Dimmi come neghi e ti dirò che tipo di complottista sei

Un giorno bisognerà seriamente interrogarsi su quanto disagio psichico, oltre che sociale, ci sia dietro a proteste e complottismi degli ultimi tempi, perché a leggere le cronache giornaliere nonché i commenti sui social, il negazionismo sta infestando gli italiani come la xylella gli ulivi salentini.

E lo fa in maniera subdola e pericolosa, con alcuni casi umani che si stanno trasformando in casi di cronaca (il razzo illuminante trovato in un pronto soccorso è l’ultimo episodio inquietante). Vediamo insieme le varie tipologie di negazionisti:

Negazionista (un po’) colto. Particolarmente pericoloso perché in virtù delle sue capacità dialettiche gode di una certa autorevolezza, il negazionista colto è uno che da una platea di complottisti sgangherati, casalinghe in cerca di riscatto, ignoranti di varia fattura e soggetti deliranti, viene facilmente eletto a massimo profeta e divulgatore ufficiale di ogni minchiata possibile. Per intendersi, è come quando nella casa del Grande Fratello entra uno con un diploma da elettricista e gli altri lo guardano col rispetto che si deve a un veterano di guerra, a uno che torna dall’aldilà dopo 45 minuti di arresto cardiaco, a uno che è tornato da una deportazione nazista.

Negazionista medico. È una specie che fotografa con una certa efficacia non tanto la questione negazionista quanto quella universitaria. Come sia possibile che certi individui con la proprietà di linguaggio di Antonio Razzi sotto acido, capaci di sostenere che i vaccini siano acqua di fogna, abbiano preso una laurea anche lunga e faticosa, è mistero fitto. In tutto ciò, il medico negazionista è sempre quello che ne sa più di primari ed esperti di fama internazionale, ma se si vanno a cercare le sue pubblicazioni su riviste scientifiche, se ne trova al massimo una: quella volta in cui Focus gli ha pubblicato una lettera nella rubrica della posta in cui chiedeva come fare per recuperare un vecchio numero col poster del Krakatoa in eruzione.

Negazionista sincretista. È quello che aggrega varie teorie sull’inesistenza del Covid e cerca di creare un fil rouge per non buttare via niente, dunque: Soros è un rettiliano che chiede al personale medico di iniettare nel nostro corpo del mercurio attraverso un microchip sottopelle che si attiva col 5g e dunque, il premier Conte, con uno speciale telecomando che nasconde nel taschino sotto la sua strategica pochette, ci alza e abbassa la febbre a suo piacimento. Il Covid non è altro che questo: Giuseppe Conte che decide la temperatura del Paese col telecomando.

negazionista riciclato. È quello a cui non interessa tanto il tema, quanto il ruolo, che naturalmente è quello di chi vede, conosce, diffonde una narrazione alternativa a quella dominante. Ci sono negazionisti del Covid che prima erano terrapiattisti, prima ancora bossettiani, prima ancora convinti che il Molise fosse una regione dello spazio-tempo, prima ancora che l’allunaggio sia stato girato negli studi di Porta a porta e così via, in un generarsi, consumarsi e rigenerarsi di coglionate senza fine.

Negazionista cospirazionista. Lui ha sempre l’aria di quello che ne sa più noi, ma agisce in sottrazione, parlando poco, utilizzando la sintesi e, soprattutto, la vaghezza. “Il Covid è voluto da poteri forti che agiscono nell’ombra, manovrando persone che alcuni di noi hanno visto entrare di notte nei palazzi del potere con delle strane tute di colore grigio varcando il portone e scortate da individui con delle strane facce che un certo giorno sveleranno all’umanità il loro piano segreto”. Tu commenti: “Eh?”. E loro: “Scusa ma non posso dirti di più, un giorno capirai”.

Negazionista reporter. È quello che ha il vizio di documentare tutto, che raccoglie prove sul campo, che ha sempre un microfono e un telefonino pronto a testimoniare che il Covid sia inventato, che le ambulanze girino a vuoto, che i pronto soccorso siano delle quinte di cartone messe lì per spaventarci e che la notte le smontino come il set di un film. Naturalmente, i negazionisti reporter sono pensionati, giovani fancazzisti e paranoici di mezza età che fino a 9 mesi fa riprendevano dalla finestra i vicini che facevano pisciare il cane sul portone e ora, colti da mitomania pandemica, si sentono il braccio armato di Report.

Negazionista per uso privatistico. Non gliene fotte niente della pandemia, dei numeri, delle terapie intensive, di Zangrillo, di Pregliasco, di mascherine, discoteche, politica, distanziamento. Lui è negazionista perché gli interessa solo alzare la saracinesca e lavorare pure se è un oculista omeopata il cui collirio bio è uno sputo fortissimo nell’iride del paziente.

Negazionista per mancanza di prove. È quello che non è lui che deve dimostrarti che il virus non esiste, ma tu che esista. A quel punto tu gli snoccioli numeri, curve, evidenze scientifiche, dati Istat e cartelle cliniche, ma lui ti risponderà sempre: “E quindi?”. In pratica, il negazionista per mancanza di prove è la versione in salsa pandemica della Castelli che discute con Padoan dell’impatto dello spread sui mutui. “Il Covid esiste!”. “Questo lo dice lei”.

Marcello Foa e l’”affare” da un milione: un indagato per la tentata truffa alla Rai

Si chiama Yigal Halwani, italiano di origini libanesi, scuola ebraica a Milano, 29 anni. È lui uno degli indagati nell’inchiesta della procura di Milano sulla banda delle “Truffe ai ceo”, il gruppo del tentato colpo alla Rai da 1 milione di euro e di decine di altre truffe in tutta Europa, molte tentate e alcune riuscite. Come quella alla Edison, società energetica italiana controllata dalla francese Edf, che ha perso 12,5 milioni di euro a causa del gruppo di cui farebbe parte Halwani. Con lo stesso metodo usato per ingannare Edison, la banda ha cercato di farsi fare un bonifico da 1 milione di euro anche dalla Rai. Il 29 aprile di un anno fa, il presidente Marcello Foa ha ricevuto una email dall’indirizzo giovannitria@mef.gov. Dietro quell’account non c’era però l’allora ministro dell’Economia del governo gialloverde (che aveva voluto Foa in quota Lega a capo della Rai), ma la banda delle truffe. Con tono informale, il finto Tria ha scritto a Foa che la Rai avrebbe dovuto liquidare il compenso accordato in un contratto internazionale con alcune società cinesi, pagando 1 milione di euro. Le istruzioni operative sarebbero arrivate da un importante avvocato italiano con studio a Milano e a Ginevra, Francesco Portolano. La mattina stessa Foa riceve la telefonata dal finto Portolano: l’avvocato gli spiega di effettuare il pagamento presso un conto di una banca cinese ad Hong Kong. Il colpo non si concretizza per poco. Foa comunica l’operazione da fare all’amministratore delegato, Fabrizio Salini, il quale s’insospettisce. Chiama il vero Tria chiedendo conferma di quel pagamento da fare a delle società cinesi, scopre che è una truffa e sporge denuncia ai carabinieri. Partita più di un anno fa, passata da Roma a Milano, l’inchiesta sul tentato colpo alla Rai è entrata in un fascicolo ben più corposo. Di truffe del genere la banda ne avrebbe fatte a decine, in diversi Paesi e sempre con trame internazionali. Per questo la procura di Milano ha inviato rogatorie in Cina, in Svizzera e in Israele. Halwani non è ancora stato interrogato dal pm Barilli. Le ultime notizie pubbliche su di lui sono del 20 ottobre dell’anno scorso, quando è stato arrestato insieme a un israeliano e a due francesi ad un lavaggio d’auto di Tel Aviv su richiesta della Norvegia, che indagava sui quattro proprio per le “Truffe ai ceo”. Oslo ha chiesto l’estradizione, ma le autorità israeliane gliel’hanno negata.

Veneto, Consulta boccia la legge sulle ronde

Incostituzionale la legge della Regione Veneto sul cosiddetto “controllo del vicinato” perché viola la competenza esclusiva dello Stato per quanto concerne ordine pubblico e sicurezza. Lo scrive la Corte Costituzionale nella sentenza depositata ieri, relatore il giudice Francesco Viganò. La legge regionale veneta, del 2019, prevede forme di controllo territoriale da parte di cittadini trasformati in ausiliari delle forze di polizia preposte alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. La legge appena bocciata include pure una banca dati per il monitoraggio dei suoi risultati. Una facoltà assegnata ai cittadini, spiega la Corte, che “incideva inevitabilmente sulla ‘sicurezza primaria’, riservata dalla Costituzione alla competenza legislativa dello Stato”. La Corte, citando i suoi stessi precedenti, ha rimarcato che spetta soltanto allo Stato “legiferare in materia di ‘sicurezza primaria’”, cioè in merito all’attività di “prevenzione e repressione dei reati”. E le Regioni? “È consentito loro prevedere interventi a sostegno della cosiddetta ‘sicurezza secondaria’, in particolare mediante azioni volte a rafforzare nel contesto sociale una cultura della legalità, nonché a rimuovere le condizioni nelle quali possono svilupparsi fenomeni di criminalità”. Ma, precisa sempre la Corte, per evitare equivoci, “nulla vieta alla legge statale di disciplinare direttamente il fenomeno del ‘controllo di vicinato’, già oggetto di numerosi protocolli di intesa tra prefetture e comuni d’Italia. E ciò nell’ottica, riconducibile al principio di ‘sussidiarietà orizzontale’ sancito dall’articolo 118 della Costituzione, di partecipazione attiva e responsabilizzazione dei cittadini rispetto all’obiettivo di una più efficace prevenzione dei reati, attuata attraverso l’organizzazione di attività di supporto alle attività istituzionali delle forze di polizia”.

Arriva il “regalo” per vendere Mps a Unicredit &C.

Il governo, o meglio Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia hanno deciso che il Monte dei Paschi di Siena, nazionalizzato nel 2017, va venduto a ogni costo, anche quello di regalarlo con cospicua dote pubblica al possibile acquirente. Il primo indiziato è Unicredit, banca che ha appena cooptato in cda l’ex ministro Pier Carlo Padoan, destinato ad assumere il ruolo di presidente.

Il ministero prepara infatti una misura fiscale per incentivare le fusioni bancarie consentendo a chi ha molte imposte differite attive (le cosiddette “Dta”) di trasformarle in crediti di imposta in caso di “scissione, fusione o conferimento d’azienda” deliberato tra gennaio e dicembre 2021. Secondo la Reuterssarà inserita nella legge di Bilancio. Le Dta sono delle svalutazioni su crediti che si trasformano in sconti fiscali. Mps ne ha per 3 miliardi extra-bilancio. Chi si fonderà con Siena potrà sfruttarli, a patto che faccia utili, e Unicredit ne fa parecchi. Perché allora quest’ulteriore misura?

Perché le Dta trasformate in crediti di imposta hanno un doppio vantaggio: vanno anche a rafforzare il patrimonio valido ai fini della vigilanza bancaria (il cosiddetto “Cet1”) e possono essere utilizzate anche se la banca non ha utili, in detrazione Iva e qualunque altra imposta (in teoria possono essere anche chieste come rimborso all’Erario). La misura è costruita in modo che per sfruttare a pieno il beneficio la banca che si fonde con Mps deve essere più grande di quest’ultima. Insomma, il regalino fiscale è tarato per grandi istituti come Unicredit (o Banco Bpm). L’ad della banca, Jean Pierre Mustier ha fatto sapere al ministero che per accollarsi Mps deve essergli garantita una bella dote pubblica e in così viene accontentato. Poi a convincere il Tesoro che Mps non vale nulla e va regalata ci sarà Padoan, l’uomo che nazionalizzò Mps nel 2017 spendendo oltre 5 miliardi pubblici. Resta, a oggi, solo la resistenza di parte dei 5Stelle, che parlano di “svendita”.

Ars, la Casta siciliana si riprende il malloppo. Tagliati i vitalizi, si raddoppiano le pensioni

La crisi economica causata dal Covid non ferma i paladini del vitalizio, ovvero i deputati dell’Assemblea regionale siciliana (Ars) che hanno trovato il modo per raddoppiarsi la pensione. E come? Con un emendamento inserito nella legge regionale che, adeguandosi alla norma nazionale, ha tagliato del 10% (e non del 37% come previsto in tutta Italia) i vitalizi dei consiglieri non più in carica. L’emendamento prevede che la pensione dei componenti di Palazzo dei Normanni che godono del sistema contributivo in vigore dal 2012 venga calcolata non solo sull’indennità di mandato ma anche sulla diaria, ovvero i rimborsi. Con un incremento notevole: per chi ha fatto una sola legislatura il vitalizio passa da 700 a 1.200 euro, per chi ne ha due alle spalle da 1.300 a 2.100. E, di conseguenza, a raddoppiare è anche il Tfr che passa da 35 a 70 mila euro (una legislatura) e da 75 a 120 (due). “Potevano aumentare i posti letto nelle terapie intensive, ma sono riusciti ad aumentarsi pensione e buonuscita”, denuncia il consigliere del M5S Nuccio Di Paola.

Patto per il voto, ma Haftar lo boicotta

La svoltasul futuro della Libia pare sia stata raggiunta nella capitale della Tunisia al forum organizzato dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite (Unsmil) sul paese in guerra dal 2011. I colloqui hanno ottenuto un accordo sulle elezioni entro 18 mesi.

L o ha dichiarato Stephanie Williams, inviata speciale delle Nazioni Unite salutando una “svolta” in un processo di pace che dovrà tuttavia ancora affrontare numerosi e pesanti ostacoli.

La Libia, nel caos da 9 anni, dal 2014 è divisa tra fazioni rivali – in Tripolitania il Governo di Accordo Nazionale libico guidato ancora dal premier uscente Fayez al Sarraj nonchè riconosciuto dall’Onu e in Cirenaica, l’esercito nazionale libero del generale Khalifa Haftar, costituito soprattutto da miliziani stranieri – con le principali istituzioni anche divise o controllate da gruppi armati. Con entrambe le parti lacerate al proprio interno da divisioni politiche, regionali e ideologiche tra le fazioni armate che le sostengono, e con le varie potenze straniere che riversano armi e mercenari, molti libici rimangono scettici sugli sforzi di pacificazione. I colloqui di Tunisi però promettono meglio dei tentativi precedenti perché seguono un cessate il fuoco concordato il mese scorso a Ginevra dal Gna e dall’Lna, le forze di Tripoli e Bengasi. Da ieri una commissione militare congiunta istituita nella città di Sirte (dove è stata tracciata la cosiddetta Linea Rossa tra Tripolitania e Cirenaica) per definire i dettagli della tregua, prenderà in considerazione l’adozione di proposte da entrambe le parti per ritirarsi dal fronte. Il nuovo governo dovrebbe affrontare rapidamente il deterioramento dei servizi pubblici e la corruzione, due questioni che hanno provocato proteste su entrambi i lati del fronte. Williams ha ricordato l’assassinio martedì scorso dell’avvocato dissidente Hanan al-Barassi a Bengasi che aveva denunciato i traffici illeciti del figlio di Haftar, Saddam. Bisognerà vedere come reagiranno sul campo i Paesi stranieri che hanno inviato mercenari, armi e soldi per sostenere le due fazioni. Russia, Francia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti sono i maggiori sponsor di Haftar, specialmente gli Emirati a cui la diplomazia italiana ha chiesto di fare da intermediari per risolvere la delicata questione dell’arresto dei marinai italiani nelle acque internazionali libiche da parte della guardia costiera di Haftar. I nostri marinai sono in cella da ben due mesi. Nella notte di ieri c’è stata una seconda telefonata tra i familiari e i pescatori proprio a seguito della visita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio negli Emirati. Nella tarda serata di ieri Agenzia Nova ha denunciato di aver ricevuto da fonti libiche in Cirenaica “bozze avvelenate”, cioè documenti in apparenza ufficiali che mischiano parti effettivamente in discussione con un testo inventato.

“L’Europa usi bene i mezzi che già ha contro i jihadisti”

“Nessun Paese europeo di fronte al terrorismo può salvarsi da solo. Servono misure efficaci a breve termine in materia di cooperazione dei servizi di intelligence e controllo alle frontiere. Questo ‘wake up call’ dell’Europa è positivo, ma rischia di non bastare. Anche un arsenale penale rinforzato non è sufficiente se non viene affiancato da un processo a più lungo termine in materia di integrazione. È anche nelle scuole e sul mercato del lavoro che si lotta contro il terrorismo”. Dominique Moïsi è politologo e co-fondatore dell’Ifri, l’Istituto francese per le relazioni internazionali. Lo sentiamo a due giorni dal mini-summit che ha riunito a Parigi Emmanuel Macron e il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, seguito da una videoconferenza con la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e i responsabili Ue, Ursula von der Leyen e Charles Michel. Dopo gli attacchi che hanno colpito Nizza e Vienna, e a cinque anni dall’attentato al Bataclan e ai bistrot di Parigi, del 13 novembre 2015, l’obiettivo è formulare una strategia comune europea nella lotta contro il terrorismo islamista e presentare misure concrete al Consiglio Ue del 10 dicembre. Tra le piste, la condivisione dei database di intelligence, un monitoraggio rinforzato dei jihadisti di ritorno, la regolamentazione di Internet, la formazione degli imam…

Macron propone anche di creare una nuova struttura, un Consiglio Ue di sicurezza, per coordinare l’azione delle intelligence nazionali. Secondo lei potrebbe indurre gli Stati più reticenti a condividere le informazioni?

Non ne sono sicuro. Se mancano il riflesso e la buona volontà a collaborare, come potrebbe una nuova struttura scuotere i servizi che hanno già difficoltà a condividere spontaneamente le informazioni? Delle falle evidenti le abbiamo constatate nel caso dell’attentato di Parigi al Bataclan, dove la cellula jihadista era basata in Belgio. Nel caso del recente attentato di Vienna mi sembra che si tratti più che altro di falle interne ai servizi austriaci, poiché le informazioni erano state comunicate dai servizi slovacchi ma non integrate.

Kurz ha annunciato il ‘reato di islam politico’. Cosa ne pensa?

Che può essere molto controproducente, poiché rischia di incoraggiare ancora di più un sentimento di sospetto generalizzato nei confronti dei musulmani. Può avere un effetto boomerang. Il rischio è spingere i musulmani moderati, che si potrebbero sentire discriminati, nelle braccia dei radicalizzati. Il tema è delicato. C’è una via di mezzo molto difficile che i responsabili politici devono percorrere. Anche Macron ci sta provando. Nessuno ha trovato una risposta soddisfacente.

Negli Usa, il Patriot Act del 2001 aveva dato il via libera a intercettazioni a tappeto e pratiche poco ortodosse di interrogatorio. Sarebbero possibili tali derive in Europa?

Se gli attentati si moltiplicassero in tutti i paesi Ue il rischio è reale. Ma tali metodi, rimettendo in causa lo stato di diritto, farebbero il gioco dei terroristi. È la loro ambizione generare tramite gli attentati delle reazioni giudicate eccessive agli occhi della storia.

Nel corso del mini-summit di martedì, Macron ha proposto sanzioni agli Stati che non fanno abbastanza nella difesa delle frontiere. Secondo lei c’era un velato rimprovero all’Italia per l’attentato di Nizza, visto che il terrorista era passato per Lampedusa?

È probabile. Da un lato Macron ha ragione a sottolineare il cattivo funzionamento. Dall’altro l’Italia avrebbe ragione a rispondere che nessuno può rimproverare una eventuale inefficacia del suo sistema visto che è stata lasciata sola sui migranti. In questo caso è l’Europa che non ha funzionato.

Secondo lei, perché l’Italia non è stata invitata al mini-summit?

Penso che l’intenzione fosse privilegiare Austria e Francia, essendo i paesi colpiti dai recenti attentati. Ma c’è anche una ragione politica. Macron è già in campagna per il 2022. Incontrare Kurz, che non è una personalità molto raccomandabile dati i suoi legami con l’estrema destra, ma sottolineando che l’Austria è un Paese alleato, lancia un segnale a Marine Le Pen.

Trump prepara decreti a raffica. Così ammette la sconfitta

Donald Trump vuole chiudere in bellezza, o almeno in forza: che sia il suo primo mandato, come dice lui, o la sua unica esperienza alla Casa Bianca, si vedrà. E s’appresta a varare, nelle prossime dieci settimane, una raffica di misure su immigrazione, commercio, sanità, Cina e scuola. Un segno che continua a governare ma anche un’ammissione di sconfitta: i presidenti uscenti hanno sempre usato gli ultimi giorni per portare avanti la loro agenda e creare problemi ai loro successori. Politico ricorda che nel 2008 George W. Bush varò in extremis 105 provvedimenti e nel 2016 Obama 127. Mark Meadow, capo dello staff della Casa Bianca, ha chiesto ai suoi consiglieri di individuare obiettivi raggiungibili entro il 20 gennaio: sarebbe già stata messa a punto una lista di 15 mosse, strette sull’immigrazione (anche di lavoratori qualificati), fondi per le scuole al tempo dell’epidemia e azioni anti-cinesi. Più che sulla gestione degli affari correnti e la lotta contro il coronavirus, Trump è però concentrato sul rivendicare la vittoria nelle elezioni e sul ‘tagliare le teste’ dei collaboratori da cui si sente ‘tradito’. Intanto, l’epidemia di coronavirus continua a stabilire giorno dopo giorno nuovi record: mercoledì, oltre 140 mila casi in 24 ore. Per la Johns Hopkins University, il numero dei contagi, alle 12.00 di ieri sulla East Coast, superava i 10.440.000 e quello dei decessi i 242 mila e a risultare positivo è anche Corey Lewandowski, collaboratore di Donald impegnato nei ricorsi. Trump s’interroga sui ritardi della North Carolina nel contare i voti (“Perché ci mette così tanto?”, twitta, dimenticando che lì le schede potevano arrivare fino a ieri); palesa certezza che “vinceremo pure la Georgia, con il riconteggio”; e ribadisce le accuse di brogli. Mentre il Dipartimento di Stato non trasmette al presidente eletto Joe Biden i messaggi d’augurio arrivati dai leader del Mondo, la campagna di Trump punterebbe, secondo il Wall Street Journal, a impedire – di ricorso in ricorso – che gli Stati in cui Biden ha vinto possano certificare l’esito del voto, dando così ai governi statali repubblicani la possibilità di manovrare a favore del presidente i grandi elettori a favore. Nel mirino del magnate, c’è ora la Fox News, la sua tv preferita che si sarebbe “dimenticata la gallina dalle uova d’oro”: “La più grande differenza tra le elezioni 2016 e 2020 è stata Fox News”. Trump penserebbe a un nuovo canale digitale online per sostituirla, irritato dai sondaggi (a lui sfavorevoli) e dall’assegnazione dell’Arizona a Biden, nella notte elettorale.

Il variegato staff di Biden. Lo zar dell’Ebola e Sanders

La prima casella è riempita: ne restano decine, centinaia. Ma la prima è fondamentale per il buon funzionamento d’una nuova Amministrazione: Joe Biden ha scelto Ron Klain come capo dello staff della Casa Bianca, un incarico logorante – Donald Trump ne ha cambiati tre e mezzo –. Adesso, bussano alla porta del presidente eletto gli aspiranti ministri: primo della lista, Bernie Sanders, cui si dice che il dicastero del Lavoro sia da tempo promesso. Con Klain, Biden punta su esperienza e competenza. È stato collaboratore di presidenti e vice democratici, fu suo consigliere negli Anni 80, quando l’allora senatore presiedeva la Commissione Giustizia.

Laureato in legge alla Harvard Law School, 59 anni, attivista e veterano del partito democratico, Klain era lo ‘zar per l’Ebola’ dell’Amministrazione Obama: impostò la risposta degli Usa all’emergenza. Esperienza preziosa al tempo della pandemia da Covid-19: sui social, non ha mai nascosto la sua irritazione per le scelte di Trump. Profondo conoscitore di Capitol Hill, Klain era capo dello staff di Biden nella vice-presidenza: i due hanno un rapporto solido, basato su stima e fiducia reciproche. Nervi saldi, Klain è un uomo della politica di Washington: non uno degli ‘outsiders’ di cui amava circondarsi Trump. Biden intende comporre la squadra di governo, o almeno gran parte di essa, entro il Thanksgiving, giovedì 26 novembre. Difficile respingere l’auto-candidatura al Lavoro (concordata?) di Sanders, che dichiara alla Cnn d’essere pronto ad accettare “un posto che mi permetta di battermi per i diritti delle famiglie lavoratrici, che stanno tremendamente soffrendo”. Leader e anima della sinistra ‘socialista’ del partito democratico, il senatore del Vermont intende mettersi alla prova del governo. L’ingresso di Sanders nell’Amministrazione Biden, in una posizione relativamente defilata, almeno nella geografia del potere negli Usa, sarebbe una prima risposta alle istanze di presenza e influenza espresse dalla deputata progressista di New York Alexandria Ocasio-Cortez. Potrebbe però essere bilanciato dall’esclusione dal Tesoro della senatrice Elizabeth Warren, l’egeria del movimento Occupy Wall Street, che avrebbe contro il Senato, se i repubblicani vi conservano la maggioranza. Il presidente eletto deve soddisfare le preoccupazioni dei moderati e le richieste dei progressisti. Biden ha promesso il governo più variegato della storia ed è al lavoro per costruirlo, fra audizioni e interviste via Zoom, cercando equilibri politici, ma anche di etnia e di genere: con Kamala Harris vice, l’Amministrazione Biden si annuncia la più rosa di sempre. Per il Tesoro c’è la governatrice della Fed Lael Brainard, già nella squadra di Obama. La insidiano l’ex presidente della Fed Janet Yellen e il presidente della Fed di Atlanta Raphael Bostic, il primo nero e il primo apertamente gay ai vertici della banca centrale Usa. Consigliere economico potrebbe essere Jared Bernstein. Biden potrebbe dare il Dipartimento di Stato a Susan Rice, ex consigliere per la Sicurezza nazionale – dove andrebbe Anthony Blinken – e ambasciatrice all’Onu, mentre l’ex aspirante alla nomination Pete Buttigieg potrebbe andare al Palazzo di Vetro. Gli Esteri sono molto ambiti: alternative alla Rice, sono Samantha Power, un’altra ex ambasciatrice all’Onu, William Burns, ex vice-segretario di Stato, Tom Donilon, che potrebbe pure andare bene alla Cia – è ex consigliere per la Sicurezza nazionale –, o senatori come Chris Coons e Chris Murphy, quest’ultimo vicino ai progressisti. Alla Difesa puntano la senatrice Tammy Duckworth, ex colonnello che ha perso le gambe in Iraq, o Michèle Flournoy.

Per la Giustizia, sono in lizza il governatore di New York Andrew Cuomo e l’ex ministro ad interim Sally Yates, licenziata da Trump per insubordinazione. Alla Sanità, il governatore del New Mexico Michelle Grisham, la deputata Karen Bass o Mandy Cohen, reduce del team Obama. Per l’Energia, Jay Inslee, governatore di Washington che piace agli ambientalisti, con la ‘vecchia volpe’ John Kerry nel ruolo di “zar del clima”. Per l’Istruzione, sono in corsa Lily Eskelsen Garcia e Randi Weingarten, mentre Amy Klobuchar, altra ex aspirante alla nomination, potrebbe assumere l’agricoltura. Ci sarà almeno un repubblicano moderato: Mitt Romney s’è chiamato fuori, si guarda all’ex governatore dell’Ohio John Kasich e a Chuck Hakel, che potrebbe tornare al Pentagono, dov’era con Obama.

App, big data e covid chi controlla chi?

Il 2020 verrà ricordato per molto tempo come il primo anno della pandemia globale causata dal Coronavirus noto come Covid-19. Milioni di vite hanno cambiato rotta durante questo anno, quando il contagio ha raggiunto il suo picco e ha stretto la sua morsa, influenzando tutti gli aspetti della vita. E nessuno è stato, o è, immune.

Una caratteristica degna di nota di questa pandemia è il conseguente proliferare di numerose iniziative di sorveglianza. Si pensi, tra le più scontate, alle app di contact-tracing, finalizzate ad allertare gli utenti qualora si trovassero nelle vicinanze di una persona infetta. Si tratta di alert che invitano gli utenti a sottoporsi ai test e, se necessario, a auto-isolarsi o cercare assistenza medica. Questo tipo di tracciamento è però altamente sorvegliante, dal momento che si basa sulla geolocalizzazione e sull’utilizzo di numerosi dati raccolti grazie all’uso che facciamo di internet. L’app cinese Alipay, ad esempio, che opera per il Consiglio di Stato, applica un codice cromatico verde-giallo-rosso come pass sanitario per i cittadini, basandosi su dati registrati attivamente dall’utente (sintomi, indirizzo, documento d’identità) ma anche raccolti passivamente (come la geolocalizzazione). Il pass verde significa basso rischio di infezione e consente una certa libertà di movimento; se diventa giallo, l’utente dovrà osservare una quarantena obbligatoria e ulteriori misure di sorveglianza – potrebbero persino essere utilizzati droni – mentre il pass rosso implica l’isolamento e il relativo trattamento medico. L’app indiana Aarogya Setu è stata lanciata come strumento obbligatorio prima per i funzionari del governo e poi per l’intera popolazione. È stata scaricata e adottata più rapidamente dell’app Pokémon Go, anche se lo Stato del Kerala ha obiettato che l’app fosse inutilmente coercitiva e privasse le persone delle loro libertà civili. Singapore, uno dei primi Paesi ad utilizzare un’app di tracciamento dei contatti, Trace-Together, ne ha consentito l’adozione su base volontaria. Il tasso di utilizzo, tuttavia, è stato molto al di sotto della quota del 60% che le permetterebbe di risultare utile su vasta scala.

Il contact-tracing è solo uno dei numerosi sviluppi della sorveglianza pandemica. Altri, decisamente più vistosi, includono l’uso di droni per il monitoraggio della quarantena e dell’auto-isolamento. O l’uso di dispositivi “da indossare” per chi lavora da casa, o di nuovi sistemi di controllo per chi va a scuola. In modo molto meno evidente, ma con conseguenze non meno importanti, i sistemi di archiviazione dei dati della sanità pubblica sono stati incrementati considerevolmente. (…)

Nella provincia dell’Ontario in cui vivo, è in corso lo sviluppo di una nuova piattaforma di raccolta dati sanitari per attività di contrasto alla pandemia da Covid-19. Unisce un’altissima potenza di calcolo con la raccolta su larga scala di dati che vengono integrati per consentire una conoscenza più approfondita dei trend epidemiologici, oltre che dei trattamenti terapeutici. Anche in questo caso si richiedono nuovi livelli di trasparenza e di controllo, da esercitare da parte di organismi che siano effettivamente indipendenti. I tecnici e gli esperti da soli non basteranno: sarà necessario il coinvolgimento degli utenti e della società civile. (…)

La diffusione di queste “soluzioni tech” è abbastanza comune, specie in tempi di crisi, come in seguito ad attacchi terroristici o in contesti di instabilità politica. L’11 settembre ne è stato una prova. Le rivelazioni di Snowden nel 2013 hanno portato l’attenzione su quanto drasticamente le dinamiche di sorveglianza negli Stati Uniti – e dei loro alleati nel campo dell’intelligence, i “Cinque Occhi” – siano cambiate. Il passaggio alla sorveglianza dei Big Data è iniziato presto, a partire dal 2004, complice la vertiginosa popolarità dei social media e la conseguente disponibilità di moltissimi dati “open source”. (…) Abbiamo visto adottare come nuove misure sia interventi intrusivi ormai diventati familiari, quali quelli alle frontiere e negli aeroporti, sia quelle attività secondarie che, inizialmente, si percepivano appena, come il monitoraggio e il tracciamento della vita quotidiana. (…) Già le minacce terroristiche avevano spinto un’enorme espansione della sorveglianza governativa, ma oggi la pandemia sta superando qualsiasi previsione. È stato The Economist, lo scorso marzo, ad allertarci sulle sfide di un nuovo “Coronopticon”. Riconoscendo che la vasta rete di computer creati per intrattenimento, connessione e sicurezza potrebbe essere d’aiuto contro il virus, il giornale ha osservato che “essa stessa è anche una rete di sensori che possono coordinare le risposte degli individui e dell’intera popolazione in misura inimmaginabile. I Paesi stanno scoprendo come usare il potere di questo Panopticon ancora in modo frammentario e confuso. Sarà meglio tenerli d’occhio ”.

Un problema è dato dall’imperscrutabilità delle pratiche di raccolta, analisi e utilizzo dei dati, così come della costruzione degli algoritmi che producono questi dati. E non sono solo questi codici misteriosi a costituire un problema: si tratta anche del lavoro di programmatori che spesso vedono la loro attività disconnessa dalla vita reale. Eppure, come abbiamo appena avuto modo di vedere, il lavoro che fanno, i codici che costruiscono, hanno un impatto notevole sulle possibilità e le scelte delle persone nella propria vita quotidiana. (…) La sorveglianza rende visibili alcuni aspetti specifici delle persone. Le rappresenta e le tratta secondo dei criteri standard che potrebbero però non essere riconosciuti o condivisi dagli stessi soggetti interessati. Molti pensano che, trattandosi delle “loro” informazioni personali, siano “loro” ad essere potenzialmente a rischio. Ma quello che i sistemi di dati “conoscono” non sei semplicemente “tu”, bensì il tuo doppio, il tuo io fatto di tuoi dati. Questo alter ego non è una persona, ma un insieme di dati – quelle informazioni registrate sul tuo conto – che possono tornare prima o poi a perseguitarti. È come quando i sistemi di sicurezza aeroportuale negano l’accesso ai bambini. Il problema non sono loro, è la loro rappresentazione sotto forma di dati. Sulla base del modo in cui veniamo codificati, verremo di conseguenza trattati.