di Battista perché si candidasse a sindaco di Roma, anche se per statuto non poteva farlo perchè era già deputato.

Oggi le ragioni per votare 5Stelle sono in parte diverse da quelle delle origini: onestà personale; sobrietà nei comportamenti politici; una leadership di persone competenti e perbene che non abbiano ancora ricoperto ruoli dirigenziali (modello Appendino o Patuanelli, per intenderci); una ritrovata unità interna con idee diverse e responsabilità comuni (anche con Di Battista o con un rappresentante della sua area); e soprattutto contenuti. È sui contenuti che ha senso “tornare alle origini”, cioè al radicalismo civico, ambientalista, legalitario, tecnologico e sociale dei primi Meetup, ribadendo e rimpolpando il programma iniziale delle 5 Stelle in pochi punti da attuare nei prossimi anni. Non sulle formulette tipo “terzo polo” che, per chi stava al governo con la Lega e ora col centrosinistra, fanno ridere i polli. Riusciranno i nostri eroi a ricordare chi sono e da dove vengono per capire dove andare? Lo sapremo presto. Il tempo per il colpo d’ala è poco: qualche giorno, non di più.

Il debito globale, fase estrema di un capitalismo diventato religione

“Siamo alle prese con la novità di una straripante creazione di moneta da parte delle istituzioni bancarie centrali e delle politiche di quantitative easing (Qe) praticate dalle banche centrali americana, europea e giapponese”. La citazione esemplifica gran parte del lavoro di Paolo Perulli, che insegna Sociologia economica all’Università del Piemonte orientale, ma il libro non è propriamente un testo economico quanto una riflessione sociologica e anche filosofica, oltre che economica, sulla grande novità del capitalismo, la sua “fase estrema”. Il circuito del debito, nato nei meccanismi di base del capitalismo, come strumento per generare ricchezza da distribuire successivamente, ormai si è pienamente “autonomizzato e liberato dalle regole” provocando crisi che alla fine costringono gli Stati a salvare le banche. “Se in passato la creazione di debito era fisiologica, oggi è patologica”.

Il risultato è un capitalismo più complicato, “mimetico e sfuggente”, difficile da contrastare “occupando Wall Street”. Per spiegarne la realtà Perulli ricorre a Max Weber e soprattutto a Walter Benjamin, per cui il capitalismo è come una “religione” a cui siamo spinti a credere. E in questa religione “il debito e la colpa” contrastano l’attività del capitalista finanziario tutto voracità e profitto. Il debito diventa così un tallone d’achille e, come dice Baudrillard, non verrà nemmeno mai ripagato. Siamo nel pieno di una tendenza all’esplosione che prima o poi potrebbe accadere a meno di non privilegiare finanza etica e prodotti finanziari a impatto ecologico. O, come propone Perulli, una globalizzazione decentrata, un capitalismo territorializzato e democratico. La “religione” può essere superata da “un’antropologia utopica” una visione che parta dall’individuo e “dal basso”, dalle città, ripensando anche gli Stati. In una nuova etica globale, difficile a farsi ma necessaria.

Il debito sovrano – Paolo Perulli, Pagine: 320, Prezzo: 20, Editore: La Nave di Teseo

 

“Noi nere britanniche: finalmente parliamo”

Un coro di voci intona le infinite sfumature umane attraverso la diaspora africana in Inghilterra, da fine 800 a oggi, “una realtà che molti lettori ignorano perché gli scrittori afro-discendenti non hanno ancora sufficiente impatto globale. L’Africa è poi quasi sempre stata rappresentata col filtro del colonialismo, per cambiare prospettiva serve curiosità. Noi nere britanniche sappiamo che se non scriviamo di noi stesse, nessun altro lo farà. Quando una cosa è invisibile va portata alla luce”, spiega Bernardine Evaristo, 61 anni, madre inglese e padre nigeriano, premio Booker Prize 2019 con Ragazza, donna, altro (Sur) – Obama lo ha adorato – prima donna di colore in 51 anni, ex aequo con I testimoni di Margaret Atwood (le due si stimano molto), pur se il regolamento prevede un solo vincitore.

Evaristo opta per una polifonia femminile orchestrata dal desiderio di raccontare bellezza e necessità dell’eterogeneità, della diversità, senza azzannare gli stereotipi di matrice patriarcale-paternalistica, ma servendosene saggiamente a mo’ di lente per svelarne i limiti. Veste la narrazione con gli abiti del femminismo intersezionale (non tutti i protagonisti ne sposano le idee o sanno di cosa si tratti), evitando i fanatismi e la diffusa, erronea, idea che donne contro uomini sia la strada per la parità. Intesse, con uno stile sperimentale che ha il fluido incedere della poesia, ritratti-mondo di quante più figure femminili possibili, quasi tutte di radici africane o afro-caraibiche, cittadine di Londra, Newcastle, Oxford e della contea di Northumberland, riuscendo a non far mai passare chi è other, altro rispetto al socialmente accettato, e othered, cioè escluso per etnia, genere, orientamento sessuale, estrazione o posizionamento sociale, come vittima.

Evaristo, che afferma con piglio di essere “padrona di se stessa”, sa quanta visibilità dia il Booker. “Sono in circolazione da 40 anni, non da ieri. Il mio primo amore è stato il teatro (negli Anni 80 ha fondato il Black Women Theatre, prima compagnia teatrale anglosassone per artiste di colore, ndr), la scrittura la mia vocazione. Ho avuto una carriera sana, Penguin mi pubblica da un ventennio. Non sono mai rimasta in un angolino pensando di non valere, ma sono ambiziosa, volevo di più. Ora che ho questa chance, adesso che le persone mi ascoltano, continuerò a parlare e sensibilizzare sulle questioni che contano”.

Quest’opera magnetica e fluviale è per Evaristo, “l’intreccio di molte vite a scandagliare molteplici temi: amore, legami familiari, sessualità, immigrazione, emancipazione, razzismo, sogni e ambizioni, gioia, dolore, riscatto. È anche un romanzo sulla marginalizzazione delle donne e su quanto e come si marginalizzano tra loro”. Sfilano, a ognuna è dedicato un capitolo, la regista teatrale lesbica, l’ambiziosa studentessa universitaria, la collaboratrice domestica, l’impiegata nella finanza, l’insegnante, la transgender attivista, la novantenne visceralmente attaccata alla sua dimensione rurale… Sono amiche, madri e figlie (su questo rapporto Evaristo insiste) o conoscenti, tutte in qualche modo connesse. Sono etero, gay, non-binary o più semplicemente amano senza appiccicare etichette ai sentimenti.

Qualcuno potrebbe pensare che assegnarle il Booker sia stato un gesto politicamente corretto ma lei rifiuta l’idea: “Se una persona di colore viene assunta in un’azienda a maggioranza bianca ecco che è politically correct. Io vinco il Booker e la solfa è la stessa. Quando dire politicamente corretto equivale a criticare la politica progressista è come sputare in faccia a chi lotta per ciò in cui crede. Perché svalutarmi così? La mia vittoria è un micro allontanamento dallo status quo, bisognerebbe gioirne”.

L’epilogo è la chiusa perfetta: il debutto al National Theatre di Londra della regista Amma (in lei risuona molto dell’autrice), dopo una vita a lottare contro l’establishment che l’ha sempre esclusa, relegandola all’underground, è il frangente in cui alcune tra le donne con cui il lettore ha familiarizzato, al punto di affezionarsene, convergono nello stesso luogo rendendo concreto il concetto inglese di togetherness, unione e solidarietà. Ognuna è un tassello e pare dire eccomi, eccoci. Io sono questa, noi siamo queste, tu chi sei? Il variopinto mosaico che compongono è una storia che, ora, appartiene a tutti.

Il giallo postumo di Crapanzano: un delitto passionale nella Milano Anni 50

Dario Crapanzano, classe 1939, è morto il 21 ottobre di quest’anno. Era un pubblicitario milanese che aveva esordito da giallista a oltre settant’anni, nel 2011. Le inchieste del commissario Arrigoni hanno riscosso un discreto successo e adesso è uscita, postuma, l’ultima: Arrigoni e il delitto in redazione. Le storie sono ambientate nella Milano degli anni cinquanta e il segreto di Crapanzano è la sua prosa. In un genere sovente incline a immagini truci e dialoghi estremi, con ritmi sincopati e talvolta confusi, lo scrittore meneghino era, anzi è l’esatto contrario. I suoi personaggi si esprimono in un italiano d’antan, semplice e immediato, e mantengono il loro senso del pudore anche nelle occasioni più drammatiche.

Del resto, siamo appunto nell’Italia del secolo scorso. È il 1958. A Milano non c’è ancora la metropolitana e la famiglia del commissario Arrigoni è una delle poche ad avere un televisore. E così un sabato sera assiste per la prima volta alla serata finale del festival di Sanremo, quello vinto da un giovane sconosciuto di nome Domenico Modugno, con la canzone Nel blu, dipinto di blu. Il poliziotto sta indagando sull’omicidio di un brillante trentenne che lavorava da redattore capo in un’importante casa editrice. È stato trovato con la gola tagliata nella sua abitazione. Nessun furto, nessun segno di scasso. Alberto Masserini, questo il nome, era bello e aveva numerose amanti nonché una relazione omosessuale con un avvocato sessantenne. Il metodo di Arrigoni e dei suoi collaboratori è tutto logica, intuizioni e suola di scarpe consumate in vie e viali della loro città. Senza dimenticare le pause pranzo nelle trattorie toscane di Milano. Altro che fast food.

Arrigoni e il delitto in redazione – Dario Crapanzano, Pagine: 167, Prezzo: 15, Editore: Sem

 

Nora e Pasquale, dolore e vendetta secondo Manzini

La chiave la dà lo stesso Antonio Manzini quando spiega qual è la sua Stella Polare davanti a una tastiera: “Sono uno più da domande che da risposte”.

E nel suo libro da poco pubblicato, Gli ultimi giorni di quiete, le domande sono infinite, alcune delle quali solo in apparenza possono trovare una risposta circoscritta alle ore di lettura, mentre altre continueranno a macerare, a restare sopite, a scavare, a cambiare forma, a riprodursi nel tempo. Sono domande verso se stessi; se stessi rispetto agli altri; come affrontiamo le variabili; chi siamo noi per giudicare, per capire, per vivere, per sopravvivere.

Se è giusto sopravvivere.

E ancora: qual è il ruolo della Giustizia. La distanza tra realtà e teoria, tra paura e lucidità, tra coscienza e rabbia.

Tutto parte da un incontro in treno, quando una donna, all’improvviso, si rende conto che il signore poco distante da lei non è un incubo, ma l’assassino del suo unico figlio: è colui che anni prima gli ha sparato durante una rapina nella tabaccheria di famiglia, quindi arrestato, processato, condannato. Incarcerato. E, evidentemente, libero.

Da qui Nora (la mamma) inizia un altro percorso, il suo corpo e la sua mente lentamente si dissociano da quei brandelli di vita (era vita?) scampati alla tragedia, e solo con un’eco d’amore e stima tenta di rendere partecipe il marito, Pasquale, uomo posato, prevedibile, categorico nella sua organizzazione quotidiana.

Così la questione centrale diventa solo una: e ora?

Nonostante i decenni di matrimonio, il rispetto e la comune perdita, marito e moglie diventano due occhi su uno stesso viso, ma uno è miope, l’altro è presbite: non coincidono le reazioni, non si condividono le decisioni, tantomeno il dolore.

Lei si chiude in casa. Lui cerca una pistola. Lei esce di casa e indaga sull’assassino. Lui torna in tabaccheria. Lei trova l’assassino. Lui lo capisce. Lei decide il suo percorso. Lui anche, il suo.

Il concetto di “loro” è perduto, perché “non resta che qualche svogliata carezza, e un po’ di tenerezza”, cantava De André.

Quindi niente Rocco Schiavone, quel clima, quelle atmosfere, quel tipo di scrittura in questo caso sono rimaste nella penna dell’autore: solo in un paio di occasioni Manzini sta per cedere alla battuta, allo humour nero, ma come uno schiaffo sulle mani, torna indietro e li soffoca. Preferisce una narrazione senza respiro, cruda, diretta, alcuna piaggeria, solo avvolta dallo sconforto e dalla resa di chi ha davanti l’imperscrutabile; una narrazione simile ai romanzi di Simenon, quando attraverso pochi aggettivi e qualche riferimento spazio-temporale, è possibile stare accanto a Nora quando scopre il carnefice; o vedere Pasquale nella sua attesa quotidiana.

Tempo fa lo stesso Manzini in occasione dell’uscita di Orfani bianchi, aveva precisato: “Senza il successo di Schiavone, non sarei mai potuto uscire con tale romanzo”. Sono passati anni. Il suo vice-questore è oramai una certezza. Così come la capacità di scrittura di Manzini e il suo coraggio di affondare in quei perché che a volte non trovano alcuna vera risposta se non sulla pelle di chi li vive.

 

Gli ultimi giorni di quiete – Antonio Manzini, Pagine: 231, Prezzo: 14, Editore: Sellerio

Gérard Depardieu, indomito anche sul set

Kim Rossi Stuart gira a Tarquinia Brado, il suo terzo film da regista da lui definito un “western metropolitano” di cui è anche l’interprete principale accanto a Barbora Bobulova, Saul Nanni e Viola Sofia Betti. Il 51enne attore romano è insieme a Massimo Gaudioso anche lo sceneggiatore del film prodotto da Palomar e Vision Distribution.

Sono iniziate a Roma le riprese del teen movie di Elisa Amoruso Time is up interpretato da Bella Thorne – amatissima attrice americana 23enne nota per Il sole di mezzanotte,

Sei ancora qui e Famous in love – e dal suo compagno Benjamin Mascolo, popolare metà (con Federico Rossi) del duo musicale Benji e Fede. Il film prodotto da Marco Belardi racconterà la storia d’amore tra Vivien e Roy, due adolescenti dalle personalità apparentemente opposte: lei è una studentessa di talento che sogna una prestigiosa Università americana, lui un ragazzo problematico a causa di un trauma infantile.

Quattro film già girati nel 2020 e due sul set nei prossimi mesi per l’infaticabile Gérard Depardieu: Comédie humaine è un adattamento di Xavier Giannoli de Le illusioni perdute di Balzac in cui recita con Cécile de France e Xavier Dolan; Do you do you Saint-Tropez? è una commedia brillante di Nicolas Benamou con Christian Clavier e Benoît Poelvoorde; Umami è un allegro film franco-giapponese di Slony Sow in cui ha ritrovato un antico complice/ sodale come Pierre Richard; Maison de retraite è una commedia di Thomas Gilou ambientata in una casa di riposo dove ha recitato con Kev Adams e l’indomita 85enne Mylene Demongeot. L’insaziabile Gérard si accinge a recitare in Maigret et la jeune morte, adattamento di Patrice Leconte di un poliziesco di Simenon, e in Cetus di Frédéric Forestier dove comunicherà con una balena attraverso suoni, empatia e amore in un percorso di “guarigione” reciproca.