Sono sempre stato critico con Renzi e con il renzismo, anche quando “regnavano” incontrastati. Una critica, la mia, sempre e solo di natura politica. Intendo tenere fede alla distinzione tra piano politico e piano giudiziario anche in relazione alla notizia che Renzi è indagato per presunto finanziamento illecito nel quadro dell’indagine sulla Fondazione Open.
A me preme ribadire gli addebiti, appunto politici: a) di avere egli causato il deragliamento identitario del Pd; b) di avere dissolto ciò che residuava di un partito inteso come organismo collettivo. Ad attestare il deragliamento basterebbe l’approdo di colui che, per una stagione non breve, recitò la parte del leader della sinistra italiana, sino al suo attuale posizionamento contiguo a FI. Dalla quale sembra abbia mutuato anche il vittimismo associato all’attacco alla magistratura. Tal quale Berlusconi.
Spetta ai giudici stabilire se vi siano stati reati. Non escludo che, sul piano giuridico, certe sottili distinzioni contino, ma, politicamente, che la Fondazione Open facesse tutt’uno con la corrente renziana, cioè con l’articolazione di partito che faceva capo al suo segretario, è fuori discussione. Una corrente imperniata su una cordata di ambiziosi giovani di provincia fulmineamente ascesi ai vertici dello Stato cui il potere diede un po’ alla testa (efficace, questa volta, la metafora bersaniana: “Troppo potere in pochi chilometri”).
Contro convenzioni e tradizioni di partito, specie a sinistra, la Leopolda, cioè l’evento clou della corrente, finì per contare assai più degli appuntamenti e delle sedi istituzionali del partito di cui Renzi era il segretario. Come dimenticare il carattere meramente rituale delle direzioni, aperte e chiuse, da Renzi, senza vero confronto di posizioni? O una segreteria del partito rarissimamente convocata? Con un presidente dell’Assemblea (Orfini) non, come da statuto, quale figura garante ma “poliziotto cattivo” del segretario? Era altresì a dir poco irrituale che il leader del partito – il solo, tra quelli nostrani, che porta il sostantivo “partito” anche nel nome e vanta partiti gloriosi tra i suoi antenati – non disdegnasse finanziamenti per una Fondazione anziché reperirli per il suo partito che certo finanziariamente non navigava in buone acque. Come ben sanno attuali ed ex dipendenti. Tanto più se, come si affanna a spiegare Renzi, la Fondazione Open fosse cosa a tutti gli effetti diversa da un’articolazione di partito. Con lui ha chiuso la storica testata l’Unità. Non si è fatto scrupolo, tra gli ultimi suoi atti, di ripagare il partito cui doveva la sua ascesa a palazzo Chigi con una scissione cui già chiaramente traguardava quando impose nominativamente i predestinati del Pd al parlamento.
Queste anomalie/distorsioni affondano le loro radici nella metamorfosi del Pd in Pdr, il partito di Renzi, secondo la definizione perfettamente calzante coniata da Diamanti. Un partito personale cui non è estraneo lo statuto voluto da Veltroni, ma che, con Renzi, si è spinto al punto da contraddire il senso di entrambi: sostantivo (partito) e aggettivo (democratico). Difficile dare torto a Bersani quando egli – ancorché tardivamente e con motivazioni un po’ politiciste che non hanno giovato alla sua nuova iniziativa Articolo uno – facendo violenza al suo istinto unitario, lasciò il Pd, prendendo amaramente atto che non vi fosse agibilità politica, che il partito non fosse più contendibile.
Certo, la deriva/snaturamento del Pd quale Pdr, un Giglio magico allargato, chiama in causa diffuse responsabilità. Quasi senza eccezioni. La gran parte di coloro che a lungo sostennero Renzi, riposizionati, figurano tuttora nel gruppo dirigente del Pd e affiancano (quando non imbrigliano) Zingaretti.
Ripeto: s’ha da distinguere il giudizio politico da quello giudiziario che non ci compete. Ma dovrebbe farlo anche Renzi, risparmiandoci la pietosa bugia secondo la quale la malasorte del suo partitino sarebbe da ascrivere ai magistrati in cerca di visibilità. Non usa semmai sostenere che le traversie giudiziarie abbiano politicamente giovato al Cavaliere? Renzi sa benissimo che le ragioni sono tutt’altre: di natura politica e di (in)affidabilità personale, che spiega la riluttanza ad associarsi a lui anche di chi come Calenda e Bonino sarebbero politicamente vicini.
Franco Monaco