Romeo disse ad Alberto: “ridammi i 60mila euro”

Renzi mi voleva restituire i 60mila euro? Ecco il mio Iban…”. Inizia così la lettera che Alfredo Romeo – l’imprenditore campano imputato per corruzione (e indagato per turbativa d’asta e traffico d’influenze) nell’inchiesta Consip – ha inviato ieri all’ex presidente della fondazione Open, Alberto Bianchi e, per conoscenza, a Matteo Renzi e Luca Lotti (anch’egli in un filone di Consip per favoreggiamento e concorso in rivelazione del segreto).

Romeo ha scoperto, leggendo La Verità, che Bianchi il 21 marzo 2017, a pochi giorni dal suo arresto, intendeva restituirgli il contributo di 60mila euro ricevuto dalla Isvafim Spa. Fu dissuaso da Lotti che considerò l’idea “un mezzo boomerang”. E così ieri Romeo ha scritto a Bianchi: “Vengo a conoscenza del fatto che nel 2017 Lei, presidente prima della Fondazione Big Bang e poi divenuta Fondazione Open, aveva proposto a Lotti di restituirmi i 60mila euro con cui la finanziai nel 2012. Se non pensate sia un boomerang e avete cambiato idea, Vi vengo incontro e i 60mila euro me li restituite. Le indico l’Iban (…) per la restituzione, molto opportuna anche alla luce delle intercettazioni che La riguardano, effettuate dalla magistratura negli uffici Consip. Le rammento che il finanziamento della Sua fondazione non fu spontaneo, come tutte le erogazioni liberali effettuate dal “gruppo Romeo”, ma esplicitamente richiesto dalla tesoreria del Pd della Campania. Saluti”.

La profezia di Carrai: “Tu o Bianchi al vertice per evitare le indagini”

L’accusa di finanziamento illecito, l’elenco dei finanziatori, il flusso di denaro in entrata e uscita dalla fondazione Open: certo, è su questo che si concentra l’indagine della procura di Firenze, ma sarebbe riduttivo raccontarla come una normale inchiesta giudiziaria. In realtà è molto di più, negli atti d’indagine c’è il resoconto in diretta, giorno per giorno e a volte minuto per minuto, dell’ascesa di Matteo Renzi alla leadership del Paese. Strategie. Decisioni. Ripartizione dei ruoli. Incluso il timing esatto in cui scatta la sua corsa verso il potere. Renzi ha il talento del velocista, lo ha dimostrato, ma non il fiato e la resistenza del maratoneta. Il suo staff ha invece il dono della profezia. Già nel novembre 2011 teme che il futuro presidente della fondazione – chiunque sarà – possa incappare in un guaio giudiziario.

Il Fattoha deciso di raccontare questa storia – la vera storia del renzismo – in un ciclo di articoli a puntate. A partire dalle email e dalle strategie che danno il via alla scalata di Renzi verso la segreteria del Pd e di Palazzo Chigi. Era già tutto chiaro e pianificato.

Si comincia nel novembre 2011, pochi giorni dopo la manifestazione “Big Bang Italia” del 28-30 ottobre 2011, quando, come annotano i finanzieri, “presso la stazione Leopolda di Firenze prende campo l’iniziativa” di candidare Renzi alla “carica di presidente del Consiglio dei Ministri in vista delle elezioni politiche del 2013”.

Tre mesi dopo nasceranno due enti – di “marcata impronta fiduciaria” – che, secondo la Gdf, rappresentano il “nucleo centrale della struttura organizzativa” e avranno come “effettivo beneficiario” proprio Renzi: il “comitato per la fondazione Big Bang” e la “fondazione Big Bang”. In entrambi compariranno il “braccio destro” di Renzi, Marco Carrai, e il suo “capo di gabinetto al Comune”, Luca Lotti. “Al centro della struttura organizzativa”, scrive la Gdf, “viene posta la fondazione Open” che è “l’ente destinato a perdurare nel tempo” con le funzioni di “collettore dei contributi necessari a finanziare tutta l’attività”, costituire il “nodo di relazioni con i soggetti finanziatori” e “collegamento tra costoro” e Renzi, Lotti e Maria Elena Boschi nonché, infine, di “centrale di spesa” per finanziare campagne elettorali o iniziative a loro riferibili. Per quanto riguarda Renzi, tra il 2012 e il 2018, il “supporto” offertogli da Open “è stimabile in oltre 5,2 milioni di euro”.

Il 4 novembre alle 22.58 Marco Carrai invia una mail ad Alberto Bianchi. Lo rende partecipe del messaggio inviato il giorno prima a Renzi. Al punto 5 della mail si legge: “Associazione, dobbiamo fare in fretta. Il presidente o lo fai tu (Renzi, ndr) o un avvocato (Alberto Bianchi lo vedo perfetto per fiducia e serietà). Non un altro politico né un imprenditore perché se un giorno si scopre che abbia fatto qualcosa il titolo sarebbe: avviso di garanzia per presidente fondazione Renzi…”. Carrai vuole quindi al vertice una persona onesta e di assoluta fiducia, che non combini guai e non crei problemi, ed è un singolare paradosso che queste righe suonino oggi come una profezia all’incontrario: gli stessi Carrai e Bianchi, oltre Renzi, si ritrovano indagati per finanziamento illecito proprio per i flussi di denaro di Open. “A me piacerebbe fare il segretario generale – scrive Carrai a Renzi – ma faccio quello che dici nel cda metti Richetti (Matteo, ndr), faraone (Davide, ndr), gori (Giorgio, ndr) e chi vuoi sapendo che una volta che li hai messi non li rilevi. Pensa bene a chi vuoi come compagno di percorso nei px 3 anni minimo. il mondo è grande…”. E ancora: “Farei gruppi di lavoro diretti da personalità: Zingales (Luigi, ndr) economia, x giustizia, y cultura, z innovazione (…). La gente deve sapere che coloro di cui hanno fiducia, che hanno successo, stanno con noi. Dobbiamo essere il punto di riferimento di chi ha qualcosa da dire perché ha fatto qualcosa”. Su fondi e costi ha una parola chiave: “trasparenza deve essere il leit motiv”. Zingales viene effettivamente coinvolto e Bianchi gli scrive: “Complimenti, sei il primo economista di regime della storia del mondo, senza regime… non potevi scegliere meglio?!? Sei inoltre il primo financial gigolòdella storia economica (della serie, le disgrazie non vengono mai da sole…). E tutto questo, solo per un paio di cene fiorentine e un viaggetto alla Leopolda…”. Zingales gli risponde: “Io ho mandato questo messaggio a Matteo (Renzi, ndr) e a Marco (Carrai, ndr). Se vogliono fare sul serio devono impegnarsi rapidamente (nei prossimi 2 o 3 giorni) e darci le risposte che chiediamo (…). Zingales ribadisce che “competenza e trasparenza” dovranno essere i simboli della “nostra battaglia”. “Dobbiamo avere la massima trasparenza su tutti i fronti – scrive – soprattutto su provenienza, entità e utilizzo dei fondi raccolti. (…) Stiamo pensando a come organizzare il finanziamento in maniera efficace e trasparente”. Il progetto di Zingales – come vedremo nella prossima puntata – è netto e chiaro. Ma nonostante il suo impegno, la storia è andata diversamente. Intanto il 22 novembre Bianchi scrive a Carrai e Zingales: “… partendo subito, per costruire una candidatura 18 mesi sono il minimo…”. Due anni dopo, l’8 dicembre 2013, Renzi viene eletto segretario del Pd.

Il vitalizio parlamentare? “Va decurtato pure agli eredi”

Non solo gli ex parlamentari e gli attuali. Nemmeno i loro eredi possono sfuggire al taglio del vitalizio introdotto con la delibera dell’Ufficio di Presidenza della Camera nel luglio 2018. A deciderlo è stata la Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di Elena Marinucci, ex senatrice socialista e vedova dell’onorevole Nello Mariani, anche lui socialista. Quest’ultimo, deputato per quattro legislature e sottosegretario all’agricoltura del governo Rumor e all’interno con Colombo, era morto nel 2009 e da quel momento la titolare del suo assegno di reversibilità era diventata la vedova. Con il taglio introdotto nel 2018 da gennaio 2019 il vitalizio era stato decurtato del 62%, ma alla Marinucci quella riduzione proprio non era andata giù. Così ha presentato ricorso al Tribunale di Roma, che ha sollevato un problema di giurisdizione e la questione è arrivata alla Suprema Corte. La signora sosteneva che al coniuge di un ex parlamentare deceduto non si potesse applicare il principio dell’autodichia, il potere delle due Camere di decidere con organi interni le controversie dei dipendenti.

L’ex senatrice aveva chiesto ai giudici che fosse il Tribunale di Roma a decidere sul suo ricorso non essendo mai stata deputata, ritenendosi “soggetto terzo”. Ma la Cassazione ha bocciato il ricorso spiegando che il vitalizio ha una disciplina propria perché l’oggetto del ricorso non era un “trattamento economico di un soggetto esterno alla Camera” ma riguardava “la consistenza di un trattamento che deriva dall’assegno vitalizio di un ex parlamentare”. La decisione della Cassazione ora è destinata a far giurisprudenza, scoraggiando tutti gli eredi del vitalizio di ex parlamentari deceduti: queste controversie spettano “alla cognizione degli organi di autodichia della Camera di appartenenza dell’ex parlamentare al pari di quelle concernenti gli assegni vitalizi”.

Arrestato l’Idraulico della Lega “Da dove arrivano tutti i soldi?”

“Questo qui ha fatto lavori per la Lega per due milioni di euro in un anno e mezzo. Questo qui era un idraulico che aggiustava i tubi delle caldaie. Ma come mai?”. L’intercettazione riportata nell’ordinanza con cui ieri il Tribunale di Milano ha disposto gli arresti domiciliari per Francesco Barachetti, piccolo imprenditore bergamasco, non racconta molto più di quanto già noto sulla vicenda della Lombardia Film Commission e dei commercialisti della Lega, ma suggerisce che l’inchiesta della Procura di Milano sulla compravendita del capannone di Cormano potrebbe fare presto un salto di qualità.

Le 69 pagine firmate dal gip Giulio Fanales spiegano che Barachetti ha avuto un ruolo rilevante nell’affare immobiliare insieme ad Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Michele Scillieri, e che c’è il rischio che i reati commessi in quell’operazione vengano reiterati. Secondo la procura di Milano, attraverso la sua principale società, la Barachetti Service Srl di Casnigo, sede a 300 metri dalla casa di Di Rubba, Barachetti ha infatti avuto un duplice ruolo nell’ormai famosa operazione costata 800mila euro ai residenti lombardi. Da una parte lui e la moglie, cittadina russa, hanno beneficiato personalmente dei soldi pubblici pagati dall’ente controllato dalla Regione, intascando 55 mila euro e usandoli quasi tutti per comprare un appartamento a San Pietroburgo. Dall’altra parte, Barachetti ha permesso a Manzoni e Di Rubba, facendo da sponda attraverso un’altra società a lui riconducibile (la Eco Srl), di intascarsi 188mila euro della Fondazione, provvista che i due contabili leghisti hanno prontamente investito in due villette sul lago di Garda.

Fin qui niente di particolarmente nuovo. Barachetti era già indagato per concorso in peculato e false fatturazioni, ma il suo arresto potrebbe spingere l’inchiesta oltre i confini lombardi. Nella richiesta dei domiciliari il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e il pm Stefano Civardi non lo citano mai direttamente, ma il partito di Matteo Salvini è il convitato di pietra. Appare solo in quell’intercettazione accennata sopra. È Scillieri a parlare al telefono con Luca Sostegni, presunto prestanome usato nell’operazione Lombardia Film Commission (è in attesa di essere scarcerato):“Questo qui (Barachetti, ndr) ha fatto lavori per la Lega (da intendersi il partito politico Lega per Salvini Premier, specificano i magistrati) per due milioni di euro in un anno e mezzo. Questo qui era un idraulico che aggiustava i tubi delle caldaie. Ma come mai?… Com’è che Di Rubba ha messo su un autosalone di macchine di lusso poco lì accanto a Barachetti che ha comprato un edificio dove ha fatto la sede grandiosa della sua società? Ma da dove arrivano i soldi? Ma come mai la società di noleggio auto ha fatturato quasi un milione di euro alla Lega in un anno?”.

Così Scillieri, che dovrebbe essere interrogato nei prossimi giorni per la seconda volta, potrebbe confermare quanto contenuto in alcune segnalazioni di operazione sospetta richieste alla Uif di Banca d’Italia dalla procura di Genova, che indaga da tempo per il presunto riciclaggio dei 49 milioni di euro della Lega. Le movimentazioni bancarie dicono infatti che Barachetti ha incassato molti soldi negli ultimi anni dal partito di Salvini e dalle sue società. Solo tra il 2016 e il 2018 la Barachetti Service ha fatturato circa 1,5 milioni di euro alla galassia leghista. Numeri da capogiro per l’idraulico di Casnigo, che da quando è diventato fornitore del partito ha visto schizzare verso l’alto il suo giro d’affari. Specializzata in impianti idraulici ed elettrici, la Barachetti Service è passata da un fatturato di 282mila euro nel 2011 a 2,1 milioni nel 2017, fino ai 4,3 milioni del 2019. Barachetti Service ha incassato soldi dalla Lega a fronte di fatture per lavori vari, e poco dopo li ha girati a società riconducibili a Di Rubba e Manzoni. Proprio come avvenuto nel caso della Lombardia Film Commission. Uno schema che sembra interessare anche i magistrati di Milano.

Ieri, mentre venivano disposti i domiciliari per l’imprenditore bergamasco, la Guardia di finanza del capoluogo lombardo ha infatti perquisito anche i rappresentanti della Sdc Srl, società emersa più volte nelle trame finanziarie leghiste. Negli ultimi anni la Sdc ha ricevuto infatti parecchi bonifici dal partito, e ha poi girato buona parte delle somme ai soliti Di Rubba e Manzoni. Non solo. In un solo anno, tra il 2016 e il 2017, anche il tesoriere e parlamentare della Lega Giulio Centemero ha ricevuto denaro dalla Sdc: 61.990,40 euro, con motivazione “saldo fatture”. I documenti sequestrati ieri alla società potrebbero permettere ai magistrati di capire meglio quali prestazioni ha fornito Centemero, il fedelissimo di Salvini.

Strappo definitivo tra la Raggi e Bergamo: il vicesindaco ha chiesto un incarico a Parigi

Roma senza il suo vicesindaco. Il braccio destro della Raggi Luca Bergamo sarebbe in procinto di lasciare il suo incarico di vice e di assessore alla Cultura, destinazione: Parigi. Senza troppa pubblicità, a luglio si è candidato alla direzione dell’Istituto italiano di cultura in Francia, incarico che sarà vacante dal 20 novembre, quando cesserà il mandato di Fabio Gambaro. Bergamo non commenta l’indiscrezione (le candidature non sono pubbliche) ma neppure la nega. Negli ultimi mesi i rapporti con la Raggi si sono deteriorati al punto che a metà luglio il vice aveva criticato l’autocandidatura della sindaca definendola “debole”, perché non nata dal confronto tra i partiti. Uno strappo definitivo, Bergamo aveva già risposto alla “chiamata” della Farnesina che scadeva il 2 luglio.

Lascerebbe il suo incarico quattro mesi prima della scadenza, delicatissimi sia per l’operazione Raggi bis sia per la Capitale morsa dal Covid. La questione è politicamente scivolosa. La nomina spetta al ministro degli Esteri Luigi Di Maio che potrebbe fare un favore alla Raggi catapultando a 1.500 km di distanza l’uomo che ha tenuto in piedi giunta e amministrazione, rapporti di forza con il Pd compresi, ma con cui ha rotto i rapporti. La scelta pone però un problema d’etichetta per la galassia M5S; sulla quale si leggerebbero le parole “vincolo di mandato” e “conflitto d’interessi”. Lato candidato, perché Bergamo lascerebbe l’ incarico rompendo gli impegni presi. Lato ministro, perché Di Maio indicherebbe per il ruolo un politico in carica del suo stesso partito e questo, secondo fonti della Farnesina, non avrebbe precedenti. Vero è che la politica ha spesso usato gli istituti di cultura e i direttori di “chiara fama” per piazzare amici, figli e figliastri. Stavolta almeno non è una questione di competenza: Bergamo ha alle spalle una luminosa carriera nelle direzioni culturali dell’Unione europea a Bruxelles e in Italia si è distinto per capacità tecnico-organizzative nella programmazione culturale.

La soluzione Parigi va trovata entro una settimana e sarà comunque politica. Nella terna di nomi selezionati dal comitato di esperti figura anche lo scrittore Diego Marani, che lavora alla Commissione europea ed è sostenuto da Dario Franceschini, suo conterraneo ferrarese, che proprio a giugno lo ha nominato presidente del Centro per il libro e la lettura di Roma. “Non commento, sono cose riservate. Ma sono lusingato”, taglia corto da Bruxelles. “In ogni caso, penso che proseguirò la collaborazione col ministro”, dice in modo un po’ sibillino. Idem Luca Bergamo, che ha preferito declinare ogni commento. Il dossier Parigi è sulla scrivania di Di Maio, la decisione imminente.

Di Battista ai suoi: “Primo nel voto su Rousseau”

Lui ne è certo, tanto da averlo detto ai più intimi: “Da quello che sento e vedo nel voto devo essere arrivato primo, con un vantaggio colossale”. È di ottimo umore Alessandro Di Battista, scelto dagli iscritti come uno dei 30 oratori che domani prenderanno la parola in via telematica agli Stati generali, sorta di congresso dei 5Stelle. I prescelti interverranno domenica pomeriggio in ordine alfabetico e non di preferenze ottenute. Quelle non sono note, perché così ha deciso il capo politico reggente, Vito Crimi. Ma i grillini vicini a Di Battista hanno chiesto ufficialmente che il dettaglio delle votazioni sulla piattaforma web Rousseau venga reso noto. “Norme alla mano, non ci potranno dire di no” sostengono. Insisteranno, convinti che l’ex deputato abbia ottenuto una valanga di voti, e che i vertici lo vogliano celare per non rafforzare la sua immagine.

Le indiscrezioni confermano che l’ex parlamentare sarebbe stato il più votato. Con molti più consensi degli altri maggiorenti, compreso l’ex capo Luigi Di Maio. E dicono che tra i più votati ci sarebbe l’eurodeputato Dino Giarrusso. “Avverto l’affetto della nostra gente” ha confermato nei colloqui privati Di Battista, che sta limando l’intervento di domenica. “Non cerco rese dei conti o vendette, esprimerò solo le mie posizioni, che su alcuni punti sono diverse da quelle di altri 5Stelle” ha spiegato. Probabile che ritorni su un tema a lui caro, la revoca della concessione ad Autostrade. “Quanto emerso in queste ore a livello giudiziario conferma che l’unica strada è la revoca” ha spiegato Di Battista. Intanto oggi si parte con i tavoli tematici degli Stati generali, “con 305 rappresentanti del M5S che fino a domenica mattina si confronteranno on line” come ha spiegato ieri sul blog Crimi. Domani pomeriggio, invece, parola ai big: Di Maio, Paola Taverna, Roberto Fico, la ministra all’Istruzione Lucia Azzolina. E lui, Di Battista.

Rimborso biglietti, Antitrust contro 9 club di Serie A. Ma per avere i soldi va fatta causa

Juve, Inter, Milan, Roma, Lazio, Cagliari, Genoa, Udinese e Atalanta non riconoscono ai tifosi il diritto a ottenere il rimborso di parte dell’abbonamento o del singolo biglietto in caso di chiusura dello stadio e di rinvio del match, sia quando la responsabilità è imputabile alla società calcistica sia se la causa sono i provvedimenti adottati dal governo per contenere il contagio. Ad accertare le clausole vessatorie imposte ai tifosi è l’Antitrust, che ha concluso i 9 procedimenti istruttori, avviati il 7 gennaio 2020, imponendo che venga pubblicato un estratto dei provvedimenti sull’homepage dei siti delle 9 società. Peccato che il garante non abbia previsto nulla rispetto ai rimborsi: non sono stati riconosciuti automaticamente. Tutti i tifosi che vorranno riavere i soldi devono fare causa. Esclusa la class action,

che in Italia non esiste. Una situazione ben nota ai consumatori che negli ultimi mesi stanno assistendo impotenti a società, compagnie, trasporti che non stanno rimborsando per servizi già pagati. Unica eccezione sono le compagnie aeree costrette dall’Ue.

Dad, la Ue: “Rete lenta e docenti non formati”

Ignoranti tecnologici. Bastano queste due parole per riassumere i risultati del monitoraggio della Commissione europea sull’insegnamento e l’apprendimento nell’era digitale. In un momento in cui gli studenti e i docenti di tutto il Vecchio Continente hanno a che fare con le lezioni online, la fotografia che ci viene restituita dalla relazione “Education & Training Monitor 2020”″ non è confortante, soprattutto per l’Italia.

In tutti i Paesi oggetto dell’indagine, le competenze digitali di oltre il 15% della popolazione studentesca sono risultate insufficienti. I dati Ocse indicano che gli insegnanti della scuola secondaria di primo grado nei paesi dell’Ue sono raramente formati sull’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e segnalano dunque la forte necessità di formazione nell’utilizzo delle competenze digitali per l’insegnamento.

Nonostante negli ultimi anni gli Stati membri abbiano investito in infrastrutture digitali per l’istruzione e la formazione, persistono notevoli disparità sia tra Paesi sia a livello nazionale. Non solo. Circa un 15enne su cinque dimostra di possedere competenze in lettura, matematica e scienze insufficienti per poter partecipare pienamente alla società. “Dato l’impatto del contesto socioeconomico – si legge nella relazione – sui risultati degli alunni in termini di competenze di base e digitali, è fondamentale ridurre sia gli svantaggi nell’istruzione e nella formazione che il divario digitale tra gli alunni”.

Il documento Ue non permette ancora all’Italia di cantar vittoria. Le scuole del nostro Paese sono attrezzate dal punto di vista digitale in linea con altri Paesi dell’Ue ma il livello e la velocità della connettività è in ritardo. Mentre praticamente tutti gli istituti hanno una connessione Internet (95,4%), solo il 26,9% dispone di una connessione ad alta velocità, ben al di sotto della media Ue del 47%.

Per quanto riguarda gli studenti la fiducia nella loro competenza digitale è paragonabile alla media dell’Ue, così come la quota di studenti che usano un computer a scuola su base settimanale. Al contrario, la percentuale di insegnanti che si sentono bene o molto ben preparati a usare le tecnologie per l’insegnamento è inferiore alla media dell’Ue (35,6% contro 37,5%). “La forza lavoro docente che invecchia con competenze tecnologiche insufficienti – è scritto nel dossier – contribuisce a rallentare il progresso dell’innovazione digitale nell’insegnamento. Nel 2018, il 68% degli insegnanti ha dichiarato di aver partecipato alla formazione in servizio sul digitale in netto aumento rispetto al 2013 (15 punti percentuali) ma solo il 16,6% ha sentito un forte bisogno di formazione sull’argomento, al di sotto della media Ue del 18%”. Tuttavia, la quota di insegnanti che spesso o sempre consentono agli studenti di utilizzare le tecnologie per progetti e per lavorare in classe sono cresciuti dal 30% nel 2013 al 46,6% nel 2018.

E ancora: i docenti tendono a utilizzare la tecnologia principalmente per consultare fonti di informazione (33%) e contenuti legati ai libri di testo (34%), in linea con un approccio didattico frontale, mentre solo una minoranza utilizza risorse di apprendimento interattivo, per programmi di pratica o giochi di apprendimento.

Un problema che riguarda l’intera Europa: “La crisi del Covid-19 – sostiene il documento della Commissione – non ha solo dimostrato l’importanza di migliorare la preparazione di soluzioni digitali per l’insegnamento e l’apprendimento in Europa, ma ha anche evidenziato i punti deboli. Gli Stati membri hanno investito massicciamente nell’istruzione digitale, in particolare nelle infrastrutture con il sostegno dei Fondi strutturali. Di conseguenza, mentre le infrastrutture digitali delle scuole sono cresciute notevolmente negli ultimi dieci anni, persistono grandi disparità in molti Paesi. La percentuale di studenti che frequentano una scuola ben connessa e attrezzata varia notevolmente in Europa e sta raggiungendo il livello più alto nei paesi nordici”.

La Commissione non dimentica la questione degli investimenti nella scuola. 
Nonostante un leggero aumento nel 2018, la spesa per l’istruzione in Italia rimane tra le più basse nell’Ue. L’investimento delle amministrazioni pubbliche per l’istruzione nel 2018 è aumentato in termini reali dell’1% rispetto all’anno precedente ma rimane ben al di sotto della media Ue, sia come percentuale sul Pil (4% contro 4,6%) sia come percentuale della spesa totale delle amministrazioni pubbliche.

Mentre la quota della ricchezza prodotta destinata all’infanzia, alla primaria e alla secondaria è sostanzialmente in linea con gli standard dell’Ue, la spesa per il segmento della terziaria è la più bassa (0,3% del Pil contro lo 0,8%).

Tornando al digitale, secondo la commissaria europea all’istruzione Mariya Gabriel dovrà essere al centro dei prossimi Recovery Plan: “La Commissione ha proposto un pacchetto di iniziative, tra cui il nuovo Piano d’azione per l’istruzione digitale 2021-2027, che rafforzerà il contributo dell’istruzione e della formazione alla ripresa dell’Ue dalla crisi del coronavirus e contribuirà a costruire un’Europa verde e digitale”.

Col virus molti più bamibini lasciano la scuola

Si chiude, si chiede di chiudere, si lavora per chiudere e si crede che con l’imposizione della didattica a distanza le chiusure siano a impatto quasi zero e che la preparazione degli alunni non ne risenta. Miopia. Così come l’emergenza sanitaria del Covid-19 rischia di crearne una parallela per gli esami e gli interventi rinviati, allo stesso modo per affrontare la crisi scolastica dovuta all’epidemia si rischia di aggravarne un’altra, l’abbandono scolastico, che riguarda ogni anno almeno 100mila studenti in Italia e che i monitoraggi, complice la crisi in corso, rischiano di non riuscire neanche più a rilevare.

Partiamo da un esempio pratico di ciò che accade nelle scuole in questo momento: anche in quelle in presenza, elementari e medie, ci sono studenti che semplicemente spariscono dai radar o che smettono di frequentare: nelle cinque scuole dell’istituto comprensivo intitolato a “Simonetta Salacone”, una storica e rimpianta dirigente scolastica, del quadrante est di Roma (Centocelle, Torpignattara) in uno degli ultimi incontri è stato rilevato che almeno il 15% dei bambini iscritti non sta frequentando la scuola “per i motivi più diversi legati alla pandemia in corso”. Si va dalle quarantene fiduciarie all’eccesso di precauzione per raffreddori stagionali, alla paranoia dei genitori per il rischio di contagio e la mancanza di sicurezza fino alle più ovvie situazioni di disagio moltiplicate dalla pandemia.

Succede ovunque. “Ci sono bambini che si assentano anche per dieci giorni perché magari hanno un po’ di raffreddore oppure se le mamme scoprono che un parente di uno studente, anche di un’altra classe, è in quarantena” spiega Rosella Elia, che insegna in un piccolo comune delle Marche. E non sempre la didattica a distanza viene attivata. O peggio, alle secondarie, non sempre si riesce a raggiungere tutti gli studenti soprattutto nelle periferie e al sud Italia e nonostante tablet e pc. A Catania, sono stati denunciati 15 genitori di bimbi che frequentavano la primaria per abbandono scolastico mentre in una località limitrofa un 13enne veniva fermato alla guida di un calesse. “Qui è diffusissimo il concetto secondo cui vale la pena uscire da casa solo se si torna dopo aver guadagnato 100 euro”, spiega Rosanna Di Guardo, presidente della Fondazione Cirino La Rosa Onlus, un istituto educativo assistenziale che opera nei quartieri periferici di Librino e San Giorgio. I ragazzi crescono tra “padri che hanno sbagliato”, madri agli arresti domiciliari ma anche semplicemente tra genitori secondo cui dover tenere la mascherina al banco giustifica il tenere i figli a casa o il protestare in piazza. “Se un ragazzino non è fortemente motivato, vocato allo studio o se non ha ancora scoperto i suoi talenti, finisce per essere attratto dal facile guadagno”. Con la pandemia la situazione è ancora più grave: “Le famiglie magari non svegliano neanche i figli per andare a scuola”.

Il Covidnon fa che ingigantire un problema endemico per l’Italia. Lo si vede bene nei numeri del rapporto sull’Istruzione nell’Ue realizzato dalla Commissione: “Il tasso di abbandono scolastico in Italia – si legge – è nuovamente in calo, ma resta tra i più alti dell’Ue, soprattutto al Sud e tra i giovani nati all’estero”. Il dato, pubblicato ieri, riguarda la fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni quindi si concentra su ciò che accade negli ultimi anni delle scuole superiori. Nel 2019 la percentuale di chi non ha concluso gli studi è stata del 13,5%, da contestualizzare però in due direzioni: se da un lato è in calo rispetto al 14,5% dell’anno precedente ed è al di sotto dell’obiettivo nazionale del 16%, dall’altro è ben al di sopra della media europea che sta al 10,2 per cento. “Tra le regioni – si legge ancora – i tassi variano in modo considerevole, dal 9,6% nel Nordest al 16,7% nel Sud”. Sono altissime le percentuali per gli studenti nati all’estero: il 32,5 per cento. Il dettaglio degli under 18 è più drammatico e lo si evince dalle tabelle del ministero dell’Istruzione. Anche in questo caso, sul 2017-2018 il tasso di dispersione era in calo ma la percentuale di abbandono alle scuole medie è stata dell’1,17 per cento, del 3,82 alle scuole superiori. Fuor di percentuale parliamo di quasi 12mila ragazzini che smettono di studiare alle scuole medie, altri 8mila che si perdono nel passaggio dalle medie alle superiori e 100mila nell’arco del quinquennio. Nel grafico che mappa le regioni in base ai due indicatori “Abbandono e Povertà”, Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, convergono nel quadrante in alto a destra, dove ci sono i valori più alti per entrambe le “categorie”.

Tracciare il fenomeno, poi, potrebbe diventare sempre più difficile. Cesare Moreno è il presidente dell’associazione Maestri di Strada che opera nella parte orientale di Napoli, dunque nei quartieri periferici di San Giovanni, Barra e Ponticelli. Spiega che i dati sono media nazionale ma che ci sono zone in cui sono molto più pesanti. “Se li si analizza per tipi di scuola si vede che il tasso più alto è negli istituti tecnici e professionali”. In effetti è così: tassi più contenuti nei licei (1,8 per cento) e maggiori per gli istituti tecnici (4,3 per cento) e i professionali (7,7%). Complice un sistema scolastico che orienta verso determinati istituti alunni demotivati e che credono di non essere all’altezza. Mentre parliamo, due ragazzine vengono a salutarlo. “Con le scuole chiuse proviamo ad aiutarle. Non posso dire loro che studiando troveranno un lavoro e faranno carriera, perché questa sicurezza non c’è. Dico loro che in questo modo migliorano loro stesse e la loro capacità di affrontare i problemi”.

Chiudere le scuole in presenza è perciò “devastante”: “Anche se non lo si vedrà nei numeri, visto che sono tutti promossi e che ci sono difficoltà con la Dad, il tasso di dispersione reale è sicuramente aumentato”. Si chiude, dice, l’unico canale che certe famiglie hanno con lo Stato e dove si costruiscono speranze. E non è un cliché: “Il ragazzo che abbandona la scuola non diventa criminale, ma semplicemente entra a far parte dell’esercito industriale di riserva del lavoro nero”.

Pirellone, la ex di Salvini è la “badante” di Gallera

Mentre il Covid infuria, la destra lombarda litiga. Per le poltrone. Ma dietro allo scontro sul rimpasto in giunta, c’è il conflitto nascosto: tra Matteo Salvini e Giulia Martinelli, sua ex compagna e oggi capo segreteria di Attilio Fontana. È noto che il leader del Carroccio voleva il rimpasto perché “così non si può andare avanti” mettendo nel mirino Giulio Gallera, assessore alla Sanità di Forza Italia che però al Pirellone conta poco.

A contare davvero sono l’assessore al Bilancio Davide Caparini e soprattutto lei, la vera eminenza grigia che ha imposto la linea: “Niente rimpasti, non se ne parla: se cade Gallera rischi anche tu” ha fatto sapere Martinelli al governatore Fontana. E allora anche l’Attilio ha alzato le barricate contro Matteo. Se ne riparlerà a emergenza finita. Quel che resta degli ultimi due giorni sono le scorie di una rottura tutta interna alla Lega, già iniziata quando Salvini voleva che Fontana impugnasse l’ordinanza del governo sulla zona rossa: da una parte il trio Fontana, Martinelli, Giorgetti, dall’altra Salvini con il cerino in mano.

Così ieri mattina il tema del rimpasto si era già svuotato e il leader del Carroccio ha convocato un primo vertice interno alla Lega, seguito da un secondo allargato a tutti i capigruppo della maggioranza. Entrambi senza Fontana. Uno smacco. Ma Salvini non aveva fatto i conti anche con gli altri partiti di centrodestra che non avrebbero accettato un monocolore leghista: “Salvini se vuole cambiare deve parlarne con Berlusconi e Meloni” ripetono nel centrodestra lombardo. Così alla riunione di ieri pomeriggio sono volati i coltelli, nonostante le dichiarazioni di facciata. “Abbiamo discusso di sanità ed economia” dice la coordinatrice di Fdi Daniela Santanché. Dello stesso tenore il coordinatore di Fi Massimiliano Salini che però ammette “malumori”. Ma il tema del rimpasto o del commissariamento di Gallera, sul tavolo ci è arrivato eccome. A un certo punto il leghista Grimoldi sarebbe arrivato a dire: “Che facciamo con Gallera?” ricevendo il niet di Fi e anche di Fdi che dovevano far capire a Salvini che la giunta non è solo roba sua. Anche perché, a quel punto, sarebbero tornati in discussione altri assessori leghisti. L’unica decisione è stata sul metodo: la nuova “cabina di regìa” si riunirà ogni dieci giorni. Non si esclude che tra una settimana si possano chiedere allentamenti della zona rossa, forse già dal 23 novembre. La cabina di regìa serve a tutti: a Fi e Fdi per limitare lo strapotere di Salvini e al leader del Carroccio, ormai in rotta con Fontana. Tarallucci e vino o tutti contro tutti. Comunque una farsa.