La guerra in Afghanistan continua. Ritengo molto improbabile che se un combattente talebano o Isis si sveglia la mattina con un po’ di mal di gola dica “oh, oggi non me la sento proprio di battermi, telefono prima al medico di famiglia o alla Asl, ma al Pronto Soccorso non ci vado di sicuro perché lì è pieno di feriti gravi e gravissimi”. La guerra in Afghanistan, per parafrasare Bertoldo al contrario, sono tre: guerra dei Talebani all’Isis, guerra dei Talebani all’esercito “regolare” afgano, guerra dell’Isis contro tutti, soprattutto civili e in particolare sciiti.
Ma è mai possibile che ancora oggi commentatori autorevolissimi non abbiano capito che i Talebani non solo non hanno niente a che vedere con Isis, cioè col terrorismo internazionale, ma lo combattono dal 2015, da quando cioè gli uomini del fu Al Baghdadi hanno cominciato a penetrare in Afghanistan? Possibile che nessuno ricordi la “lettera aperta” che il Mullah Omar nel 2015 scrisse ad Al Baghdadi intimandogli di non cercare di penetrare in Afghanistan perché quella dei Talebani era una guerra di indipendenza nazionale che nulla aveva, e ha, a che fare coi deliri geopolitici dell’Isis? Nella lettera inoltre Omar diceva ad Al Baghdadi qualcosa che dovrebbe interessare noi ma soprattutto i musulmani: “Tu stai dividendo pericolosamente il mondo islamico” fra sunniti e sciiti. E infatti sotto il governo del Mullah, che era sunnita come buona parte dei suoi seguaci, non ci fu alcuna persecuzione della pur consistente minoranza sciita: gli sciiti dovevano rispettare la legge come tutti gli altri, punto e basta.
C’è anche un’importante differenza fra il Califfato del fu Al Baghdadi, o di chi per lui, e l’“Emirato Islamico d’Afghanistan” come Omar chiamò il suo Stato. Il Califfo pretende di discendere da Maometto; Omar, che nasceva da poverissima gente e apparteneva a un modestissimo clan, gli Hotaki, ha sempre rifiutato questa impostazione e così si comportano i suoi successori a cominciare dall’attuale leader Mawlawi Haibatullah Akhundzada, che non è uno dei cinque figli del Mullah (che detestava il familismo all’italiana basato sui rapporti di parentela e non sul merito), ma si è distinto, prima giovanissimo come lo stesso Omar, nella guerra agli invasori sovietici e in seguito nella ventennale lotta ai più micidiali invasori occidentali. Il primo a dare ai Talebani la caratura di “gruppo militare e politico, non terrorista” è stato Putin, che sarà quel che sarà ma è un uomo di Stato e vede lontano oltre a essere un russo, russissimo, della Moscovia. Anche Biden, da vice di Obama, definì i Talebani degli indipendentisti, e ci voleva del coraggio a dirlo in quell’America.
Ma è mai possibile che ogni volta che c’è un atto di guerriglia o un attentato in Afghanistan si aspetti la rivendicazione per attribuirne la paternità? La distinzione è semplice: se sono presi di mira obbiettivi politici o militari, cercando di limitare il più possibile gli “effetti collaterali”, l’azione è dei Talebani, che non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione sul cui appoggio hanno potuto contare nella lunghissima lotta agli invasori occidentali, mentre gli Isis non hanno di queste preoccupazioni.
Ora che gli americani se ne stanno andando dall’Afghanistan (mentre noi restiamo là non si capisce a far cosa, spendendo ogni anno più di 170 milioni di euro, molto utili in Italia in epoca di pandemia: giriamo la domanda al premier, al ministro della Difesa e al ministro degli Esteri Di Maio), il focus è sulle trattative a Doha fra il governo di Ashraf Ghani e i Talebani. Il problema di fondo è: che fare dei “collaborazionisti”, cioè di coloro, governo, amministrazione, polizia, magistratura, esercito “regolare”, che in questi anni hanno appoggiato l’invasore Usa e i suoi alleati? È escluso che salti fuori un premier scelto fra i “collaborazionisti”, i quali oltretutto non sembrano consapevoli di rischiare la pelle e si sono divisi in due fazioni: quella di Ashraf Ghani e quella di Abdullah Abdullah, come incredibilmente al tramonto del regime nazista in Germania c’era chi, per esempio Himmler, cercava di fare le scarpe al führer. Sarebbe come se, conclusa la guerra in Italia, un gerarca fascista si proponesse come premier. Questi qui non hanno fatto la guerra per vent’anni per ritrovarsi sulla testa un quisling. Oltretutto i Talebani sanno benissimo che, andati via definitivamente gli americani, basi comprese, spazzeranno via l’esercito “regolare” con estrema facilità. Questo esercito infatti è formato da ragazzi che si sono arruolati per disperazione, per avere un salario, e non sono per nulla motivati. I Talebani non toccheranno certamente questi loro giovani connazionali. Per i meno compromessi l’attuale leader talebano Akhundzada ha proposto un’amnistia, come fece nel 1996 il Mullah Omar, dopo aver fatto giustiziare il fantoccio dei sovietici Naiisbullah, amnistia che rispettò durante i sei anni del suo governo. Per i più compromessi c’è l’ipotesi di un salvacondotto: che se ne vadano negli Stati Uniti e la sia finita.
Cosa sono disposti a concedere i Talebani? Ispezioni Onu perché non si creino in Afghanistan santuari del terrorismo internazionale, che peraltro lì i Talebani sono gli unici a combattere. Sul piano dei diritti civili, sono disposti a non porre limiti al diritto delle donne a studiare, che peraltro in linea di principio esisteva già ai tempi del governo di Omar, ma al quale non fu possibile dare una concreta attuazione perché i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, pretendevano che non solo le classi maschili e femminili fossero distinte ma occupassero edifici diversi e lontani fra loro. Programma che non ebbero modo di attuare perché, impegnati da Massud che non accettava la sconfitta, non ebbero il tempo di costruire questi edifici.
Se fosse ancora vivo il Mullah Omar, con la sua moderazione, ho scritto moderazione, con la sua saggezza, ho scritto saggezza, propenderei per una soluzione pacifica di questa questione cruciale. L’attuale leader dei Talebani, Akhundzada, è della sua stessa generazione e mentalità. Ma i più giovani sono incarogniti da anni e anni di una guerra infame, che ha costretto gli afghani a un reciproco fratricidio, e non è escluso che ci siano regolamenti di conti ed esecuzioni sommarie come fecero in Italia i comunisti nel cosiddetto “triangolo rosso” dopo la fine della guerra.