Arriva Lady Diana e tutti i riflettori tornano a illuminare la principessa

Bastano le immagini di Lady Diana che al braccio del padre, Lord Spencer, incede esitante lungo la navata centrale della St. Paul’s Cathedral di Londra, immersa – quasi affogata – nel suo abito meringa ricreato alla perfezione fin nel dettaglio del suo lunghissimo velo per comprendere la dirompente e toccante bellezza della quarta stagione di The Crown, la serie sulla famiglia reale firmata dal premio Oscar Peter Morgan che continua a riaprire ferite e stanze segrete di Buckingham Palace.

A ventitré anni dalla sua scomparsa, è infatti la “Principessa del popolo” (così come la definì l’allora primo ministro Tony Blair all’indomani della morte nell’agosto ’97) il centro d’attrazione dei nuovi episodi, disponibili su Netflix da domani. Per l’attrice Emma Corrin (esordiente assoluta e con una somiglianza commovente con la giovane Diana, dall’espressione naïve ai grandi occhi) è “un’opportunità eccezionale – soprattutto, chiosa – per renderle giustizia”. Negli iconici anni Ottanta – la stagione procede dal ’77 al ’90 –, la vediamo, allora, felice alle prime uscite con Carlo (Josh O’Connor, magnetico protagonista di La terra di Dio, 2017) e alla nascita del primogenito William. Dopo, spaurita quando – compreso che il principe di Galles ama ancora Camilla – implora la regina (l’attrice premio Oscar Olivia Colman, sempre ottima nei panni dell’imperturbabile Elisabetta II da adulta) di aiutarla a salvare il suo matrimonio in un moto di sgradita confidenza. Ed eccola, infine, disperata che si abbuffa di dolci per poi abbracciare il water e vomitare. Ma accanto al dramma di Diana, si raccontano le difficoltà dell’Inghilterra (la guerra delle Falkland, le bombe dell’Ira, la “cura” all’economia) nell’era di Margaret Thatcher, che Gillian Anderson incarna, è il caso di dirlo, magistralmente tanto nella voce arrotata e acuta, quanto nella gestualità, a partire dagli inchini profondi che la Iron Lady rivolgeva a sua maestà.

 

Con “The Liberator” la Storia è un cartoon

C’è davvero bisogno di un budget multimilionario per girare un film o una serie di guerra? La domanda sorge spontanea guardando The Liberator, la nuova miniserie di Netflix che ricostruisce la storia di Felix L. Sparks e dei Thunderbirds, i soldati americani che contribuirono alla liberazione dell’Italia dai nazifascisti e dopo 500 giorni di combattimenti in Europa furono tra i primi a entrare nel campo di concentramento di Dachau. The Liberator è la prima serie animata realizzata con il Trioscopio, una tecnica che utilizza le riprese dal vivo come traccia per la creazione in digitale di personaggi e luoghi.

Il protagonista è Felix Sparks, giovane capitano del terzo battaglione, 157esimo reggimento di fanteria, 45esima divisione dell’esercito Usa, che nel 1943 sbarcò in Sicilia per partecipare all’invasione alleata dell’Italia. I soldati al servizio di Sparks erano cowboy bianchi, nativi americani e immigrati messicani: uomini che in patria non potevano bere negli stessi bar, ma che in Europa combattevano fianco a fianco sotto la stessa bandiera. “La diversità è un elemento molto importante” ha spiegato lo showrunner Jeb Stuart, sceneggiatore dei film Trappola di Cristallo e Il Fuggitivo. Per Barry Jossen, a capo degli A+E Studio che hanno prodotto la serie, “questa storia ha degli elementi incredibilmente rilevanti per i tempi in cui viviamo”.

Il capitano rimase gravemente ferito, venne ricoverato in Nord Africa e poi congedato, ma decise di disobbedire agli ordini e partecipare alla battaglia di Anzio. Il viaggio dei Thunderbirds e di Sparks, promosso nel frattempo maggiore, proseguì nella Francia già liberata dai tedeschi e in Germania, dove furono tra i primi a entrare a Dachau. La serie è scandita dalle lettere che Felix inviò alla moglie Mary, lettere in cui spiegava perché non poteva abbandonare i suoi soldati: “Quando ti ho lasciato per venire qui avevo paura di perderti, di non tornare mai più, di morire. Ma ho iniziato questa guerra con uomini a cui dovevo molto. Mary, non mi aspetto che tu capisca, ma non è ancora ora di tornare. Adesso non ho più paura”.

La storia di The Liberator, basata sull’omonimo libro del giornalista inglese Alex Kershaw, non è meno avventurosa delle vicende che racconta. Inizialmente doveva diventare una serie live-action di otto ore per History Channel, ma i costi eccessivi (120 milioni di dollari per 14 mesi di produzione) costrinsero ad abbandonare il progetto. Si tornò a lavorare a The Liberator con l’idea di trasformarla in una serie animata. Questo permetteva di contenere il budget ma presentava un altro problema: mentre l’animazione, almeno negli Stati Uniti, è tradizionalmente legata al genere della commedia, in questo caso per usare le parole di Jossen “volevamo dar vita a un drama che fosse il più realistico possibile”.

La quadratura del cerchio è arrivata con la Trioscope Enhanced Hybrid Animation, un’evoluzione del Rotoscopio che permette di mixare le scene girate dal vivo con le animazioni realizzate in computer graphic. Questa tecnologia garantisce da un lato un realismo e un impatto emotivo senza precedenti, perché i personaggi che vediamo sullo schermo – ad eccezione di alcuni dettagli meno definiti come le mani – sembrano davvero persone in carne e ossa. Dall’altro permette di ridurre notevolmente costi e tempi di produzione: se per realizzare una scena di battaglia dal vivo ci vogliono due settimane, in questo caso sono bastati un paio di giorni. Alla fine le quattro puntate di The Liberator sono costate molto meno di un episodio girato in live action.

Nel ruolo del protagonista, Felix Sparks, c’è l’attore britannico Bradley James (Merlin e I Medici). La serie è stata girata in Polonia e il regista è il polacco Greg Jonkajtis, noto per aver curato gli effetti speciali di molti film di successo (gli ultimi sono Avengers: Infinity War e Solo: A Star Wars Story). Jonkajtis ha anche seguito lo sviluppo del Trioscopio: una tecnica che, secondo Jeb Stuart, potrebbe trovare un largo utilizzo nella fantascienza.

The Liberator In onda su Netflix

“The Specials”, un cinema-verità assertivo e allegro

Chiusura dell’ultimo festival di Cannes, premio del pubblico a San Sebastiàn, chicca di Alice nella Città alla recente Festa di Roma, The Specials doveva uscire in sala lo scorso aprile, quindi il 29 ottobre, ma la pandemia ha avuto ancora una volta la meglio: arriva il 18 novembre on demand su Sky Primafila Premiere, MioCinema e IoRestoInSala, dal 23 sulle altre piattaforme digitali. Dietro la macchina da presa ci sono di Olivier Nakache e Éric Toledano, i francesi del successo globale Quasi amici, C’est la vie e Samba, davanti Vincent Cassel e Reda Kateb, “tutto è cominciato dalla conoscenza di Stéphane Benhamou, fondatore dell’associazione Le Silence des Justes. Prendiamo sempre dal reale e poi trasformiamo in finzione: i nostri film raccontano incontri inverosimili tra personaggi di culture, religioni, identità differenti”.

Sullo schermo Benhamou si traduce in Bruno (Cassel), Daoud, direttore dell’associazione Le Relais IDF, in Malik (Kateb), il primo ebreo, il secondo musulmano, entrambi impegnati ad assistere bambini e adolescenti autistici e a facilitarne l’integrazione nella società: non autistici qualunque, bensì casi “estremamente complessi”, quelli che le strutture sanitarie tradizionali non si vogliono sobbarcare. Ma l’operato parigino dei due gemelli diversi non riguarda solo la cura dei pazienti, bensì la formazione dei loro assistenti, diversi per origine e confessione, ugualmente provenienti da quartieri a rischio: un sistema tanto precario quanto virtuoso, permeabile – se non affondabile – dalla burocrazia, salvaguardato dalla comune umanità, benedetto da un tot di incoscienza, il cuore oltre l’ostacolo, e molto altro oltre i protocolli sanitari. Nakache e Toledano sono troppo cinematograficamente edotti per non sapere quanto fosse sensibile il rischio dell’edificante, dell’esemplare e dell’assistenziale, dunque il focus si sposta dagli autistici ai loro tutor, a loro volta soggetti a una sconfessione delle aspettative del pubblico: per dirne una, un Cassel impacciato con le donne quanto vi stupirebbe? Perfetto Vincent, già nella postura, nel vestiario, nella sprezzatura gentile, nella direzione ostinata e contraria rispetto all’istituzione normativa e menefreghista, a ruota un Kateb lontano dai consueti ruoli di duro, incarnano esseri speciali in un universo in cui la normalità non solo non è contemplata, ma nemmeno richiesta: cinema-verità, assertivo e sorridente, scanzonato e perfino canzonatorio, capace di far riflettere senza pensosità, interrogare senza supponenza. Potrebbe tornarvi in mente quel gioiellino italiano di Si può fare, diretto da Giulio Manfredonia nel 2008, ma se l’Onlus fa analogamente la forza, i due registi individuano l’influenza del nostro cinema ne L’oro di Napoli (regia di Vittorio De Sica, 1954), laddove qui preziose sono “le persone: avremmo potuto intitolarlo ‘L’oro di Parigi’”. Già, The Specials è un metallo, pardon, film nobile.

 

“Teatro o cinema? Fortuna che ci sono le soap opera”

La chiamano “contessa”, Vanessa Gravina. E in realtà ha qualche sfumatura da nobile, vuoi per come sta seduta, vuoi per il vocabolario, vuoi per il taglio di capelli e i modi; lei ne Il paradiso delle signore, è la contessa, tutta d’un fiato, Adelaide Costanza Matilde di Sant’Erasmo, uno dei personaggi principali di una soap che su Rai1, ogni pomeriggio, tocca il 20 per cento di share, “e siamo cresciuti durante il lockdown: ora ci guardano pure gli uomini; ogni tanto qualche maschietto mi ferma e di nascosto me lo confessa”.

Lei è un’attrice che a soli 46 anni ha già nel curriculum una serie di discese ardite e risalite, di picchi di successo, come periodi di oblio, altro successo, e così via; Marco Risi, La Piovra, Strehler, Alberto Lattuada, Jerry Calà hanno lei come minimo comun denominatore.

Insomma, per gli appassionati è ‘la contessa’.

(Sorride) Il problema è quando mi fermano: il personaggio utilizza un italiano dell’800, così alla fine mi chiedono un video con il linguaggio da contessa…

Un po’ si scoccia.

Da un lato l’ego di attrice viene soddisfatto, dall’altro mi preoccupo perché mi inquadrano sempre con lei.

‘Finalmente ho un personaggio’, ha sostenuto.

Perché è complicato ottenerne di belli, in generale non ci sono: le donne spesso sono da spalla all’uomo, mentre in questa serie sono le colonne portanti; io ci ho traghettato la mia esperienza teatrale, quindi non mi è ostico l’italiano forbito dei decenni passati.

I teatri sono chiusi, per fortuna c’è la soap…

Stiamo sul set 12-13 ore al giorno; ho una media di due o tre scene a puntata: vuole dire studiare, a settimana, tra le 48 e le 60 pagine; (sorride) la grande qualità della serie è che noi la scena la ripetiamo anche quattordici volte, non tiriamo via.

In questa fase stare in un cast così è una forma di sicurezza professionale.

Sì, però mi piace che dove vado trovo un riscontro con il pubblico, un amore clamoroso, eppure ho girato anche La Piovra e Incantesimo, ma qui è un altro livello.

A teatro ha recitato per Strehler.

Conosciuto quando avevo solo 17 anni: lo vivevo con una paura terribile nonostante avessi sulle spalle già sei o sette anni di lavoro; (ride) la Bonaiuto un giorno mi prese in giro: ‘Ma che a 11 anni già te facevano tirà le pietre?’.

Quindi?

Strehler era un genio-bambino per il suo entusiasmo senza età, ma per tutti il terrore correva sul filo: strillava perennemente, a chiunque, tranne che a me. Eppure aprivo da sola lo spettacolo mentre suonavo il piano. Dopo un’esperienza così, non temi più nulla.

I colleghi la aiutavano?

In teatro c’è molta più austerità, più disciplina rispetto al cinema; e poi, fino a qualche anno fa, c’era una generazione di tombeur, di attori sempre con lo sguardo seduttivo; questo atteggiamento mi straniva.


Tombeur
più che nel cinema?

Senza paragone, anche perché con il teatro stai più tempo insieme.

È passata da Strehler ad Abbronzatissimi 2.

(Ride) Che meraviglia! Ancora lo trasmettono di continuo; ogni tanto qualche insospettabile, magari intellettuale, mi manda un messaggio con la foto del film sullo schermo.

La prima fama con Colpo di fulmine insieme a Jerry Calà.

Ormai rientra nell’immaginario collettivo.

Marco Risi regista.

Lui tosto, quando si incavolava erano dolori; (ci pensa) era un uomo non abituato a perdere tempo, con in testa una ben strutturata idea di cinema, per questo aveva momenti di grande severità.

Cioè?

Una mattina mi fece piangere perché arrivai allegra sul set, forse avevo preso un bel voto a scuola, mentre la scena era tragica. Il giorno dopo mia madre mi svelò l’arcano.

E con la scuola?

Diplomata a 23 anni. In classe mi chiamavano “la signora”.

Ma da ragazzina, i compagni, come la trattavano?

Esperienza terribile, venivo emarginata perché ero la ragazzina protagonista di copertine e di film…

Invidia.

Sì, ma non la codificavo, non capivo, mi sentivo solo emarginata; e pensare che a me delle copertine e dei settimanali non importava nulla.

Non le piaceva?

Per niente, mi rompevo. Preferivo recitare; però ogni volta venivo risarcita con qualche Barbie, per me il massimo; (sorride) ai bambini prodigio non viene perdonata la crescita.

Mai…

Sdoganarmi è stato una degli aspetti più complicati della mia vita, in adolescenza ho vissuto una sorta di choc perché all’improvviso mi sentivo ai margini, in un periodo in cui già ci si mette in discussione.

Come viveva la fama?

Il massimo è stato tra i 13 e i 14 anni quando giravo La Piovra: in Germania era un successo clamoroso, così mi fermavano in continuazione.

Qual è il suo supereroe?

(Ci pensa, sorride) Me stessa.

@A_Ferrucci

Brogli, Trump insiste ma lo staff ritira l’azione legale in Arizona

Gli avvocati della campagna di Donald Trump hanno ritirato l’azione legale volta al riconteggio dei voti in Arizona. La decisione è stata motivata dal fatto che ricontare i voti non potrebbe cambiare il risultato a favore di Joe Biden in quello Stato. Restano non assegnati la Georgia e la North Carolina. Intanto la Casa Bianca di The Donald sembra la Francia di Robespierre: le teste continuano a rotolare, mentre i fedelissimi del presidente preparano un secondo mandato, che – ormai è sicuro – non ci sarà. Si dimettono, perché costretti, alti funzionari del Dipartimento della Sicurezza interna e del Pentagono. Le ultime vittime delle epurazioni ‘trumpiane’ sono Valery Boyd, capo degli affari internazionali, e Bryan Ware, consigliere politico all’agenzia per la cyber-sicurezza e la sicurezza delle infrastrutture, un’agenzia che ha certificato l’assenza di brogli nelle elezioni. E, al Pentagono, Alexis Ross, capo gabinetto aggiunto del segretario alla Difesa Mark Esper (il primo a essere stato licenziato). Peter Navarro, pirotecnico consigliere di Trump per le politiche commerciali, dice a Fox Business: “Ci stiamo preparando a un secondo mandato”. Navarro ricalca il segretario di Stato Mike Pompeo e ribadisce il rifiuto della Casa Bianca di riconoscere Joe Biden presidente eletto. La Cina, invece, prende atto dell’esito delle elezioni e si congratula con Biden, che, secondo un’indiscrezione del Washington Post sta pensando a Hillary Clinton rappresentante degli Usa all’Onu, ruolo che pareva promesso a Pete Buttigieg. Karl Rove, lo stratega politico delle elezioni di George W. Bush, consigliere informale di Trump, scrive sul Wall Street Journal che i risultati delle elezioni non saranno ribaltati.

Mark Zuckerberg, in un incontro con i suoi dipendenti, dice che “l’esito delle elezioni è chiaro” e che “Biden sarà il nostro prossimo presidente”. Il Las Vegas Review Journal, testata del magnate dei casinò Sheldon Adelson, il più generoso donatore di Trump, lo esorta ad ammettere la sconfitta.

“Era Sleepy Joe, ma non con Mosca”

Pochi anni prima che l’Unione Sovietica si dissolvesse, il nuovo presidente americano la visitò sorridendo. Il giovane Joe Biden, nei filmati ora rispolverati dagli archivi delle tv russe, appare accanto ai vertici del Cremlino. Alle spalle della delegazione americana che lo accompagnava si scorge anche l’allora trentenne interprete russo Viktor Prokofiev, laureato del prestigioso istituto Mgimo di Mosca. Nella sua carriera questo linguista della Guerra Fredda si è seduto alle spalle dei leader sovietici nei momenti più delicati della storia, quando il mondo era diviso in due blocchi. “Il primo per cui ho lavorato è stato Michail Gorbacev, che incontrò il presidente Ronald Reagan a Ginevra nel 1985. Poi ho tradotto per Eltsin e Bush. Ho fatto qualche traduzione anche per il presidente Nixon, il francese Mitterrand e la britannica Margaret Thatcher”.

Lei strinse anche la mano di Joe Biden. In quell’occasione tradusse dall’inglese al russo, dal russo all’inglese, senza aiuto di un secondo interprete: la delegazione americana aveva dimenticato il traduttore a casa.

Biden allora era solo un senatore, come fino a poco tempo fa. Nel 1988 era membro del Comitato per le Relazioni Affari esteri, era arrivato a Mosca per rappresentare l’America. Ha discusso con Andrey Gromyko, capo del presidio supremo dell’Urss ed ex ministro degli Esteri sovietico, dettagli dell’Inf, il trattato siglato un anno prima da Gorbacev e Reagan a Washington.

Un accordo che mise fine alla crisi degli euromissili.

L’interpretariato diplomatico ha giocato un ruolo fondamentale nelle relazioni tra Urss e Usa, come accade ancora oggi. Un solo errore in traduzione può determinare fallimenti e tragedie geopolitiche. Gli interpreti che lavorano a incontri politici di altissimo livello come quelli di cui parliamo sono addestrati a mettere le emozioni da parte e a gestire il battito cardiaco. Ma per me, presidenti e capi di Stato sono solo fonti di frasi che porto da una lingua all’altra.

Come era Biden?

Mi esprimo solo in quanto linguista: Biden aveva una maniera calma, piacevole di parlare, non difficile da tradurre.

Può condividere con noi altri dettagli dell’incontro?

Tutto ciò che ho tradotto è coperto dal segreto di Stato per un contratto di riservatezza firmato con il ministero degli Esteri della Federazione russa. Mi porterò quella storia nella tomba.

È rimasto sorpreso quando ha visto che quel senatore sorridente è diventato presidente degli Stati Uniti d’America?

No, affatto.

House of cards: il potere nelle mani dei “big four”

Sembra House of Cards, sono solo le conseguenze dell’amore di Donald Trump per il potere. In attesa che il tycoon decida di ammettere la vittoria di Joe Biden, si danno le carte, si bluffa, si aspetta di capire di chi sia la mano. Al tavolo, secondo il quotidiano Politico, i quattro più potenti politici degli Stati Uniti: Nancy Pelosi, Chuck Schumer, Kevin McCarthy e Mitch McConnell, i “big four”, anche noti come “The Four Corners” (i quattro pilastri). A loro spettano, nel mezzo della pandemia, gli accordi post-elettorali del Congresso.

Guida Nancy Pelosi, la speaker democratica della Camera, eterna e acerrima nemica di Donald Trump, colei che ha caldeggiato il procedimento per impeachment dell’ex presidente e che ha avversato la strategia trumpiana anti-Covid azzoppando il patto con i repubblicani. “Siamo al punto in cui eravamo prima delle elezioni, anzi, ancora di più ora che la pandemia si aggrava. Guardi i numeri, guardi le previsioni della comunità scientifica”, ha spiegato la speaker ai giornalisti di Politico che le chiedevano se la sua posizione critica nei confronti della gestione di Trump dell’epidemia fosse mutata. “I repubblicani sembrano avere un blocco mentale che impedisce loro di fare la cosa giusta”, ha concluso Pelosi.

Secondo viene Chuck Schumer, senatore di New York rieletto leader dem in Senato che fa peggio di Pelosi quanto a strategia, ribadendo che a inchiodare il dibattito sono i repubblicani che “stanno deliberatamente mettendo in dubbio le nostre elezioni senza nessuna ragione, se non perché temono Donald Trump”. “Ho un semplice messaggio per i repubblicani del Senato – ha twittato Schumer – le elezioni sono finite. Il presidente Trump ha perso. Joe Biden sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti e Kamala Harris sarà il prossimo vicepresidente”. Pelosi e Schumer hanno esortato i repubblicani a “fermare il circo” e mettersi “a lavorare su quello che conta davvero per il popolo americano”. Sul fronte dei negazionisti, terzo viene Kevin McCarthy, a capo della più folta minoranza Gop alla Camera dell’ultimo mezzo secolo. Al commento di Pelosi sul mandato, McCarthy ha risposto che in effetti si tratta di “un mandato contro il socialismo, contro il depotenziamento della polizia, contro gli sprechi della maggioranza, ciò che i democratici hanno fatto nell’ultimo Congresso”. La sua strategia è incolpare i dem dello stallo: “Siamo ansiosi e pronti di presentarci al lavoro, a differenza dei democratici. Milioni di americani sono già tornati al lavoro. Se sono disposti a presentarsi di persona, possiamo farlo anche noi”, ha provocato McCarthy. Quanto a Pelosi, non le ha risparmiato un altro attacco: si prepari, perché a gennaio non è così scontato che verrà rieletta presidente. “Bastano 10 dem contrari per mancare la soglia dei 218 voti necessari”. Detto da uno che ha esortato i giornalisti a mettere da parte i pregiudizi sugli eletti di QAnon potrebbe suonare poco coerente, ma tant’è. Quarto, chiude il cerchio Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana al Senato. L’uomo che pochi giorni fa ha assicurato (forse) la permanenza a capo della Cia di Gina Haspel, in odore di siluramento da parte di Trump.

Il dialogo tra McConnell e Pelosi sugli stimoli all’economia sembrava a buon punto. Poi lui si era messo di traverso temendo che chiudere l’intesa avrebbe ingolfato il calendario parlamentare a scapito delle udienze per la nomina della giudice della Corte suprema, Amy Coney Barrett. Ora l’annuncio del vaccino di Pfizer e gli ultimi dati positivi sul lavoro hanno spinto i repubblicani a credere non più necessari gli stimoli.

Sunak, il miliardario traditore

Che il giovane e brillante ministro delle Finanze Rishi Sunak sia un convinto capitalista ci sono pochi dubbi, e non solo per la sua militanza ai più alti livelli del Partito conservatore, che malgrado gli acciacchi resta la forza politica di riferimento per la City. A 40 anni è il parlamentare più ricco della House of Commons, un po’ perché, da primogenito studiosissimo di una famiglia indiana middle class, dopo corsi prestigiosi a Oxford e Stanford e una rapida ascesa a Goldman Sachs, a 30 anni ha creato un suo fondo di investimenti che nel 2010 aveva già un capitale iniziale di 700 milioni di sterline. Un po’ perché è sposato bene, con Akshata Murthy, figlia del miliardario indiano in dollari Narayana Murthy, il cofondatore di Infosys, e con lei si gode fra l’altro un rispettabile pacchetto di proprietà immobiliari di pregio fra il Regno Unito e gli Usa. Però, da ministro delle Finanze dell’era Brexit&Covid, deve trovare un marea di soldi per tappare la voragine nel bilancio britannico: secondo il National Audit Office, solo fino al 7 agosto scorso, le misure pubbliche di supporto alla crisi erano costate già circa 210 miliardi, e questo prima del secondo lockdown, mentre l’Office for Budget Responsibility calcola un indebitamento di 372 miliardi per l’anno fiscale 2020-21. Questo porterebbe il debito pubblico nazionale a 3 trilioni di sterline, oltre il 100% del PIL. Per questo già a luglio Sunak aveva sorpreso maggioranza e opposizione commissionando all’Office of Tax Simplification (OTS) una valutazione degli introiti fiscali ricavati da seconde case, azioni e oggetti d’arte. Tasse più alte per i ricchi? Allora il Tesoro si era affrettato a ridimensionare la richiesta del ministro, dichiarando: “Sono analisi interne. Non c’è nessun piano per cambiare le regole”.

Nel frattempo, la situazione economica del Paese si è impantanata: Sunak ha dovuto rimandare la presentazione del budget triennale che doveva rilanciare le infrastrutture nel Paese, strategia al cuore del manifesto politico di Boris Johnson. E quella “analisi interna” è tornata sulle prime pagine del Financial Times.

Il piano di Sunak, non ancora approvato ma ben più che speculativo, mira a raccogliere 14 miliardi di sterline aumentando la pressione fiscale su seconde case, investitori e pensionati ricchi. La riforma principale riguarderebbe il capital gain, cioè la tassa sull’aumento di valore di certi beni fra acquisto e rivendita. L’esempio è quello delle proprietà immobiliari: al momento della vendita si paga un’aliquota a scaglioni sul valore aggiunto. La più alta è del 28%: il rapporto propone di innalzarla al 40%,o al 45%, parificandola all’aliquota più alta sul reddito, riducendo contemporaneamente le esenzioni disponibili. Una forma di patrimoniale. Non è difficile ricordare un passaggio dell’ultimo manifesto elettorale del partito laburista, in cui si prometteva l’eliminazione delle esenzioni sul capital gain per milioni di proprietari immobiliari. Per non parlare di questo passaggio, che oggi rispetto alla proposta del cancelliere suona quasi timido: “Il Labour riconosce l’inadeguatezza del sistema britannico di tassazione degli immobili privati, ed ha già proposto l’introduzione di una tassa sulle seconde proprietà usate come case di vacanza, misura che raccoglierebbe fino a 560 milioni di sterline”. Sunak corbynista in completo da sartoria? Una provocazione, ma non del tutto. Ad esultare per le misure è anche il Tax Justice Network, gruppo di pressione per la giustizia fiscale regolarmente trattato da illustri e strapagati fiscalisti della City come un sassolino nelle scarpe alla moda.

La paradossale conferma della vocazione socialista di queste misure la fornisce John McDonnell, già ministro ombra dell’Economia nella defunta segreteria di Jeremy Corbyn. In un tweet stizzito e memorabile ha scritto, commentando la notizia: “Un’altra delle mie proposte. L’imitazione può essere la più sincera forma di adulazione ma questo plagio delle mie politiche da parte di Sunak di solito è poco convinto e quindi inefficace”. Non è la prima volta che McDonnell accusa Sunak di plagio ideologico: lo ha fatto anche in occasione del lancio delle green gilts, bond ecologici molto ispirati alla piattaforma Labour sul climate change. Anche la massiccia iniezione di denaro pubblico a sostegno di salari e imprese durante questa crisi ha probabilmente fatto rivoltare nella tomba Margaret Thatcher, che considerava ogni forma di statalismo un tradimento dei valori conservatori.

Quei fuorileggedi bagno e cucina

Non sono un delatore né mi intriga l’idea di diventarlo. È la ragione per la quale non mi passa per la testa l’idea di fare nomi, anche perché non li so. Non solo, cercherò di ridurre al minimo indispensabile indicazioni topografiche che possano permettere di individuare il luogo.

Ma qualcosa bisogna pur dire per dare corpo a un fatto che si ha voglia di raccontare. E il fatto è che conosco, benché sommariamente, persone che possono agire in barba al recente decreto ministeriale che vieta gli spostamenti da un paese all’altro se non per comprovate e solide ragioni. Lo fanno in piena tranquillità, senza il timore di beccarsi multe o reprimende da parte delle forze dell’ordine, per la semplice ragione che abitano un caseggiato che sta a cavaliere del confine tra un paese e quello successivo. Metà sta di qua insomma e l’altra metà sta di là. Non ho idea se il caseggiato in questione sia stato edificato in un’epoca in cui il terreno era di esclusiva proprietà di questo o quell’altro comune e solo successivamente sia avvenuta una tale, singolare spartizione. Né, essendoci mai entrato, posso riferire se la scala interna e i relativi pianerottoli assurgono a simulacri dei cippi di confine, dividendolo equamente. Ma lì sta il bello, poiché mi piace immaginare quanto gli occupanti, in questo periodo di ulteriore restrizione, possano trovare divertimento anche solo all’idea di pranzare nella cucina appartenente ad un comune o fare pipì nel bagno di pertinenza dell’altro, stante una non rigorosa divisione degli appartamenti. Non può non tornare alla memoria il film La legge è legge, anno 1958, interpretato da due miti quali Totò e Fernandel e ambientato nel paesino di Assola letteralmente diviso a metà dalla frontiera italo-francese. Certo nel film le cose grazie a una serie di colpi di scena magistrali si complicano sempre più fino a sfiorare la tragedia finale. Nel caso in oggetto si potrebbe solo cadere nel grottesco, a patto che vi abiti un pater familias esageratamente rigoroso, ligio al rispetto della legge e che pretenda da un familiare la prescritta autocertificazione per spostarsi da un comune all’altro onde raggiungere, che so, la camera da letto per il riposino pomeridiano oppure il luogo comodo, entrambi “oltre confine”. Ben diversa la faccenda appare se si passa a considerare ciò che il decreto permette, cioè la possibilità di un po’ di movimento nei dintorni, nei pressi della propria residenza. Ora, a parte la difficoltà di fare una valutazione metricamente corretta delle espressioni usate, nel caso dei sunnominati, e anonimi, abitatori della singolare casa la cosa si fa molto seria. Questione di pochi metri, due passi o poco più mossi distrattamente e sei già fuori dal comune di residenza. Ed ecco allora che il decreto sul quale magari hanno sorriso poco prima presenta la sua faccia più severa. E severi mi piace immaginarli quando escono per respirare un poco d’aria, cortesi certamente gli uni con gli altri ma poco propensi ad andare oltre la superficie delle buone maniere. Perché, pur abitando lo stesso edificio, appartengono a due paesi diversi, confinanti, a due diversi campanili e certe rivalità son dure a morire. Da cui discende che quest’ultimo decreto, questa sua norma soprattutto, giunge in grandissimo ritardo perché se fosse stato emanato cinquanta, sessanta, anche settant’anni orsono avrebbe risparmiato a un sacco di teste rotte di finire in ospedale. Intendo quegli anni in cui farsi la morosa “oltre confine” significava né più né meno rubare un bene allo stesso ed esigeva spesso avvertimenti difficili da dimenticare. Quegli stessi anni in cui gli incontri di calcio di paese contro paese finivano, quando finivano, a sganassoni cui spesso prendevano parte anche gli atleti in campo. E, a quanto mi si riferisce, talvolta nemmeno le signore si astenevano dal dare una mano, specializzate soprattutto nell’aggrapparsi alle chiome del nemico. Ma mi rendo conto di aver indugiato fin troppo su questa casa, approfittando della bella giornata, guardandola a lungo, fantasticando sui suoi occupanti, e naturalmente stando coi piedi dentro il territorio del mio comune di residenza. Orca, mi accorgo solo adesso che con le ultime parole scritte ho dato già un piccolo indizio atto a individuarla. Ormai è fatta e come si dice cosa fatta capo ha. Tocca però avvisare coloro che volessero mettersene alla ricerca sulla base di una sola flebile traccia che a tutta prima a me pare essere una di quelle abitazioni che vengono utilizzate solo per le vacanze. Pare disabitata al momento, utile soltanto a far nascere idee balzane grazie a un decreto. Vero è che potrei bussare e accertarmene. Ma confesso di non sapere se la porta d’ingresso sta di qua oppure di là, nel qual caso sconfinerei. Mi astengo quindi, non voglio correre rischi inutili. Però confermo, la casa c’è, così come il confine di cui s’è detto.

 

Poveri Benetton, quanto soffrono

Forse c’è una domanda che non vi siete fatti di recente, egoisti come siete: come stanno i Benetton? Fortunatamente Il Corriere della Sera non è così distratto. Stanno così: “Lacerati dalle nuove intercettazioni. Fango che si aggiunge a questi ultimi due anni vissuti con profondo dolore. Una famiglia divisa, sorpresa dai dettagli di cronaca che stanno emergendo”. I dettagli sarebbero le parole con cui Gianni Mion, manager che li fa ricchi da decenni, dice che Giovanni Castellucci – il manager che li aveva resi come Re Mida, cacciato a settembre 2019 – lesinava un po’ sulle manutenzioni stradali per far “felice” la famiglia riempiendola di soldi: loro mica lo sapevano, pensavano fosse normale che un’autostrada facesse più soldi di Google. Comunque, i magliari soffrono: “A Treviso raccontano che queste carte sono l’ennesimo colpo alla tenuta psicologica dei figli dei quattro fondatori” (poverini, si tengono su solo con le pasticche). E il capostipite Luciano? “Raccontano sia furente con Mion e che abbia dovuto avallare il suo ritorno in Edizione perché gli altri rami erano favorevoli”. Ah, traditori! Solo che ora “almeno altri due rami su tre – quelli riconducibili a Sabrina Benetton (figlia di Gilberto) e a Franca Bertagnin Benetton, figlia di Giuliana – sono rimasti sgomenti dalle frasi pronunciate da Mion” che “sembra scaricare le responsabilità della gestione Castellucci su una famiglia famelica a caccia di utili”. Tutta colpa di Castellucci, fellone, e di Mion che ha capito male e sgomenta la famiglia (disclaimer: ciao ciao Gianni). I “rami” nulla sapevano. D’altra parte chi non ricorda il composto dolore con cui i Benetton organizzarono a Cortina un pranzo con 90 invitati il 15 agosto 2018? O lo sgomento con cui Sabrina portò gli amici a festeggiare il compleanno del marito in discoteca il giorno prima, cioè la sera della tragedia del Morandi? Ecco, “ponte”, “Morandi”, “crollo”, “43 morti” e lemmi limitrofi mancano nel pezzo sulla sacra famiglia addolorata dal nuovo “fango”. Sarà una dimenticanza. Sicuro li leggeremo a breve negli articoli sulla preoccupazione degli altri azionisti, fondi d’investimento troppo naif per capire che poche manutenzioni e molti utili sono un mix corrosivo tanto per le aziende che per i ponti.