Attenti alle falle della rete dei test

Malgrado se ne parli da mesi, mi giungono ancora mail con la richiesta di chiarimenti sui test diagnostici per SarsCoV2. Non solo da gente lontana dalla medicina, ma persino da colleghi medici che nella grande infodemia, anche alimentata da noi esperti, non hanno ancora chiaro cosa sia un tampone “molecolare”, un “antigenico” e, men che meno, a cosa serva, dando per scontato che ne esista solo un tipo, un test “sierologico”. In realtà, senza adeguate spiegazioni, anche le istituzioni son passate dall’indicare come unico mezzo diagnostico il tampone molecolare all’osannare l’intervento con gli antigenici. Poco o nulla si è spiegato del loro significato e, soprattutto, a quale interrogativo diagnostico ciascuno di questi test possa rispondere. Sia ben chiaro (mi riferisco alle indicazioni dell’OMS) che l’unico test che può darci la massima certezza diagnostica possibile è il tampone molecolare. Questo ha però dei limiti di utilizzo, in quanto richiede laboratori specializzati e tempi d’attesa che vanno dai 60 minuti alle 4 ore. Purtroppo in alcune sedi possono diventare giorni. Ovvio che ciò rende, di per sé, inutile il test. Di recente sono stati introdotti i cosiddetti tamponi “antigenici”. Questi sono rapidi (circa 15 minuti per avere il risultato). possono esser eseguiti da personale non specializzato. Le indicazioni sono di ritestare con il metodo molecolare il soggetto risultato positivo. Visto che la sensibilità di tale test è meno elevata di quello molecolare, con il 20-25% di falsa negatività (non poco!), è corretto usarli come stiamo facendo? Possiamo permetterci sfuggano 20/25 positivi su 100 esaminati? Un falso negativo è un fiammifero che potrebbe presto trasformarsi in un focolaio. Perché anzichè ritestare con il tampone molecolare i soggetti risultati positivi all’antigenico non farlo per i negativi? Credo sia un rischio più accettabile un falso positivo piuttosto che un falso negativo.

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Giornale affittasi: nel profondo Sud padroni all’assalto

“L’informazione deve mettere tra parentesi il suo status di merce per potenziare il suo status di bene specifico”.

(da I diritti dei lettori di Enzo Marzo – Biblion edizioni, 2020 – pag. 44)

Proprio nel momento in cui il profondo Sud si appresta a ricevere la quota maggiore del Recovery Fund destinato all’Italia, e contribuire così alla ripresa nazionale, il profondo Sud rischia di perdere una voce storica della sua popolazione e del suo territorio: dalla prossima settimana, La Gazzetta del Mezzogiorno, quotidiano di Bari diffuso tra la Puglia e la Basilicata, potrebbe essere costretta a sospendere le pubblicazioni dopo 133 anni di vita. Alla crisi generale dell’editoria, provocata dalla concorrenza sempre più incalzante prima della televisione e poi di Internet, si sono aggiunti gli effetti devastanti del Covid-19. Ma in questo caso la situazione s’è ulteriormente aggravata in seguito a una vicenda giudiziaria che ha assunto contorni kafkiani. Vale la pena di riassumerla come una case history, per chi non ha avuto modo di seguirla direttamente.

Il 24 settembre 2018, in forza di un provvedimento del Tribunale di Catania che – su richiesta della Direzione distrettuale antimafia – dispone il sequestro-confisca di tutti i beni dell’editore e imprenditore siciliano Mario Ciancio, per presunto concorso esterno in associazione mafiosa, la Gazzetta finisce sotto un regime commissariale. Non era mai accaduto prima in tutta la storia dell’informazione quotidiana. Da quel momento, la sopravvivenza del giornale viene affidata a due amministratori giudiziari nominati dallo stesso Tribunale, i quali tutto sono tranne che editori. Fino a quando il 24 marzo 2020, dopo un anno e mezzo di limbo gestionale, la corte d’Appello di Catania dispone il dissequestro e la restituzione dei beni a Ciancio in seguito alla sua assoluzione.

Senza entrare qui nel merito del caso giudiziario, aggiungiamo che il successivo disimpegno dell’editore ha portato al fallimento delle due società a cui fa capo il giornale: da una parte, l’Edisud che lo gestisce e lo pubblica; dall’altra, la Mediterranea che detiene la proprietà della testata. In questa situazione d’incertezza e confusione, s’è inserita la Soprintendenza archivistica e bibliografica della Puglia decretando un controverso vincolo sul cespite. Ma i giudici del Tribunale fallimentare, preoccupati di salvaguardare più i diritti dei creditori che quelli dei lettori, hanno stabilito che l’esercizio provvisorio affidato alla curatela terminerà il prossimo 20 novembre, procedendo a indire un bando di fitto quasi che un giornale fosse un albergo o un magazzino e non piuttosto un bene d’interesse pubblico. Se in prima battuta la gara andrà deserta, dal giorno dopo la Gazzetta non sarà più in edicola e chissà se e quando potrà tornarvi.

Nel frattempo, intorno a una delle testate più antiche d’Italia volteggia uno stormo di avvoltoi nelle vesti dei “salvatori della patria”, intenzionati a mettere le mani sul quotidiano per curare i propri affari extra-editoriali: chi nel settore immobiliare (gruppo Sorgente-Mainetti), chi in quello delle cliniche private e della residenze sanitarie per anziani (gruppo Angelucci-Popolo della Libertà). La premiata ditta “Concessioni & Convenzioni”, insomma, punta a impadronirsi del giornale a prezzi di saldo per farne uno strumento di potere mediatico ed economico. Tutto ciò accade tra l’inerzia della politica, delle varie istituzioni locali e del governo centrale, nell’attesa messianica di quello “Statuto dell’editoria” che in un futuro migliore dovrebbe garantire l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione.

 

L’ultimo libro di Pérez-Reverte e le bugie che diventano realtà

I mass media, soprattutto italiani, ci hanno abituati all’affondamento di quel principio giornalistico che Lamberto Sechi, fondatore di Panorama, aveva posto alla radice del periodico: i fatti separati dalle opinioni. Quel principio, è chiaro, era di difficile compimento. Però ci si sforzava di essere il più possibile obiettivi, seppure non neutrali, cercando quanto meno di offrire ai lettori gli strumenti per conoscere e interpretare. I critici letterari, per esempio, affrontando un libro, non avevano timore di indicarne vizi e difetti, e di stroncarlo quando era il caso. Da allora tutto è stato ribaltato. Tra le fake news, la partigianeria più smaccata (che, se palesemente dichiarata, è accettabile), le esagerazioni, la volgarità, l’ignoranza, è di moda anche immedesimarsi in quanto si va raccontando. Senza alcuna separazione o distanza critica, e cancellando le evidenze della cronaca reale dei fatti e della Storia, i valori morali, civili, culturali. Una prova recente di questa fusione fra giornalista e argomento (o personaggio) trattato, viene dall’accoglienza che i media italiani stanno dando al romanzo dello spagnolo Arturo-Pérez Reverte, Sabotaggio (Rizzoli). Si narrano le gesta del suo “eroe” (sic!) Lorenzo Falcò, “spia e assassino” (rammenta Il Venerdì), al “soldo della Falange” nazionalista, durante la guerra civile (1936-1939). Ora, lo scrittore è libero di scrivere ciò che vuole, e di falsificare, se lo desidera, coloro i quali, si batterono per la Repubblica spagnola: ossia migliaia di volontari antifascisti giunti da tutto il mondo, oltre agli spagnoli antifranchisti. Meno indifferente alla Storia, e ai valori, dovrebbe essere chi su un giornale parla di questo o quel fatto, di questo o di quel romanzo. Non è così. Il Falcò viene presentato come una simpatica canaglia, che piglia a cazzotti Hemingway, tenta di distruggere Guernica di Picasso, e tende trappole “mortali” ad André Malraux (che in Sogna si batté contro il fascismo e il nazionalismo) in nome della libertà. Il personaggio Falcò esprime poi il suo alato pensiero sul dipinto di Picasso, che i nostri recensori-bravi presentatori riportano senza commenti: “Distruggere quella merda prima che la portino all’Esposizione Universale di Parigi del 1937”. Chi parla del nuovo libro dello scrittore spagnolo, non descrive, ma accoglie supinamente. Non commenta e non inquadra i fatti, ma li registra nella versione stravolta data da Pérez-Reverte. Non si dice che Guernica venne dipinto dopo il massacro compiuto dai nazisti della Legione Condor sulla cittadina spagnola. C’è solo fiction, non c’è Storia. E ci sono gli “eroi” di quella fiction pseudostorica: simpatici, charmant, anche se volevano bruciare Guernica. Il triste esempio dell’accoglienza offerta al libro Pérez-Reverte, però, non è che uno dei tanti esempi che offre il giornalismo, in cui dominano l’assenza di valori, la cancellazione della cultura, la rimozione o l’ignoranza della Storia. Non solo i fatti non vengono separati dalle opinioni, ma i fatti stessi divengono opinioni. E sono opinioni basate su fatti alterati o stravolti; sono fatti radicati in opinioni fondate sulla falsificazione. Nelle recensioni-brave presentazioni del libro di Pérez-Reverte basterebbe aggiungere un aneddoto. Si racconta che un ufficiale tedesco domandò a Picasso se fosse stato lui l’autore di Guernica. Picasso rispose: “No, è opera vostra”.

 

Afghanistan: cosa sta accadendo (e accadrà)

La guerra in Afghanistan continua. Ritengo molto improbabile che se un combattente talebano o Isis si sveglia la mattina con un po’ di mal di gola dica “oh, oggi non me la sento proprio di battermi, telefono prima al medico di famiglia o alla Asl, ma al Pronto Soccorso non ci vado di sicuro perché lì è pieno di feriti gravi e gravissimi”. La guerra in Afghanistan, per parafrasare Bertoldo al contrario, sono tre: guerra dei Talebani all’Isis, guerra dei Talebani all’esercito “regolare” afgano, guerra dell’Isis contro tutti, soprattutto civili e in particolare sciiti.

Ma è mai possibile che ancora oggi commentatori autorevolissimi non abbiano capito che i Talebani non solo non hanno niente a che vedere con Isis, cioè col terrorismo internazionale, ma lo combattono dal 2015, da quando cioè gli uomini del fu Al Baghdadi hanno cominciato a penetrare in Afghanistan? Possibile che nessuno ricordi la “lettera aperta” che il Mullah Omar nel 2015 scrisse ad Al Baghdadi intimandogli di non cercare di penetrare in Afghanistan perché quella dei Talebani era una guerra di indipendenza nazionale che nulla aveva, e ha, a che fare coi deliri geopolitici dell’Isis? Nella lettera inoltre Omar diceva ad Al Baghdadi qualcosa che dovrebbe interessare noi ma soprattutto i musulmani: “Tu stai dividendo pericolosamente il mondo islamico” fra sunniti e sciiti. E infatti sotto il governo del Mullah, che era sunnita come buona parte dei suoi seguaci, non ci fu alcuna persecuzione della pur consistente minoranza sciita: gli sciiti dovevano rispettare la legge come tutti gli altri, punto e basta.

C’è anche un’importante differenza fra il Califfato del fu Al Baghdadi, o di chi per lui, e l’“Emirato Islamico d’Afghanistan” come Omar chiamò il suo Stato. Il Califfo pretende di discendere da Maometto; Omar, che nasceva da poverissima gente e apparteneva a un modestissimo clan, gli Hotaki, ha sempre rifiutato questa impostazione e così si comportano i suoi successori a cominciare dall’attuale leader Mawlawi Haibatullah Akhundzada, che non è uno dei cinque figli del Mullah (che detestava il familismo all’italiana basato sui rapporti di parentela e non sul merito), ma si è distinto, prima giovanissimo come lo stesso Omar, nella guerra agli invasori sovietici e in seguito nella ventennale lotta ai più micidiali invasori occidentali. Il primo a dare ai Talebani la caratura di “gruppo militare e politico, non terrorista” è stato Putin, che sarà quel che sarà ma è un uomo di Stato e vede lontano oltre a essere un russo, russissimo, della Moscovia. Anche Biden, da vice di Obama, definì i Talebani degli indipendentisti, e ci voleva del coraggio a dirlo in quell’America.

Ma è mai possibile che ogni volta che c’è un atto di guerriglia o un attentato in Afghanistan si aspetti la rivendicazione per attribuirne la paternità? La distinzione è semplice: se sono presi di mira obbiettivi politici o militari, cercando di limitare il più possibile gli “effetti collaterali”, l’azione è dei Talebani, che non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione sul cui appoggio hanno potuto contare nella lunghissima lotta agli invasori occidentali, mentre gli Isis non hanno di queste preoccupazioni.

Ora che gli americani se ne stanno andando dall’Afghanistan (mentre noi restiamo là non si capisce a far cosa, spendendo ogni anno più di 170 milioni di euro, molto utili in Italia in epoca di pandemia: giriamo la domanda al premier, al ministro della Difesa e al ministro degli Esteri Di Maio), il focus è sulle trattative a Doha fra il governo di Ashraf Ghani e i Talebani. Il problema di fondo è: che fare dei “collaborazionisti”, cioè di coloro, governo, amministrazione, polizia, magistratura, esercito “regolare”, che in questi anni hanno appoggiato l’invasore Usa e i suoi alleati? È escluso che salti fuori un premier scelto fra i “collaborazionisti”, i quali oltretutto non sembrano consapevoli di rischiare la pelle e si sono divisi in due fazioni: quella di Ashraf Ghani e quella di Abdullah Abdullah, come incredibilmente al tramonto del regime nazista in Germania c’era chi, per esempio Himmler, cercava di fare le scarpe al führer. Sarebbe come se, conclusa la guerra in Italia, un gerarca fascista si proponesse come premier. Questi qui non hanno fatto la guerra per vent’anni per ritrovarsi sulla testa un quisling. Oltretutto i Talebani sanno benissimo che, andati via definitivamente gli americani, basi comprese, spazzeranno via l’esercito “regolare” con estrema facilità. Questo esercito infatti è formato da ragazzi che si sono arruolati per disperazione, per avere un salario, e non sono per nulla motivati. I Talebani non toccheranno certamente questi loro giovani connazionali. Per i meno compromessi l’attuale leader talebano Akhundzada ha proposto un’amnistia, come fece nel 1996 il Mullah Omar, dopo aver fatto giustiziare il fantoccio dei sovietici Naiisbullah, amnistia che rispettò durante i sei anni del suo governo. Per i più compromessi c’è l’ipotesi di un salvacondotto: che se ne vadano negli Stati Uniti e la sia finita.

Cosa sono disposti a concedere i Talebani? Ispezioni Onu perché non si creino in Afghanistan santuari del terrorismo internazionale, che peraltro lì i Talebani sono gli unici a combattere. Sul piano dei diritti civili, sono disposti a non porre limiti al diritto delle donne a studiare, che peraltro in linea di principio esisteva già ai tempi del governo di Omar, ma al quale non fu possibile dare una concreta attuazione perché i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, pretendevano che non solo le classi maschili e femminili fossero distinte ma occupassero edifici diversi e lontani fra loro. Programma che non ebbero modo di attuare perché, impegnati da Massud che non accettava la sconfitta, non ebbero il tempo di costruire questi edifici.

Se fosse ancora vivo il Mullah Omar, con la sua moderazione, ho scritto moderazione, con la sua saggezza, ho scritto saggezza, propenderei per una soluzione pacifica di questa questione cruciale. L’attuale leader dei Talebani, Akhundzada, è della sua stessa generazione e mentalità. Ma i più giovani sono incarogniti da anni e anni di una guerra infame, che ha costretto gli afghani a un reciproco fratricidio, e non è escluso che ci siano regolamenti di conti ed esecuzioni sommarie come fecero in Italia i comunisti nel cosiddetto “triangolo rosso” dopo la fine della guerra.

 

Sanità “Noi medici in prima linea senza adeguate tutele assicurative”

Egregio Direttore, questa volta è diverso: questa volta, fra noi operatori sanitari, la sensazione è che non si tratti solo di affrontare il rischio Covid come abbiamo già fatto, ma piuttosto di sentire che, questa volta, potremo trovarci facilmente a incontrarlo… ogni giorno si ha notizia di qualche collega contagiato. La situazione ci appare di giorno in giorno ingravescente, eppure siamo all’inizio di quella che, se non possiamo definire Tsunami, è un’onda lunga che sale e di cui ora non vediamo la fine, nella quale speriamo di saper galleggiare e di non essere sommersi, per condurre a riva quanti più malati possibile e anche noi stessi. Quanto sta accadendo non era inatteso, anche se pare cogliere ancora una volta impreparato il sistema, come se nella piccola tregua estiva sia stato scelto, inspiegabilmente, di mettere la testa sotto la sabbia riempiendo l’aria di polemiche e di parole vuote, non facendo invece adeguate “scorte per l’inverno” (di presidi, di prudenza, di tracciamenti, di personale…), come saggiamente sanno fare gli animali guidati dall’istinto e non da menti saccenti.

Poco conta che vi sia una bassa mortalità sulla quale molti insistono, se il contagio pandemico continua a diffondersi, anche una cura semplice diviene semplicemente impossibile. Ora nessuno di noi può dirsi al sicuro essendo nell’occhio del ciclone dei contagiati, continuando doverosamente nel nostro lavoro, ma sarebbe importante che fossimo difesi maggiormente (se non viene difeso chi può curare gli altri…). Non può dirsi semplicemente che dobbiamo essere abituati al rischio… Il prezzo pagato dagli operatori sanitari in termini di morbilità e di mortalità è stato già molto alto. Sarebbe auspicabile almeno un maggiore rispetto per tutte le professioni sanitarie coinvolte anche, con adeguamenti di tutele non più derogabili (anche le nostre famiglie sono più a rischio), al di là della forma contrattuale in cui ci si trova a operare.

Per tutti gli operatori sanitari esposti all’alto rischio Covid-19, qualunque sia la loro forma contrattuale, andrebbero pensate e attuate forme assicurative specifiche (infortuni e malattia), di cui si faccia direttamente garante lo Stato attraverso gli enti preposti, anche in via straordinaria, come straordinaria è la situazione in atto che ci è chiesto di affrontare e che affrontiamo.

Marco Ceresa, medico

Mail box

 

L’Ambasciatore turco replica al “Fatto”

Gentile redazione, scrivo in merito all’intervista pubblicata sul suo giornale il 31 ottobre scorso, che includeva le assurde accuse avanzate da Antoine Basbous contro il mio presidente e il mio Paese. Nella suddetta intervista, il signor Basbous ha affermato che S.E. Recep Tayyip Erdogan, presidente della Repubblica di Turchia, possiede un’ideologia simile all’organizzazione terroristica di Al-Qaeda e ha accusato il presidente di aver alimentato il fuoco che ha portato ai recenti sviluppi in Francia. Il signor Basbous ha anche affermato che i terroristi sentono il sostegno del presidente Erdogan e dei Fratelli Musulmani. Credo fermamente che sia essenziale ricordare i seguenti fatti, al fine di informare il pubblico in modo accurato e di indirizzare la discussione nella giusta direzione: – la Turchia è contraria a tutte le forme e manifestazioni di terrorismo; – la Turchia non ha mai sostenuto organizzazioni terroristiche estremiste; – la Turchia sta combattendo contro più organizzazioni terroristiche contemporaneamente, tra cui Pkk, Ypg/Pyd, Daesh, Al-Qaeda e Fetö; – la Turchia è un nemico giurato del Daesh, dei suoi affiliati e di qualsiasi altra organizzazione terroristica estremista; – come membro della Coalizione globale contro il Daesh, la Turchia ha sempre fornito un contributo significativo agli sforzi della Coalizione; – dopo gli atroci attacchi terroristici a Nizza, Lione e Vienna, il ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Turchia ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna questi attacchi terroristici ed esprime la propria solidarietà al popolo francese e austriaco.

Murat Salim Esenli, ambasciatore Rep. di Turchia

 

Abbiamo riportato l’opinione del signor Basbous e prendiamo atto di questa lettera che esprime l’opinione del governo turco. Tra cui anche quella di considerare forze come il Pkk e le Ypg, che hanno combattuto valorosamente e con grande impegno proprio contro l’Isis, delle forze “terroristiche”.

Salvatore Cannavò

 

Vedo poco equilibrio nella giustizia italiana

Se ti beccano che coltivi alcune piante di marijuana in casa, vieni ammanettato e portato in galera, mentre se vieni accusato di aver procurato decine di morti per aumentare il tuo profitto, come hanno fatto Castellucci & C., ti danno i domiciliari. Non mi pare sia equo, ma forse mi sfugge qualcosa.

Anilo Castellarin

 

Sfruttiamo le caserme al posto dei Covid-hotel

Che ne pensate delle caserme militari? Luoghi recintati e protetti, posti letto numerosi, mensa presente. Avranno sicuramente un presidio sanitario da rafforzare con personale (neolaureati e corsisti di infermieri). Mandiamo a casa i militari a dare man forte alle esigenze di ordine pubblico dei comuni di residenza. Manteniamo quelli necessari a governare il punto quarantena Covid militare. Contagiati senza sintomi e/o con sintomi lievi. Mi sembra una buona alternativa, forse anche senza eccessivi costi e/o procedure, rispetto ai Covid hotel.

Sinibaldo Salerno

 

Sanzioni più dure a chi tortura o uccide animali

Sono d’accordissimo con la proposta di Andrea Scanzi di fare una dura legge contro chi tortura/uccide gli animali… Come è successo con la morte della povera asinella di Lo Cicero.

Claudio Trevisan

 

Bisogna nazionalizzare la società Autostrade

Dopo gli ultimi fatti emersi su società Autostrade, mi stupisco del fatto che si discuta ancora sul da farsi. Quando viene progettata una strada, per il bene pubblico vengono fatte offerte ai proprietari dei terreni che, se non accettano, subiscono l’esproprio, oppure sbaglio? In questo caso, dobbiamo ritornare in possesso di un bene pagato dagli italiani e se società Autostrade non accetta l’offerta, si proceda alla revoca senza se e senza ma .

Luciano Bisa

 

Questo virus non vuole proprio andarsene via

Era il 17 maggio e si intravedeva la ripartenza. Siamo ripartiti con un entusiasmo illimitato, sicuri di aver scampato il pericolo. Era stato uno tsunami il Covid, ci aveva travolti con una furia così devastante da lasciarci inebetiti. Ci aveva colti di sorpresa e ci aveva accomunati in questa cruenta guerra senza eserciti, senza bombe atomiche. Abbiamo sfoderato le nostre uniche armi: la pazienza, la forza d’animo, la tattica delle regole da rispettare. Ciascuno di noi ha combattuto con forza rinchiuso in casa facendo i conti con la propria capacità di resistenza, urlando a volte in silenzio. Resistere il nostro motto. E ce l’abbiamo fatta! L’incertezza era lì, in agguato, lo sapevamo, la famosa seconda ondata ci faceva tremare. Forse era troppo presto per gridare vittoria, forse bisognava aspettare! Ma troppo forte la voglia di vita, troppo forte la gioia di liberare le paure e lasciarci andare. Il virus ha ripreso la sua folle corsa lasciandoci sbigottiti e trafelati per una virulenza incredibile. Ecco la sua vendetta. Il vaccino è lontano, la violenza trova modo di manifestarsi in brutte contestazioni, il marasma occupa gli ospedali, la paura di un lockdown totale con le infauste conseguenze economiche disegna il dramma. Le città si svuotano di nuovo e giunge inesorabile il grigiore. “Non ci resta che piangere” recitavano Troisi e Benigni nel loro film.

Rosanna Catalano

Piero Angela ha perso i freni inibitori: parla di violenza sulle donne

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Cine34, 21.00: Giovannona Coscialunga disonorata con onore, film-commedia. La religione rientra prepotentemente tra le chiavi di lettura del film, né può essere altrimenti in un lungometraggio con Pippo Franco.

Fox, 21.00: The Good Doctor, telefilm. Shaun ha a che fare con un paziente che gli suscita un sentimento a lui sconosciuto: la misantropia.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Tono da garbata commedia per una vicenda quasi sovrannaturale.

Rai 1, 21.25: Superquark, documentario. Piero Angela, a 91 anni, ha perso del tutto i freni inibitori, a giudicare da come introduce il primo filmato, dedicato al dramma della violenza sulle donne: “Per avere successo con le belle donne è meglio essere brutti. Le donne sanno che i belli le danno per scontate, quindi a letto sono pigri. I brutti invece le scopano come se non gli fosse mai capitata una figa così incredibile. Questo spiega le mie conquiste. Oltre a una nerchia memorabile, che so pilotare come un elefante la proboscide”.

Sky Atlantic, 21.15: The New Pope, serie tv. Velocità e ritmo sono la formula vincente. Di altre serie.

Canale 5, 14.10: Una vita, telenovela. Genoveva vuole avvicinare l’avvocato Navarro per sedurlo e sottrarlo alla domestica brasiliana. GENOVEVA: “Cos’ha lei che io non ho?” L’AVVOCATO NAVARRO: “Me.”

Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. Ci sono in Italia molti giornalisti che hanno i tratti psicologici di Sciascia, lo scrittore che nel 1987 vergò per il Corriere della Sera un famigerato articolo contro i “professionisti dell’antimafia”, da lui definiti “persone dedite all’eroismo che non costa nulla”. Ed era già stato ucciso Chinnici! Quell’articolo infame aveva come bersaglio Borsellino, da poco nominato procuratore capo di Marsala. Sciascia concludeva la carognata scrivendo: “Nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Roba da restare nauseati; ma spesso, in seguito, tanti usarono l’argomento schifoso di Sciascia per attaccare i magistrati che rischiavano la vita indagando e processando i mafiosi. Borsellino, nell’ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone disse: “Giovanni ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Il giornalista alla Sciascia, quando un magistrato compie il suo dovere con abnegazione e virtù, si mette a dargli calci per diffamarlo, affinché se la smetta. Anche oggi: si cerca continuamente di demolire reputazioni, di fratturare carriere. Un inquinamento, voluto e accettato, che è fra i problemi maggiori dell’informazione italiana. Altri problemi cronici che rendono la stampa italiana, nel complesso, poco affidabile: sciatterie, esagerazioni, catastrofismi, sentimentalismi, sottovalutazioni, leggerezze, baggianate, omessi controlli, falsificazioni, propaganda, complesso di superiorità, parlare d’altro. Sarebbe bello se non fosse così, ma perché domandare un miracolo, quando tutta la natura è un miracolo? Paolo Mieli ne discute con Giovanni Sabbatucci.

Sky Suspense, 21.00: L’ombra del diavolo, film-thriller. New York. Tom, un integerrimo poliziotto di origine irlandese, ospita a casa sua un giovane connazionale, credendolo un terrorista dell’Ira. Tom non sa che il ragazzo è Brad Pitt.

 

Utili stellari, lavori al palo: perché “la famiglia è felice”

Sarebbe la storia di uno degli investimenti più fortunati che si ricordino nel capitalismo italiano. Se non fosse che non c’è stato nessun investimento. La famiglia Benetton, che insieme a un’allegra compagnia di soci ha preso Autostrade a inizio degli anni 2000 ha incassato una fortuna senza, per così dire, soldo ferire. Una redditività stellare, in un settore senza concorrenza, gestendo un monopolio naturale. Per usare le parole di Gianni Mion, da 30 anni tutore finanziario della famiglia, intercettato dai pm genovesi, “il vero problema è che le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo e meno facevamo… Così distribuiamo più utili… E Gilberto e tutta la famiglia erano contenti…”. Gilberto, morto a ottobre 2018, è l’artefice della trasformazione finanziaria del gruppo di Ponzano Veneto, racchiuso nella cassaforte Edizione, che controlla il 30% di Atlantia, che a sua volta controlla Autostrade per l’Italia (Aspi). I numeri illuminano la “contentezza” della famiglia.

Profitti. Dalla privatizzazione (1999) a oggi, Aspi ha distribuito quasi 11 miliardi di dividendi. Solo dal 2009, parliamo di 8 miliardi, la quasi totalità degli utili fatti dal concessionario e confluiti in Atlantia, che a sua volta ha staccato quasi 7 miliardi di dividendi. A Edizione è andato circa un terzo di questo flusso gigantesco di denaro: poco più di due miliardi (e ben oltre 3 miliardi se si parte dal 1999). E questo senza considerare il vantaggio patrimoniale di controllare un colosso che, grazie al bancomat Aspi, è diventato un impero infrastrutturale e che pre-Morandi valeva 20 miliardi in Borsa. A queste cifre andrebbero aggiunti i 7 miliardi di debiti contratti per scalare Autostrade ormai 20 anni fa e poi scaricati sulla società. Benetton e compagnia non hanno speso un euro di tasca propria. Come ha magistralmente ricostruito l’economista Giorgio Ragazzi (La svendita di Autostrade, Paper First) già cinque anni dopo essere entrati in Aspi, avevano quintuplicato il valore di quanto speso “senza aver costruito nemmeno un chilometro di rete e avendo realizzato meno di un quinto degli investimenti previsti nella concessione”. Straordinario.

Redditività. Aspi ha avuto negli anni in media un margine operativo lordo del 50%, scandalosamente alto per la gestione di un monopolio naturale e con pochi eguali nel mondo delle infrastrutture. Come è possibile? Dal 2008 – primo anno di gestione effettiva di Giovanni Castellucci (l’uomo che oggi i Benetton e Atlantia accusano di aver fatto tutto da solo) – fino a oggi, Aspi ha ottenuto un aumento del 27% dei pedaggi grazie a ministeri compiacenti nonostante un traffico in lieve calo: è dunque bastato tenere a freno le manutenzioni per trascinare gran parte di quell’aumento in profitti destinati ad Atlantia.

Manutenzioni. La spesa per investimenti di Aspi è passata da 1,15 miliardi del 2009 a 475 milioni nel 2018, quella per manutenzioni ordinarie è stata sempre inferiore ai 300 milioni l’anno. È la stessa Aspi che ammette di aver lesinato: oggi l’ad di Autostrade, Roberto Tomasi (già numero due di Castellucci), promette di “raddoppiarle nei prossimi 5 anni”. Finora ha detto che le avrebbe aumentate del 40%. Se va bene sono 400 milioni, poco più di quanto fatto dopo il disastro del Morandi.

Autostrade, l’ad della svolta “sfanculato” dai suoi sottoposti

È uno strano mondo quello di Autostrade per l’Italia (Aspi), l’unica società dove il numero uno prende ordini dai sottoposti. E alla fine devono arrivare i magistrati a rompere il circolo vizioso. Il 20 gennaio del 2020 la Procura di Genova convoca il nuovo ad di Autostrade per l’Italia (Aspi) Roberto Tomasi. Dalle intercettazioni emerge come anche lui, all’epoca condirettore generale, fosse a conoscenza dei problemi progettuali delle barriere antirumore e dei potenziali rischi per la sicurezza. Tomasi – che nella vicenda è indagato, sebbene la sua posizione sia ritenuta marginale – risponde alle domande dei pm per un’intera mattinata. E si difende spiegando di essere stato “messo in mezzo”, non solo da quello che allora era il suo “diretto superiore”, Giovanni Castellucci, ma anche da due sottoposti, fedelissimi di Castellucci. Si tratta di Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli, responsabili delle manutenzioni, arrestati alcuni giorni fa insieme all’ex ad: “A un certo punto ebbi l’impressione che tutti sapessero di questa storia. Berti e Donferri mi convocarono un giorno per dirmi che la cosa era di loro competenza. E con modi un po’ coloriti mi dissero di non fare il primo della classe”.

Non è l’unico passaggio di questo interrogatorio ritenuto molto interessante da chi indaga. Tomasi viene messo alla guida di Aspi nel gennaio del 2019. Ma anche in quella posizione, sostiene di aver trovato ostruzionismo. Chiede di visionare uno studio millantato da Donferri, che certificherebbe la tenuta dei pannelli. “Non ho mai visto questo dossier citato da Donferri, neppure oggi che sono amministratore delegato e direttore generale. Ovviamente ho chiesto di portarmi tutta la documentazione relativa alla sicurezza delle barriere. In quel momento però non avevo motivo per ritenere che questi dossier non esistessero o non fossero validi”.

Tomasi è il volto nuovo, il leader che Aspi presenta come l’uomo della discontinuità. Annuncia un piano straordinario di investimenti, raddoppi delle manutenzioni. Ma spesso la società è costretta a rincorrere i provvedimenti dei magistrati. E su di lui continua a incombere l’ombra di Castellucci, che conserva la poltrona di ad di Atlantia, la holding che controlla Aspi, fin quando non è costretto a lasciarla per le prime intercettazioni choc a settembre 2019, quando emerge che alcuni dirigenti apicali, tra cui Donferri, hanno fatto pressioni per truccare i report sulla sicurezza dei viadotti. Come dice intercettato Gianni Mion, uomo di fiducia dei Benetton, Castellucci “continua a governare il processo”, anche dopo l’uscita. Ma già prima le cose non andavano. Donferri, intercettato, la sintetizza così: “Tomasi ha chiamato me e l’ho mandato a fare in culo, ha chiamato Berti e l’ha mandato a fare in culo, è andato da Castellucci e Castellucci l’ha mandato a fare in culo”.

L’ultima tegola per Tomasi è il nuovo fronte che si apre, appena insediato al vertice massimo: il crollo della galleria Bertè, sulla A26, e la nascita di un filone d’inchiesta identico a quello dei viadotti. Il 13 dicembre 2019 racconta sconfortato alla moglie: “Servono più controlli, è vero che si sono stati anni in cui non è stata fatta la manutenzione, e quindi è tutto un rincorrere, una situazione difficilissima. Oh, ci stiamo provando… e bisogna capire se la Procura avrà equilibrio. Certe volte non sembra…”. Ma se i problemi delle barriere erano già noti dal 2016 (con Tomasi già ai piani altissimi) – domandano ancora gli inquirenti – cosa è stato fatto da allora? “Il direttore di tronco Mirko Nanni, che prese il posto di Stefano Marigliani (raggiunto da un provvedimento cautelare di interdizione, ndr), mi disse che alcune barriere erano state rialzate da altre parti per ovviare i problemi di rumore, ma che aveva verificato che non c’erano problemi di sicurezza, perché non c’erano barriere deformate e io accettai questa versione – dice Tomasi – La disposizione mi riferì che era stata data a voce da Donferri. Poi i risultati delle prove di pullout fatte a novembre non sono stati tranquillizzanti, perché varie prove hanno dato esiti inferiori alle nostre stime sia circa la capacità di resistere al vento, sia agli urti”. Sono serviti tre anni e l’intervento dei pm per spingere Aspi a sostituire le barriere.

Nel frattempo ieri è stato svelato il mistero sull’intercettazione in cui Castellucci, a ottobre 2019, sosteneva di avere incontrato “un ministro”. È lo stesso Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo Economico (M5S), ad ammettere di averlo incontrato: “Abbiamo parlato di Alitalia perché Atlantia era parte della cordata che doveva rilevare Alitalia”. Era l’ultimo tentativo di ricattare la politica. Stavolta, fallito.

Sindacati da Conte lunedì Landini: sanità allo Stato

Non c’è stagione politica che non rinnovi l’impegno per “una grande riforma fiscale” e “la lotta all’evasione”. Stavolta però la pandemia suggerisce di evitare promesse a vuoto. E così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il segretario Cgil Maurizio Landini si incontrano in streaming all’evento Futura e giurano collaborazione. Sulla manovra, sul Recovery Fund, sulla giustizia sociale (“non possiamo accettare che chi paga le tasse passi per coglione”, sentenzia Landini), sulle regole del lavoro e magari su una riforma istituzionale.

L’evento, moderato da Gianluca Semprini, inizia con l’annuncio di un vertice in programma lunedì tra governo e sindacati per discutere della legge di bilancio. Il modus operandi, dice Landini, deve essere lo stesso adoperato per il recente rinnovo del blocco dei licenziamenti fino al 31 marzo e per la proroga della cassa integrazione in deroga fino a giugno: “Confrontarsi prima, non vedersi a cose fatte”. Le bozze di queste ore raccontano di una manovra da circa 38 miliardi, con 3 miliardi destinati all’assegno per i figli, lo scatto di plastic tax e sugar tax da luglio, un fondo da 4 miliardi per attuare la riforma del fisco, lo stop ai contributi per chi assume under 35 e 800 milioni destinati all’aumento dei salari di medici e infermieri.

La ricetta di Landini è chiara: “Il prossimo anno deve esserci un piano straordinario per creare lavoro: fare investimenti sulla sanità, sulla scuola, sul rispetto ambientale e sul digitale. E c’è bisogno di una grande riforma fiscale che combatta l’evasione”. Pure Conte scandisce l’agenda: “Il 2021 sarà l’anno della riforma fiscale e tributaria, ma anche delle politiche attive del lavoro”.

Landini traduce il tutto come il bisogno di “un nuovo statuto dei lavoratori” per allargare i diritti anche “alle partite iva e ai precari”, magari con un “crescente ruolo dello Stato nell’economia”. L’esigenza è sentita pure dal premier, che va oltre: “Lavoriamo insieme per uno statuto delle imprese, devono essere chiari i diritti per avviare in poco tempo e con una piccola spesa una attività”.

A buoni propositi si sommano buoni propositi pure sulla sanità. Landini lo dice dritto: “Abbiamo 21 sistemi sanitari diversi e una medicina territoriale indebolita. Bisogna arrivare a un sistema sanitario nazionale che assicuri livelli minimi di assistenza dappertutto”.

Il riferimento è alla caotica gestione delle Regioni: “Dobbiamo riflettere sulla riforma del titolo V del 2001, che non mi è mai piaciuta e che sta portando problemi. L’autonomia non deve creare disparità”. Il tema è la riforma costituzionale voluta dal centrosinistra che trasferì agli enti locali competenze fondamentali, come la sanità. Conte, pur senza citare la riforma, ammette la necessità di un ripensamento: “Siamo consapevoli di dover rinforzare la medicina territoriale e riequilibrare il suo ruolo rispetto agli ospedali. Ma è complicato invertire una politica sanitaria perseguita in modo scientifico per anni”.