Conte si aggiunge ai “relatori” Dibba, Fico e Di Maio

Si dice il nome, ma non le preferenze. Da ieri sono pubblici i trenta “relatori” che domenica parteciperanno agli stati generali del Movimento Cinque Stelle. Sono stati scelti con una votazione sulla piattaforma Rousseau. Un’altra prova di democrazia molto diretta, ma non altrettanto limpida: al termine del voto si è deciso di pubblicare la lista degli eletti in ordine alfabetico, senza far sapere quanti voti avessero preso. Le preferenze restano segrete per volontà precisa del reggente Vito Crimi. Secondo gli interpreti più maliziosi si è voluta evitare una conta dalla quale sarebbe uscito vincitore Alessandro Di Battista (nella sfida con Luigi Di Maio e Roberto Fico). Trasformando un’iniziativa per il rilancio del M5S in un pretesto per dividerlo ancora.

Sta di fatto che hanno partecipato alla votazione 26.365 iscritti a Rousseau per un totale di 57.172 preferenze (ognuno ne poteva esprimere fino a tre). I 30 eletti sono suddivisi così: 21 uomini e 9 donne; 11 deputati, 4 senatori, 1 parlamentare europeo e 1 consigliere regionale, 5 consiglieri comunali, 1 consigliere municipale e 7 attivisti.

Sono diversi i nomi noti: i già citati Di Maio, Fico e Di Battista, Paola Taverna, Stefano Buffagni, Danilo Toninelli, Giulia Grillo, Lucia Azzolina. Quella dell’Istruzione è anche l’unica ministra – con Di Maio – che ha affrontato la selezione e prenderà la parola domenica. Ci sarà anche Elisabetta Trenta. Un’elezione sorprendente, visto il rapporto deteriorato con i vertici del Movimento: l’ex titolare della Difesa era stata attaccata ed esclusa dal “team dei facilitatori” grillini dopo la vicenda dell’appartamento di servizio che le aveva causato parecchi imbarazzi al termine del suo mandato. Tra gli eletti c’è anche il deputato Luigi Gallo di “Parole guerriere”, la corrente del M5S che si definisce “rivoluzionaria” e punta su un cambiamento radicale dell’organizzazione dei Cinque Stelle. Anche Buffagni presenterà la sua piattaforma, che mette in discussione il dogma assoluto dei grillini: “Uno vale uno – si legge nel suo programma – è un pilastro che si evolve, poiché si è imparato che ‘uno non vale l’altro’”. La democrazia diretta non basta più.

Il nome più pesante sul palco virtuale degli stati generali però non appartiene al Movimento: interverrà in diretta video anche Giuseppe Conte. Per i Cinque Stelle sarà un contributo alla riuscita (anche mediatica) dell’iniziativa, per Conte un’occasione per rinsaldare il rapporto – nel tempo un po’ affievolito – con il movimento che l’ha portato a Palazzo Chigi.

Dalla Rai all’inciucio con B. L’opa di Zinga sui giallorosa

Allargare il perimetro della maggioranza, spaccare il centrodestra, conquistare i voti di Forza Italia in Parlamento. E poi, porsi come forza trainante di questo governo e di quelli che verranno (in qualsiasi legislatura ciò accada). Non solo: essere l’interlocutore più affidabile di Sergio Mattarella, che dall’inizio dell’emergenza Covid invita alla concordia nazionale. Il Pd ha iniziato la sua offensiva. Con un gioco che viene portato avanti a tutti i livelli. E che, non a caso, ha due punti cardine: le televisioni e la legge elettorale. Il Pd ha presentato mercoledì in Senato un emendamento pro-Mediaset (più poteri all’Agcom, per fermare la scalata di Vivendi), prodotto direttamente dal governo. Mentre apriva una vera e propria battaglia contro le nomine Rai e per ribadire ancora una volta non solo che Fabrizio Salini, ad di viale Mazzini, deve andarsene ad aprile, a fine mandato, ma anche che serve un nuovo sistema della governance. E se Mediaset è tema vitale per Silvio Berlusconi, i media in generale sono centrali per ridisegnare gli assetti di potere.

Accanto a questo, sono mesi che al Nazareno portano avanti il progetto di una riforma elettorale proporzionale: proprio quella che potrebbe essere utile agli azzurri per staccarsi da Salvini. Zingaretti stesso a giugno aveva iniziato per questo un dialogo con Berlusconi. L’ideologo resta Goffredo Bettini, che ieri ha inaugurato la sua area proprio dicendo: “Abbiamo chiesto alle opposizioni di collaborare in una fase nella quale è indispensabile dare il senso dell’unità e della responsabilità. Non sono venute in generale risposte positive. Solo Forza Italia è apparsa disponibile, fino a valutare un ruolo collaborativo sulla nuova legge di bilancio. È un segnale importantissimo”. Non è secondario il fatto che proprio il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, faccia parte di quest’area. È stato lui – insieme a Conte e a Stefano Patuanelli – a preparare l’emendamento pro-Mediaset. E il Mef non disdegna l’idea di trovare una soluzione tecnica per dare a Forza Italia un relatore sulla legge di bilancio, come ha chiesto ieri Antonio Tajani. La macchina è ufficialmente partita anche a livello parlamentare su mandato diretto del capo delegazione dem, Dario Franceschini.

In Senato, mercoledì sera c’è stata una riunione convocata dalla capogruppo Annamaria Bernini. Che avrebbe avallato la linea di Berlusconi con l’apertura e il dialogo. Il Pd per adesso aspetta i fatti: “La proposta di Tajani è una buona notizia, ora spero Forza Italia in Aula cambi anche i toni e si distingua da quelli della Lega”, dice Franco Mirabelli, vice capogruppo dem. In molti nel Pd temono che troppi dentro Fi preferiscano fare asse con Salvini.

Alla Camera, Graziano Delrio ha cominciato a lavorare. Prima parlando con Mariastella Gelmini (capogruppo di Fi), per essere sicuro che la linea fosse proprio quella di Tajani. Una volta appurato che era così, ha cercato la collaborazione dei suoi omologhi di maggioranza, Crippa (M5s) e Fornaro (Leu). S’è parlato anche con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà per trovare una soluzione tecnica che dia seguito alle intenzioni.

Al Nazareno ci tengono a chiarire che in origine l’apertura era a tutte le opposizioni, ma che a rispondere è stata solo Fi. E i Cinque Stelle? Al momento, sono collaborativi. Anche se sulla Rai hanno reagito: “Il Pd pensi alle emergenze del Paese e meno ai retroscena sulla Rai: l’epoca dei ‘partiti padroni’ di viale Mazzini è finita. Piena fiducia in Salini”.

Ma al Tesoro sono convinti che la reazione sia dipesa più da quanto detto da Zingaretti a Repubblica, con l’attacco diretto a Salini e al presidente, Marcello Foa, che dalla sostanza dell’intervento di Gualtieri (sulla necessità del cambio della governance e di una svolta al vertice). E qui si torna all’offensiva concentrica dei dem: il ministro dell’Economia gioca il suo pezzo della partita collettiva, come ministro ponte rispetto a Conte e ai 5S. Sapendo peraltro che quando a Palazzo Madama, tra il 25 e il 27 novembre, si voterà sull’ennesimo scostamento di bilancio (per il quale è necessaria la maggioranza qualificata) serviranno i voti di tutti, oltre a quelli di Fi. Non è il caso di scontentare nessuno.

E stamattina ci sarà il primo tavolo di maggioranza, con capigruppo e leader, dopo la riunione a Palazzo Chigi che ha avviato la verifica la settimana scorsa.

“Mi chiamo Davide, ma sono una bimba”: essere figli trans

Il giorno in cui Davide comincia a parlare di sé come una bambina ha due anni. Un pomeriggio, durante il bagnetto, la sorella maggiore lo rimprovera, scherzando: “Tu devi usare il maschile. Vedi? Sei fatto come papà”. È passato molto tempo, ma quell’istante Angela, la madre, lo ricorda come fosse ieri. “Davide ha iniziato a muovere la testa. E poco tempo dopo ha smesso di bere acqua”. In quel momento Angela comprende che “c’era qualcosa di profondo. Qualcosa che aveva a che fare con la sua identità”. La storia di Davide comincia qui. La sua è una delle centinaia di famiglie con un figlio o una figlia transgender, alle quali il mensile FQ MillenniuM, diretto da Peter Gomez, in edicola da domani, dedica l’inchiesta di copertina del nuovo numero.

Sono bambini o adolescenti che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita sulla base degli organi genitali. E che possono comportarsi e sentirsi in modo diverso rispetto a ciò che la scuola, la famiglia e gli amici immaginano per loro. Una questione che non ha nulla a che vedere con l’omosessualità, né con l’anatomia. Riguarda invece la sfera più intima dell’identità di genere, quindi la percezione di se stessi che si sviluppa già nell’infanzia. Un universo ancora sconosciuto in Italia, in molti casi sommerso o schiacciato dai giudizi. Alcune di queste famiglie hanno accettato di aprire le porte di casa e raccontare a FQ MillenniuM la loro esperienza. Le scoperte, le opportunità, ma anche i dubbi, le paure, talvolta le sofferenze, e tutte le piccole e grandi battaglie quotidiane.

Oggi Davide ha 8 anni, i capelli lunghi raccolti in una coda. Gioca con i Lego e con le bambole, e disegna splendidi vestiti colorati su modelle di carta. Negli scorsi mesi ha chiesto alla famiglia di usare pronomi femminili, ma solo in casa e dove si sente al sicuro. “Mi chiamo Davide e sono una bambina. È facile” ha detto. Dopo molti incontri, i genitori hanno deciso di abbandonare ospedali e camici bianchi. “Ho capito che la devo rispettare così com’è” dice la madre. “A chi pensa che ci voglia coraggio dico che non è vero. Bisogna solo essere responsabili. Nostra figlia ora è serena. In futuro, avrà una vita più complicata degli altri, ma avrà sempre il nostro sostegno. E questo la renderà più forte, qualsiasi cosa accadrà”.

Andrea compirà 16 anni a dicembre, frequenta il liceo artistico e vive in provincia di Varese. Un giorno ha rivelato a sua madre di essere un uomo. “Gli ho chiesto come faceva a esserne sicuro. E lui: ‘Tu come fai a sapere di essere una donna?’”. Andrea è arrivato a non mangiare più e a non lavarsi, fino a un tentativo di suicidio. “Gli psichiatri consideravano i suoi problemi e la sua transessualità come due cose distinte” racconta la madre. “Così lo abbiamo portato in un centro di Firenze e lì hanno capito subito la sofferenza. Gli hanno prescritto i farmaci che servono a sospendere la pubertà. Sono reversibili e questo ci faceva stare più tranquilli, anche se sapevamo che non avrebbe cambiato idea. Ha cambiato scuola, ragazze e taglio di capelli. Ma l’identità no, perché non è un’idea. Andrea mi ha insegnato ad avere il coraggio che non avevo. Ora da genitore posso dire che la vera transizione è soprattutto nostra. Loro sanno già chi sono, solo che non hanno gli strumenti per orientarsi in una società che continuamente chiede loro di essere diversi”.

Camilla Vivian è stata una delle prime a uscire dall’ombra e raccontare la vita della sua famiglia e della secondogenita, la 12enne L., maschio alla nascita. Da alcuni anni vive in Spagna. “In Italia era un’accusa continua. Mi dicevano che permettendo lo smalto sulle unghie non stavo facendo il suo bene. Qui invece nessuno si pone il problema. A scuola è stata una bambina fin dal primo giorno”. Dalla sua storia ha creato prima un blog, “Mio figlio in rosa”, e poi un libro. E, grazie a lei, nel 2018 è nato il collettivo GenderLens, con lo scopo di fare formazione e dare supporto alle famiglie. “In Italia – spiega Elisabetta Ferrari, una delle attiviste – esiste una cortina che rende faticoso uscire allo scoperto. Si tende a pensare che ci sia qualcosa da correggere, o che sia una fase che passi in fretta”. Invece, dice, bisogna cambiare lo sguardo. “Questi ragazzi hanno percentuali alte di abbandono scolastico e autolesionismo. Si sentono sbagliati e non riconosciuti da una società che, fin da piccoli, li rimanda a regole già impostate su uno schema binario maschile/femminile. Ma chi decide cosa è giusto e cosa no? È la libertà di potersi riconoscere ed essere riconosciuti per quello che si è, non per quello che ti dicono di essere. E questa è una libertà di tutti”.

Se non vi interessano i padri, pensate almeno ai figli. E so spiegarvi perché

Sala colloqui di un carcere speciale. Qui hanno montato i vetri divisori antiproiettile che ti separano completamente dai familiari che vengono a trovarti. Non si può avere alcun contatto fisico diretto, per scambiare qualche parola, devi alzare il citofono e parlare lì. La sala è insonorizzata. Il detenuto è un camorrista abbastanza giovane. Dall’altra parte del vetro c’è una giovane ragazza napoletana con accanto un bambino di 8-9 anni. Il colloquio dura un’ora.

Io sono nella postazione accanto, a colloquio con la mia compagna. Passata l’ora ci chiudono in una cella, in attesa delle guardie carcerarie per ricondurci al braccio di assegnazione. Non appena richiudono la porta blindata, il camorrista sbotta: “Appena posso uccido il figlio di qualche giudice, debbo far provare anche a loro cosa significa per un padre non poter abbracciare, baciare la propria creatura, i propri cari”.

Parlatorio di altro carcere speciale, scena completamente diversa. Una volta al mese è consentito il colloquio famiglia in una sala in cui, invece del bancone divisorio, ci sono normali tavolini con le sedie. Puoi anche mangiare quello che hai cucinato in cella. I figli dei vari detenuti possono giuocare insieme, la guardia carceraria di servizio è rilassata, sta solo attenta che non si verifichino incidenti. La sicurezza è demandata al dopo colloquio, in cui devi denudarti completamente ed essere sottoposto ad una minuziosissima perquisizione anche di tutti gli indumenti che indossi.

Ebbene, ritornato poi al passeggio, in sezione, uno di questi detenuti, sempre per fatti di camorra, con cui avevo fatto il colloquio insieme, mi chiama in disparte e mi dice che il figlioletto, di una diecina di anni, l’aveva messo in crisi: gli aveva fatto promettere che, una volta uscito di galera, si sarebbe cercato un lavoro onesto, perché lui, dai suoi compagni di scuola non voleva più essere chiamato “il figlio del camorrista”.

Ecco, vista dall’interno del carcere, è questa la differenza che intercorre tra quanto ha auspicato il giudice Woodcock nella sua presa di posizione contro le vessazioni inutili ed umilianti del 41 bis, che nulla c’entrano con la sicurezza, e le affermazioni ribadite successivamente dal giudice Caselli.

Per i carcerati non è la “ferocia dello Stato” ciò di cui hanno più timore e paura (se vogliono, loro, riescono ad esserlo molto di più), ma è la supremazia morale, la coerenza, la lealtà, l’umanità che sono in grado di dimostrare quelle persone che incarnano, ai loro occhi, le istituzioni. Ciò che li fa andare in crisi, che gli fa perdere credibilità e potere agli occhi dei propri famigliari, dei propri “soldati” è la concretizzazione di un agire senza imboscate, corruzione e privilegi, con rispetto e soddisfazione reciproca.

Per uno Stato sano il carcere dovrebbe rappresentare quell’occasione “d’appello” che viene data al cittadino che non è riuscito a coinvolgere, convincere, con il suo funzionamento normale. Il vero pentito non è il delatore, bensì colui che col suo nuovo agire, impedisce che i suoi compagni continuino sulla strada sbagliata, li convince perché li spinge a fare delle scelte, per loro, più soddisfacenti della vita che conducevano prima.

Il 41 bis non può essere il volto feroce dello Stato dietro cui nascondere le collusioni di molte sue alte cariche con i capi dei malavitosi. E bisogna dare atto, a voi del Fatto Quotidiano, di essere tra i pochissimi che continuano caparbiamente a smascherare queste connivenze.

 

Una pena ancora necessaria. Il problema sono le strutture

La risposta al quesito se il regime del 41 bis – sia pur ammorbidito nel suo rigore – sia ancora necessario, esige una verifica proiettata a comprendere se lo scopo dello strumento detentivo rimanga attuale, se la realtà e la pericolosità delle mafie sia mutata, tenendo presente che la mafia è criminalità e cultura, il cui dilagare deve essere contrastato anche attraverso il trattamento penitenziario.

L’intento che ha portato all’impiego dello strumento non è di spingere i carcerati alla collaborazione – tant’è vero che la più parte dei cd pentimenti è maturata nella prima fase della detenzione – ma quello di tutelare la collettività, privando i sodalizi dell’apporto dei loro capi, impedendo le comunicazioni dei boss con l’esterno e gli altri affiliati, in modo da annichilire il loro potere, la loro carica criminale e il carisma che deriva loro dalla perpetuazione del potere dal carcere.

Più sentenze passate in giudicato, soprattutto quelle inerenti alle stragi del continente, hanno accertato che i vertici di Cosa Nostra hanno eseguito gli eccidi con l’obiettivo di ottenere, fra l’altro, proprio la revoca del regime di cui all’art. 41 bis.

Nessuno dal 1994 ha raccolto il testimone dei corleonesi – nemmeno l’ultimo della loro genia ancora libero, Matteo Messina Denaro, che pure vi aveva fattivamente contribuito – e ha più riproposto l’esecuzione di stragi al fine di contendere il potere allo Stato, terrorizzare la popolazione, condizionare la politica giudiziaria del governo e influenzare nomine delle più alte istituzioni, ricattare o piegare i detentori del potere.

Cosa Nostra (meno pericolosa rispetto agli Anni Novanta) e le altre organizzazioni mafiose tradizionali e di nuovo conio si muovono verso un obiettivo di convivenza con il potere costituito per coltivare i loro affari, continuando a esercitare il potere sul territorio, con l’uso dell’omicidio prevalentemente nel quadro di contese interne. Le inchieste di questi anni hanno dimostrato che, nonostante l’incessante contrasto e i risultati ottenuti, sono tutte vitali e che alcune di loro hanno esteso o consolidato i loro insediamenti in più parti del Paese.

Le collaborazioni delle vittime dei reati e di coloro che sono a conoscenza di rapporti tra mafiosi e loro garanti nel proprio mondo professionale o economico, continuano a essere estremamente rare. Le realtà imprenditoriali importanti hanno preferito accordarsi con i boss, ritenendo il pizzo una sorta di costo di impresa. L’esperienza giudiziaria che ha caratterizzato il periodo di applicazione del regime rivela che la regola per cui il mafioso non può essere rieducato non è venuta meno, perché lo stesso non può uscire dall’organizzazione se non con la morte o il tradimento (regola imperante in Cosa Nostra). Le dissociazioni sono risultate funzionali esclusivamente a ottenere benefici e non a recidere realmente i rapporti con l’organizzazione di appartenenza, e la buona condotta del mafioso rappresenta un fattore costante funzionale a fruire della liberazione anticipata: una riduzione di pena di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata.

Anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 23 ottobre 2019, nel dichiarare illegittima la preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio per i condannati per reati di mafia che non collaborano con la giustizia, ha espressamente riconosciuto una presunzione (relativa) di pericolosità dei boss.

Ne deriva che il regime del 41 bis in tale contesto continua a essere indispensabile e le avanguardie culturali sempre utili ad analizzare meglio il contesto in cui viviamo rischiano di indebolire il contrasto al crimine mafioso. Il reale problema da affrontare è, invero, quello della carenza di strutture adeguate e di risorse specializzate per assicurare l’effettività dei controlli nei confronti dei sottoposti al regime del 41 bis, che non è una ulteriore pena afflittiva, e ambienti adeguati idonei ad assicurare dignitosi alloggi, rispondenti a esigenze di umanità, idonei ad assicurare l’isolamento effettivo, che al tempo della pandemia da Covid-19 ha il pregio di tutelare la salute dei detenuti.

I casi recenti di mafiosi al 41 bis ai quali viene permesso di recarsi con adeguata scorta a casa corrono il rischio di svuotare il senso del provvedimento. Occorre una seria politica per costruire nuove carceri e per progetti di assunzione e formazione di personale con adeguata professionalità per assicurare il controllo e impedire le comunicazioni anche indirette con il resto del clan.

 

“Con Open si finanziava anche l’attività politica”

La procura di Firenze è da tempo convinta che la fondazione Open, quella che è stata la cassaforte del renzismo, sia stata una “articolazione” di “partito”. E la convinzione s’è rafforzata analizzando le mail del suo ex presidente Alberto Bianchi. Alcune – come ha rivelato ieri La Verità – inviate a Maria Elena Boschi (indagata con Bianchi, Lotti e Carrai, per concorso in finanziamento illecito) con la quale discuteva, nel 2018, della chiusura della fondazione in seguito alla sconfitta del referendum del 4 dicembre 2016, delle dimissioni di Renzi dalla segreteria del Pd e dell’esito delle ultime elezioni politiche. Un segnale, appunto, di quanto Open fosse legata alle sorti politiche del leader fiorentino e al suo ruolo nel Pd.

Le informative della Guardia di Finanza – alla quale il procuratore aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi hanno delegato le indagini – analizzano le spese effettuate da Open e i finanziamenti ricevuti. Tra i finanziatori (tutti estranei all’inchiesta), anche alcuni parlamentari, come Michele Anzaldi con 24.800 euro e l’attuale vice presidente del Csm David Ermini con 20mila euro.

Il Fatto li ha contattati per chiedere loro se avessero consapevolezza che, come sostiene la procura fiorentina, la Open fosse una “articolazione di partito” o se, in qualche modo, lo sospettassero. “Ho versato quella cifra in circa due anni, mi pare di ricordare tra il 2013 e il 2015 – ci risponde Ermini – per l’organizzazione della Leopolda, che aveva finalità di attirare e coinvolgere persone provenienti da esperienze diverse sui temi del rinnovamento del Paese e della classe dirigente. Per il resto, essendo in corso un’indagine, per rispetto dell’autorità giudiziaria che sta svolgendo il suo lavoro e considerato il mio ruolo, non posso aggiungere o commentare altro”.

Il deputato Michele Anzaldi, che nelle casse della fondazione Open ha versato 24.800 euro, al Fatto spiega: “Quando noi ci siamo candidati, c’erano i contributi al partito e un contributo all’attività politica. All’inizio abbiamo fatto riferimento alla fondazione Bing Bang. Con molta trasparenza, abbiamo deciso di creare un ‘gruppetto nostro’, che serviva a fare delle attività della nostra corrente”. Qual era l’attività politica? “L’attività politica può essere amplissimaa, dal manifesto alla conferenza stampa, alla brochure”.

Quindi era un’articolazione di partito? “No perché lo faccio con i soldi miei, i miei risparmi. Noi eravamo una corrente che poi è diventato partito. È un sistema che avrebbe senso anche ora, all’interno di Italia Viva, perché ci sono cose che servono se si vuole fare attività politica. Ma non si tratta assolutamente di un finanziamento: sono soldi miei. Io li darei ancora, ritengo che sia giusto e utile”. Ernesto Carbone, scrive La Verità, ha versato alla Open 43.200 in 5 anni. “Ho versato soldi sia alla Fondazione che al Pd – spiega al Fatto – Faccio quello che mi pare con i miei soldi”.

Arcuri esclude le Regioni “Al vaccino ci penso io”

“Si conferma il rallentamento della crescita. Per capire la curva dei casi non si deve guardare mai solo il dato giornaliero, ieri peggiore rispetto a mercoledì, ma occorre soffermarsi sul rallentamento dei nuovi casi e dei ricoveri. Ricordo che solo pochi giorni fa abbiamo sfiorato 40 mila contagiati. Per questo a mio parere un lockdown generale ora non serve, si deve continuare a ragionare regione per regione con le zone rosse, gialle e arancioni e a livello locale”. Questo è il parere del fisico Giorgio Sestili, la cui pagina Facebook “Coronavirus, dati e analisi scientifiche” è seguita da quasi centomila persone. Ieri i nuovi casi registrati dal bollettino della Protezione civile sono stati 37.978 (+5.017 rispetto a mercoledì) a fronte di 234.672 tamponi (+9.032). Ancora un numero spaventoso di morti: 636.

“I report dell’Istituto superiore di sanità ci dicono che in media tra la comparsa dei sintomi – spiega Sestili – e il decesso passano dodici giorni. Ma è chiaro, e l’abbiamo visto, ci sono molti ritardi nella comunicazione delle informazioni, arrivano notifiche anche molti giorni dopo”. In terapia intensiva ci sono 3.170 persone (la variazione è di +89 malati rispetto a mercoledì), siamo ormai vicini al picco massimo del 3 aprile: 4.068. In reparto ordinario ci sono 29.873 pazienti (+429): già superato il picco massimo del 4 aprile quando erano 29.010. Però Sestili vede il bicchiere mezzo pieno: “Se mercoledì registravamo diverse note positive con una curva dei casi che non saliva pur con molti tamponi fatti, ieri i contagi aumentano rispetto agli ultimi sei giorni (va anche sottolineato che c’è un record di tamponi). Non dobbiamo scoraggiarci, però, perché ci sono altre note positive: il numero dei nuovi ricoveri in terapia intensiva che è la metà rispetto a 24 ore prima e anche il dato dei posti letto occupati che non sale in maniera decisa. In entrambi i casi siamo fuori da una crescita esponenziale: possiamo dire che si cominciano a osservate gli effetti del Dpcm del 25 ottobre e fra qualche giorno potremmo cominciare a vedere gli effetti del Dpcm del 4 novembre e dei provvedimenti successivamente adottati dalle Regioni”.

È sempre la Lombardia a registrare il maggiore incremento nel numero dei contagi (+9.291), poi Piemonte (+4.787), Campania (+4.065) e Veneto (+3.564).

Ottimismo anche dal commissario straordinario all’emergenza coronavirus Domenico Arcuri: “La curva dei contagi finalmente inizia a raffreddarsi”, sostiene fissando alcuni obiettivi: “Bisogna diminuire la pressione sui pronto soccorso”, e anche esprimendo qualche critica alla gestione sanitaria: “Il 50% dei ricoverati in terapia intensiva non è intubato e, quindi, dovrebbe stare altrove”. Arcuri ha anche rotto gli indugi su quella che sarà la gestione dell’atteso vaccino: “Lo somministreremo ai primi italiani a fine gennaio, personale sanitario e anziani, anche se non ci sarà subito per tutti: il ministero ci fornirà un target delle prime persone da vaccinare”. Detto questo non saranno i governatori delle Regioni ad occuparsene: “Il governo ha deciso che ci sia una centralizzazione del meccanismo”. Intanto dagli Stati Uniti slittano già di una ventina di giorni i tempi per l’approvazione definitiva del vaccino Pfizer da parte dell’agenzia del farmaco americana, la Fda: secondo l’esperto governativo Larry Corey, direttore del “Covid-19 Prevention Network” dell’Istituto nazionale delle malattie infettive guidato da Anthony Fauci, la decisione arriverà a Natale o poco prima ma non a fine novembre: “Voglio chiarire le aspettative sui tempi. Si tratta di una grossa decisione, ci sono moltissimi dati da analizzare e valutare”.

Qui Europa, Così fan (quasi) tutti. Contagi, chiusure, reazioni

Se si guarda al rapporto dei contagi ogni 100 mila abitanti vince la Scandinavia, senza la Svezia, e perde il “cuore” d’Europa, Belgio e Lussemburgo. L’Italia ha sopra sia la Francia che l’Austria e parte dell’est mentre dietro ci sono Spagna e Gran Bretagna.

Sul piano dei morti le cose vanno però peggio a Londra che ha il record europeo e sia Gran Bretagna che Germania hanno problemi con ospedali e personale medico. Le misure di contenimento, ormai, si somigliano: lockdown leggeri e mirati con qualche primo risultato in Francia e, speriamo, in Italia. Non sembra prefigurarsi alcun lockdown generalizzato.

Il fallimento svedese

La Svezia è diventata patria di tristi record: 171 mila contagiati, oltre 6.100 decessi. I numeri in aumento indicano che “quella intrapresa è la direzione sbagliata” ha detto Lena Hallengren, ministro della Salute. Per aver contato esclusivamente sul buon senso dei cittadini, e per non aver imposto misure restrittive, lockdown o obblighi di distanziamento sociale e mascherina, le autorità del Paese sono ora costrette a leggere cifre di infezioni e morti più alte che nel resto dell’Unione. Anche se è stato raccomandato agli abitanti di 13 delle 21 regioni di lavorare da casa, evitare trasporti pubblici e interazioni sociali, per le strade di Stoccolma è risultato positivo al virus il 20% della popolazione. La Svezia, che ha appena vietato la vendita di alcolici dopo le dieci di sera, “rischia una situazione come quella già vissuta nella scorsa primavera”, ha ammonito preoccupato il premier Stefan Löfven, conscio che nelle confinanti Norvegia e Danimarca solo poche centinaia di persone hanno perso la vita a causa del virus. Con 26 mila infetti e solo 285 morti in totale, Oslo ha comunque chiuso bar, cinema e palestre, “misure necessarie e corrette” per contenere la seconda ondata secondo Bent Hoie, a capo del ministero della Salute, che ha richiamato perfino le guardie dal confine svedese per paura della diffusione. Con 58 mila infetti, 755 morti e un finanziamento governativo di 1,8 milioni di corone per il vaccino sintetizzato dall’Istituto Ssi, Copenaghen è finita invece nei titoli di cronaca per strage di animali: 17 milioni di visoni, di cui la Danimarca è tra le maggiori esportatrici al mondo, sono stati abbattuti per eradicare un ceppo mutato del Coronavirus. Eccezione Helsinki: la Finlandia è l’unico Paese dell’Unione in cui i contagi diminuiscono invece che salire e hanno livelli cinque volte più bassi della media europea. Come la popolazione, ha resistito anche l’economia. Il successo è dovuto al sistema di tracciamento, l’app Corona Flash, scaricata da più della metà degli oltre 5 milioni di abitanti.

La Germania rallenta ma è senza infermieri

A dieci giorni dall’inizio del lockdown-light in Germania la curva dei contagi sale ma registra “un lieve appiattimento”, ha detto il presidente dell’Istituto Robert Koch, Lothar Wieler. Sono quasi 22.000 i nuovi contagi nelle ultime 24 ore e dall’inizio della pandemia si sono infettati 727.553 persone, con 11.982 i morti in totale (+215 rispetto al giorno prima). Due settimane fa, il 31 ottobre, la Germania sfondava quota 19.000 contagi in 24 ore. Il Covid quindi cresce ma rallenta la sua corsa. Aumentano di contro i pazienti nelle terapie intensive (3.127 in tutto, +68 rispetto al giorno prima) e quelli attaccati al respiratore (1.787, +50 rispetto al giorno prima). Nel complesso il numero dei pazienti in Ti ha superato il picco di aprile, mentre i 190 laboratori in Germania analizzano 1,6 milioni tamponi a settimana. Il vero problema che fa capolino all’orizzonte, secondo Wieler, non è il numero dei posti in terapia intensiva, che ha ancora un margine discreto con 6.715 posti liberi sui 21.787 totali (dati Divi – Intensiv Register). A preoccupare è l’irrisolto problema della mancanza di personale sanitario in ospedale: gli infermieri mancano. “È possibile che i pazienti possano non essere più curati ovunque in maniera ottimale” ha detto il capo del Rki.

La Spagna tutta “rossa” l’emergenza continua

La mappa della Spagna è invece tinta di rosso con un livello di allerta massimo, tranne eccezioni come Murcia e le isole Baleari, a rischio alto, e Galizia e le isole Canarie a rischio medio. I contagi da marzo sono 1,4 milioni, i morti oltre 40 mila. Ma la curva sembra stabilizzarsi: ieri erano 19.511 i positivi e 356 i morti. In calo gli infetti nella comunità di Madrid, una delle più colpite insieme alla Catalogna che ieri ha esteso la chiusura di bar e ristoranti fino al 23 novembre. La capitale, secondo gli esperti, ha eseguito più tamponi e quindi un migliore tracciamento e rispettato le misure di sicurezza: coprifuoco dalle 24 alle 6 del mattino, uso della mascherina anche all’aperto e niente spostamenti tra i municipi più colpiti. Madrid ha mantenuto tuttavia aperti bar, ristoranti, piscine, parchi, cinema, teatri e parrucchieri. Il Paese, che dal 23 novembre imporrà il tampone negativo ai cittadini di 65 Paesi tra cui l’Italia, ha prolungato lo stato d’emergenza fino a maggio e affidato alle comunità autonome le restrizioni. L’invito è alla prudenza vista la pressione sugli ospedali: in media il 31,7% delle terapie intensive occupate da pazienti Covid, con picchi del 40%.

Nella Gran Bretagna. Resta il record negativo

50.365. È il numero totale dei morti di Covid nel Regno Unito, il quarto più colpito al mondo e il primo in Europa. I contagi totali accertati ieri erano 33.470 (+9329 sulla scorsa settimana) di cui 30.843 in Inghilterra, con un indice Rt fra 1 e 1,4 nelle varie regioni inglesi, ancora inferiore a 1 nelle altre nazioni. I ricoverati sono 14.030, ma la mappa dell’emergenza è irregolare: a Londra per ora non risultano terapie intensive piene, mentre nel nord mancano posti letto e infermieri. Contro le restrizioni ci sono proteste ma non violazioni evidenti: la pandemia è però fuori controllo nelle aree a maggiore densità abitativa multi-generazionale e dove la popolazione non può lavorare da casa. Ieri il ministro delle Finanze Rishi Sunak ha accennato al ritorno, a Natale, dello schema Eat Out to Help Out, il finanziamento pubblico di metà del conto del ristorante che ha garantito una ripresina economica ad agosto ma ha agevolato la seconda ondata.

La Francia migliora ma è ancora lockdown

“La nostra strategia sembra produrre gli effetti sperati, ma sarebbe irresponsabile alleggerire il dispositivo ora”, ha detto ieri il premier Jean Castex, stilando un bilancio dell’epidemia in Francia a due settimane dall’entrata in vigore del nuovo lockdown, il 30 ottobre. I dati epidemiologici sono incoraggianti: nell’ultima settimana l’evoluzione dei contagi è calata del 16% e l’indice Rt di riproduzione del virus è sceso sotto l’1. Ma per Castex bisogna restare “prudenti”. Il numero dei morti è sempre elevato, tra 400 e 500 ogni giorno. La tensione sugli ospedali è forte: quasi 32mila malati Covid sono ricoverati e quasi 5.000 sono in terapia intensiva, più che ad aprile. Se la tendenza in discesa si conferma, il picco dell’epidemia potrebbe essere raggiunto già a inizio settimana prossima. Per i prossimi 15 giorni dunque il lockdown non cambia. Ristoranti e negozi “non essenziali” restano chiusi, almeno fino al primo dicembre. L’obiettivo, per Castex, è che i negozi possano riaprire prima di Natale e che i francesi possano passare le feste in famiglia. Ma, avverte, niente feste in grande a Capodanno.

De Luca contro il governo: “Sciacalli”

Come se non bastasse la guerra al virus, tra Napoli e Roma è in atto una guerra sotterranea su chi dovrà assumersi l’onere di decretare ulteriori restrizioni in Campania che tutti invocano ma nessuno firma. E così il presidente della Campania Vincenzo De Luca ieri ha scagliato la sua furia contro il governo. Lo ha fatto durante la riunione con le Regioni convocata dal ministro Francesco Boccia. “Voi fate gli sciacalli – ha detto De Luca – vi avevo chiesto di chiudere e non lo avete fatto, ora mi crocifiggono sui giornali perché dicono che il sistema non regge. Dovreste ringraziare con la faccia per terra chi sta governando la Campania: io devo gestire una tensione sociale fortissima e i ministri mi mandano controlli e commissari. Non ho bisogno di ospedali da campo, volete fare i Covid Hotel, ma chi li gestisce? Ho chiesto 600 medici e 800 infermieri e mi avete mandato sette anestesisti”. La replica di Boccia: “Il governo è totalmente al fianco di tutta la comunità campana e ha sempre garantito il massimo aiuto alla Regione attraverso il commissario Arcuri con i ventilatori polmonari e i materiali distribuiti e la Protezione civile attraverso il personale medico. Dal 24 ottobre la Campania ha sul tavolo, attraverso la Protezione civile, la disponibilità di 2.236 operatori sanitari, arruolateli e se avete bisogno di altri volontari facciamo un bando ad hoc solo per la Campania domani mattina, ma basta polemiche”.

È questo il clima in cui oggi, o al massimo domani mattina, la cabina di regia del ministero della Salute dovrebbe emettere il verdetto su un eventuale passaggio della Campania da zona gialla ad arancione. O addirittura rossa, come è tornato ad invocare ieri su Sky Tg24 il consigliere del ministro Speranza, Walter Ricciardi: “Napoli l’avrei fatta zona rossa due o tre settimane fa, in alcuni ospedali scene di guerra”. Gli ha replicato il vicepresidente Fulvio Bonavitacola: “Frasi intollerabili per un consulente del ministro, se non viene ascoltato su questioni così importanti si dimetta”. E annuncia querela.

La decisione sul colore avverrà sulla base della relazione degli ispettori del ministero, frutto di due giorni di lavoro coi Nas, tra Asl e reparti ospedalieri del Cardarelli, dell’ospedale del Mare, del Cotugno, per verificare sul campo la validità dei dati trasmessi dalla Campania. “I dati di De Luca sono sbagliati, il governatore imponga il lockdown in Campania, gli ospedali sono impazziti”, urla il direttore sanitario del Covid Hospital di Boscotrecase, Savio Marziani. In serata De Luca ha anticipato che ci saranno zone rosse nei comuni campani più colpiti e interventi sul lungomare e il centro storico di Napoli “dove si sono verificati assembramenti illegali e irresponsabili”. Si valutano ingressi contingentati in piazza del Plebiscito e piazza San Domenico Maggiore.

Intanto i dati dei positivi in Campania tornano a salire: sono 4.065, in aumento rispetto a quelli di giovedì 5 novembre (3.888). 31 i morti, nei giorni dal 7 all’11 novembre. Il rapporto tra tamponi e positivi si attesta al 17 per cento. Oggi il sindaco di Napoli Luigi de Magistris comunicherà i suoi provvedimenti antivirus. Ha smentito Il Mattino, secondo cui era pronto a firmare un “divieto di circolazione pedonale” in tutta la città con “le strade aperte solo alle auto”. “Inqualificabile fake news” per il primo cittadino.

Niente lockdown: bisogna reggere fino a fine febbraio

L’orizzonte a cui guarda il governo porta la data di fine febbraio. Quasi quattro mesi in cui è impensabile immaginare il ritorno a una vita normale. Poco importano i timidi segnali della corsa che rallenta: “Non faremo come quest’estate – avvertono da palazzo Chigi – se anche i dati dovessero migliorare, a Natale non ci sarà il liberi tutti”. Il ragionamento sui tempi è molto semplice e lega i suoi destini a una sola variabile: il vaccino. Se davvero a dicembre dovesse essere pronto e a fine gennaio fosse già somministrato al “milione e settecentomila” italiani a rischio di cui parla il commissario all’emergenza Domenico Arcuri, un mese dopo – a fine febbraio, appunto – potremmo avere la copertura vaccinale sufficiente a dire che il pericolo è scampato. La primavera è lontana, però. E per questo ieri il ministro Francesco Boccia è tornato a rispondere così a quei governatori che ancora chiedono una stretta nazionale: “Non ci possiamo permettere quattro mesi di lockdown”. Perché quello è l’orizzonte, ed è inutile immaginare che chiusure totali temporanee possano risolvere la situazione. Per cui bisogna andare avanti così, tra restrizioni e allentamenti che consentano all’economia di prendere un filo di fiato, sulla base del sistema messo a punto con l’ultimo Dpcm.

I nuovi dati arriveranno oggi: sul tavolo della cabina di regia che monitora l’andamento dei 21 parametri nelle regioni italiane ci saranno i numeri per decidere – al massimo entro domani – se cambiare “colore” a qualcuna delle zone d’Italia ancora arancioni o gialle. Per l’osservata speciale, la Campania, ci sarà anche il report dei Nas, che sono andati a controllare di persona la situazione negli ospedali. E il braccio di ferro con il governatore – lo leggete qui sotto – è ormai a livelli giudicati inaccettabili. De Luca non ha gradito l’annunciato invio dell’esercito per gli ospedali da campo, né sembra intenzionato a collaborare sul fronte dei Covid hotel, tema al centro della riunione di ieri con Boccia e Arcuri. L’ipotesi è di allestirne uno per provincia, nelle vicinanze degli ospedali, in modo da dirottare lì tutti i casi che ora arrivano in pronto soccorso, a cominciare dagli asintomatici che non sono nelle condizioni di isolarsi e dai pazienti guariti che però risultano ancora positivi. Ora le Regioni dovranno indicare al commissario quali strutture si possono requisire, ma resta il grande problema di reperire il personale medico-infermieristico necessario a gestirle (un nuovo bando, dice Arcuri, è di prossima pubblicazione).

In attesa del monitoraggio di oggi, tre Regioni hanno già firmato ordinanze restrittive, nel tentativo di evitare di finire nella lista delle arancioni. Veneto, Friuli Venezia Giulia e Emilia-Romagna hanno emanato misure condivise, in particolare con funzione anti-assembramento: negozi chiusi nei giorni festivi (esclusi ovviamente gli essenziali), chiusi anche il sabato i centri commerciali e gli outlet. Bar e ristoranti restano aperti fino alle 18, ma dopo le 15 si potrà consumare solo seduti (un modo per evitare l’aperitivo in piedi). Tutte e tre raccomandano ai negozi di garantire una corsia preferenziale per gli over 65 nelle prime due ore di apertura e vietano le passeggiate nei centri storici delle città e sulle spiagge. Anche i sindaci, nel frattempo, si organizzano: Antonio Decaro a Bari chiude i negozi alle 19, Leoluca Orlando a Palermo sospende addirittura tutte le lezioni della scuola dell’obbligo. Lo stesso farà l’Alto Adige, per il momento solo per due settimane. Ma prima di vedere la luce ce ne vorrà almeno un’altra dozzina.