“Io, il primo a denunciare il Trivulzio: licenziato”

“Mi hanno cacciato perché ho denunciato cosa succedeva lì dentro”. Franco Ottino, infermiere e sindacalista Cisl, era dipendente del Pio Albergo Trivulzio. Il 30 settembre è stato licenziato. A maggio aveva raccontato come i dirigenti invitassero i dipendenti a non indossare mascherine “per non creare allarmismo”.

Il 6 maggio ha denunciato il Trivulzio.

Protestavamo già da febbraio. Una sera il dg Calicchio ha apostrofato un collega dicendo che se non si fosse tolto la mascherina lo avrebbe licenziato. E noi abbiamo denunciato.

E poi?

Dal 2 maggio ero in malattia per un problema al ginocchio. Sarei dovuto rientrare il 18. Era a casa anche mia moglie (e collega), con l’influenza, in isolamento fiduciario. Dopo i tamponi negativi è rientrata al lavoro il 20. Chiedo anch’io di rientrare, mi rispondono no a causa dell’isolamento di mia moglie. Il mio medico mi dà altri giorni di malattia per giustificare l’assenza impostami e manda il certificato. Dunque sapevano che non ero a casa per sospetto Covid. Il 22 maggio partecipo al flash mob organizzato dal comitato ‘Verità e Giustizia per le vittime del Trivulzio‘”’ di fronte ai cancelli dell’istituto, che poi utilizza questa scusa per licenziarmi: ero stato ‘a stretto contatto con altri soggetti’ e che la mia malattia era dovuta ‘all’avvenuto stretto contatto con soggetto con sintomatologia da Covid’. Lo scrivono il 17 giugno, sapevano fin dal 16 maggio che mia moglie era risultata negativa.

Lei però era in malattia per il ginocchio.

Sì, ma mi hanno licenziato dicendo che ero a casa per sospetto Covid. Ho fatto un sierologico il 25 maggio e due tamponi a giugno: li ho mandati al Trivulzio, ma neanche allora mi hanno fatto rientrare e mi hanno messo in ferie. Per licenziarmi hanno scritto che ero stato posto ‘in isolamento per contatto stretto sospetto Covid’. Lo hanno fatto per punirmi.

Da quando non lavora?

Il licenziamento è del 30 settembre, io non lavoro da maggio. Fino al 1° settembre potevo lavorare, poi mi sono dovuto operare. Non hanno voluto. Ora non ho neanche la Naspi, per noi degli enti pubblici non è prevista.

La beffa dei 27 mila Covid hotel: pronti ma ancora inutilizzati

“Avremo un Covid hotel per ogni provincia”, ha annunciato due giorni fa il commissario Domenico Arcuri. Ieri è stato il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca a offrire disponibilità: “Abbiamo una rete capillare di 27 mila strutture su tutto il territorio nazionale e siamo pronti a ospitare, come nella prima fase della pandemia, persone positive asintomatiche che non hanno bisogno di assistenza medica e siamo in attesa di essere convocati dal governo per fare un accordo nazionale che stabilisca regole e indennizzi”. Ed è Pier Luigi Bartoletti della Fimmg (medici di famiglia) a puntualizzare: “Il Covid hotel è un domicilio, non un ospedale. Una struttura protetta rispetto a casa per quei pazienti che non hanno supporto sociale o familiare. Ma le regole d’ingaggio devono essere chiare: ci possono entrare solo persone con un quadro clinico stabilizzato e che non necessitano di reparti di degenza anche se a bassa intensità. Il Covid hotel è un luogo ad alto rischio di contagio, i team di medici e infermieri utilizzati per i controlli dei pazienti non possono essere improvvisati: devono essere perlomeno internisti che sappiano come gestire la vestizione e la svestizione delle tute di biocontenimento e gli altri dispositivi di sicurezza. Non si può pensare di inviare medici di famiglia, casomai di una certa età, esponendoli al virus. Queste strutture possono essere un grande vantaggio per alleggerire la pressione sugli ospedali, ma vanno organizzate bene”.

Fino ad oggi, però, non c’è stato un piano nazionale sui Covid hotel e perfino nelle “zone rosse” le strutture convenzionate si contano ancora sulle dita di una mano: intere aree ne sono sprovviste, specie al Sud. Solo ieri il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia ha annunciato: “Arcuri ha chiesto formalmente a tutte le Regioni di trasmettere entro martedì le esigenze specifiche per ogni territorio in modo da poter attivare in pochi giorni le strutture, siamo al lavoro ogni giorno con le Regioni per velocizzare tutte le procedure e dare a ogni cittadino la garanzia di avere cure dedicate immediate”.

Intanto la situazione è critica in Lombardia, dove la Regione sta cercando di convenzionare una decina di strutture in forza di 120 euro al giorno, forse la cifra più alta tra i convenzionamenti in corso. Ma le cose non vanno meglio in Campania, Sicilia (che ne ha annunciati uno per provincia ieri) e Sardegna. I (pochi) bandi aperti sono partiti in ritardo, molti solo in questi ultimi giorni. Tanti vanno deserti o incontrano scarsa adesione per manifesta indisponibilità degli albergatori. Da Bolzano a Palermo agli asintomatici non resta che stare a casa, senza poter proteggere i parenti dal contagio.

Nella disastrata Lombardia è paradossale il caso di Varese, città risparmiata dalla prima ondata e travolta dalla seconda. Già a marzo, quando il Covid l’aveva solo lambita, il sindaco Davide Galimberti aveva chiesto ad Ats Insubria e alla Regione Lombardia di utilizzare “Villa Quiete”, una ex clinica sanitaria abbandonata da tre anni, proprio in centro città e a pochi passi dal principale ospedale Covid di Varese. Voleva farne un Covid hotel dove ricoverare 60 pazienti positivi in regime di sorveglianza o in via di guarigione, ed evitare così che rimanessero a intasare gli ospedali o a contagiare i parenti tra le mura di casa.

“Ats e Regione all’epoca non ritennero necessario procedere”, racconta Galimberti. “Poi è arrivata la seconda ondata che ci ha travolti e la città oggi, coi pronti soccorso e i reparti in enormi difficoltà, non ha alcun Covid hotel nonostante fossero state date tante disponibilità, non solo a Varese ma anche nell’area di Malpensa che ha decine di strutture che sono chiuse da mesi causa Covid”. Un ritardo di otto mesi che ora – in piena emergenza – presenta il conto. Come sia successo è surreale. A metà ottobre (solo a ottobre), la Regione ha fatto una delibera per trovare strutture idonee e incentivare gli albergatori con un contributo a paziente ospitato. Ma Ats Insubria solo il 3 novembre ha emanato una bando per reperire strutture in tutta l’area. Il bando sarà chiuso il 17 novembre. “Non vorrei – teme Galimberti – che il Covid hotel spuntasse fuori a Natale, magari durante il picco che ci aspetta. Bisogna trovare presto una soluzione”.

E De Luca esplode: “Questo governo deve andare a casa”

Quando si accendono le telecamere per la diretta Facebook del venerdì pomeriggio, il governatore Vincenzo De Luca non ha ancora notizie ufficiali sulla sua Campania che sta per passare in zona rossa. Le ha attese e contando di averle ha ritardato l’avvio, ma intuisce, sa, che quella è la direzione. Anche se mentre va in onda spera il contrario: ieri, per la prima volta da tempo, sono calati i ricoverati in terapia intensiva, da 192 a 183 (su 656 posti dichiarati). Però arrivano indiscrezioni allarmanti su una crescita di Rt, l’indice di contagio, che sarebbe vicino al 2, anche se l’ultimo monitoraggio della cabina di regia con l’Iss, relativo alla settimana fino all’8 novembre, lo indica a 1.62. Anche il bollettino dei positivi da Covid 19 non fa sorridere: 4.079 contagiati su 25.510 tamponi, un rapporto del 16% tra positivi e test, e 509 sintomatici che finiranno per riempire ulteriormente le degenze Covid, ieri salite da 1.944 a 2.153 su 3.160 posti dichiarati disponibili.

De Luca così recita 43 minuti di invettive contro il governo Conte bollato di “idiozia” per non aver ascoltato lui che voleva “chiudere tutto ad ottobre “mentre l’esecutivo invece ha scelto di “prendere provvedimenti sminuzzati”, una scelta “di perdere tempo” che il presidente campano ha furiosamente contestato. Fino a dire che “questo governo crea caos, sarebbe da mandare a casa, meglio un governo di unità nazionale, fatti salvi 3 o 4 ministri, l’ho detto anche a qualche esponente del Pd, se bisognare stare al governo con questi personaggi meglio mandarli a casa”. Ce l’ha con il ministro Spadafora “che dice bestialità” e con il ministro Di Maio che non cita esplicitamente, chiamato “coniglio”, che nei giorni scorsi aveva definito la Campania “disperata” invocando zone rosse immediate e che gli ha replicato che “in Campania c’è chi muore da solo accasciato nei bagni degli ospedali (si riferisce al video girato di nascosto nel Cardarelli, ndr) o chi viene persino curato in auto. Di certo non serviva attendere i dati per dichiarare la massima allerta in Campania, viste le scene di questi giorni nei pronto soccorso”. Di Maio e Spadafora, due ministri napoletani.

De Luca ce l’ha insomma con il M5s che ieri ha rivendicato il merito politico dell’ordinanza di Roberto Speranza, valga per tutti il comunicato della dimaiana vice presidente del consiglio campano Valeria Ciarambino: “È il risultato delle nostre battaglie a difesa della vita umana, c’era una situazione drammatica che nessun algoritmo poteva raccontare”. Come dire: la zona gialla era fondata su dati inesatti. È la tesi anche del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che ieri ha chiesto ristori economici immediati per chi abbasserà la saracinesca: “La zona rossa in Campania è la prova che i dati ufficiali regionali non corrispondevano alla realtà, il governo aveva dati più rassicuranti, poi a seguito degli accertamenti fatti in questi giorni (le ispezioni del ministero e dei Nas negli ospedali, ndr) è venuto fuori che eravamo già come situazione reale in zona rossa”. E l’annunciata ordinanza sindacale per ridurre gli assembramenti a Napoli, che si scopre essere un elenco di 90 strade dove intensificare i controlli, finisce nel cassetto.

Una parte della piazza non l’ha presa bene. Davanti Palazzo Santa Lucia si è radunata la protesta dei mercatali che chiedono aiuti economici e dei movimenti di disoccupati che gridano “alla patrimoniale per garantire gli ammortizzatori sociali”. Il primo banco di prova della zona rossa sarà questo: garantire la tenuta sociale di un territorio dal disagio diffuso, con la camorra pronta ad approfittarne.

Casi, tracing e focolai. I dati degli esperti dietro le ordinanze

La Toscana finisce in zona rossa per il forte aumento dei contagi che l’ha portata, nei 14 giorni fino al 4 novembre, a un tasso Rt di 1,8. Nel monitoraggio reso noto ieri è il più alto in Italia, dove la media è 1,43 e per la prima volta cala da luglio, quando le infezioni da Covid-19 hanno ricominciato a crescere. Nel penultimo monitoraggio, che per il calcolo di Rt si fermava al 28 ottobre, la media nazionale era 1,71 e la Toscana era a 1,4. Negli ultimi giorni il dato toscano potrebbe essere sceso: le province di Prato, Pisa, Pistoia e Arezzo rimangono tra le 20 più colpite nel Paese, ma nella seconda metà di ottobre c’era anche Firenze che ora è scivolata più giù. Al contrario l’indice della Campania, dove le aree più segnate sono quelle di Napoli e Caserta, sarebbe salito ancora dall’1,62 indicato nel report di ieri, costante rispetto al precedente (1,63): è l’altra Regione che diventa rossa. “L’epidemia in Italia – scrive la Cabina di regia del ministero della Salute e dell’Iss – seppur intensificandosi per gravità a causa di un aumentato impatto sui servizi assistenziali, mostra una lieve riduzione nella trasmissibilità” che “potrebbe costituire un segnale precoce di impatto delle misure di mitigazione introdotte dal 25 ottobre”, cioè il Dpcm che ha imposto lo stop alle 18 a ristoranti e bar e la chiusura di palestre e piscine.

Per la Toscana pesano anche le criticità del contact tracing, per la seconda settimana consecutiva la Regione ha dichiarato di aver tracciato i contatti solo per il 39,9% dei casi positivi, ampiamente sotto la soglia d’allerta del 60, molto lontana dalle numerose Regioni che ancora dichiarano oltre il 90% di contatti tracciati. Ma soprattutto la situazione degli ospedali, di cui il monitoraggio riporta finalmente un dato recente (all’11 novembre): nelle terapie intensive la Toscana è al 58% dei posti letto occupati da pazienti Covid, quasi il doppio della soglia (30%); nei reparti ordinari è al 39% a un passo dal limite fissato al 40. Ma sono nel complesso 15 le Regioni e le Province autonome che hanno sfondato almeno uno dei due tetti oltre i quali gli ospedali non funzionano correttamente. Li hanno superati entrambi la Campania che appunto passa da giallo a rossa (31 e 50%); l’Emilia-Romagna che diventa arancione anche per i 94 focolai attivi in Rsa/strutture di degenza/ospedali benché Rt sia sceso da 1,57 a 1,4 (40 e 56% anche se sono ancora in corso verifiche); la Liguria già arancione che pure vede Rt scendere da 1,37 a 1,1 (47 e 70%); la Lombardia già rossa dove Rt però è sceso da 1,99 a 1,45 (58 e 48%), le Marche che diventano arancioni perché Rt è salito da 1,01 a 1,55 in sette giorni (45% nelle terapie intensive, 55% in area medica); il Piemonte (già rosso) con Rt in discesa da 1,76 a 1,31 ma 57 focolai in Rsa/strutture di degenza/ospedali (59 e 92%); Bolzano (già rossa) con il record nazionale di tamponi positivi (48,1%) e Rt che va da 1,73 a 1,59 (54 e 84%), Trento che resta gialla anche perché Rt scende da 1,54 a 1,3 (47 e 59%), la Puglia già arancione e con i focolai ospedalieri in aumento (33 e 40%), la Val d’Aostaa sempre rossa con Rt che cresce ancora da 1,54 a 1,74 (57 e 85%) e l’Umbria già arancione dove Rt rimane stabile 1,43 (48% nelle terapie intensive ee 52% in area medica). L’Abruzzo, già arancione, supera il tetto per i reparti ordinari (41%) ed è al 29% nelle terapie intensive, il Lazio è al 47% in area medica e al 26%nelle rianimazioni, la Sardegna al 31 e al 30%. Restano sotto le soglie di allerta ospedaliere il Molise, il Veneto, la Calabria, la Sicilia e il Friuli-Venezia Giulia. Quest’ultima Regione, però, diventa arancione perché Rt è rimasto alto a 1,42 (era a 1,6), il rapporto positivi/tamponi è salito ancora (al 27,25), il contact tracing è sceso (dal 100 all’83,5%). I dati sugli ospedali, si legge nel report, non sono disponibili per la Basilicata, che non riesce neppure a fornire la data di inizio sintomi per il 48% dei contagiati ma dichiara, chissà come, di non avere casi non riconducibili a catene di trasmissione note.

In serata il Comitato tecnico scientifico è tornato a sostenere la sua posizione a favore di una maggiore apertura delle scuole.

Italia in trincea, 5 Regioni cambiano colore: Toscana e Campania sono rosse

I nuovi contagi sfondano quota 40mila, un lugubre record. Gli ospedali sono trincee, con 12 regioni che hanno già varcato la soglia critica. Così l’Italia vira sempre più verso il rosso: il colore delle chiusure e della speranza, quella di scongiurare il lockdown nazionale. Serve innanzitutto a questo l’ordinanza varata ieri sera dal ministro della Salute Roberto Speranza e che entrerà in vigore da domani, con cui il governo rende zone rosse la Toscana e soprattutto la Campania del governatore Vincenzo De Luca, da giorni epicentro della tempesta tra ispezioni ministeriali e video che raccontano una (quasi) apocalisse sanitaria. E De Luca non la prende bene: “Noi eravamo per chiudere tutto ad ottobre, per un mese, invece il governo ha fatto provvedimenti sminuzzati: scelta totalmente sbagliata”.

Ma il giro di vite ampiamente atteso riguarda anche Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Marche, che diventano zone arancioni. “Non si poteva fare diversamente” dicono dal governo, nel venerdì in cui i nuovi contagi toccano la quota record di 40.902 (oltre 4mila solo in Campania) a fronte di 255 mila tamponi, mentre i morti sono l’ennesima valanga, 550. Il virus morde ancora fortissimo, nonostante la pioggia di dpcm in un pugno di giorni. “Si verifica un preoccupante aumento sia dei ricoveri ospedalieri sia dei ricoveri in terapia intensiva, e questo giustifica ulteriori misure restrittive” riassume il direttore del dipartimento Prevenzione del ministero della Salute Gianni Rezza. I colori delle fasce dovevano cambiare, perché di tempo potrebbe esserne rimasto poco. Così teorizza Walter Ricciardi, consulente di Speranza: “Abbiamo 2-3 settimane di tempo per valutare, poi si potrebbe anche decidere di allentare queste misure, o di chiudere ulteriormente, con zone rosse ovunque e un lockdown nazionale di fatto”. Parole che ai piani alti del governo non vengono gradite. Perché il presidente del Consiglio Giuseppe Conte vuole evitare la serrata nazionale, a ogni costo. “Stiamo lavorando con una strategia diversa rispetto alla primavera scorsa, quando fu necessario un lockdown nazionale” conferma per la milionesima volta il premier in mattinata, convinto che “ora abbiamo il dovere di intervenire dove c’è bisogno e di non adottare strette più incisive nelle aree dove non le meritano”.

Si aggrappa al calo dell’indice di trasmissione, messo in luce ieri pomeriggio da Rezza: “L’Rt questa settimana sembra essere leggermente diminuito da 1,7 a 1,4, potrebbe essere un primo segnale dei provvedimenti presi”. E un ministro al Fatto fa notare il dato di Milano: “Lì si è scesi all’1,2”. In serata Speranza parla al Tg1, e parte da lì: “L’indice del contagio scende da 1,7 a 1,4 ed è una primissima notizia confortante, ma non basta. Abbiamo bisogno di portarlo nel più breve tempo possibile sotto l’uno per salvare più vite umane e alleviare il peso delle nostre strutture sanitarie”.

La via per riuscirci rimane quella delle fasce. “Ma non vogliamo dare le pagelle alle Regioni, le misure servono a piegare la curva” giura il ministro. Perché la linea è smussare lo scontro con i governatori, creare un clima di coesione. Per questo Conte ricorda: “Il governo non sa quali regioni cambieranno colore perché applica un metodo scientifico”. Decidono gli esperti in base ai numeri: cioè la cabina di regia, “condivendo i dati con il comitato tecnico scientifico” ribadisce. E comunque in giornata da palazzo Chigi fanno circolare un articolo della rivista scientifica Nature, da cui emerge come i luoghi pubblici più a rischio per i contagi siano ristoranti, palestre e caffè. Come a dire che limitare determinate attività è indispensabile. Certo, poi ci sarebbe in vista il Natale.

Un nodo, e allora Conte prova a tenersi in equilibrio così: “Considereremo la curva epidemiologica che avremo a dicembre ma il Natale non lo dobbiamo identificare solo con lo shopping, perché a prescindere dalla fede religiosa è anche un momento di raccoglimento spirituale, e se si fa con tante persone non viene bene”. Considerazioni che provocano la reazione del centrodestra, da dove lo invitano a “non occuparsi della spiritualità degli italiani” (la forzista Anna Maria Bernini). Ma le feste prossime venture già agitano il governo, dove l’attesa del vaccino si è fatta ovviamente messianica. “Saranno mesi non facili, ma si vede luce in fondo al tunnel” si sforza Speranza. Fiducioso, nella notte.

Gli insaputi

La fiera dell’insaputismo ci aveva abituati quasi a tutto. A B. che scambia Mangano per uno stalliere, la Minetti per un’igienista dentale, Alfano per il suo erede e Gasparri per un ministro. A Scajola che compra casa al Colosseo e non si accorge che due terzi glieli ha pagati un altro. A Fontana, presidente della Regione Lombardia che appalta le forniture dei camici alla ditta di suo cognato senza dirgli niente, dopodiché lui tenta di risarcire il cognato per il mancato affare con un bonifico da un conto svizzero che non sa di avere, così come ignora perché la madre dentista e il padre impiegato tenessero 5 milioni alle Bahamas su cui lui, sempre a sua insaputa, aderì alla voluntary disclosure per farli rientrare in Italia, tant’è che li lasciò in Svizzera. Un caso di insaputismo talmente sfortunato da rendere persino credibile il generale Saverio Cotticelli, commissario alla Sanità in Calabria, che confessa in tv di non aver mai fatto il piano di emergenza perché non sapeva che spettasse a lui; poi, quando lo cacciano, spiega restando serio che il piano l’aveva fatto, ma “non ero io quello dell’intervista, non mi riconosco, ho vomitato tutta la notte, forse mi hanno drogato, sto ancora indagando”, forse c’entra “la massoneria”, anzi “la masso-mafia”.

Ci stavamo appena riprendendo, quando sulla scena ha fatto irruzione Christian Solinas, sgovernatore di Sardegna, il genio che quest’estate riaprì le discoteche trasformando la sua Regione in un mega-focolaio. L’ordinanza è firmata da lui, quindi come si discolpa? “Ho obbedito al mio Comitato tecnico scientifico”. La prova sarebbe un’email di quattro righe inviata dal prof Vella, membro del Cts, al capo della Sanità regionale un’ora prima che lui firmasse l’ordinanza. Ora che i pm indagano, Vella spiega a Repubblica che quelle quattro righe “non erano un parere del Cts”, mai convocato e comunque contrario, ma una mail “a titolo personale per tentare di ridurre il danno di una scelta politica già presa. Intendevo dire che per loro, come mi avevano detto, era inevitabile e necessario riaprirle. Per loro, non certo per noi”. Infatti la polizia ha sequestrato altre 10 email del Cts sardo fieramente contrarie alle discoteche. Ma Solinas dice che non ne sapeva nulla: in fondo è solo il presidente della Regione. Otto anni fa, Sara Tommasi girò alcuni film porno e il suo fidanzato di allora, il celebre avvocato-scrittore Alfonso Marra, li attribuì all’abuso di droghe. Ma lei lo smentì sfoderando un alibi decisivo: “È colpa delle entità aliene che mi hanno impiantato un microchip nel cervello per diffondere l’amore nel mondo. Due di loro sono state sempre presenti di nascosto sul set”. Strano che non sia ancora governatrice di qualche Regione.

Biden: tanti buoni propositi, ma ancora troppi ostacoli

Il neo presidente Usa Biden viene dipinto come amico della mobilità a basso impatto ambientale. Che è probabilmente vero, ma il problema è stabilire fino a che punto vorrà o potrà esserlo. In campagna elettorale aveva promesso incentivi e sgravi fiscali per le auto a batteria, come pure l’implementazione di mezzo milione di nuovi punti di ricarica entro il 2030, in collaborazione con le amministrazioni federali: tutti provvedimenti che potrebbero finire nel pantano dei precari rapporti di forza tra Democratici e Repubblicani al Senato, ma anche al Congresso.

Il fronte delle emissioni appare poi, perdonate l’aggettivo, alquanto fumoso. L’obiettivo di Biden è quello di “smilitarizzare” l’Epa (l’ente americano per l’ambiente) dopo l’era Trump, e recuperare i severi standard (generali, non solo per le auto) sulle emissioni fissati con Obama nel Clean Power Plan. Operazione non facile, dopo i massicci interventi di The Donald che in questi anni hanno reso quasi irreversibili i processi verso la modifica dei suddetti limiti. Molto meno complicato, invece, sarà far la pace con la “ribelle” California, che vedeva Trump come il fumo agli occhi. E magari anche col resto del mondo, allentando le misure protezionistiche. Assai arduo, infine, sarà far passare la cultura dell’elettrico in un paese che ha le più grosse riserve di greggio del mondo, e dove la benzina continua a costare un decimo rispetto all’Italia. Perché le ragioni dell’ecologia e quelle del portafogli spesso non si incontrano.

Yaris GR: un concentrato di sportività

Avete presente la filosofia Toyota legata all’ibrido, alla massima efficienza e, in linea di massima, alla morigeratezza? Bene, scordatevela. Perché l’ultima sportiva della casa giapponese, la Yaris GR, è tutt’altro: lunga 4 metri, con carreggiate generose e passaruota (specie quelli posteriori) muscolosi, motore da 260 cavalli e trazione integrale. Insomma, la compatta sportiva “definitiva”.

Dopo la GT86 – pronta a rinnovarsi il prossimo anno sotto il nome di GR86 – e la rediviva Supra, la Yaris GR rappresenta l’ennesimo esempio della volontà di Toyota, e più precisamente del Presidente Akio Toyoda, di diventare un brand ad alto tasso emozionale.

Una marca sotto il cui ombrello i valori apparentemente antitetici dell’ibrido e della sportività possono viaggiare mano nella mano verso il futuro della mobilità.

Il numero uno della multinazionale giapponese ci crede talmente tanto da aver dato vita a Gazoo Racing, la divisione che si occupa del motorsport – anche di quello “elettrificato” che va in scena a Le Mans – e dei prodotti ad alte prestazioni della marca.

Tuttavia, il biglietto da pagare per accedere a questo spettacolo è abbastanza salato: 39.900 euro. Ne vale la pena?

Dal punto di vista delle prestazioni, dell’efficacia e del piacere di guida non c’è dubbio: sulla pista di Vairano, che è tecnica, veloce e stretta, la GR ha brillato per l’agilità, la stabilità e la determinazione con cui assale i cordoli. E tirando le somme, al di là dei pregiudizi sui motori tre cilindri, va detto che quello che spinge questa Yaris (il più potente del mondo) è “pieno” e piacevole da spremere fino all’ultimo cavallo, scattando da 0 a 100 all’ora in 5,5 secondi e raggiungendo una velocità di punta autolimitata a 230 orari. Sempre, rigorosamente, in pista.

Ferrari SF90 spider, l’ibrido (di Maranello) ora ha mille cavalli

Essere la prima Ferrari ibrida plug-in della storia con carrozzeria decappottabile: non è un onere da poco quello riservato alla nuova SF90 Spider, antesignana di un modo inedito di concepire le supercar dalle parti di Maranello. Il tettino rigido ripiegabile consente infatti di passare dalla configurazione chiusa a quella aperta in circa 14 secondi.

Il powertrain ricaricabile è capace di una potenza massima di ben 1.000 Cv, di cui 780 erogati dal 4.0 V8 biturbo collocato dietro l’abitacolo. I restanti 220 Cv sono sviluppati da tre motori elettrici, uno posto tra il motore endotermico e il cambio doppia frizione a 8 rapporti e due collegati all’asse anteriore. La SF90 Spider recupera l’energia generata durante le frenate o quando si rilascia il pedale dell’acceleratore e la invia alla batteria per migliorare ulteriormente l’efficienza. Curatissima l’aerodinamica: a 250 km/h l’auto genera 390 kg di carico verticale, un benchmark tra le vetture stradali ad alte prestazioni.

Per tenere a bada il peso – sono 270 i kg aggiuntivi derivanti dal solo sistema ibrido – e assicurarne una distribuzione ottimale fra assi, telaio e scocca della SF90 Spider, si è fatto largo uso di leghe di alluminio e fibra di carbonio: pertanto, l’ultimo bolide rosso fa fermare l’ago della bilancia a 1670 kg, 100 in più della SF90 Stradale.

All’interno spicca il cluster centrale della strumentazione, costituito da un unico schermo digitale ad alta definizione da 16’’, curvato verso il pilota per facilitare la lettura. Inoltre, è presente l’head-up display – che proietta le principali informazioni di guida sul parabrezza, nel campo visivo del guidatore – e il volante multifunzione con comandi a sfioramento. Naturalmente le prestazioni sono esagerate: 0-100 km/h in 2,5 secondi, 0-200 km/h in 7 secondi e una velocità massima superiore ai 340 km/h. I propulsori a zero emissioni sono collegati a una batteria a litio da 7,9 kWh, che rende possibile viaggiare a emissioni zero, in modalità 100% elettrica, per circa 25 km e fino a una velocità massima di 135 km/h.

Il prezzo è fissato a 473 mila euro e le prime consegne partiranno nel secondo trimestre 2021. Ma chi pensa che questo sia il preludio di un passaggio completo dai motori termici a quelli a corrente sbaglia, almeno per il momento: “Non c’è alcun dubbio che il mercato si stia spostando verso la tecnologia elettrica” afferma Enrico Galliera, direttore commerciale Ferrari: “Per questo abbiamo iniziato a sviluppare vetture ibride come la SF90, utilizzando l’elettrico per valorizzare ancor più le prestazioni. Ma per quanto riguarda i veicoli 100% elettrici, per il momento non consideriamo la tecnologia esistente adatta ed efficace per garantire il piacere di guida tipico del Cavallino”.

“Scrivere è una dannazione e mi manca il ‘Contatto’”

“Io odio la musica, prima di salire sul palco”.

Possibile? Si spieghi, caro Sangiorgi.

Scrivere canzoni è una dannazione, ma non posso farne a meno. La musica mi costringe a guardare dentro me stesso, senza indulgenze. Componendo capisco se sono un buon padre e marito. Un uomo. E più mi conosco più mi detesto. Non è solo scarsa autostima. Se qualcuno dice: ‘Giuliano, mi stai sul cazzo’, io non mi difendo, trovo abbia ragione.

Non si butti giù.

Canto le mie verità, ma come fossero la storia di altri. I concerti sono l’espiazione della colpa di scrivere. Solo sul palco la mia negatività si annulla. E comprendo il senso di questa feroce autoanalisi.

Tempi duri per i live.

Possiamo tenerci vicini con gli show virtuali. Però se presto non si torna a suonare dal vivo giuro che smetto con la musica. Pretendo il sudore, la transenna, il pubblico attorno. E voglio applaudire altri artisti, mischiato tra la folla. Riprendermi la fisicità dei rapporti, che anche prima della pandemia avevamo sostituito con i rapporti impalpabili imposti dalle tecnologie. Sui social si sparge violenza, intolleranza, follia. Non rispondo mai a certi post medioevali. I miei post, e il mio posto, sono le canzoni. Con quelle esprimo idee. Reclamo un Contatto profondo.

È questo il senso del vostro nuovo album, Contatto, il decimo dei Negramaro. Una produzione ispirata, un featuring con la giovanissima trapstar Madame. Un disco sensato, tra rimandi al cantautorato degli anni d’oro e una sensibilità creativa modernissima eppure anacronistica.

Il disco è un concept, ma la parola che lega l’universo, in questo tempo orrendo, è proprio Contatto. Ci serve per riappropriarci del mondo che verrà. Il Covid ha minacciato la nostra essenza di esseri politici, sociali, empatici. Abbiamo scritto tutte le canzoni prima dell’avvento del Covid. Tranne una: Terra di nessuno. Vedevo le strade di Roma deserte nel lockdown e pensavo che dovranno diventare terra di ognuno. Le diversità reciproche, come quelle di Anna e Marco di Dalla che cito in un verso, salveranno il pianeta.

In Dalle mie parti affronta la questione dei migranti. Continuano a naufragare, ma pochi ci badano.

Tempo fa un povero cristo entrò in casa mia. Io non c’ero. Ilaria prese nostra figlia Stella e scappò via. Mi chiesero di procedere al riconoscimento dell’intruso: non lo feci. Certo, aveva messo in pericolo le due persone che amo di più. Ma cosa avrei risolto aggiungendo il castigo alla sua disperazione? Stella ha due anni, deve crescere lontana dal seme del disprezzo, dalla diffidenza.

A sua figlia ha dedicato una canzone nell’album, Devi solo ballare.

La dettò lei, quando aveva sette mesi. Ballava sempre, anche sul seggiolone. Poi si fissava a guardare la luna, a lungo. Ha la musica dentro. Prima di addormentarla, Ilaria le fa ascoltare brani per pianoforte.

Cosa le cantò lei, Giuliano, la prima volta che la prese in braccio?

Across the universe dei Beatles. Era appena nata. Medici e infermieri mi incoraggiavano a continuare, così intonai Meraviglioso. Ma a casa Stella non mi permette di cantare. Teme che me ne vada lontano per lavorare. Ho composto per lei un sacco di canzoni che tengo nel cassetto. Le dovrà ascoltare da adulta. Il mio diario per il suo futuro.

Finito il tour di Amore che torni sperava in un po’ di relax. Invece…

Invece mi sentivo a pezzi. Pure la malattia di Lele Spedicato, il nostro chitarrista, mi aveva prosciugato l’anima. I Negramaro sono una famiglia: se lui non ce l’avesse fatta, le nostre vite sarebbero state sconvolte. Insomma, tornato a casa accuso dei malesseri, temevo fosse qualcosa di grave. Ilaria mi spinse in studio. Così è nata Noi resteremo in piedi, la prima canzone del nuovo album. Un inno di resistenza personale: vi ho allargato lo sguardo ai tormenti di chi soffre, fino a Black Lives Matter. Le canzoni sono tane in cui ci nascondiamo e troviamo il mondo, se lasciamo la porta aperta.

Accennava a Dalla. È vero che le hanno offerto di interpretarlo in un film?

Mi hanno proposto più di un progetto su Lucio. Accetterò se e quando mi sentirò all’altezza. Dalla era il più grande. Il primo rapper insieme a De André. La sua assistente mi ha rivelato che Lucio veniva di nascosto ai concerti dei Negramaro. Non aver duettato con lui è il mio grande cruccio.

Il disco si chiude con una coda quasi filmica con l’orchestra di Morricone.

Ennio era ancora vivo, la Sinfonietta era diretta da Stefano Nanni al Forum Village. Una suggestione alla Sergio Leone. Il virus colpiva già duro. Prisca, primo violino, ci ringraziò in lacrime per aver restituito un senso fisico al loro lavoro. Era un contatto. Quello che ci serve, ora più che mai.