Settantadue anni fa, con un’accorta combinazione di aiuti economici e manipolazione capillare, nasceva in Italia il mito dell’America vincitrice come luogo apicale dell’Occidente luminoso, contrapposto al cupo Oriente comunista dell’Unione Sovietica.
Prima d’allora, nell’immaginario collettivo italiano, l’America era stata solo l’approdo cafone del contadino povero emigrato dal Veneto o dalla Sicilia per farsi operaio benestante nel New Jersey o nel Michigan. Poi, nel ventennio fascista, era stata bollata come nostra rozza nemica, gemella peggiore della perfida Albione.
Il primo gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione repubblicana. Nei mesi successivi arrivò in Italia la prima metà dei 1.204 milioni di dollari elargiti dal piano Marshall e, con essi, diecine di “consiglieri” americani che avrebbero vigilato sugli affari politici ed economici del nostro Paese. Il 18 aprile dello stesso anno si tennero le elezioni politiche e la Democrazia Cristiana sconfisse il Fronte Popolare composto da comunisti e socialisti. Nella campagna propagandistica che precedette quelle elezioni, le due forze che affiancarono in misura determinante la Democrazia Cristiana furono il Vaticano di Pio XII, armato di madonne pellegrine, e l’America vincitrice di Harry Truman, armata di dollari e chewing gum.
Da Filadelfia, dove erano emigrati all’inizio del Novecento, i miei zii paterni ci fecero giungere una lettera dattiloscritta con cui si raccomandava vivamente di votare la Democrazia Cristiana, pena la totale subordinazione ai cosacchi della Russia di Stalin, la fame, l’ateismo e la perdita di ogni libertà. Lettera identica, come fosse una circolare, ricevettero tutti gli italiani che avevano parenti negli Stati Uniti. Così l’America vincitrice della guerra entrò nell’immaginario collettivo della maggioranza degli italiani sotto forma di mito impastato di opulenza, di neo-liberismo, di tecnologia, mercato, efficienza, Hollywood, Coca Cola e Jazz. Ma soprattutto come baluardo della democrazia e dell’Occidente.
Prima del 1948 si metteva persino in dubbio che l’America facesse parte dell’Occidente, data la sua propensione all’egoismo competitivo, il suo gangsterismo, la sua presunta barbarie culturale. Tutt’al più le si concedeva l’appellativo di “estremo Occidente”, formulato dal fascista Massimo Bontempelli, o si rincarava la dose parlando di “quel falso paradiso dell’estremo Occidente”, come preferiva Giorgio Pini, biografo del Duce. Com’è noto, il primo a dare agli europei un lucido resoconto critico della democrazia americana era stato Alexis de Tocqueville, che nel 1831 viaggiò per alcuni mesi negli Stati Uniti e poi ne descrisse il sistema socio-politico in due volumi pubblicati rispettivamente nel 1835 e nel 1840. Tocqueville, provenendo da un Paese ancora monarchico, restò colpito dalle istituzioni democratiche di un’America dove il Presidente veniva eletto dal popolo. Ma il sociologo francese era troppo acuto per non scorgere anche i limiti della società americana che, a suo avviso, erano soprattutto tre: l’alienazione dei lavoratori causata dalla divisione del lavoro; la crescente disuguaglianza tra datori di lavoro e operai; l’alienazione dei cittadini indotta dal consumismo. Ecco come egli mette a nudo l’alienazione dei lavoratori: “Quando un operaio si dedica continuamente e unicamente alla fabbricazione di un solo oggetto, finisce per svolgere questo lavoro con singolare destrezza; ma perde al tempo stesso la facoltà generale di applicare il suo spirito alla direzione del lavoro. Egli diviene ogni giorno più abile e meno industrioso e si può dire che in lui l’uomo si degradi via via che l’operaio si perfeziona. Cosa ci si potrà attendere da un uomo che ha impiegato vent’anni della sua vita a fare capocchie di spillo?”.
All’alienazione dell’operaio si aggiunge la disuguaglianza crescente tra lui e il suo padrone: “Mentre l’operaio è costretto sempre più a limitarsi allo studio di un solo particolare, il padrone allarga ogni giorno il suo sguardo su di un complesso più vasto; il suo spirito si estende mentre quello dell’altro si restringe. L’uno rassomiglia sempre più all’amministratore di un vasto impero, l’altro a un bruto”.
Altrettanto fulminante è la denunzia che Tocqueville sferra contro l’effetto alienante del consumismo: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di uomini eguali, che volteggiano su se stessi per procurarsi piaceri piccoli e meschini di cui si pasce la loro anima. Ognuno di essi, tenendosi in disparte, è come estraneo a tutti gli altri. Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare alle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua”.
Mai come in questi anni di Trump e in questi giorni di elezioni presidenziali, gli Stati Uniti ci sono apparsi così aderenti alla descrizione che ne fece Tocqueville due secoli orsono, così lontani dal mito in cui li aveva sublimati la Democrazia Cristiana, così difformi dall’ideale in cui la maggioranza degli italiani li ha vagheggiati e in cui essi stessi hanno amato identificarsi proclamandosi addirittura sentinelle della democrazia nel mondo, come Mussolini si era preteso annunziatore e difensore della libertà in Europa.
Delle tre potenze che oggi si confrontano sullo scacchiere mondiale, Russia e Cina si presentano ciascuna come un monolite compatto, governato da un vertice onnipotente, mentre l’America si ritrova costretta tra il passato quadriennio, governato da uno squinternato, e il prossimo quadriennio, dilaniato dalla contrapposizione radicale tra due porzioni di popolo, numericamente uguali.
Per settantadue anni abbiamo considerato gli Stati Uniti come la pepita d’oro della civiltà occidentale e ora la deludente performance di questa loro egemonia culturale, il loro allarmante infantilismo violento e armato, le crepe e i vuoti della loro macchina costituzionale, persino la loro difficoltà nel conteggiare i voti, ci lasciano sbalorditi perché rischiano di trascinare nel discredito l’intera civiltà occidentale.
Per gli italiani della mia età, persino per quelli di cultura marxista, l’egemonia degli Stati Uniti come punta avanzata dell’Occidente e la conseguente “americanizzazione” dell’Europa sono rimaste indiscusse per sette decenni dopo la guerra. Ma, intanto, crescevano i dubbi. A me li fece venire per primo lo scrittore americano Gore Vidal, con cui ho intrattenuto una lunga amicizia e che ha denunziato con coraggiosa tempestività le défaillances del sistema americano e i suoi tradimenti dei valori occidentali. Poi sono venuti segnali sempre più inquietanti: la persistenza della pena di morte, il rifiuto del welfare, la beffa nei confronti del riscaldamento del pianeta, le armi facili e le nevrotiche sparatorie inconsulte, 100 milioni di poveri, il 25% di tutti i detenuti del mondo, la sospensione dei diritti umani a Guantànamo per non parlare delle torture di Abu Ghraib, dei massacri di Mukaradeeb, Haditha e Kandahar; da ultimo, il populismo e il sovranismo asserragliati nella Casa Bianca.
Ce n’è di lavoro per Joe Biden se vuole rimontare la china! Per ora la misura è colma e l’Occidente ha buoni motivi per presentare il conto all’America. La prima a farlo, proprio in queste settimane, è quella stessa Chiesa Cattolica che all’Occidente americano si era aggrappata per sconfiggere il comunismo. Fratelli tutti, l’enciclica di Papa Francesco enunciata “ad Assisi, presso la tomba di San Francesco, il 3 ottobre, vigilia della festa del Poverello”, traccia un fossato incolmabile tra 1,4 miliardi di cattolici e il pensiero unico neo-liberista di cui l’America è alfiere.
Intanto l’Occidente aspetta che l’Europa, perenne Godot, riconquisti la sua leadership, nella speranza che Francis Fukuyama abbia torto e la storia non sia finita.