“Ho parlato con il ‘Fatto’. Il Trivulzio mi ha sospeso”

Con precisione matematica e tempistica perfetta, il Guastafeste del Pio Albergo Trivulzio è stato duramente punito. Pietro La Grassa, operatore tecnico specializzato, categoria Bs, ma soprattutto sindacalista della Cgil che non è mai stato zitto di fronte a quello che vedeva succedere dentro la “Baggina” ai tempi del coronavirus, ha ricevuto ieri una sospensione cautelare dal lavoro per 30 giorni. Mercoledì La Grassa ha raccontato ancora una volta a Gad Lerner la situazione del Trivulzio. Giovedì mattina le sue parole sono arrivate in edicola, nell’articolo del Fatto Quotidiano (“Gran repulisti al Pio Albergo Trivulzio: in due mesi 120 provvedimenti disciplinari al personale tra sanzioni e ritorsioni”). Il tempo di leggerlo, di buon mattino, e i vertici del Pat fanno scattare la rappresaglia: un mese di sospensione.

Se l’aspettava?

Sì. Ero certo della vendetta. L’avevo detto anche ai miei colleghi. E infatti alle 12.20 di giovedì 12 novembre è arrivata la sospensione.

Non è la sua prima punizione.

È il settimo consiglio disciplinare a cui vengo sottoposto. Per 31 anni sono sempre andato bene, da giugno a oggi ho subito sette giudizi disciplinari. Tutto è cominciato a giugno, quando Gad Lerner ha raccontato su Repubblica la strage di nonni del Trivulzio, riportando anche la mia testimonianza.

Non è l’unico ad aver subito provvedimenti disciplinari.

No, sono stati ben 120 in due mesi, settembre e ottobre. Subiti da medici, infermieri, tecnici. Negli anni precedenti erano interventi rarissimi, 50 in tanti anni. Ora sono 120 in due mesi.

Dove pensa vogliano arrivare?

A spaventarci. A licenziarmi. Mi vogliono cacciare dal Trivulzio. Eppure io non ho detto niente di falso, ho solo raccontato quello che ho visto dentro il Pat.

Le è arrivata una lettera che le contesta fatti avvenuti qualche giorno fa. E l’amministrazione del Pat, in una nota, dichiara che la sospensione “è connessa a un suo scomposto e grave comportamento nei confronti delle sue dirigenti, segnalato il 10 novembre”.

Martedì scorso arrivo alla farmacia del Trivulzio, dove lavoro, e la mia capa mi dice: ‘Ora facciamo una riunione, ma tu non vieni, tu stai fuori’. Io esco. Alla fine della riunione rientro e ho una discussione con la collega, ero nervoso per essere stato escluso. Ma ora mi accusano addirittura di averla minacciata: e io non l’ho fatto e non lo farei mai. Qui dentro c’è chi ha provocato la morte dei pazienti, ma la contestazione disciplinare la mandano a me.

L’hanno convocata il 9 dicembre per una sorta di processo per aver tenuto un ‘atteggiamento minaccioso’ e per ‘gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui’. Fatti che ‘qualora accertati’, ‘sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro’.

Non ho minacciato nessuno. Io lo so, sono un rompicoglioni, non sono uno che sta zitto. Ho denunciato quello che accadeva fin dai tempi dell’affittopoli del Trivulzio, ma solo adesso si sono scatenati contro di me. Dopo la denuncia di come hanno affrontato l’emergenza coronavirus. Vogliono vendicarsi. E cacciarmi via da questa azienda. Il capo (il direttore generale Giuseppe Calicchio, ndr) la sta gestendo in un modo che non assicura il futuro alla nostra struttura pubblica. Per paura, dopo i tanti morti della primavera scorsa, ha chiuso i ricoveri: abbiamo solo 58 pazienti su 380 letti accreditati per lunghe degenze.

In Fiera 30 letti in più e sempre meno medici

“Ci hanno deriso perché non era più necessario, ma come cittadino sono stato felicissimo che siano arrivati meno malati del previsto. Abbiamo scelto di non smantellarlo in estate, e quando è arrivata la seconda ondata, siamo tornati e siamo riusciti a riaprire in tempo brevissimo”. Così ieri Nino Stocchetti, direttore del Padiglione del Policlinico della Fiera di Milano, ha scritto il nuovo capitolo dell’epopea dell’Astronave di Guido Bertolaso. Entro la prossima settimana, ha annunciato, “dovrebbero essere attivati altri due moduli”, oltre ai 5 già aperti, che “dovrebbero assicurare” tra i 28 e i 30 nuovi posti letto, portando così a 88-90 le postazioni di terapia intensiva dell’ospedale in Fiera (dal 23 ottobre a oggi, ha ospitato circa 70 pazienti, e attualmente i letti occupati sono 57). E, infine, contro certa cattiva informazione, ha assicurato che nella struttura “nessun medico o infermiere è stato ‘deportato’, come si è sentito dire. Tutti coloro che sono venuti qui a lavorare, si sono offerti volontariamente”. Certo. Dopo che la precettazione dei medici ventilata dall’assessore al Welfare Giulio Gallera è stata scongiurata solo grazie alla proclamazione dello stato di agitazione del sindacato degli anestesisti.

Tutto bene, quindi, dalle parti del Portello. Non proprio. Il personale oggi in forza ai posti letto attivi proviene – come Il Fatto ha raccontato – da ospedali in grandissimo affanno, come il San Gerardo di Monza e l’Asst Sette Laghi di Varese, tra le aree più colpite in questa seconda ondata. I futuri moduli che “potrebbero essere attivati” vedranno la luce solo grazie a equipe prestate da San Raffaele e da Humanitas, che solo tre giorni fa sul Corriere aveva lanciato l’allarme: “Se il flusso di accessi e ricoveri rimane lo stesso, non reggiamo nemmeno una settimana”. E anche al San Raffaele non va molto meglio (quando Gallera aveva chiesto di assicurare ulteriori 150 posti Covid entro il 15 novembre hanno risposto picche).

In verità, lo stesso Stocchetti ha ammesso le difficoltà organizzative: “In Fiera sarebbero già oggi disponibili più di 150 posti letto. Il punto è che la terapia intensiva non è fatta dai posti letto, ma dai medici e dagli infermieri che vi lavorano”. Oggi al Portello lavorano 60 medici e 120/130 infermieri, con un rapporto di 1 medico e 3 infermieri ogni due letti. Tuttavia nella determina della Direzione sanitaria del 21 ottobre scorso (quella che riattivava la Fiera), Regione Lombardia riferiva che il fabbisogno minimo era di “1 medico e 3 infermieri per ogni posto letto”. Cioè oggi la Fiera sta operando con metà del personale che la stessa Regione aveva definito come minimo necessario solo tre settimane prima.

Non è certo una sorpresa che a mancare siano le “risorse umane”. Costruire una cattedrale nel deserto del Portello, staccata da un ospedale, era chiaro avrebbe comportato enormi disagi: significa distaccare personale irrinunciabile dai reparti, per bloccarlo in un unico luogo. Come di fatto sta accadendo. E a confermarlo, ieri, indirettamente, è stato lo stesso Stocchetti: “Il meccanismo scelto per far funzionare il Padiglione Fiera è quello del ‘mutuo soccorso’: in sostanza gli ospedali più piccoli mandano i loro medici ad aiutare quelli più grandi, che a loro volta mandano i loro rianimatori a far funzionare i moduli alla Fiera”. Quando si dice la solidarietà. A senso unico.

Salvini: “Via Gallera”. Ma Fontana lo salva (per salvare se stesso)

Fino alle 19 di ieri era praticamente fuori dalla giunta lombarda. Poi in pochi minuti è cambiato tutto e l’assessore alla Sanità Giulio Gallera si è salvato. Un’altra volta. Grazie unicamente al presidente Attilio Fontana che questa volta ha detto no. Un no pesantissimo, rivolto al suo Capitano in persona, Matteo Salvini. Era lui, infatti, che scontento dei sondaggi e convinto che così al 2023 il suo presidente “non ci arriva”, aveva elaborato il piano per mettere l’ormai imbarazzante Gallera alla porta: un mini rimpasto di giunta, con l’uscita del buon Giulio e di altre tre assessore. Silvia Piani (Famiglia) e Martina Cambiaghi (Sport), entrambe quota Lega e Lara Magoni (Turismo), Fratelli d’Italia. Un maquillage giusto per salvare le apparenze. Le tre assessore sarebbero rimaste consigliere regionali (con stipendio assicurato) e la giunta ne avrebbe risentito poco. Certo, si sarebbero dovute trovare altre tre donne per mantenere le quote rosa e poi si sarebbe dovuto sdoppiare l’assessorato oggi di Gallera, Welfare e Sanità. Una fatica, ma tutto sommato nulla di impossibile. E infatti Salvini credeva fino alle 18,30 di avercela fatta.

Poi la sorpresa: Fontana che sbatte i pugni e dice il suo no, consapevole che la caduta di Gallera equivarrebbe a una sua perdita di credibilità personale. Inoltre, tra Fontana e il suo (ancora) assessore molti in questo ultimo anno turbolento sono stati gli interessi comuni e le scelte, non sempre prese in totale accordo. E non sarebbe “saggio” da parte del governatore lasciare che un Gallera demansionato possa parlare liberamente del passato. Così Attilio ha salvato Giulio. Il quale però resta in bilico e nel mirino del Carroccio. Anche perché Matteo Salvini non è solito accettare dei no. Oggi per le 14,30 è convocata una riunione dei capigruppo della maggioranza. Ma Fontana non è stato invitato.

Che Gallera fosse di fatto fuori dal Pirellone fino a una manciata di ore fa, è un dato di fatto. Ancora in serata, fonti vicine al segretario leghista fanno sapere che “l’operato di Gallera non è certo stato all’altezza. Il problema non sono tanto le gaffe sugli “asintomatici non contagiosi” o sui “due infetti che servono per contagiare una persona” con un Rt pari a 0,5. E nemmeno le giravolte sui mancati provvedimenti per chiudere Alzano e Nembro (prima era “competenza dello Stato”, poi “ho approfondito e in effetti una legge del 1978 ci dava quel potere”) o l’incredibile delibera dell’8 marzo con cui la Regione Lombardia spediva i malati nelle Rsa. Tutto questo, sottolinea un leghista lombardo che conosce bene i corridoi e le zone d’ombra del Pirellone, “nel partito è considerata acqua passata, relativa alla prima ondata”. Il problema di oggi – mentre la Lombardia è zona rossa con un ritmo di 10 mila contagi al giorno e con gli ospedali di Monza e Varese che scoppiano – è un altro: “Che Gallera è sempre lì, inchiodato alla sua poltrona a far danni” continua tra l’amareggiato e il furioso lo stesso leghista. Poi certo l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia è solo la punta dell’iceberg della giunta di Fontana già di per sé fragilissima e che, nonostante le difese ufficiali, ha perso da tempo il sostegno del Capitano, convinto che i disastri della prima ondata abbiano fatto perdere molti consensi alla Lega. Ma Fontana ormai è diventato un simbolo e, per ordine di via Bellerio, deve “reggere” fino al 2023.

Sicché il bombardamento continuo sulla chat della Lega lombarda e le telefonate che riceve quotidianamente da sindaci che si sentono abbandonati (“Matteo, cambiamolo!”) hanno convinto Salvini che l’obiettivo deve essere un altro: cacciare o commissariare Gallera. Da qui gli attacchi che l’assessore alla Sanità di Forza Italia ha ricevuto nelle ultime ore da leghisti di primo piano: prima era arrivato quello a testa bassa di Emanuele Monti, presidente leghista della Commissione Sanità che al sito Malpensa 24 ha fatto capire che la giunta sta ignorando l’emergenza nella sua Varese, nuovo focolaio dell’epidemia: “Stride il fatto che l’assessore al Welfare Giulio Gallera non sia venuto fisicamente a Varese. È stato a Monza, ma non qui da noi” la frase sibillina. Poi è arrivata la lettera inviata dal consigliere regionale Alessandro Corbetta, e prontamente resa pubblica, per chiedere a Gallera interventi “in tempi rapidissimi” per l’ospedale San Gerardo di Monza “al collasso”. Come dire: cosa ha fatto Gallera finora? Tutte avvisaglie di una bocciatura che appare semplicemente rimandata.

Donferri, cacciato, lavorava in nero col fornitore Aspi

È l’uomo su cui converge ogni inchiesta: i morti del Ponte Morandi, i report sulla sicurezza truccati per risparmiare, le barriere difettose che non tengono il vento. Talmente centrale, da essere sempre indagato. L’ex potentissimo capo delle manutenzioni di Autostrade per l’Italia (Aspi) Michele Donferri Mitelli era caduto in disgrazia dopo la pubblicazione delle intercettazioni in cui faceva pressione sui sottoposti per ammorbidire i report sulla sicurezza dei viadotti. Lo scandalo nel 2019 aveva portato alle dimissioni il suo grande protettore, l’ad Giovanni Castellucci. E il nuovo management aveva allontanato Donferri, un provvedimento bandiera del rinnovamento. Dalle carte della nuova inchiesta di Genova, però, emerge come il manager, per il quale la Procura aveva chiesto il carcere, non fosse andato molto lontano. Continuava a lavorare in nero per una ditta di consulenza che ha fra i suoi clienti proprio Autostrade e altre società controllate da Atlantia. A scoprirlo è stata la Guardia di Finanza, che mercoledì si è presentata presso gli uffici della Polis Consulting di Pomezia. I militari hanno sentito i dipendenti, per capire che tipo di rapporto avesse Donferri con la ditta. Tabulati e intercettazioni telefoniche hanno consentito di appurare che il manager frequentava la sede almeno tre volte a settimana, presentandosi anche durante il lockdown. Di questo però non c’è traccia in nessun contratto. E infatti Donferri, uomo che in Autostrade viaggiava su uno stipendio lordo annuo di circa 300mila euro, potrebbe finire nei guai perché riceveva la Naspi, il sussidio di disoccupazione.

Il suo nuovo inquadramento è oggetto di indagine. Lo cita nella sua ordinanza il gip Paola Faggioni: “L’uscita dal gruppo non ha impedito a Donferri di prestare la propria attività lavorativa per società collegate con Aspi (percependo in modo indebito l’indennità di disoccupazione) con elevato rischio di reiterazione di analoghe condotte criminose strumentali all’ottenimento di indebiti risparmi con conseguenti illeciti guadagni”. L’impresa è intestata ad Angela Antonia Alaia. Più spesso Donferri si confrontava con il marito, l’ingegnere Ciro Antonio Cannelonga.

La stessa Polis Consulting dichiara sul suo sito di avere appalti in corso con la galassia Atlantia: per l’aeroporto Leonardo Da Vinci (Aeroporti di Roma) sta curando la progettazione di una centrale idrica di pompaggio dell’acqua, un sistema antincendio; per Aspi ha in corso la progettazione di due gallerie, la Val di Sambro e Grizzana, della variante di valico a Bologna, e la Cavallo e Sappanico, sulla A14, ad Ancona; per Spea altre consulenze.

Contattati dal Fatto, da Aspi fanno sapere che la Polis Consulting dal 2016 è tra le migliaia di fornitori di Aspi, tuttavia non erano assolutamente a conoscenza di legami tra la ditta e Donferri. E assicurano che ora avvieranno tutte le verifiche consentite, nei limiti della norma, nei confronti del fornitore. Donferri non è solo un semplice dirigente di lungo corso, che ha attraversato la gestione pubblica e privata di Autostrade. Per chi indaga è il depositario dei segreti meglio custoditi della società.

Come dimostra la richiesta fatta alla segretaria, all’indomani del crollo del Morandi: “Portati un bel trolley grosso… devo comincia’ a prendere l’archivio là del Polcevera. Quella è roba mia”. È lui a confidare al suo superiore, Paolo Berti, che “i cavi del viadotto sono corrosi”. Quel messaggio viene cancellato da Berti all’indomani del disastro, ma è stato ritrovato dagli investigatori nelle chat di Whatsapp. E ancora, è sempre lui a portare un’ambasciata del “capo”, l’ex ad Castellucci, quando Berti sembra vacillare. È l’inizio del 2019, e Berti è stato condannato a 5 anni per la strage di Avellino. In quei dialoghi sembra essersi pentito “di non aver raccontato tutta la verità”. “Devi fare come Andreotti – gli consiglia allora Donferri – se non puoi ammazzare il nemico devi fartelo amico. Stringi un accordo con il capo”. E ancora: “Quarantatré morti de qua, quarantatré morti de là, stamo tutti sulla stessa barca. (Castellucci) Ti vuole rasserenare, ti aiuterà tutta la vita. Dai ti faccio venire a prendere con un taxi”.

Quel patto del silenzio, insomma, aveva tenuto a tutte le stagioni. Anche all’allontanamento di Castellucci. Ecco perché adesso la Procura di Genova vuole rendere più nitida la fotografia del nuovo lavoro di Donferri, l’uomo dei segreti.

Riparare le barriere? No “L’ingegnere è coglione”

“Ma ‘ndo chiappi i sordi? Milioni? Ma milioni è di’ poco!”. Così rispondeva Michele Donferri Mitelli, responsabile manutenzioni per Autostrade per l’Italia, a chi proponeva interventi risolutivi ma costosi per le barriere fonoassorbenti difettose e a rischio crollo sul tratto ligure e non solo.

Del metodo Castellucci – il massimo risparmio a scapito della sicurezza – Donferri curava la disciplina in maniera ferrea. Colonnello fedele dell’Ad, il manager è stato l’interprete sul campo di una filosofia che ha consentito all’azienda di spartirsi 9 miliardi di utili mentre le infrastrutture della rete autostradale cadevano a pezzi. A cominciare dalle due barriere sbragate tra novembre 2016 e gennaio 2017 su un paio di viadotti in Liguria perché, come si legge in alcune intercettazioni, “era stato sottostimato il vento del 200%” ed “erano incollate col Vinavil”. E si temeva un ‘effetto domino’ su altre autostrade. La voce di Donferri, registrata di nascosto da Marco Vezil dirigente della consociata Spea, fa emergere le sue pressioni colorite. I file audio sono stati ritrovati durante le perquisizioni della Finanza nelle indagini per il crollo del Ponte Morandi, in cui è indagato anche Vezil. Che, prendendo parte alle riunioni di Donferri nel suo ufficio in via Bergamini a Roma, ascolta – e lascia traccia – di come Donferri reagì al problema delle barriere difettose: provando a scaricarlo su appaltatori e subappaltatori per presunti errori sulla posa in opera, per nascondere che la causa era il vento. È il marzo 2017. “È una azione da ribaltare a qualcuno?” chiede Donferri. “Quindi presumo che questo, vogliate dire a Pavimental (la ditta, ndr) qualcosa?…”. E quando i tecnici di Spea tornano alla carica, sottolineando che la resina “non ci risulta che sia certificata”, Donferri sbotta: “Ma quindi sei sempre più cornuto, salvando la signora…”. E poi propone una soluzione: “Pinocchio se po’ modellà, mo’ se non trovi il falegname che te lo modella non so”. Poi Donferri, Vezil e altri tecnici si rivedono ad aprile. Ragionano sui costi elevatissimi. Quindi nuova riunione a settembre. Un ingegnere ha proposto un intervento di ‘retrofitting’, di adeguamento delle barriere alla normativa antivento. Per Donferri costui è “un coglione”. E spiega il perché: “Su 400 km… ma tu sei scemo? (…) ma ‘ndo i chiappi i sordi in azienda…Milioni? Ma milioni è di’ poco…”. E Castellucci? Sapeva. Donferri ne parla: “Mo’ ieri vengo a sapere da Gagliardi che l’amministratore (Castellucci, ndr) ha interessato Gagliardi perché non si fida di quello che fa Tomasi…”.

Estranea alle indagini ma “rilevante per capire la personalità dell’indagato” Donferri, secondo il Gip, è anche la vicenda delle raccomandazioni al generale dei carabinieri Franco Mottola per favorire l’arruolamento nell’Arma del figlio di un dipendente Aspi. Donferri chiederà aiuto a Mottola anche per far ‘scortare’ Castellucci a un interrogatorio per il ponte Morandi, in modo da evitare i giornalisti. Mottola gli assicura di aver fatto pressioni sul generale della Legione Liguria Nardone, e soprattutto sul comandante provinciale Sciuto (“più buono”). Come risultato viene mandato un capitano. All’interrogatorio presente anche il comandante provinciale.

Autostrade mentì allo Stato che non ha mai controllato

Icontrolli su Autostrade per l’Italia da parte della vigilanza del Ministero delle Infrastrutture dal 2016 al 2019 sono stati “cartolari”, ossia si basavano sui documenti forniti dalla concessionaria. Peccato però che, come ricostruito nelle carte dell’inchiesta della Procura di Genova, nella documentazione inviata al Ministero la reale situazione delle barriere fonoassorbenti (per i pm pericolose e sostitute tardi) veniva occultata. Lo scrive il Gip di Genova Paola Faggioni nell’ordinanza di misura cautelare ai domiciliari emessa per l’ex Ad di Autostrade Giovanni Castellucci e i manager Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti. L’inchiesta riguarda le barriere fonoassorbenti e antivento installate in tutta Italia da Aspi (il modello “Integautos”). Secondo le accuse, nonostante il vecchio management fosse consapevole della loro pericolosità non ha provveduto a sostituirle subito. Questo per evitare “gli ingentissimi costi che tali attività avrebbero comportato”.

Si deciderà di sostituirle solo a partire da gennaio scorso dopo che il consulente della procura di Genova, l’ingegnere Placido Migliorino, capo dell’ufficio ispettivo di Roma, stila una pesante perizia sulle criticità. Il tecnico fa a pezzi l’operato della concessionaria: errori progettuali; materiali di ancoraggio “non certificati” (sono “incollate col Vinavil”, dice un manager intercettato); difetti nella posa in opera; consegna al ministero di perizie incomplete; omissione degli atti di collaudo e via discorrendo. A parere di Migliorino, il problema poteva “essere risolto in maniera definitiva solo con l’integrale sostituzione”.

Il caso delle barriere è noto ad Aspi da novembre 2016, quando alcune si staccarono dal viadotto Rezza per il vento. Ma perché si è dovuto aspettare l’intervento dei pm? Mercoledì dal ministero hanno fatto sapere di aver “imposto il monitoraggio effettuato da società terze” perché “prima i controlli venivano effettuati da società interne agli stessi concessionari”, che nel caso di Aspi era Spea Engineering. E di aver istituto “l’agenzia di sicurezza Ansfisa” con 50 persone in più della direzione concessioni dedicate alla “verifica e all’approvazione dei programmi di manutenzione”. L’agenzia, voluta due anni fa dall’allora ministro Toninelli non è però ancora operativa ed è stata azzoppata da un emendamento che l’ha resa solo ‘promotrice’ della sicurezza e non ‘responsabile’ come pensato quando fu istituita.

Stando alle indagini di Genova, i documenti inviati da Aspi al ministero fornivano una visione distorta della condizione delle barriere. Il gip parla di “sistematico occultamento della situazione, attuato anche attraverso vari artifici quali l’abbassamento delle ribaltine adducendo motivi fittizi, il rialzo delle stesse nei casi nei quali le proteste richiamavano l’attenzione, l’omessa comunicazione delle problematiche allo Stato e addirittura anche il tentativo di aggiustamento di atti presso la Polizia Stradale”. Delle mancate comunicazioni al Ministero parla anche un ex responsabile dei lavori di Aspi. Ai pm dice – sintezza il gip – che “le disposizioni di servizio che ordinavano l’abbattimento delle ribaltine nell’area ligure sono state inviate al primo Tronco di Aspi e a Spea…, ma non al Mit”.

L’indagine della procura di Genova riguarda 30 km di barriere installate in Liguria da Autostrade (60 in tutta Italia), ma negli atti si parla di strutture molto più estese sul territorio. Per il Gip, da un’intercettazione, emerge che erano 400 i chilometri da adeguare. La domanda è: oltre la Liguria, ci sono altre tratte sulle quali intervenire? La palla passa al Ministero che potrebbe effettuare verifiche più estese e non “cartolari”, come fatto finora.

Intanto l’inchiesta complica la trattativa tra Atlantia e il governo per cedere il controllo di Aspi alla Cassa depositi e a due fondi speculativi. Mercoledì, dopo gli arresti, in un teso vertice video il Tesoro avrebbe fatto presente agli uomini della holding che il prezzo dovrà calare. Risposta: non se ne parla.

La prevalenza del cretino

Il cretino prevalente non combatte il Covid, ma il governo. Guarda sempre il dito (i positivi giornalieri) e mai la luna (il loro aumento calante dopo settimane di salita impetuosa). Parla di “curva esponenziale” e “fuori controllo”, senz’accorgersi che il 10 ottobre i positivi crescevano del 102% a settimana, il 24 ottobre (dopo i primi due Dpcm) dell’80% e ora (dopo gli altri due Dpcm) del 10%. Ripete da due settimane che “gli ospedali sono pieni”, il che è vero per alcuni e falso per altri, anche perché ogni giorno i nuovi posti letto occupati sono in media un migliaio (anche quelli in calo: ieri + 429), dunque chi è pieno oggi non poteva esserlo 15 giorni fa. Un altro suo mantra è che mancano i dati, ci vogliono più dati, quelli che ci sono non vanno bene: poi però non capisce neppure quelli che ci sono. Adora il lockdown totale, possibilmente eterno, infatti lo chiede o lo annuncia ogni giorno, sperando prima o poi di azzeccarci.

E non pronuncia mai la parola “Regioni”, come se la sanità non fosse in mano loro, le discoteche non le avessero aperte loro, gli stadi non volessero spalancarli loro, le zone rosse nei territori più infetti non spettassero a loro, i vaccini antinfluenzali non dovessero ordinarli loro, ma il governo. O il commissario straordinario Domenico Arcuri (suo bersaglio prediletto dopo Conte e Azzolina), che però non si occupa di forniture ordinarie (come i vaccini contro l’influenza), ma appunto di quelle straordinarie: mascherine, camici, guanti, tamponi, test, banchi di scuola, braccialetti elettronici per detenuti (tutti curiosamente disponibili). E ora vaccini anti-Covid. Prima il cretino prevalente ripeteva che sugli antivirus di Oxford e di Pfizer “l’Italia non ha un piano”. Poi ha scoperto che ce l’ha, affidato ad Arcuri. Così ora ripete che sarà un disastro: un “piano a rotelle”, un “vaccino a rotelle” (battutone sui banchi a rotelle, un quarto dei 2,4 milioni acquistati dal commissario, peraltro su richiesta dei dirigenti scolastici, che li usavano già prima). Il cretino prevalente preferirebbe affidare pure i vaccini agli sgovernatori che non riescono neppure a comprare gli antinfluenzali e, per i camici, chiamano il cognato. Il suo sogno è un bel piano Fontana-Toti-Cirio-De Luca-Solinas-Spirlì & C. Ma si accontenterebbe di un piano Gallera, come quello appena finito sotto inchiesta in Trentino-Alto Adige: 150mila vaccini made in India importati last minute da un dentista di Bolzano tramite un intermediario turco grazie ai buoni auspici di un conoscente cinese. Roba che, se l’avessero fatta Conte o Arcuri, oggi Salvini e Meloni avrebbero già imbracciato il mitra. Non è uno scherzo: è tutto vero. Ma il cretino prevalente se ne stracatafotte. In fondo, quando c’è la salute c’è tutto.

Torino Film Festival, lo streaming per non rinunciare al 38° anno

Streaming e parità di genere. Il Torino Film Festival prova a fare di necessità virtù: trentottesima edizione interamente digitale, dal 20 al 28 novembre in streaming su MyMovies, con il rammarico per le sale chiuse, i già annunciati film di apertura, Ballo Ballo sulle canzoni della Carrà, e chiusura, Un anno con Godot, saltati, ma “la volontà di affermare – dice il neodirettore Stefano Francia di Celle – l’importanza politica della cultura”. Budget di un milione e 200mila euro, 133 film in cartellone, di cui 64 lungometraggi e 52 anteprime mondiali, la parola d’ordine è gender equality: in ossequio al 5050×2020, per la prima volta nel concorso viene riservato lo stesso spazio ai film diretti da donne e da uomini, ma la giuria chiamata a giudicarli – scelta quantomeno contraddittoria – sarà composta da sole donne, la siriana Waad Al-Kateab di For Sama, l’artista inglese Martha Fiennes, l’attrice giapponese Jun Ichikawa, la regista Martina Scarpelli e l’attivista iraniana Homayra Sellier. Riconoscimenti e omaggi sono analogamente al femminile: Premio Stella della Mole a Isabella Rossellini; l’Adriana Prolo a Cecilia Mangini, di cui si vedrà l’ultimo Due scatole dimenticate – Viaggio in Vietnam; una pubblicazione, firmata da Natalia Aspesi, in ricordo di Lietta Tornabuoni. Leitmotiv della selezione, segnala Francia di Celle, “la ricerca del sé, lo smarrimento identitario, la crisi democratica”. C’è un solo italiano, Regina di Alessandro Grande, tra le dodici opere prime e seconde in concorso, mentre la riscossa patria viene nel Fuori concorso, da Il buco in testa di Antonio Capuano, sulla figlia di un poliziotto ucciso negli anni di piombo, a Calibro 9 di Tony D’Angelo, prosecuzione ideale del cult di Fernando Di Leo, passando per i documentari Zona Franca di Steve Delle Casa sulla Valeri e Suole di vento – Storie di Goffredo Fofi di Felice Pesoli. Sul fronte restauri Il federale di Luciano Salce e lo scandaloso Avere vent’anni di Di Leo, grande spazio sarà riservato agli autori: Federico Fellini, agli sgoccioli del centenario della nascita, verrà celebrato con RadioAMARCORD nella sua misconosciuta produzione radiofonica; Aleksandr Sokurov e Mohsen Makhmalbaf terranno delle masterclass; ne “Lo spazio di Rol”, Pino di Walter Fasano sull’artista Pascali, Dear Werner di Pablo Maqueda, che ripercorre la camminata da Monaco a Parigi nel 1974 di Herzog per Lotte Eisner. Dulcis in fundo, l’ex direttore Nanni Moretti ha già messo a disposizione il suo Sacher per proiettare parte dei film del festival.

Il Théâtre des Italiens a Parigi, la vera Rivoluzione di Verdi

T ra la fine del Settecento, specie in periodo rivoluzionario, e l’Ottocento, v’era a Parigi una miriade di teatri. Farne la storia richiederebbe volumi. C’interessa ora il Théâtre des Italiens (“degli Italiani”), in gergo detto “les Italiens”, ove si recava una certa società aristocratica e alto-borghese, dai gusti, per lo più, rivolti al “Bel Canto”, e quindi a Rossini, che ne fu Direttore e poi, a lungo, direttore occulto.

Pensiamo solo che les Italiens ospitò la prima esecuzione assoluta de I Puritani di Bellini, proprio sotto l’egida di Rossini, che l’amava moltissimo e lo istruì, per l’occasione, nei segreti dell’orchestrazione.

Gli “Italiani” vennero inaugurati con un decreto di Napoleone – “Primo Console” – del 1801. Chiusero definitivamente nel 1878, dopo la disfatta del nipote Imperatore, Napoleone III.

Il loro fine era quello di rappresentare Opere italiane, per lo più in lingua originale, in uno stile esemplare, con una generazione di ritardo. Vi passarono tutti, dai sommi (Rossini, Donizetti, Bellini, Mercadante), a ogni genere di minori.

Si capisce, perché Parigi era considerato il centro del mondo, persino sotto un Re despota, incapace, furbastro e ignominiosamente deposto come Luigi Filippo. Naturale che un altro Sommo, Verdi, ne venisse attirato.

Ne tratta un libro di grande importanza: Verdi e il Théâtre Italien di Parigi (1845-1856) di Ruben Vernazza (Libreria Musicale Italiana, 2019, euro 25). Ma Verdi era un’altra cosa. Aveva per culto l’assolvere le proprie obbligazioni; ed era inesorabile nel pretendere l’assolvesse la controparte. Di più: la sua altezza quale compositore venne così presto e così unanimemente riconosciuta (a parte il critico Fétis, che verso di lui occupò lo stesso ruolo di “cretino ufficiale” che Sainte-Beuve tenne verso Flaubert): che Verdi poteva permettersi di trattare simultaneamente anche con un teatro assai più grande degli Italiens, ritenuto il primo del mondo e detto in gergo l’Opéra, ossia l’Académie Royale (poi Imperiale) de Musique.

Infatti agli Italiens non piaceva. Fino al trionfo del Trovatore del 1854, mentr’egli ne preparava un’edizione in francese per l’Opéra.

Or quello di Vernazza non è solo un bel libro di storia della musica. L’Autore si è dovuto immergere nel fango di ricerche defatiganti e umilianti, fatte sui luoghi.

S’è occupato di strozzini, di cessioni del credito e del debito, di ufficî esercitati per interposta (talora incerta) persona, di corridoi ministeriali, e simile lordura.

Balzac morì assai presto, nel 1850; ma non solo le sue opere anteriori, anche quelle successive al 1840, dipingono un mondo: per capire il quale, prima di leggere il libro di Vernazza, occorrerebbe conoscere tutta la sua opera, come certo il mio giovane collega Ruben ha fatto. Il quale s’è dovuto anche procurare un’istruzione tecnica su di una materia allora (e per molto) fluttuantissima come il Diritto d’Autore.

Anche stavolta Verdi fa la grandissima figura di chi possiede tutti i pregi degl’Italiani senza averne i difetti. Una roccia, come Virgilio e Michelangelo.

Al Théâtre des Italiens tutti, nell’alternanza dei ruoli, dovettero maledire il giorno che l’avevano conosciuto. Eseguivano le Opere secondo il gusto dei cantanti e del pubblico: ti arriva uno che pretende un’interpretazione precisa del suo testo, a volte costretto a dirigerlo di persona, perché a Parigi nessuno era capace.

Altro che Rivoluzione del 1789!

Una confessione: con quest’articolo tento di sgravarmi la coscienza, dal momento che il mio Verdi a Parigi era in terze bozze quando quello di Vernazza uscì.

Non potetti farne menzione e nemmeno leggerlo.

Mi sarei chiarificato la vista come con un miracoloso collirio. Mi son dovuto accontentare di Balzac e Flaubert.

 

Come si può dimenticare Venezia. Ritratto di una città magica

Il più bel film di Franco Brusati si intitola Dimenticare Venezia, ma la sospirata, liberatoria gita di famiglia a Venezia non si farà mai. Dimenticare Venezia non si può, perché Venezia vive nel tempo, “acqua uguale tempo” scrive Josif Brodskij in Fondamenta degli incurabili. La si può perdere; ma allora, come per il tempo, l’unico modo per raggiungerla è ritrovarla.

Questo si considera, si vede e quasi si tocca con mano leggendo Ritrovare Venezia di Pier Luigi Pizzi con le fotografie di Lorenzo Capellini (Minerva). Parliamo dell’ultimo volume della collana “I luoghi dei sentimenti” nata per volontà del fotografo genovese, che appartiene a quella discendenza in via di estinzione di reporter intimamente letterari. Capellini è stato l’occhio vigile del mondo incantato di Parise, in Africa con Moravia quando i quotidiani dedicavano le terze pagine ai reportage (c’era una volta…); adesso si è inventato questo giro d’Italia d’autore, un volume per ogni regione.

Per ritrovare Venezia, ha scelto di passeggiare in compagnia dell’amico Pier Luigi Pizzi. La Fenice è il teatro amatissimo in cui Pizzi ha realizzato tante scene e regie; ma con la città c’è un legame più profondo, nato quando gli apparve per la prima volta a nove anni: “Durante il lento percorso sul Canal Grande, appena rischiarato dai rari lampioni, ebbi la netta sensazione di entrare in una scena di teatro”.

Difficile dire se sia caso o destino, ma da quella scena Pizzi non sarebbe più uscito. Venezia bisognerebbe scoprirla sempre da bambini, quando il confine tra il sogno e la realtà è mobile, tremulo come il respiro della laguna; meglio ancora se di notte, quando il sogno gioca in casa. In quella notte d’inverno sul Canal Grande, il bambino Pier Luigi Pizzi vide il destino che lo avrebbe portato sui palcoscenici di tutto il mondo.

Venezia ha di queste magie, di queste premonizioni ricorrenti come certi sogni: tappa dopo tappa, i ricordi di Pizzi e lo sguardo di Capellini tornano sulle vacanze del dopoguerra al Lido e a Burano, sui primi incarichi alla Fenice, sugli interventi a Palazzo Ducale e a Palazzo Mocenigo a San Stae, sugli alberghi storici come il Gritti del colonnello Richard Cantwell, sulle dimore private come Palazzo Contarini dalle Figure e l’attuale residenza di Palazzo Corner dei Tacchi in San Tomà. Non mancano topos come il caffè Florian, l’Harry’s Bar di Giuseppe Cipriani, i Frari, la Scuola di San Rocco, San Giorgio Maggiore, la Basilica della Salute…

Ma nelle pagine di Ritrovare Venezia, dove i testi si specchiano nelle immagini come una fondamenta si specchia nel suo canale, si cercherebbe invano un turista, un vaporino stracolmo di flash o una gondola intera, oltre il suo ferro di prua. Questa è una Venezia intima, eppure universale perché tornata sola con se stessa, come in quella lontana notte d’inverno. Venezia è anche la città delle coincidenze – le coincidenze, diceva il venezianissimo Alberto Ongaro, non sono solo coincidenze –, e l’ultima coincidenza di questo libro bifronte arriva alla fine della lettura, con l’ultimo ricordo e l’ultima immagine. Non sveleremo la favola, ma solo la morale: a volte troviamo qualcosa di prezioso senza averlo cercato, ma che proprio per questo ha trovato noi. Scena di teatro e scena della vita, in fondo, sono la stessa cosa.