Pechino e il Parlamento senza voce

L’ultimo attacco è stato sferrato da Pechino mercoledì, quando il comitato permanente del National People’s Congress, l’autorità più alta dell’assemblea legislativa cinese, ha approvato una nuova legge liberticida su misura per Hong Kong: dal consiglio legislativo dell’isola è bandito chiunque ne supporti l’indipendenza dalla Cina, rifiuti di riconoscerne la sovranità cinese e faciliti in qualsiasi modo “l’interferenza di paesi o entità straniere negli affari regionali’ o compia “azioni che mettono in pericolo la sicurezza nazionale”. Il governo-fantoccio di Hong Kong può “rimuovere“ direttamente, senza nemmeno un passaggio giudiziario, anche i legislatori che, a suo giudizio, ricadano in quelle categorie.

Bastano pochi minuti ai vertici politici di Hong Kong per applicare il diktat: 4 dei 19 rappresentanti pro democrazia del consiglio legislativo, la camera dei rappresentanti di Hong Kong, vengono immediatamente interdetti dall’ufficio. Durante una conferenza stampa, gli altri 15 hanno annunciato per oggi le loro dimissioni di massa, mentre il presidente dell’Hong Kong Democratic Party, Wu Chi-wai dichiarava ai giornalisti: ”Questa è la morte ufficiale del sistema ‘un Paese, due sistemi’”: il principio, concordato con il governo cinese quando il Regno Unito ha lasciato la ex colonia, che doveva garantire a Hong Kong, fino al 2047, autonomia da Pechino e libertà democratiche sconosciute in Cina. E invece, per la prima volta da allora, fra i 70 componenti dell’organo legislativo dell’isola non c’è nessuna voce dissenziente. “Abbiamo bisogno di una classe politica di patrioti” ha chiosato la governatrice filo-cinese Carrie Lam.

Il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha condannato la decisione come “nuovo attacco all’alto livello di autonomia e libertà di Hong Kong previsto dalla dichiarazione congiunta” del 1997. Mentre il governo Usa estende il numero di ufficiali cinesi soggetti a sanzioni, quello britannico ha appena confermato la creazione di un corridoio privilegiato, senza quote, per i residenti di Hong Kong con “passaporto britannico”, prima tappa per la cittadinanza.

Interventi non risolutivi: da quando, a giugno, Pechino ha imposto la “legge sulla sicurezza”, pretesto legale alla repressione di ogni dissenso democratico, l’autonomia di Hong Kong è solo un fantasma.

“La minaccia per l’Europa non è Putin, ma Erdogan”

La tregua in Nagorno Karabakh per molti osservatori è il frutto dell’asse Russia-Turchia e del rapporto fra il presidente Putin e l’omologo Erdogan. Gevorg Mirzayan, politologo di origine armena, ha una lettura più critica. E mette in guardia l’Europa.

Professore, sono in corso grandi manifestazioni a Erevan contro gli accordi di pace sul Nagorno-Karabakh definiti da molti armeni una ‘capitolazione’. Il premier Nikol Pashinyan rischia di cadere?

Credo di sì. Putin non ha una buona opinione di Pashinyan e non lo aiuterà. Inoltre la posizione interna del leader armeno è molto debole perché non ha fatto nulla perché non ci fosse questa sconfitta. Non ha preparato adeguatamente il Paese alla guerra, ha continuato a mantenere rapporti conflittuali con la Russia ed è apparso incerto durante il conflitto; mantiene un qualche consenso nel Paese, bisognerà vedere se basterà.

Francia e Usa restano fuori dagli accordi di pace nel Karabakh. C’è da immaginare che Biden e Macron non ne siano felici…

Questo è un loro problema. Più che dichiarazioni non hanno fatto: solo la Russia ha lavorato per una soluzione della crisi. Macron avrebbe potuto minacciare Erdogan di mandare le proprie truppe in Transcaucasia, ma alla fine non ha fatto nulla.

Dopo gli accordi di Astana sembrava che Putin e Erdogan dovessero diventare grandi alleati ma non mancano i terreni di scontro.

Gli interessi di Russia e Turchia divergono. Possono solo giungere ad accordi tattici come lo è questo nel Nagorno. Hanno l’interesse comune a tenere fuori gli americani dal Medio Oriente, ma Erdogan intende, allo stesso tempo, indebolire la Russia a casa sua creando consenso al suo progetto pan-ottomano in regioni facenti parte della Federazione, come nel Nord del Caucaso e parzialmente anche in Crimea. Putin ed Erdogan sono su fronti opposti del resto anche in Siria e Libia. Chi sembra perdere terreno è Mosca, ed è un paradosso perché una buona relazione è più vantaggiosa per Ankara, che diventa sempre più isolata sul piano internazionale.

Due leader dai caratteri molto diversi…

Erdogan e Putin giocano in modo diverso. Il presidente russo si concentra sugli scacchi cercando di studiare la situazione e le mosse degli avversari. Erdogan preferisce il poker, su molti tavoli, e spesso bluffa.

La Russia sul suo lato occidentale deve affrontare molte situazioni difficili. Le proteste in Bielorussia, il perdurante gelo ucraino, il possibile arrivo con le elezioni di domenica alla presidenza in Moldavia della candidata filo-occidentale. Quali sono le prospettive fra Unione europea e Russia?

Resteranno relazioni complicate. Ma gli europei e gli americani che gli sono dietro dovrebbero capire una volta per tutte che la Russia non è il nemico. Dove divergono le nostre posizioni? In Ucraina dove in realtà non si fa ancora nulla per risolvere le controversie? In Polonia, dove la Russia in realtà non minaccia in alcun modo i confini occidentali della Ue? La minaccia vera per l’Europa si chiama Erdogan ed è strano che non lo si voglia intendere. È Erdogan che minaccia fattivamente la Grecia, è Erdogan che vuole mettere le mani sulla Libia per controllare il suo petrolio e dirigere a suo piacimento il flusso dei migranti verso la Ue. È Erdogan che chiede la solidarietà in Europa a quei fondamentalisti islamici che uccidono inermi cittadini delle vostre città.

Intende dire che ci dovrebbe essere un fronte comune anti-Turchia?

Sì, e le faccio un’analogia storica: nel 1941 Francia, Urss e Gran Bretagna misero da parte le loro profonde divergenze per combattere contro il pericolo comune rappresentato dal nazismo. Certo oggi Erdogan non è Hitler, ma rappresenta comunque una minaccia che non va sottovalutata per la civiltà europea. Io spero che su questo aspetto tra Europa e Russia si possa trovare una lingua comune anche se finora la politica estera dell’Unione non è stata pragmatica.

Georgia, schede da ricontare: ma a Donald non basterà

Trump ha presentato ricorsi in Arizona, Georgia, Nevada, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin; per restare alla Casa Bianca dovrebbe vincere, oltre che in Arizona, in North Carolina e in Georgia e ribaltare i risultati in uno o più Stati dove l’avversario democratico, Joe Biden, è saldamente in testa. Per questo, l’annuncio che la Georgia riconterà a mano le schede, appare come un successo poco utile per i repubblicani. Nel Paese dei due presidenti, capita che entrambi celebrino, ignorandosi l’un l’altro, lo stesso rito alla stessa ora in luoghi diversi: nel Veteran Day, anniversario dell’armistizio della Grande Guerra, Donald Trump con la first lady Melania e Joe Biden con la moglie Jill depongono una corona d’alloro sulla tomba del milite ignoto ad Arlington e al monumento ai caduti di Filadelfia. Immagini di un Paese spaccato, dove il presidente in carica dedica le sue energie a fare fuori chi non gli è stato abbastanza fedele e a contestare l’esito del voto, mentre l’epidemia di coronavirus batte un record ogni giorno. Il numero dei degenti è più che raddoppiato da settembre a novembre e ha superato martedì il livello record del 15 aprile (61.964 contro 59.940). Per la Johns Hopkins University, il numero dei contagi, alle 12 di ieri sulla East Coast, superava i 10.290.000 e quello dei decessi i 240 mila.

Biden giudica il rifiuto del magnate di concedere la vittoria “imbarazzante”. Trump replica via Twitter: “La gente non accetterà queste elezioni truccate”. I democratici sono da ieri garantiti di conservare la maggioranza alla Camera, dove, però, a voti tutti contati, avranno una decina di seggi in meno degli attuali 232: la maggioranza è 218. Al Senato, ieri i repubblicani si sono aggiudicati i seggi incerti in North Carolina e Alaska e sono a quota 50 contro i 48 democratici, in attesa dei due ballottaggi in Georgia, il 5 gennaio.

Gina, una spia in scadenza. La “sua” Cia imbalsamata

Il destino del capo della Cia, Gina Haspel, potrebbe essere segnato, tra l’incudine di Donald Trump, pronto già dall’estate scorsa a farla fuori dopo esserne stato irritato in un paio di occasioni, e la poca stima che di lei nutre la neo-vicepresidente Kamala Harris. Sebbene a salvarla potrebbe pensarci il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, suo vecchio estimatore, con il quale Haspel ha avuto ieri un incontro in gran segreto a pochi giorni dalla destituzione del capo del Pentagono, Mark Esper.

Eppure, stando a quanto riportato dal capo commissione dell’intelligence, Marco Rubio, pare che anche questa volta Haspel possa scamparla, proprio grazie all’appoggio del capogruppo repubblicano McConnell. Le voci sulla destituzione del capo della Cia si inseguono da giorni, sebbene Rubio, così come molti altri, speri l’esatto opposto “per la stabilità dell’agenzia”, e anche per la stabilità del Paese che cadrebbe in un vuoto di leadership preoccupante nell’apparato di sicurezza nazionale durante le bizze di Trump contro la vittoria di Joe Biden. A tremare, in queste ore sarebbe infatti anche il capo dell’Fbi, Christopher Wray.

Gina Haspel, 63 anni, nota per i suoi legami con il regime di tortura della Cia in Thailandia, succeduta nel 2018 a Mike Pompeo, scelto da Trump come segretario di Stato, in realtà, ha rischiato già altre due volte almeno di essere fatta fuori da Trump. La prima quando non volle contestare pubblicamente i rapporti di intelligence secondo cui la Russia pagò i talebani per uccidere le truppe americane in Afghanistan. La seconda, che lasciò di sasso il presidente, quando non riuscì a screditare i rapporti sulle interferenze a favore di Trump di Mosca nelle elezioni del 2020, come già avvenuto nel 2016. Questo nonostante Haspel, consigliata da Pompeo, abbia imparato a ingraziarsi Trump cercando di restare fuori dal suo raggio d’azione. “Pompeo ha insegnato a Gina come interagire con lui”, ha spiegato Douglas London, ex ufficiale della Cia in pensione a The Intercept. “Le ha insegnato come non far arruffare le piume del presidente. Gina ha adottato lo stile utilizzato già da Pompeo con la Casa Bianca: non si turba il presidente rendendo così le cose migliori per la Cia. Questa è diventata la sua cartina tornasole nei rapporti con Trump”, secondo London. Tuttavia, mantenendo un basso profilo, la Cia ha continuato a raccogliere informazioni utili sugli sforzi della Russia di interferire nel voto, secondo quanto riferito a Intercept da un alto funzionario dell’intelligence. D’altro canto, però, secondo questi, il problema dei rapporti con il presidente si faceva evidente ogni volta che i risultati si condividevano con la Casa Bianca. La cautela eccessiva e l’inerzia della Cia guidata da Haspel, infatti, irritavano la macchina degli 007 che, tramite un alto funzionario, l’anno scorso ha fatto sentire la propria frustrazione perché il capo non aveva dato seguito alle proposte del Pentagono. Per non parlare poi dell’aggravarsi della situazione con la pandemia di Covid-19 che ha significato in alcuni casi bloccare il lavoro, non essendo plausibile, vista la mole di informazioni riservate da gestire, che i funzionari lavorassero in smart working.

Stretta tra l’incudine e il martello, Haspel non sarebbe riuscita comunque a placare l’ira di Trump perché non disposta a superare i limiti politicizzando l’agenzia, volendo invece salvaguardare la sua credibilità e quella della Cia evitando di supportare le bugie del capo di Stato come nel caso dell’attacco di The Donald al New York Times circa le rivelazioni sui talebani e l’esercito Usa.

In quell’occasione Trump, accusato di non aver protetto le truppe, si difese definendo fake news lo scoop del quotidiano e dichiarando di non essere mai stato informato della questione. Mentre i dem chiedevano briefing infuocati sul tema all’intelligence, Haspel decise di tacere. Ora però Gina ha un altro grattacapo: si chiama Kamala Harris, è la vicepresidente degli Stati Uniti e di lei non ha alcuna stima. È di maggio 2018 l’interrogazione condotta contro il neo-capo della Cia dall’allora senatrice circa i metodi di tortura illegali dell’agenzia. “Una passata alla griglia” rimasta nella storia, che ha contribuito alla notorietà della numero due di Biden, che, come i suoi colleghi di partito, ha visto la nomina di Haspel come una provocazione ai dem difensori dei diritti umani. Potrebbe essere arrivata l’ora della rivincita.

Just Eat resta sola: le altre app non assumono i propri rider

Deliveroo, Glovo e Uber Eats non seguiranno la scelta di Just Eat e non assumeranno come dipendenti i rider. Al massimo, sono disposti a concedere qualche diritto in più, ma con il contagocce e sempre mantenendo fermo l’inquadramento dei ciclo-fattorini come lavoratori autonomi.

Ieri è tornato a riunirsi il tavolo ministeriale sugli addetti delle piattaforme di consegna a domicilio. Un’occasione molto attesa per due motivi. Per la prima volta, oltre a Cgil, Cisl, Uil, Rider X i diritti e Rider Union Bologna era invitata l’Ugl, sigla che il 15 settembre ha firmato – unica tra i sindacati – il contratto con l’Assodelivery accettando tutte le condizioni al ribasso, a partire dalle paghe a cottimo. Inoltre, l’incontro è ricaduto pochi giorni dopo l’annuncio di Just Eat di riconoscere – a partire dal 2021 – il diritto alla subordinazione ai rider e di uscire quindi dall’associazione delle imprese datoriali del settore.

A differenza di quanto potevano sperare i più ottimisti, però, questo non ha creato un effetto domino. Le app rimaste in Assodelivery, insieme con l’Ugl, hanno difeso con fermezza l’accordo sottoscritto due mesi fa. Un contratto che è stato nettamente bocciato dal ministero con una lettera firmata dal capo dell’Ufficio legislativo Giuseppe Bronzini, tra l’altro intervenuto anche ieri per ribadire i problemi che presenta quel testo.

Assodelivery ha anche paventato la possibilità di una perdita di migliaia di posti nel caso dovessero essere costretti a trattare tutti i fattorini come dipendenti. Secondo le imprese, oggi danno lavoro a 30 mila persone: i sindacati contestano la stima, specificando che molti rider consegnano per piattaforme diverse, quindi non si può fare una semplice somma di account.

Dunque, solo Just Eat è disponibile a discutere sulle modalità di applicazione della subordinazione. Le altre proseguono dritto con il modello adottato finora. Il tavolo si riaggiornerà la prossima settimana e ci sarà una riunione che si concentrerà sul problema del caporalato digitale.

Reddito, altro che divanisti. Al lavoro in più di 350mila

Ve li ricordate tutti quegli imprenditori del turismo e dell’agricoltura che hanno trascorso le ultime estati a lamentarsi di quanto, “per colpa del Reddito di cittadinanza”, sia difficile trovare lavoratori? Ebbene, si scopre oggi che in realtà 352 mila beneficiari del sussidio hanno avuto negli ultimi 18 mesi almeno un rapporto di lavoro e una grossa fetta di essi l’ha trovato proprio in quei due settori: oltre 48 mila in bar, ristoranti e alberghi, altri 44 mila nell’agricoltura.

Gli ultimi dati dell’Agenzia per le politiche attive del lavoro (Anpal) smentiscono ancora una volta la tesi – che piace a molta grande stampa – secondo la quale il reddito di cittadinanza spinga chi lo riceve a restare a casa invece che attivarsi per trovare un posto. Tutto sintetizzato nella metafora del divano. Come confermato poche settimane fa dal direttore di Veneto Lavoro, le evidenze dicono il contrario, cioè che queste persone sono pronte ad accettare le proposte, anche le meno appaganti e anche con il rischio di perdere l’aiuto statale. Quando si firma un contratto, infatti, bisogna comunicarlo all’Inps che ricalcola l’importo mensile o addirittura lo revoca se il salario supera la soglia.

Al momento, su oltre tre milioni di percettori, sono quasi 1,4 milioni quelli obbligati per legge a cercare un’occupazione; gli altri 1,7 milioni, invece, sono tenuti solo a seguire un percorso coi servizi sociali comunali perché i problemi che li hanno spinti nell’indigenza non riguardano il lavoro. Fra i cosiddetti “avviabili” quindi, durante un periodo di crisi occupazionale, il 25,7% è riuscito a ricollocarsi almeno per un breve periodo. Questo non significa però un successo dei centri per l’impiego e dei navigator, poiché non c’è il dato sui posti effettivamente creati grazie alla loro intermediazione. Insomma, in molti casi – verosimilmente due terzi del totale – sono stati gli stessi utenti a trovarsi da soli un lavoro.

Nota bene: non è detto che queste persone ora non abbiano più bisogno del reddito di cittadinanza, per almeno due ragioni. La prima è che nel 65% dei casi si tratta di contratti a tempo determinato, inferiori a sei mesi di durata per la gran parte: al 31 ottobre solo 193 mila risultavano ancora attivi, tutti gli altri sono tornati disoccupati. Difficile che un lavoro a termine basti a uscire dalle difficoltà economiche. La seconda è che quasi sempre i ruoli offerti a queste persone dalle imprese richiedono basse qualifiche e prevedono, quindi, bassi stipendi.

A giugno la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova e il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini chiedevano di poter utilizzare nelle campagne chi prende il reddito per “sdebitarsi” con lo Stato del sostegno ricevuto. Un appello inutile, a quanto pare, visto che questi erano già disposti a lavorare nelle raccolte, bastava assumerli con regolare contratto.

Proprio i lavoretti stagionali di questa estate, peraltro, sembrano quelli che hanno permesso di compiere lo scatto in avanti nei numeri: mentre al 7 luglio i beneficiari del reddito con un lavoro erano 196 mila, nei successivi quattro mesi sono quasi raddoppiati, e tutto questo mentre l’emergenza Covid ha tramortito la domanda di lavoro. Resterà deluso anche chi pensa che i fannulloni dimorino prevalentemente nel Mezzogiorno: in Campania hanno trovato un posto in 61 mila, in Sicilia 54 mila, in Puglia 37 mila.

Ieri il presidente Anpal Mimmo Parisi, nonostante non ci sia correlazione evidente nei dati, parlando in commissione Lavoro alla Camera ha proposto una proroga di un anno per i navigator (che scadono ad aprile): “Potremmo utilizzare i 65 milioni di euro che sono avanzati”, ha detto. Ne è nato un botta e risposta a distanza con Matteo Renzi, che ha parlato di “follia” e ha chiesto di nuovo le dimissioni di Parisi.

Curiosamente, durante questo siparietto, sotto il ministero del Lavoro andava in scena l’ennesimo sciopero dei precari proprio dell’Anpal servizi, che chiedono da anni la stabilizzazione.

La caduta (finale) dell’America

Settantadue anni fa, con un’accorta combinazione di aiuti economici e manipolazione capillare, nasceva in Italia il mito dell’America vincitrice come luogo apicale dell’Occidente luminoso, contrapposto al cupo Oriente comunista dell’Unione Sovietica.

Prima d’allora, nell’immaginario collettivo italiano, l’America era stata solo l’approdo cafone del contadino povero emigrato dal Veneto o dalla Sicilia per farsi operaio benestante nel New Jersey o nel Michigan. Poi, nel ventennio fascista, era stata bollata come nostra rozza nemica, gemella peggiore della perfida Albione.

Il primo gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione repubblicana. Nei mesi successivi arrivò in Italia la prima metà dei 1.204 milioni di dollari elargiti dal piano Marshall e, con essi, diecine di “consiglieri” americani che avrebbero vigilato sugli affari politici ed economici del nostro Paese. Il 18 aprile dello stesso anno si tennero le elezioni politiche e la Democrazia Cristiana sconfisse il Fronte Popolare composto da comunisti e socialisti. Nella campagna propagandistica che precedette quelle elezioni, le due forze che affiancarono in misura determinante la Democrazia Cristiana furono il Vaticano di Pio XII, armato di madonne pellegrine, e l’America vincitrice di Harry Truman, armata di dollari e chewing gum.

Da Filadelfia, dove erano emigrati all’inizio del Novecento, i miei zii paterni ci fecero giungere una lettera dattiloscritta con cui si raccomandava vivamente di votare la Democrazia Cristiana, pena la totale subordinazione ai cosacchi della Russia di Stalin, la fame, l’ateismo e la perdita di ogni libertà. Lettera identica, come fosse una circolare, ricevettero tutti gli italiani che avevano parenti negli Stati Uniti. Così l’America vincitrice della guerra entrò nell’immaginario collettivo della maggioranza degli italiani sotto forma di mito impastato di opulenza, di neo-liberismo, di tecnologia, mercato, efficienza, Hollywood, Coca Cola e Jazz. Ma soprattutto come baluardo della democrazia e dell’Occidente.

Prima del 1948 si metteva persino in dubbio che l’America facesse parte dell’Occidente, data la sua propensione all’egoismo competitivo, il suo gangsterismo, la sua presunta barbarie culturale. Tutt’al più le si concedeva l’appellativo di “estremo Occidente”, formulato dal fascista Massimo Bontempelli, o si rincarava la dose parlando di “quel falso paradiso dell’estremo Occidente”, come preferiva Giorgio Pini, biografo del Duce. Com’è noto, il primo a dare agli europei un lucido resoconto critico della democrazia americana era stato Alexis de Tocqueville, che nel 1831 viaggiò per alcuni mesi negli Stati Uniti e poi ne descrisse il sistema socio-politico in due volumi pubblicati rispettivamente nel 1835 e nel 1840. Tocqueville, provenendo da un Paese ancora monarchico, restò colpito dalle istituzioni democratiche di un’America dove il Presidente veniva eletto dal popolo. Ma il sociologo francese era troppo acuto per non scorgere anche i limiti della società americana che, a suo avviso, erano soprattutto tre: l’alienazione dei lavoratori causata dalla divisione del lavoro; la crescente disuguaglianza tra datori di lavoro e operai; l’alienazione dei cittadini indotta dal consumismo. Ecco come egli mette a nudo l’alienazione dei lavoratori: “Quando un operaio si dedica continuamente e unicamente alla fabbricazione di un solo oggetto, finisce per svolgere questo lavoro con singolare destrezza; ma perde al tempo stesso la facoltà generale di applicare il suo spirito alla direzione del lavoro. Egli diviene ogni giorno più abile e meno industrioso e si può dire che in lui l’uomo si degradi via via che l’operaio si perfeziona. Cosa ci si potrà attendere da un uomo che ha impiegato vent’anni della sua vita a fare capocchie di spillo?”.

All’alienazione dell’operaio si aggiunge la disuguaglianza crescente tra lui e il suo padrone: “Mentre l’operaio è costretto sempre più a limitarsi allo studio di un solo particolare, il padrone allarga ogni giorno il suo sguardo su di un complesso più vasto; il suo spirito si estende mentre quello dell’altro si restringe. L’uno rassomiglia sempre più all’amministratore di un vasto impero, l’altro a un bruto”.

Altrettanto fulminante è la denunzia che Tocqueville sferra contro l’effetto alienante del consumismo: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di uomini eguali, che volteggiano su se stessi per procurarsi piaceri piccoli e meschini di cui si pasce la loro anima. Ognuno di essi, tenendosi in disparte, è come estraneo a tutti gli altri. Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare alle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua”.

Mai come in questi anni di Trump e in questi giorni di elezioni presidenziali, gli Stati Uniti ci sono apparsi così aderenti alla descrizione che ne fece Tocqueville due secoli orsono, così lontani dal mito in cui li aveva sublimati la Democrazia Cristiana, così difformi dall’ideale in cui la maggioranza degli italiani li ha vagheggiati e in cui essi stessi hanno amato identificarsi proclamandosi addirittura sentinelle della democrazia nel mondo, come Mussolini si era preteso annunziatore e difensore della libertà in Europa.

Delle tre potenze che oggi si confrontano sullo scacchiere mondiale, Russia e Cina si presentano ciascuna come un monolite compatto, governato da un vertice onnipotente, mentre l’America si ritrova costretta tra il passato quadriennio, governato da uno squinternato, e il prossimo quadriennio, dilaniato dalla contrapposizione radicale tra due porzioni di popolo, numericamente uguali.

Per settantadue anni abbiamo considerato gli Stati Uniti come la pepita d’oro della civiltà occidentale e ora la deludente performance di questa loro egemonia culturale, il loro allarmante infantilismo violento e armato, le crepe e i vuoti della loro macchina costituzionale, persino la loro difficoltà nel conteggiare i voti, ci lasciano sbalorditi perché rischiano di trascinare nel discredito l’intera civiltà occidentale.

Per gli italiani della mia età, persino per quelli di cultura marxista, l’egemonia degli Stati Uniti come punta avanzata dell’Occidente e la conseguente “americanizzazione” dell’Europa sono rimaste indiscusse per sette decenni dopo la guerra. Ma, intanto, crescevano i dubbi. A me li fece venire per primo lo scrittore americano Gore Vidal, con cui ho intrattenuto una lunga amicizia e che ha denunziato con coraggiosa tempestività le défaillances del sistema americano e i suoi tradimenti dei valori occidentali. Poi sono venuti segnali sempre più inquietanti: la persistenza della pena di morte, il rifiuto del welfare, la beffa nei confronti del riscaldamento del pianeta, le armi facili e le nevrotiche sparatorie inconsulte, 100 milioni di poveri, il 25% di tutti i detenuti del mondo, la sospensione dei diritti umani a Guantànamo per non parlare delle torture di Abu Ghraib, dei massacri di Mukaradeeb, Haditha e Kandahar; da ultimo, il populismo e il sovranismo asserragliati nella Casa Bianca.

Ce n’è di lavoro per Joe Biden se vuole rimontare la china! Per ora la misura è colma e l’Occidente ha buoni motivi per presentare il conto all’America. La prima a farlo, proprio in queste settimane, è quella stessa Chiesa Cattolica che all’Occidente americano si era aggrappata per sconfiggere il comunismo. Fratelli tutti, l’enciclica di Papa Francesco enunciata “ad Assisi, presso la tomba di San Francesco, il 3 ottobre, vigilia della festa del Poverello”, traccia un fossato incolmabile tra 1,4 miliardi di cattolici e il pensiero unico neo-liberista di cui l’America è alfiere.

Intanto l’Occidente aspetta che l’Europa, perenne Godot, riconquisti la sua leadership, nella speranza che Francis Fukuyama abbia torto e la storia non sia finita.

 

La legge di Bilancio monocamerale

È grazie a un articolo del manifesto se ieri abbiamo scoperto questo: “La legge di Bilancio sarà in Parlamento entro la fine della settimana”. È proprio il ministro per i Rapporti col Parlamento, il grillino Federico D’Incà, ad annunciarlo nella sede istituzionale più propria: il suo profilo Facebook. Dice: eh, ma la legge di Bilancio che fine ha fatto? Stante quanto diceva il ministro D’Incà, “in queste ore procede il confronto tra il Mef e le forze di maggioranza” (cioè quel che dovrebbe avvenire in Parlamento), il parto dovrebbe appunto avvenire entro sabato. La gestazione, però, è fuori misura: approvata “salvo intese” dal Consiglio dei ministri del 18 ottobre (sic), la manovra di finanza pubblica è sparita dai radar da tre settimane abbondanti, da quando l’Italia cioè non era ancora divisa per colori. Se si considera che per legge (sic) andrebbe depositata in Parlamento entro il 20 ottobre è forse chiaro che lo stato d’emergenza ormai è passato dal Covid-19 e zone limitrofe alla gestione dello Stato tout court. Dice infatti D’Incà: “È una situazione straordinaria” e comunque “abbiamo anche messo a punto due decreti Ristori” (bontà vostra). Dice: “Se fosse necessario un nuovo scostamento di bilancio il governo sarà pronto”. Riassunto: la situazione è brutta, stanno discutendo e non hanno neanche deciso se serve un nuovo scostamento di bilancio, cioè più soldi (che servono e arriveranno, ma tardi come al solito). Al che uno potrebbe chiedersi: ma fino ad ora esattamente di che avete parlato? D’altro. Scrive Il Sole 24 Ore: “La legge di bilancio è destinata ad arrivare alla Camera senza grosse variazioni rispetto all’architettura originaria”, ma le bozze “hanno accumulato circa 225 articoli per il traffico delle proposte ministeriali”. Il problema è che, per approvare tutto entro fine anno, i tempi sono troppo stretti e quindi si ricorrerà a una sorta di monocameralismo a geometria variabile: “Alla Camera toccherà quello che di fatto sarà l’unico passaggio della legge di bilancio, a Palazzo Madama ci sarà invece la sessione Ristori” (è in arrivo, dopo i primi due, il terzo decreto). Il coronavirus ormai è Padre costituente e non gli serve nemmeno il referendum confermativo: pensate Renzi quanto rosica…

Mussolini, altro che ebraico: quel cognome è solo contadino

Sono sempre interessanti le divagazioni sull’origine ebraica di Benito Mussolini (qualcuno disse anche araba, la mussolina…) però, penso, decisamente “aeree”. In realtà i soliti pazienti canonici hanno ricostruito l’intero albero genealogico dei Mussolini (riportato nel mio libro Il fabbro di Predappio, Mulino 2010) partendo dal 1645 e dalla zona di Civitella di Romagna: capostipite un certo Paolo Mucciolini, contadino, proveniente dalla frazione di Mucciolino, in dialetto Musslèn e forse nato a Calboli di Rocca San Casciano nel 1620. Mucciolini il cognome originario. Dopo di lui viene Francesco Mussolini, contadino a Calboli di Rocca San Casciano. C’è una interruzione dei contadini Mussolini: Paolo infatti risulta sergente della Milizia delle Bande (Calboli, 1701-79). Si riprende con Giacomo Antonio, piccolo proprietario a Montemaggiore di Predappio Alta (1805-1842), dove gli succede il figlio Luigi Mussolini (1834- 1908) che scade nel 1908 da piccolo proprietario a bracciante stagionale riempiendosi di debiti anche per curare la moglie Caterina (conservo una lettera autografa dell’arciprete che cerca di aiutarlo), sorella di un mio bisnonno Antonio invece apprezzato fattore dei Paulucci de’ Calboli (famiglia poi di martiri antifascisti). Tanto che il figlio Alessandro (1854- 1910) è dunque il primo dei Mussolini a non apprendere il mestiere di contadino, ma quello di fabbro ferraio. La seconda officina dove impara è retta da artigiani anarchici e lui si fa anarchico e poi socialista rivoluzionario facendo pure (bene) il sindacalista e l’assessore a Predappio Alta, perseguitato, incarcerato. Muore poi a Forlì dove ha aperto un’osteria. Al funerale il figlio Benito ancora socialista massimalista di lui dirà: “Ci lascia un tesoro: l’Idea!”. E che in quel 1910 l’idea fosse ancora, magari confusamente, socialista non v’era dubbio.

Virus, la mutazione è più “cattiva”

Il “mostro” non si arrende e si manifesta ancora con tutte le sue peggiori armi. Mentre la storia ci riferisce epidemie e pandemie che nel tempo, grazie alle mutazioni del virus che le ha prodotte, si sono estinte, studi recenti di genotipizzazione ci hanno dimostrato che non sta accadendo così per SarsCoV2. Per mesi ci siamo meravigliati perché il virus che ci sta affliggendo non mutava. Siamo rimasti in attesa che si facesse avanti una mutazione, dando per scontato, come ci insegna la Virologia, che questa avrebbe reso la pandemia meno aggressiva fino ad estinguersi. Le mutazioni sono arrivate, ma nulla di quanto ci saremmo aspettati. Recenti studi hanno evidenziato ben cinque varianti (19A, 19B, 20A, 20B e 20C). Circolano in Italia e studi in corso ne stanno verificando la circolazione in Europa. Anche se non si conosce l’effetto di ciascuna mutazione, certamente i virus che le presentano non sono affatto più “deboli”. Nel frattempo ecco arrivare un’altra notizia su una ulteriore variante che si sta manifestando nei visoni. La prima osservazione è stata fatta in Belgio in circa un migliaio di esemplari. Oggi si pensa che il virus abbia già infettato decine di migliaia di visoni, e molti di questi sono stati esportati in altri Paesi, compresa l’Italia. Il virus con la nuova mutazione si diffonde molto rapidamente ed ha già imparato ad infettare l’uomo. Un salto di specie così rapido è quasi un evento unico. Oltre ad una aggressività ancora tutta da valutare, questo “nuovo mostro” potrebbe vanificare terapie e profilassi che sono in studio. Mi riferisco agli anticorpi monoclonali ed ai vaccini, in particolare. Se la (o le) mutazione (i) dovesse(ro) risultare localizzata proprio nella parte di virus utilizzato come target del vaccino, gli studi e le prove fatte fino ad oggi sarebbero da cestinare, così come le terapie immunologiche. Si fa veramente fatica ad essere ottimisti.