La dinamica celeste delle telefonate di B.

In questa stagione di lockdown neuronali, la tv in fascia rossa e il web invece pure, si osserva il ritorno di alcuni grandi classici, come la presentazione del nuovo libro di Bruno Vespa da parte di Bruno Vespa in tutti i programmi escluso Porta a Porta (notoriamente, Porta a Porta non fa favori a nessuno), o le telefonate in diretta di Silvio Berlusconi (“Buonasera dottor Fazio”, “Buonasera dottor Floris”). Tutto si potrà dire di B., ma non che non abbia un suo stile immarcescibile. Vale per i doppiopetti di Caraceni come per i blitz telefonici nei talk. Altri si balocchino con i social, le bestie e altre tecnodiavolerie. Silvio è della vecchia guardia, ancien régime. La finta sorpresa del conduttore (mai che Silvio trovi la linea occupata), la finta diretta (Floris ne è uno specialista), la voce che arriva dall’alto, come per volontà superna. La genealogia dice Giove Pluvio, Jehovah, il Pontefice in carica e Silvio Berlusconi.

Né si può dire che Silvio lasci al caso la sua offensiva cellulare. In passato fu il Cavaliere Nero a cui le toghe rosse non devono cagare il cazzo, si trattasse di telefonare a Santoro (“Si contenga!”) a Rosy Bindi (“Lei è sempre più bella che intelligente”), a Gad Lerner (“Invito Iva Zanicchi a lasciare questo incredibile postribolo televisivo!”), allo stesso Giovanni Floris (“Siete dei mistificatori!”). Oggi stessa dinamica celeste nella forma, ma contenuti opposti. Piove dall’alto dei cieli un Berlusconi convalescente, mite, reso saggio e ravveduto dalle procelle della vita. Al posto della minaccia del comunismo c’è la minaccia del coronavirus; nessuna crociata contro i nemici della democrazia ma severo monito all’unità; tiratina d’orecchie agli alleati con elogio finale di Sergio Mattarella, quasi che lui e il presidente fossero due gocce d’acqua. Ieri papi delle Olgettine, oggi padre della Patria. Dobbiamo credergli, e dunque l’imminente rinnovo del Quirinale è solo una coincidenza?

Il professor Cassese e i negazionisti come Don Ferrante

Nell’ospedale di Vercelli, scrive La Stampa, sono stati ricoverati alcuni pazienti Covid negazionisti. Roberta Petrino, responsabile del reparto Medicina e chirurgia d’urgenza, racconta che pur “essendo clinicamente positivi e sofferenti a causa del virus” i degenti sostenevano che “comunque non si trattava di Covid” e consideravano l’intervento del personale sanitario “come una costrizione”.

L’accaduto non deve sorprendere. Da sempre durante le pandemie vi è chi nega il contagio o ne minimizza rischi e portata. Lo faceva ad esempio il don Ferrante dei Promessi Sposi, splendido prototipo dell’erudito seicentesco, che mentre Milano veniva decimata dalla peste affermava sulla base dei suoi studi filosofici l’inesistenza dell’epidemia e attribuiva morti e bubboni a una congiunzione astrale avversa. Inutile dire che don Ferrante rifiutandosi di prendere precauzioni anche minime (già allora si capiva che confinamento e distanziamento evitavano il contagio) finì per ammalarsi e perire.

Oggi però sappiamo che i virus esistono. Per dirla con don Ferrante sappiamo che sono “sostanza”. Eppure, indipendentemente dalla classe sociale, il ruolo ricoperto e gli studi sostenuti, i negazionisti o i para-negazionisti abbondano. Molti incolpano i social, altri alcune trasmissioni televisive. Altri ancora denunciano il cattivo esempio di opinion-leader o leader di partito, alcuni dei quali si sono fatti addirittura vanto di non indossare la mascherina. Tutto vero, ma non solo. Perché dietro la scelta di cavalcare il legittimo malessere di centinaia di migliaia di elettori messi economicamente in ginocchio dalle restrizioni chiedendo non ristori maggiori, ma folli aperture generalizzate, non c’è esclusivamente un calcolo politico. C’è qualcosa di più profondo. Qualcosa che fa parte dell’animo di ciascuno di noi. C’è un meccanismo psicologico che Sigmund e Anna Freud avevano perfettamente individuato più di cento anni fa. Freud spiega che la Verneinung (la negazione) scatta quando la realtà è insoddisfacente o insopportabile. Di fronte a un lutto, a una violenza sessuale o a un rischio incombente s’innesca un procedimento mentale che ci consente di non ammettere fatti e circostanze che altrimenti ci procurerebbero una sofferenza inaudita. Finché si resta nell’ambito dell’ottimismo non ci sono problemi (uno degli slogan della prima ondata era “andrà tutto bene”) quando invece si entra nel campo del diniego cominciano i guai. Sono possibili reazioni violente o inconsulte, paranoie, teorie complottistiche e via dicendo. Che le cose stiano così lo dimostra bene anche la cronaca degli ultimi mesi. Pensate, ad esempio, al costituzionalista Sabino Cassese. In luglio l’erudito giurista sosteneva che la proroga dello stato di emergenza era sbagliata perché l’emergenza non esisteva più. Centinaia di scienziati continuavano a ripetere che dovevamo prepararci a ciò che sta accadendo oggi, ma lui arrivava lo stesso ad avanzare arditi paragoni tra Giuseppe Conte e Viktor Orbàn. Avrebbe fatto lo stesso se avesse realmente percepito il rischio seconda ondata? Per quanto grande sia la disistima di Cassese nei confronti del governo (in democrazia perfettamente legittima), noi pensiamo di no. Perché accanto al pericolo per la collettività l’anziano accademico avrebbe pure colto quello per la sua reputazione. E lo stesso avrebbero fatto tanti altri che, in Parlamento come in piazza, esorcizzavano la paura scegliendo di non vedere. Moderni don Ferrante ai quali comunque auguriamo, al contrario del personaggio manzoniano, lunga vita e miglior fortuna.

 

Castellucci e gli altri, quando il mecenatismo è “mascherato”

L’arresto dell’ex ad di Autostrade Giovanni Castellucci (che rimane innocente fino al terzo grado di giudizio) dovrebbe indurre a riflettere anche su un ambito apparentemente remoto dalle vicende al centro dell’inchiesta: quello del mecenatismo. L’unica volta che ho avuto occasione di parlare con lui fu quando, il 29 luglio 2014, mi cercò per contestarmi (in modo civilissimo) quelle che giudicava mie “prese di posizione aprioristiche e basate sul ‘legittimo sospetto’, non su fatti”. Avevo espresso, su questo giornale, la mia contrarietà al progetto Grand Tour, con cui Autostrade, in cambio di un’erogazione liberale, voleva imporre all’Appia Antica “un nuovo modello di gestione” diverso da quello pubblico, istituendo una “cabina di regia”. Il ministro Franceschini e gran parte della stampa avevano subito abbracciato entusiasticamente la proposta, mentre io mi permettevo di obiettare che “non solo consentiamo ai concessionari di non investire nella manutenzione e nell’ammodernamento delle autostrade esistenti, ma anche che abbiamo affidato agli stessi concessionari le scelte infrastrutturali strategiche del Paese: una vera cessione di sovranità. Siamo proprio sicuri che sia opportuno permettere ad Autostrade di sommare a questo monopolio anche il governo dell’Appia? Ed è giusto che chi mangia (per esempio) il prezioso territorio del Parco Agricolo di Milano Sud con la costruzione della Tangenziale Esterna, voluta da Maurizio Lupi e legata all’Expo, possa poi presentarsi ai cittadini come il generoso paladino del verde dell’Appia?”. Ora, sei anni dopo, il gip di Genova definisce Castellucci “una personalità spregiudicata e incurante del rispetto delle regole, ispirata ad una logica strettamente commerciale e personalistica, anche a scapito della sicurezza collettiva”. Ebbene, quando ci chiediamo che male ci sia nell’assicurare la salvezza del nostro patrimonio culturale attraverso il mecenatismo di imprenditori privati, dovremmo risponderci che – specie nel caso di chi si arricchisce sui beni pubblici – il male sta nella spessa coltre retorica che permette di nascondere più a lungo e più efficacemente realtà come quella colta dai magistrati liguri. E non bisognerebbe aspettare le sentenze, perché, come spesso ricorda Piercamillo Davigo, non solo la “giustizia, ma anche la prudenza è una virtù cardinale”. Poco tempo fa è stato arrestato anche Salvatore Leggiero (anche lui innocente fino a sentenza irrevocabile), immobiliarista cresciuto nella Publitalia di Dell’Utri e divenuto (tra l’altro) lo spregiudicato proprietario di un numero impressionante di edifici del centro di Firenze. È a lui che si deve l’amputazione di un cruciale giardino dell’Oltrarno, pacificamente subìta dall’arrendevole amministrazione Nardella. Ebbene, in forza delle sue donazioni, Leggiero è tuttora presidente del cda dell’Orchestra da Camera Fiorentina, in parte finanziata dal Ministero per i Beni Culturali. Tutto normale? Quando Antonio Cederna, il grande difensore dell’Appia, fu eletto deputato della Repubblica, la Società Autostrade gli mandò in dono una delle prime mountain bike. Cederna la girò immediatamente a don Guanella, rispedendone la ricevuta di consegna ad Autostrade: niente voleva avere a che fare con una società che aveva tante volte combattuto, difendendo il paesaggio italiano. Un insopportabile moralista, con “prese di posizione aprioristiche e basate sul ‘legittimo sospetto’, non su fatti”? Io credo di no: credo che la prudenza di Cederna derivasse, invece, da una profonda conoscenza del Paese. Una conoscenza che non aveva bisogno di aspettare indagini o sentenze: e che spingeva a non permettere che al danno dell’indigenza della cultura si sommasse la beffa di una sua strumentalizzazione da parte di discutibili potenti in cerca di patenti civiche.

Tomaso Montanari

Renzi, le colpe politiche restano. Al di là di Open

Sono sempre stato critico con Renzi e con il renzismo, anche quando “regnavano” incontrastati. Una critica, la mia, sempre e solo di natura politica. Intendo tenere fede alla distinzione tra piano politico e piano giudiziario anche in relazione alla notizia che Renzi è indagato per presunto finanziamento illecito nel quadro dell’indagine sulla Fondazione Open.

A me preme ribadire gli addebiti, appunto politici: a) di avere egli causato il deragliamento identitario del Pd; b) di avere dissolto ciò che residuava di un partito inteso come organismo collettivo. Ad attestare il deragliamento basterebbe l’approdo di colui che, per una stagione non breve, recitò la parte del leader della sinistra italiana, sino al suo attuale posizionamento contiguo a FI. Dalla quale sembra abbia mutuato anche il vittimismo associato all’attacco alla magistratura. Tal quale Berlusconi.

Spetta ai giudici stabilire se vi siano stati reati. Non escludo che, sul piano giuridico, certe sottili distinzioni contino, ma, politicamente, che la Fondazione Open facesse tutt’uno con la corrente renziana, cioè con l’articolazione di partito che faceva capo al suo segretario, è fuori discussione. Una corrente imperniata su una cordata di ambiziosi giovani di provincia fulmineamente ascesi ai vertici dello Stato cui il potere diede un po’ alla testa (efficace, questa volta, la metafora bersaniana: “Troppo potere in pochi chilometri”).

Contro convenzioni e tradizioni di partito, specie a sinistra, la Leopolda, cioè l’evento clou della corrente, finì per contare assai più degli appuntamenti e delle sedi istituzionali del partito di cui Renzi era il segretario. Come dimenticare il carattere meramente rituale delle direzioni, aperte e chiuse, da Renzi, senza vero confronto di posizioni? O una segreteria del partito rarissimamente convocata? Con un presidente dell’Assemblea (Orfini) non, come da statuto, quale figura garante ma “poliziotto cattivo” del segretario? Era altresì a dir poco irrituale che il leader del partito – il solo, tra quelli nostrani, che porta il sostantivo “partito” anche nel nome e vanta partiti gloriosi tra i suoi antenati – non disdegnasse finanziamenti per una Fondazione anziché reperirli per il suo partito che certo finanziariamente non navigava in buone acque. Come ben sanno attuali ed ex dipendenti. Tanto più se, come si affanna a spiegare Renzi, la Fondazione Open fosse cosa a tutti gli effetti diversa da un’articolazione di partito. Con lui ha chiuso la storica testata l’Unità. Non si è fatto scrupolo, tra gli ultimi suoi atti, di ripagare il partito cui doveva la sua ascesa a palazzo Chigi con una scissione cui già chiaramente traguardava quando impose nominativamente i predestinati del Pd al parlamento.

Queste anomalie/distorsioni affondano le loro radici nella metamorfosi del Pd in Pdr, il partito di Renzi, secondo la definizione perfettamente calzante coniata da Diamanti. Un partito personale cui non è estraneo lo statuto voluto da Veltroni, ma che, con Renzi, si è spinto al punto da contraddire il senso di entrambi: sostantivo (partito) e aggettivo (democratico). Difficile dare torto a Bersani quando egli – ancorché tardivamente e con motivazioni un po’ politiciste che non hanno giovato alla sua nuova iniziativa Articolo uno – facendo violenza al suo istinto unitario, lasciò il Pd, prendendo amaramente atto che non vi fosse agibilità politica, che il partito non fosse più contendibile.

Certo, la deriva/snaturamento del Pd quale Pdr, un Giglio magico allargato, chiama in causa diffuse responsabilità. Quasi senza eccezioni. La gran parte di coloro che a lungo sostennero Renzi, riposizionati, figurano tuttora nel gruppo dirigente del Pd e affiancano (quando non imbrigliano) Zingaretti.

Ripeto: s’ha da distinguere il giudizio politico da quello giudiziario che non ci compete. Ma dovrebbe farlo anche Renzi, risparmiandoci la pietosa bugia secondo la quale la malasorte del suo partitino sarebbe da ascrivere ai magistrati in cerca di visibilità. Non usa semmai sostenere che le traversie giudiziarie abbiano politicamente giovato al Cavaliere? Renzi sa benissimo che le ragioni sono tutt’altre: di natura politica e di (in)affidabilità personale, che spiega la riluttanza ad associarsi a lui anche di chi come Calenda e Bonino sarebbero politicamente vicini.

Franco Monaco

La lattuga non mi fa più paura, ma il sedano mi terrorizza ancora

E per la serie “Nebbia e galline”, la posta della settimana.

Caro Daniele, il Covid-19 è pericoloso? (Danila Fioravanti, Ascoli Piceno)

Solo se ti uccide.

Com’è cambiato il sesso negli ultimi 10 anni? (Dario Invernizzi, Lecco)

Le ragazze oggi ti masturbano con troppa energia. Tirano tirano tirano, manco dovessero strappartelo, finché non te lo fanno diventare grosso e venoso che pare il collo di Adriano Pappalardo, e il glande non si mette a urlare “Ricominciaaaaamoooo!” come fosse disegnato da Jacovitti. Insomma, bisogna insegnar loro l’arte: tutto quello che sanno lo hanno appreso da YouPorn, che è come imparare a nuotare guardando i video della Pellegrini (su YouPorn) (sono fake, purtroppo); e poiché sono incazzosissime come tutte le bambine cresciute guardando Magica Doremi (“Eh, quelli sì che erano cartoni, mica come oggi, che guardano Peppa Pig!”), ci vuole del gran tatto, Prendi la ragazza che frequento da 3 anni. Anche lei esagera in foga, così ieri le ho accarezzato i capelli e le ho detto: “Come ti chiami?” L’altra cosa diversa è che adesso le donne adorano rimorchiare i maschi. Il maschio che tentava di rimorchiare una femmina sembrava ridicolo perché ancora non avevamo visto le femmine che ci provano coi maschi. Ah ah ah! Si capisce lontano un miglio che ci stanno provando (mettersi un cazzo in bocca si presta a pochi equivoci), però gli scoccia passare per troie. Patetiche. Ma come erano esigenti, con noi, quando era prassi che fosse il maschio a dover fare il primo approccio, mentre loro ti esaminavano come una giudice di “Ballando con le stelle”, cioè senza dover dimostrare un cazzo. Tu provavi una frase spiritosa, e lei: ”Tutto qui quello che sai fare?” Non sai come mi diverto adesso, ogni volta che una donna ci prova con me. LEI: “Ciao. Hai per caso un amico interessante come te da presentarmi?” IO: “Tutto qui quello che sai fare?” E sai come reagisce? “Che stronzo!” Oooooh, benvenuta nel club.

Hai animali in casa? (Loretta Cavallini, Livorno)

Un gatto di nome Norton. È un gatto speciale: gli dai un gomitolo di lana, lui ci gioca un po’, e dopo mezz’ora ti ha fatto un golfino Missoni. Alle feste che do, ci prova con le ragazze che invito: non sa di essere un gatto. A loro non dispiace perché è una vera sagoma. L’altra notte vengo svegliato da dei rumori. Vado in salotto: la tv è accesa su National Geographic. Ci sono dei leoni che stanno scopando. E Norton li sta guardando leccandosi il pisello. Nel buio urto una sedia, e lui subito cambia canale su una telepromozione. Che sagoma!

Hai delle fobie? (Cristina Sabia, Potenza)

Sì. Vuoi vederle? Scherzo. No, non ho fobie, a parte la cacorrafiofobia (la paura esagerata del fallimento: non vedevo l’ora di infilare questa parola da qualche parte). Una volta credevo di avere l’agorafobia, cioè la paura dei vegetali, ma poi un amico mi ha spiegato che l’agorafobia è la paura degli spazi aperti, sicché non ce l’ho più. O meglio, la lattuga non mi fa più paura, ma il sedano mi terrorizza ancora un po’. Il sedano è Hitler rispetto alla lattuga.

Forse hai letto di me negli annunci del Corriere della sera. Addestro animali da impiegare nei film porno. È un lavoro come un altro, non c’è da vergognarsi. Se ti serve un pappagallo che imita gli orgasmi, basta una telefonata. (Eleonora Bianciotto, Pinerolo)

Hai uno struzzo che squirta? Chiedo per Norton.

Cercate anche voi una guida spirituale? Scrivetemi! (lettere@ilfattoquotidiano.it)

 

Mail box

 

 

 

Gino Strada sarebbe utile anche in Lombardia

Caro Travaglio, non crede sarebbe giusto, visto anche il crescente numero dei morti, chiedere il commissariamento almeno dell’assessorato alla Sanità della Lombardia, proponendo Gino Strada? Strada ha la sede di Emergency in centro a Milano e ben conosce i suoi problemi sanitari. Potrebbe essere di immenso aiuto in questa città in cui si percepisce la totale assenza di un lavoro regionale sulla Sanità. La campagna vaccinale antinfluenzale è un vero flop. Amici, vecchi, con patologie gravissime (rare) non sono ancora stati vaccinati poiché il vaccino non arriva. 100.000 milanesi hanno firmato per il commissariamento.

Marcella Denegri

 

Per i capi di Stato serve la fedina penale pulita

Si torna a parlare, dopo le primizie del libro di Vespa, di Berlusconi candidato a succedere al presidente Mattarella. Per partecipare a qualsiasi concorso pubblico è necessario non aver riportato condanne penali; credo interessi molti lettori sapere se, per essere eletto presidente della Repubblica, questo requisito sia richiesto, ovvero possa diventarlo anche chi sia stato condannato con sentenza passata in giudicato, quindi definitiva, che va iscritta nel casellario giudiziale.

Gianni Cicero

 

Caro Gianni, non ci sono regole in tal senso: dopo la “riabilitazione” giudiziaria e la scadenza dei 5 anni di interdizione, Berlusconi può fare addirittura il parlamentare. Resta però una gigantesca questione di inopportunità morale e politica.

M. Trav.

 

Questo brutto virus va combattuto ogni giorno

SOS dei medici: “Chiudiamo l’Italia o avremo oltre diecimila vittime”; e ancora il consulente del ministro Speranza: “È l’ultimo tentativo prima di chiudere tutto il Paese; i posti letto sono saturi, la mortalità per malattie oncologiche e cardiache è salita del 10%” a causa del tentativo per il contenimento del virus! Ma come facciamo a non capire che questi suggerimenti sono gli unici da considerare! Dobbiamo valutare questo virus come una guerra… Per fortuna senza bombardamenti, senza crolli di intere città e soprattutto senza una enormità di morti! Questo problema, non lo si può capire e quindi risolverlo perché proposto “politicamente” e non come un nemico di tutta la popolazione da combattere unitamente e senza paura.

Lettera firmata

 

Diritto di replica

In merito all’articolo dal titolo “Un altro morto 450 contagi. Il centralino 1500 senza capo”, pubblicato sul Fatto Quotidiano del 27 febbraio scorso, la dottoressa Francesca Zaffino rappresenta che le affermazioni contenute nell’articolo e a lei ricondotte sono state estrapolate a sua insaputa, e senza alcun permesso, da una conversazione tramite posta elettronica riservata. Inoltre le stesse risultano interpolate e di conseguenza le conclusioni cui giunge il giornalista nell’articolo non rispondono al reale pensiero della dottoressa Zaffino sul servizio 1500.

Avv. Alessandro Marangoni

 

Gentile Direttore, in merito all’articolo firmato da Marco Palombi, dal titolo “La Legge di bilancio Monocamerale”, mi permetto di trasmetterle alcune puntualizzazioni. Per quanto riguarda i tempi di presentazione della legge di bilancio, preciso che ho tenuto costantemente aggiornati tutti i gruppi parlamentari nelle sedi istituzionali competenti, ovvero le Conferenze dei capigruppo. In secondo luogo, senza voler nascondere le difficoltà che il ritardo nella presentazione del disegno di legge comporterà sull’andamento dei lavori parlamentari, mi limito a ricordare che negli stessi giorni il Governo ha dovuto affrontare il drammatico andamento dei contagi. Si sono resi quindi necessari due decreti legge per garantire i ristori economici alle aree più colpite dalla pandemia e un ulteriore decreto per il commissariamento della sanità calabrese. Il varo della manovra con la presentazione al Parlamento è preceduto da numerose riunioni tecniche e politiche, che vedono coinvolte la maggioranza, gli esponenti del governo e gli esperti dei ministeri. Questo confronto preliminare tra governo e forze di maggioranza agevola la condivisione dell’impostazione della manovra finalizzata alla predisposizione del testo. Attività solo propedeutica al dibattito che si svilupperà in Parlamento e che si esprimerà con il lavoro emendativo svolto in sede di Commissione. Lo stato di emergenza purtroppo ci costringe a confrontarci con una situazione inedita che sta mettendo a dura prova i meccanismi decisionali e organizzativi del nostro ordinamento. Tempi e procedure pensati per situazioni ordinarie mostrano inevitabilmente limiti nel fronteggiare eventi tanto gravi. Tuttavia, il coronavirus non è il “Padre costituente” e il Governo assicura costantemente il massimo impegno nel rispettare la nostra Costituzione e salvaguardare il lavoro del Parlamento.

Federico D’Incà

 

Vabbè.

Ma. Pa.

Restrizioni. “In chiesa si può andare, a teatro no: è il solito favore al clero?”

 

 

Buongiorno, mi ha profondamente meravigliato e nauseato che il vostro giornale non abbia sollevato la benché minima critica all’assurdità e all’abnorme mostruosità del fatto che le scuole sono chiuse – così anche teatri, cinema, piscine… – mentre le chiese e le funzioni religiose possono essere tranquillamente frequentate, tra l’altro prevalentemente dalle persone più vulnerabili e a rischio. La chiesa e il teatro o i cinema sono ambienti totalmente paragonabili come gestione della protezione nei riguardi della diffusione del contagio Covid, ma misteriosamente, guarda caso, a teatro non si può andare e in chiesa sì. E voi non avete detto nulla. È una follia. Non mi aspettavo che tutti voi foste così vergognosamente allineati con imposizioni ipocrite e dannose. Restando in attesa di un vostro commento, vi saluto.

Rosa Martini

 

 

Gentile signora Rosa, la prego per prima cosa di non indignarsi per un’omissione che non nasconde però nessun favore o autocensura, a favore della Chiesa cattolica, da parte del nostro giornale. Nello stesso tempo, non voglio neppure sfuggire ai suoi interrogativi, rifugiandomi in una sin troppo facile considerazione: i luoghi di culto, ormai, sono frequentati soltanto da una ridotta minoranza di fedeli. Con numeri inferiori addirittura a quelli dei pochi spettatori, purtroppo, dei teatri e dei cinema italiani ai tempi della pandemia: cinema e teatri peraltro chiusi da settimane. Invece, è evidente che quel “riguardo” abbastanza incomprensibile, che lei denuncia nella sua lettera, ha probabilmente le sue origini nelle proteste che alcuni settori più conservatori del mondo cattolico italiano sollevarono contro la decisione del governo di chiudere anche le chiese durante il primo lockdown. Proteste in qualche modo rimbrottate, come ricorderà, persino dallo stesso Papa Francesco. Ma un certo clericalismo è duro a morire. I dati della pandemia stanno dimostrando che tutte le possibili restrizioni per fermarla sono giustificate, anche se possono avere conseguenze sull’economia, sulla vita privata e sociale e su quei diritti che in ogni altra situazione non potrebbero essere ridotti o conculcati. E così deve valere anche per la Chiesa cattolica.

Ettore Boffano

Il “riscatto” di Gori in libreria può andare

Dopo lo scandalo planetario del volume di Roberto Speranza sul Covid che sparisce dalle librerie (“ma come, il ministro della Salute ha tempo di scrivere un libro durante la pandemia?”), apprendiamo senza l’ombra di una polemica che anche Giorgio Gori in questo periodo si è cimentato con le sue velleità letterarie. Il sindaco di Bergamo ha dato alle stampe Riscatto. Appunti per un futuro possibile. Non è giunta notizia di ritardi o ripensamenti, quindi il libro di Gori lo troveremo regolarmente sugli scaffali dei negozi, in discreto anticipo sulle strenne natalizie. Forse Speranza è stato bastonato per il titolo troppo assertivo (e pure un po’ iettatorio) della sua pubblicazione sfumata (Perché guariremo). Gori è più prudente, certo c’è il “Riscatto”, ma è un futuro “possibile”, mica ne siamo proprio certi (chissà quante altre ondate ci aspettano dietro l’angolo). Ma si tratta pur sempre del libro del sindaco di Bergamo, la città simbolo, il territorio che ha pagato il tributo più atroce al Coronavirus. Gori ne scrive per lanciare la sua agenda. Forse – forse – se ne poteva fare a meno.

Questi “dirigenti” come riescono a prender sonno?

Il primo pensiero è: ma questi come facevano a prendere sonno la notte? Sapendo che le ridotte manutenzioni – “così si distribuivano più utili e i Benetton erano contenti” – avrebbero accelerato la corrosione dei cavi del ponte Morandi, e che la resina delle barriere sulla rete autostradale era difettosa e totalmente inefficace? “Incollate con il Vinavil”, confessavano a se stessi prima di scappare (“sti cazzi io me ne vado”). Magari, dopo aver disposto di risparmiare sulla sicurezza e sulla vita delle persone, che la morte non avrebbe risparmiato, davano sereni il bacio della buonanotte ai figlioletti. Magari, dopo avere fatto sorridere “Gilberto eccitato perché lui guadagnava e suo fratello di più”, andavano nelle università a predicare ai poveri studenti l’etica dell’impresa e il dovere della solidarietà. Magari, da azzardati scommettitori sul dolore altrui riuscivano malgrado tutto a scacciare i cattivi pensieri, a guardarsi allo specchio la mattina. Puntando sulla smemoratezza dei manufatti, stremati, marciti ma pur sempre lì, dai che anche oggi è andata liscia.

Prima domanda di noi gente qualunque: ma se i forzieri della “Famiglia” erano già ricolmi di miliardi perché mai un’altra carrettata di miliardi eccitava ancora e così tanto Gilberto, e i suoi calorosi sentimenti fraterni? Pensavamo che ci fosse un limite oltre il quale accumulare dieci, venti o cento fantastilioni non dovrebbe mutare il senso di un’esistenza. O forse sì, se l’avidità è la misura prescelta di un mondo smisurato. Ma può darsi che le sinapsi di questi leggendari “Capitani” siano costruite anch’esse di materiali pregiatissimi, tali da non registrare alcuna vibrazione umanamente apprezzabile. Quando per esempio a Cortina, la sera del crollo del ponte Morandi, si convocano gli amici per una grigliata che sembrava brutto disdire. Leggendo di questi manager di resina scadente chiediamo infine sommessamente di risparmiarci d’ora in avanti altre penose lezioncine sui top manager dagli “impeccabili curriculum”, perennemente concentrati sul “benessere della collettività”. Ne esistono certamente, e non sono pochi, ma adesso più che mai ci sentiamo autorizzati a diffidare della narrazione da meeting confindustriali (con reggicoda dattilografi al seguito), quella della superiorità morale e delle buonuscite che gonfiano petto e portafoglio. Sti cazzi, come diceva quel tale del Vinavil.

Magia: e i Benetton scompaiono dai titoli

Sono i Voldemort della stampa italiana: innominabili. Esistono ma non si possono evocare, come “tu-sai-chi”. Il nome Benetton sui grandi giornali viene oscurato regolarmente, non finisce mai nei titoli, al massimo lo trovi distrattamente nello spoglio degli articoli. Come se nella tragedia del Morandi la famiglia avesse un ruolo così, di passaggio. Il Corriere della Sera non li cita in prima e li relega in un piccolo catenaccio in pagina 3, dalla formula piuttosto criptica (“E Mion, l’uomo dei Benetton: ridotte le manutenzioni”).

Repubblica fa di meglio: dedica agli arresti di Genova le prime sette pagine. Il titolo sull’inchiesta è il più forte del giornale: “Autostrade, sicurezza sacrificata ai profitti”. Di chi? Mistero. Per trovare la parola “Benetton” nella titolazione bisogna arrivare a pagina 6, viene magicamente evocata dal viceministro grillino Giancarlo Cancelleri: “I Benetton devono uscire dall’azionariato”. La Stampa batte tutti: la famiglia scompare dai titoli. Zero citazioni in tre pagine. Zero. Persino nel piccolo box sulla reazione dei parenti delle vittime, il titolo è: “La società non esca con le tasche piene”. La società di tu-sai-chi.