Scuola, l’Iss: “La fascia 14-18 è la più a rischio”

Da noi arriva la conferma che a essere più debole è la fascia “più anziana” della popolazione studentesca, mentre in Germania parlano di “lockdown-salame” perché riguarderebbe solo alcune fette della scuola. E partiamo da qui. Secondo i dati della Bild, elaborati da quelli dell’Associazione federale insegnanti, sono 300 mila gli scolari tedeschi in quarantena e 30 mila gli insegnanti, su un totale di 11 milioni di alunni e 800 mila docenti. Il passo successivo – al momento divisivo nel Paese – per la ministra dell’Istruzione federale, Anja Karliczek, potrebbe essere l’uso delle mascherine in classe anche alle elementari. Fare il raffronto con l’Italia potrebbe essere possibile, ma purtroppo non ci sono ancora dati ufficiali e dunque anche le decisioni che vengono prese al momento o le richieste che vengono avanzate non ne tengono conto. Come per quelli tedeschi, però, qualche monitoraggio arriva da osservatori di “settore”: il sindacato Unsic, ad esempio, ieri stimava almeno 105 mila casi complessivi, di cui circa l’80% tra studenti. Resta, ovviamente, il problema generale: come per il dato complessivo dei contagi non è possibile ricostruire l’iter attraverso cui sono avvenuti, non si può dire se quei numeri rappresentino contagi avvenuti tra i banchi. Ed è anche questo il motivo per cui ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro ha giustamente parlato di “fascia di rischio” nell’incontro tra il premier Giuseppe Conte e i capi delegazione della maggioranza, sostenendo che sul fronte scuola la più critica sia quella che va dai 14 ai 18 anni. Una rassicurazione che si spera lasci invariato lo status quo (didattica a distanza alle superiori ovunque, elementari e medie in presenza nelle zone gialle e solo elementari e prima media nelle zone arancioni e rosse) senza assecondare le istanze di chiusura totale, o comunque di tutte le medie, che continuano ad arrivare da alcuni ministri e da quasi tutto il Pd.

La scuola resta insomma osservata speciale e la ministra Lucia Azzolina continua a sostenere la necessità che possa beneficiare dei test rapidi chiesti da mesi e ora ordinati dal commissario Arcuri (13 milioni). “È importante velocizzare le procedure. La scuola è un formidabile strumento di tracciamento” ha detto rispondendo a chi non crede sia un’attività produttiva: “È la principessa delle attività produttive, e chiudendo si rischia un vero e proprio disastro educativo, sociologico, formativo, psicologico”. Come dire: anche in un lockdown totale potrebbe forse essere l’unica attività da tener aperta.

Intanto a Torino, Lisa e Anita, due studentesse della scuola media Italo Calvino di via Sant’Ottavio, hanno deciso di manifestare contro la chiusura sedendosi con un banco – mascherina sul volto – davanti all’istituto e seguendo da lì con un tablet la lezione a distanza. E ieri la ministra ha telefonato proprio ad Anita, assicurandole di star facendo “tutto il possibile per tenere gli istituti aperti e permettere anche ai più grandi di rientrare, tenendo conto della situazione epidemiologica”. Ha parlato anche la madre: “Ho due figli e sono convinta che entrambe le scuole che frequentano siano luoghi sicuri – le ha detto – Continui a lottare per le scuole aperte”.

L’epidemia frena. Ma morti e ricoveri al livello di aprile

Il classico bicchiere può essere mezzo pieno o mezzo vuoto. Tutto dipende dallo sguardo che si sceglie per osservare i numeri dell’epidemia di Covid oggi in Italia. In realtà, a guardarlo dalle corsie di un ospedale, il bicchiere sarebbe ampiamente in frantumi a terra; tuttavia esistono le fredde statistiche che suggeriscono allarmi e moderati ottimismi.

Partiamo dal consueto bollettino. Ieri i nuovi casi registrati in Italia sono stati 32.961 (poco più di un migliaio in meno di ieri), cifra che porta il totale dall’inizio dell’epidemia sopra la soglia psicologica del milione di contagi (1.028.424 casi). I tamponi sono stati 225.640, quasi ottomila in più rispetto a martedì, il che ha abbassato in 24 ore dal 16,1% al 14,6% il tasso di positività. Questa percentuale, tuttavia, calcola l’incidenza dei positivi sul totale dei tamponi effettuati, non su quello dei soggetti testati. Se così fosse il tasso di positività sarebbe circa dieci punti più alto.

Ed è alla progressione dei contagi che, nonostante numeri sempre molto alti, volge lo sguardo chi cerca il bicchiere mezzo pieno. La percentuale di incremento settimanale è in netta discesa.

Tra il 4 e il 10 novembre i nuovi casi sono stati 235.660 contro i 195.068 dei sette giorni precedenti, pari a un incremento del 25,6%. Nella settimana precedente l’incremento era stato del 49,7% e prima ancora, per tre volte di seguito, aveva raggiunto o sfiorato il 100%. La stessa progressione si osserva se si confrontano le giornate di venerdì, tradizionalmente le peggiori: il 3 ottobre i nuovi contagiati furono 2.844, il 10 ottobre 5.724 (+101.3%); il 17, 10.925 (+90.9%); il 24, 19.644 (+79.8%); il 31, 31.758 (+61.7%); il 7 novembre, 39811 (+25.4%). Siamo quindi passati da una crescita settimanale del 100% della prima metà di ottobre, a una del 70% la settimana della seconda metà di ottobre fino al 25% della prima settimana di novembre.

L’epidemia sta rallentando, anche grazie alle misure restrittive introdotte dai dpcm e dalla maggiore cautela della popolazione? Può essere. Oppure – e qui entra in gioco la schiera dei pessimisti del bicchiere mezzo vuoto – il tracciamento ormai in tilt farebbe perdere per strada molti contagi. Uno scenario suggerito anche (ma il tema è controverso) dalla forte crescita dei decessi. Ieri i morti sono stati 623. era dal 6 aprile (623 vittime) che non si registrava un numero così alto.

E qui passiamo al bicchiere in frantumi, perché la situazione negli ospedali – come la classe medica da giorni denuncia – non accenna a dare tregua. I nuovi ricoverati con sintomi sono stati ieri 811, cifra che porta il numero degli attualmente degenti a 29.444 persone: il precedente record dei 29.060 ricoverati del 6 aprile è dunque superato. Quanto ai malati in terapia intensiva, con i 110 ricoverati nelle ultime 24 ore, il totale sale a 3.081 persone; il picco dei 4.068 del 3 aprile si avvicina. Da allora la disponibilità di terapie intensive è aumentata, ma la soglia critica del 30% di occupazione dei posti letto (se calcolato sulle postazioni effettivamente operative) è stata superata.

Secondo i dati elaborati dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) la media nazionale è al 37%. In cima alla “lista nera” l’Umbria, che ha toccato ormai il 57% di saturazione dei suoi posti letto di intensiva, seguita da Piemonte (56%), Provincia autonoma di Bolzano e Lombardia al 54%.

Ed è sempre la Lombardia (ieri 8.180 nuovi casi e 152 morti) la regione più colpita. Seguono Campania (3.166, 34), Veneto (3.083, 46) e Piemonte (2.953, 84). E proprio il Piemonte desta le maggiori preoccupazioni. In quasi tutte le regioni, come da dato nazionale, si osserva una frenata settimanale dei nuovi casi. Il Piemonte la riduzione è molto meno accentuata: +45,4% nell’ultima settimana contro il 12,3% della Lombardia.

Il governo “militarizza” Napoli e discute la stretta nel weekend

Il grosso della riunione è ancora tutto dedicato a lei, la Campania, la regione che secondo i famosi 21 parametri è ancora gialla, ma che tutti ormai sanno essere fuori controllo, con un paziente sospetto Covid trovato morto ieri nei bagni dell’ospedale Caldarelli. Così Giuseppe Conte, ieri, è arrivato a dire una frase che sa di guerra: “Noi siamo lo Stato, dobbiamo dare un segnale”. Il segnale arriverà presto, e si presenterà in mimetica: l’esercito, l’ultima spiaggia per provare ad affrontare la pandemia che non si ferma.

I militari a Napoli serviranno a dare sostegno alle strutture sanitarie, non solo allestendo ospedali da campo, ma fornendo quel personale medico e infermieristico che il presidente Vincenzo De Luca ha chiesto negli ultimi giorni. Non si aspettavano, in Campania, che servisse anche montare le tende per ospitarli, ma è evidente che gli uomini della Difesa hanno modalità organizzative emergenziali, anche se rischiano di guastare l’immagine dell’amministrazione dem. L’unica – al netto dell’istituzione di alcune possibili zone rosse comunali – che non ha intenzione di emanare ulteriori ordinanze restrittive, come invece faranno oggi le altre tre Regioni “attenzionate” dal ministero della Salute. Emilia Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia sono pronte a varare in giornata dei provvedimenti anti-assembramento, ovvero norme per evitare ritrovi di persone, in particolare per strada e nei dehors dei bar.

Lo farà il Pd Stefano Bonaccini, ma pure i leghisti Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. Il primo assai colpito dall’ordinanza con cui il sindaco di Verona ha dovuto mettere il senso unico per alcune (affollatissime) vie pedonali del centro. L’altro stanco di vedere persone consumare in piedi nei bar, vicini e senza mascherina. Sono gli ultimi passi prima del lockdown, dice Bonaccini, che vuole evitare “scuole chiuse e attività limitate all’essenziale”. Lo stesso che va ripetendo il governo, almeno per ora: Conte vuole aspettare, non vuole nuove misure nazionali perché “il dpcm funziona e quindi non si tocca”, ma intende insistere sulla strada del “dialogo” con le Regioni, intendendo per dialogo la “moral suasion” a restringere dove serve. Resta sul tavolo però l’ipotesi di ulteriori restrizioni per il weekend, caldeggiate anche dal capodelegazione M5S Alfonso Bonafede, convinto che almeno per la domenica debbano prevedersi norme che limitino pranzi e spostamenti. Ma – per usare le parole del ministro Francesco Boccia, Pd – “il lockdown come quello di marzo non lo avremo e non ce lo possiamo permettere, il Paese non reggerebbe. Questo – aggiunge – non vuol dire escludere rigorosi lockdown territoriali”.

La discussione è riaggiornata e terrà conto anche delle iniziative che arriveranno da governatori e sindaci e che potranno contribuire a quel “lockdown leggero” a cui vuole ispirarsi Palazzo Chigi. Il Viminale ha sollecitato la chiusura dei luoghi di maggiore assembramento e il sottosegretario all’Interno Achille Variati ha parlato di un “patto” con i sindaci, assicurando la collaborazione dei prefetti. Patto, va detto, che nelle ultime ore pareva ancora lontano, visto che molti amministratori, tra cui la Cinque Stelle sindaca di Torino Chiara Appendino – che pure è nel “rosso” Piemonte – ribadivano la loro contrarietà a chiudere vie e piazze perché “non serve a niente”. È quello che ha ribadito ancora ieri il primo cittadino di Napoli Luigi de Magistris: “Il problema diventa il cittadino che cammina con la mascherina o il sindaco che non chiude il lungomare”, ha detto, per poi aggiungere: “Io ho capito qual è il giochetto, quindi venerdì farò un provvedimento con il quale daremo un segnale molto forte a chi ci vuole prendere in giro”.

Aperitivisti e ultrà dei cenoni. No, non andrà tutto bene…

“Non ne usciremo migliori” e “non andrà tutto bene”. Gli hashtag che imperversavano durante la prima ondata, oltre a portare sfiga quanto il “vinciamo noi” con cui i 5 Stelle si gambizzarono da soli prima delle Europee 2014, son già passati di moda. Il paese è incarognito e spesso neanche ci prova più a dare il meglio di sé. Durante il lockdown di primavera il Paese ha perlopiù rispettato le regole, un po’ perché è stato bravo e un po’ (soprattutto) perché ha avuto paura di morire. Adesso vige invece un terrificante “liberi tutti” mentale. Ognuno si costruisce nella propria testa il proprio virologo di riferimento e, sulla base di speranze e credenze personalissime, fa tutto quello che gli pare e piace. Per poi dare la colpa al governo. Una sorta di tragicomico “Piove, Covid ladro!” imperante. Ecco una carrellata di alcuni italiani (non) brava gente.

Noncenècoviddisti. Sono quelli che, d’estate, hanno riso di fronte alle parole irricevibili di una donna che – in un paese normale – andava dimenticata subito. Da noi invece è diventata pure famosa. Ora tal “Angela da Mondello” fa l’influencer e a tempo perso la “cantante”. Organizza videoclip e assembramenti, e quando (giustamente) la convocano in questura fa la martire su Instagram. Ennesima irrinunciabile creatura regalataci da Barbara D’Urso, qualcuno si è pure tatuato la frase “Non ce n’è Coviddì”. Se una così è diventata famosa, vuol dire che in tanti amano ignoranza e menefreghismo. Cosa potrà salvarci da tutto questo sfacelo? Un meteorite, verosimilmente.

Pappalardisti. Sono i negazionisti, i complottisti, i no mask, i no vax, i gilet arancioni e tutti quei casi umani allo stato brado che da mesi latrano sempre sui social e talora financo in piazza. Basaglia ha fallito.

Discotecari. Siamo un paese così straordinario che, nel pieno di una pandemia mondiale, abbiamo dovuto sopportare per settimane gente tipo Briatore e Santanché che si lamentava perché “Conte non ci fa ballare”. Lasciando stare eventuali implicazioni giuridiche e rimandando all’ultima puntata di Report, basti qui dire che anche solo parlare di discoteche aperte dentro una pandemia denota uno straziante gap neuronale. Purtroppo, d’estate, in discoteca ci sono andati in tanti. Segno che l’idiozia colpisce all’apice, ma pure alla base.

Salvinisti. Votare Lega è una perversione come un’altra. Ne conosco di migliori (praticamente tutte), ma ognuno coltiva le deviazioni che può. Quel che risulta allucinante, ed è accaduto per tre mesi, è rischiare la vita per partecipare a un comizio del Cazzaro Verde. Assembramenti, poche mascherine, tanti selfie e troppe mani non lavate. Quanto bisogna volersi male per rischiare la vita per una foto balorda con Salvini?

Pranzocenisti. Sono quelli che “toglietemi tutto, ma non il mio cenone”. Guai a dirgli di rispettare le regole anche in casa, perché “quando chiudo la porta faccio il cazzo che voglio”. E se ne vantano pure, ‘sti citrulli. Sono già sul piano di guerra perché a Natale non potranno invitare 87 parenti. Mica l’hanno ancora capito che quegli 87 parenti stanno già ringraziando la pandemia: almeno una volta nella vita, avranno una scusa buona per evitare quelle immani rotture di palle che sono i “pranzi obbligati” di sei ore e seimila calorie.

Aperitivisti. Sono quelli che, anche lo scorso weekend, hanno riempito piazze e lungomare. Darebbero la vita per uno spritz di contrabbando.

Provocatori. Sono per esempio quelli che tengono aperti i ristoranti nonostante le regole. Invitano qualche amico, meglio ancora se famoso, per fare un po’ di casino. Poi postano le foto sui social facendo i fighi. E alla fine frignano come poppanti quando gli arriva la multa. Che Guevara deboli in tempo di pensieri debolissimi.

Minimizzatori. Sono quelli che “sì, okay, il Covid c’è. Però non esageriamo”. Pericolosi, colpevoli e quasi sempre in malafede.

Melonisti. Non scaricano la app Immuni. Non volevano a luglio il protrarsi dello stato di emergenza. Speravano che il governo si ispirasse anche sotto la pandemia al “modello Trump”. E ancora parlano.

Bassettisti. Sfoggiano teorie fantasiosissime, tipo che “la seconda ondata non ci sarà”, “è colpa di chi terrorizza”, “manca l’ottimismo” e via così. Guardano solo Rete4. E se mai si trovassero dentro una terapia intensiva, e speriamo che non accada mai, sarebbero i primi a invocare la mamma. Piangendo come viti tagliate.

Autocertificazionisti. Escono con l’autocertificazione in tasca e le motivazioni più ardite. Può essere il firmacopie di Elettra Lamborghini, oppure il torneo di burraco con Porro e Palù. Meglio ancora il campionato indoor dei 100 metri sulla ghiaia – a piedi nudi – per fortificare corpo e spirito. Di sicuro escono. Sempre. Con le regioni gialle, arancioni, rosse o fucsia. Escono. Belli come un tramonto su una discarica, invincibili come una Duna in salita e moralmente puri come il buon vecchio Marcinkus. Escono. Se ne fregano. E a causa loro sarà ancora più dura per tutti.

Strada dei parchi, viadotti pericolosi per chi guida: indagati i manager

Avevano l’obbligo di provvedere alla manutenzione dei viadotti autostradali, alle impermeabilizzazioni, alle protezioni anticorrosive, e anche quello di comunicare al Ministero i dati, i rendiconti necessari per le verifiche. Ma non l’hanno fatto, abbandonando al più completo degrado i viadotti di Popoli, Bussi, Gole di Popoli e Svincolo di Bussi nel tratto pescarese della A-25, mettendo in pericolo la sicurezza degli automobilisti e consentendo alle auto di continuare a circolare come se nulla fosse, e col rischio che accadesse l’irreparabile.

È attentato alla sicurezza dei trasporti secondo la procura di Pescara che dopo quella dell’Aquila ha concluso le indagini e spedito sette avvisi di garanzia ai vertici di Strada dei Parchi, controllata dalla Holding di Carlo Toto. Lelio Scopa, Cesare Ramadori, Gino Lai, Marco Carlo Rocchi, Mio Bellesia, Gabriele Nati e Marco Pellicciardi sono tutti responsabili a vario titolo delle condizioni di precarietà dei viadotti autostradali e dovranno rispondere anche di inadempimento contrattuale nei confronti dello Stato, aggravato dal fatto che i lavori riguardavano opere stradali che avevano l’obiettivo di prevenire incidenti. I carabinieri forestali hanno trovato fratture nel cemento, i supporti di metallo che fungono da appoggio completamente ossidati, gli impalcati e le solette ammalorati, il calcestruzzo disgregato e, così come aveva segnalato nella sua denuncia alla procura il Forum H2O, i discendenti pluviali danneggiati. insomma viadotti che rischiavano di sbriciolarsi.

Ma non si limitavano a non provvedere all’ordinaria manutenzione, a non mettere in sicurezza i viadotti, facevano di più e peggio i vertici della società che gestisce le autostrade: per mesi hanno fornito informazioni e dati “insufficienti e generici al Ministero dei Trasporti” che hanno impedito ogni tipo di verifica e controllo e che hanno determinato un danno allo Stato di notevole entità.

Insomma, poteva succedere di tutto. Ora rischiano da 1 a 5 anni.

L’inchiesta assesta un colpo alla trattativa Atlantia-Cdp

L’arresto di alcuni ex manager di punta di Autostrade per l’Italia (Aspi) per l’ennesimo caso di mancata manutenzione piomba come un treno sulla trattativa tra Atlantia e il governo per l’uscita di scena della holding controllata dai Benetton. Che fine fa questo negoziato? La domanda non è peregrina.

A settembre 2019, all’indomani dell’inchiesta sui report falsati su alcuni viadotti, i Benetton decisero di silurare l’ex ad Giovanni Castellucci e il suo braccio operativo, il capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli, entrambi indagati per il disastro del Morandi e arrestati ieri per l’indagine sulle barriere fonoassorbenti. Era il disperato tentativo di scaricare le responsabilità silurando l’uomo che per 15 anni li ha coperti d’oro spremendo profitti dalla concessionaria, anche a spese della manutenzione.

La famiglia veneta rimise il suo destino nelle mani di Gianni Mion, tutore finanziario da oltre 30 anni. “È una settimana che siamo sotto choc…”, spiegò Luciano Benetton. In questi mesi Mion ha diretto le trattative col governo per l’uscita da Aspi imponendo la linea dura, convinto che i rischi connessi alla revoca della concessione sbarrassero la strada all’esecutivo, mentre procedeva al repulisti vendendo l’idea delle “mele marce” già allontanate. Il cerchio oggi si chiude.

Dalle 100 pagine dell’ordinanza firmata dal Gip di Genova emerge un quadro “desolante” di “una politica imprenditoriale volta alla massimizzazione dei profitti (…) mediante la riduzione e il ritardo delle spese necessarie per la manutenzione della rete autostradale affidata in concessione e a scapito della sicurezza pubblica”. L’annotazione del giudice accompagna l’intercettazione di gennaio scorso, in cui l’attuale ad di Aspi Roberto Tomasi (già numero due di Castellucci e indagato nell’inchiesta sulle barriere fonoassorbenti) spiega al direttore finanziario che “la verità sta nel mezzo” e Aspi dal 1999 ha “distribuito 9 miliardi e quattro di dividendi”, di cui “9 e due sono andati ad Atlantia” e a loro volta “3 e 4 miliardi sono andati a Sintonia, Schema 28…”, cioè le società che riportano il controllo su Atlantia a Edizione, la holding dei Benetton guidata oggi da Mion. “Le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo meno facevamo … così distribuiamo più utili … e Gilberto e tutta la famiglia erano contenti”, spiegava a febbraio scorso il manager veneto (non indagato) intercettato con Giorgio Brunetti, professore emerito della Bocconi (non indagato).

Gilberto è Gilberto Benetton, artefice della trasformazione finanziaria dell’impero dei maglioncini con l’acquisto di Autostrade, scomparso a ottobre 2018. Un mese dopo il disastro del Morandi negò qualsiasi responsabilità al Corsera: “Se nel caso di Autostrade sono stati commessi degli errori, quando si sarà accertato compiutamente l’accaduto verranno prese le decisioni che sarà giusto prendere”. I Benetton ci hanno messo un anno e l’ennesima infornata di indagati per cacciare Castellucci (con buonuscita da 13 milioni, in parte bloccata) per poi richiamare Mion. Intercettato dai pm di Genova nel periodo in cui tratta col governo, il manager veneto spiega al suo interlocutore che “quando (i Benetton, ndr) hanno acquistato quella roba, era una roba che loro non potevano neanche governare…”. Nel 2007, Castellucci prende la guida estromettendo l’allora ad Vito Gamberale: “…allora diceva ‘facciamo noi!’ e Gilberto eccitato perché lui guadagnava e suo fratello di più…”, ricorda Mion. “2007, sono passati 12 anni…”, annota Brunetti.

L’idea che i Benetton e i loro uomini non si fossero mai chiesti come Castellucci facesse a farli guadagnare più di Apple coi pedaggi non regge. Vale la pena di notare che i pm di Genova hanno scoperto che Donferri Mitelli, cacciato a ottobre 2019 da Aspi, oggi lavora “in una società collegata ad Autostrade” peraltro percependo pure il sussidio di disoccupazione. Il filone principale dell’inchiesta, quello sul crollo del Morandi, rischia di essere un Armageddon. Ieri l’ala dura dei 5Stelle, con Di Battista in testa, è tornata a invocare la revoca della concessione.

Le indagini rischiano di mettere in serio imbarazzo il governo nella trattativa coi Benetton per far uscire Atlantia e cedere il controllo alla Cassa depositi e prestiti in tandem con due fondi speculativi (Macquarie e Blackstone) per chiudere la ferita del Morandi. Cdp e compagnia valutano Aspi 8,5-9,5 miliardi. Benetton e i fondi azionisti di Altantia 11-12 miliardi. Ieri la holding è crollata in Borsa.

Il negoziato è in stallo perché manca il nuovo Piano economico finanziario di Autostrade che stabilisce i prossimi 5 anni di pedaggi della concessionaria. Quello consegnato da Autostrade dopo averlo negoziato col ministero delle Infrastrutture è stato stroncato dall’Autorità dei Trasporti perché troppo generoso. Ora va riscritto. Se il ministero imponesse un Pef molto più severo, il prezzo di Aspi scenderebbe a livelli inaccettabili per Atlantia. Viceversa, a rimetterci saranno gli automobilisti. Ma da ieri è un epilogo ancora più difficile.

“Gianni ti aiuterà sempre”. Il patto per salvare il capo

“Ti aiuterà tutta la vita”. Così Michele Donferri rassicurò Paolo Berti: Giovanni Castellucci non si sarebbe dimenticato di lui. Sarebbe stato questo il premio per aver mantenuto ‘la linea’. Quella di Aspi. E così salvare l’amministratore delegato nel processo di Avellino. Nuove intercettazioni di Berti e Donferri, dopo quella resa nota nel settembre 2019 nell’ambito di un altro procedimento, sembrano condurre nella direzione dell’esistenza di una sorta di ‘patto del silenzio’ tra i due manager e Castellucci.

La conversazione è captata l’11 gennaio 2019. È il giorno della condanna di Berti a cinque anni in primo grado per i 40 morti del viadotto di Acqualonga, in Irpinia, la strage del 28 luglio 2013. La Procura di Avellino è riuscita a dimostrare che le barriere new jersey erano fradice e che se ben manutenute avrebbero retto l’impatto del bus dai freni rotti, ma il giudice ha assolto Castellucci e condannato solo i dirigenti di tronco autostradale. Secondo il Gip, dal tenore della conversazione di un agitato Berti “si comprende che nell’ambito di quel procedimento, non ha riferito la verità per difendere la ‘linea aziendale’ condotta che ha contribuito all’assoluzione di Castellucci e che quest’ultimo evidentemente interessato al fatto che Berti mantenga tale impostazione e non cambi linea difensiva nei successivi gradi del giudizio ha incaricato Donferri di tenerlo tranquillo e di rassicurarlo del suo futuro aiuto”. Donferri infatti si fa postino di Castellucci “perché ha chiesto una mediazione con te, ti vuole rasserenare che ti aiuterà per tutta la vita, ti vuole dire questo messaggio”… e lo invita a fare “tesoro dell’attuale momento. Rivendica quello che devi rivendica… Hai capito Paole’ … questo però, che tu sia stanco non è chi, gli puoi… imputa’, lui che ci sono quarantrè morti de là .. quaranta de qua. Stamo tutti sulla stessa barca”. Berti poco dopo si sfoga con la moglie: “Abbiamo dovuto difendere la line… alla fine qualcuno ci è andato di mezzo capito?”.

Tre giorni dopo Berti, che ancora non ha metabolizzato la batosta giudiziaria, confessa a Donferri di aver mentito: “Quello… veramente è uno che meritava una botta di matto ma una botta dì matto dove io mi alzavo la mattina, andavo ad Avellino e dicevo la verità così l’ammazzavo credimi era … era l’unica soddisfazione che avevo …”. La replica: “No, ma a te non cambiava niente. Adesso invece hai la speranza di trovare un accordo con ‘sta gente .. che tacciano ma devi trovarlo …”.

Nel cellulare di Donferri è stato anche ritrovato un whatsapp eliminato e poi recuperato, del 25 giugno 2018, un mese e mezzo prima del crollo, nel quale ammetteva di sapere che “i cavi del Morandi sono corrosi”. Lo scriveva a Berti in risposta al suggerimento di iniettare aria deumidificata per proteggerli. Donferri dopo il licenziamento avrebbe trafugato un plico di documenti sul ponte Morandi. Per “sviare le indagini” secondo il Gip. Chiese aiuto a un amico. “Portati un bel trolley grosso… devo comincia a prendere l’archivio là del Polcevera, quella è roba mia”.

Dopo il crollo, l’ex Ad offrì aiuto su Carige. Toti: “Parlo alla Lega”

È trascorso solo un mese e mezzo dai 43 morti del crollo del Ponte Morandi e gli sforzi di Giovanni Castellucci sono già orientati “a cercare con ogni mezzo di ricostruire un rapporto con lo Stato”, “offrendo, condizionatamente, cospicue somme di denaro”. La “condizione”, secondo il gip Paola Faggioni, è quella di evitare la revoca della concessione autostradale. L’allora potentissimo ad di Autostrade per l’Italia gode di “conoscenze di altissimo livello” che “tende a strumentalizzare per fini personali”.

E per raggiungere il governo, retto in quel momento dalla maggioranza giallo-verde, ha un “ambasciatore” d’eccezione: Giovanni Toti, presidente della Regione della Liguria e commissario all’emergenza post disastro. Castellucci gli propone di salvare la zoppicante “Banca Carige”, con una ricapitalizzazione pagata da Atlantia. “Senti Gianni – gli risponde Toti – è una cosa che saluteremmo con grandissimo favore… Io ci parlo con Giorgetti e Salvini. L’unica cosa che possiamo fare è chiedere alla Lega e dire: ‘Ragazzi, noi ci stiamo esponendo per salvare una banca e togliervi rotture di c… Poi se non ne tenete conto siete dei pazzi’”.

La telefonata viene intercettata il 30 ottobre 2018. “Non so quale effetto possa avere su Giorgetti – dice Toti al manager in quella telefonata – è una pressione che può comunque essere utile”. Il governatore, va sottolineato, non è indagato. Anzi, lo stesso giudice gli riconosce un certo equilibrismo: “Toti si sforza di non perdere l’occasione, guardandosi bene dal fare promesse”: “Al massimo una dichiarazione informale”. Ma torniamo all’intercettazione. Castellucci insiste, vorrebbe la certezza degli “annessi e connessi”, almeno “l’apertura di un tavolo” (sulla concessione): “Per vendere l’operazione agli azionisti – dice – deve essere all’interno di un quadro”. “Ma stai parlando con chi non fa parte di quel quadro”, risponde Toti, che sottolinea come il massimo dell’impegno possa essere “una dichiarazione informale”. L’Ad ne parla anche con il commissario di Carige, Pietro Modiano: “Abbiamo visto Garavaglia, è sulle piste di Di Maio – dice Modiano il 31 ottobre 2018 – per dirgli: amici, o mettete i soldi pubblici, o lasciate i Benetton mettere i soldi”. Un anno più tardi scoppia il caso dei falsi report sulla sicurezza dei viadotti. “Le voci sono di un ribaltone a Treviso. – confida Castellucci ad Andrea Boitani, consigliere di Atlantia, il 15 settembre 2019 – il mio rapporto era con Gilberto (Benetton). È morto un anno fa, adesso è diverso, ci sta che me ne vada a fare altro. ‘Sti ragazzetti tutto sommato li conosco poco. Se non troviamo un accordo conto su di te”.

È uno dei passaggi che dimostra, secondo chi indaga, come il vecchio amministratore continui a intessere “rapporti apicali” con Atlantia. Lo rileva anche con un certo fastidio Gianni Mion, ad di Edizioni Holding, società della famiglia Benetton che controlla Atlantia. È convinto che Castellucci “semini il concetto che Gilberto Benetton sapesse delle omesse manutenzioni”: “Questo c… di Castellucci – si sfoga con un collaboratore il 3 gennaio 2020 – governa ancora il processo … si sta offrendo per creare aggregazioni, vendere Atlantia, comprare… con le cose che succedono a Genova gli converrebbe andare a Dubai”. Ma non è proprio la pensione il progetto che ha in mente il supermanager, sotto inchiesta per i morti di Genova: nel frattempo si è già proposto come “presidente con delega di Alitalia”, posizione per cui avrebbe ottenuto la sponsorizzazione di Lufthansa. “La Lupo (presumibilmente Giulian, senatrice M5s, ndr) è molto preoccupata – dice a Joerg Eberhart, Ad di Air Dolomiti, controllata di Lufthansa – il Ministro ha chiesto di vedermi”.

Sull’affaire Carige, Toti commenta: “Volevo solo salvare i risparmiatori liguri, non potevamo permetterci il fallimento dell’istituto in un momento così delicato. Il contatto con Castellucci mi fu sollecitato dai vertici della banca”.

Oltre il Morandi. “Meno sicurezza e più utili. E i Benetton sono contenti”

C’è un pregnante odore del ‘metodo Castellucci’ nelle carte dell’arresto dell’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia. Il metodo del massimo risparmio sulle manutenzioni a scapito della sicurezza, già visto intorno all’inchiesta madre della Procura di Genova per il crollo del ponte Morandi che causò la morte di 43 persone, di cui i sei provvedimenti cautelari di ieri per le barriere antirumore ‘incollate col Vinavil’, come si ascolta in una intercettazione, sono uno spin off. Finiscono ai domiciliari l’ex ad Giovanni Castellucci, Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti, rispettivamente ex responsabile manutenzioni e direttore centrale operativo dell’azienda. Provvedimenti interdittivi per altri tre manager: Stefano Marigliani, responsabile del tronco autostradale di Genova all’epoca del crollo del ponte Morandi, Paolo Strazzullo, responsabile delle ristrutturazioni pianificate sul ponte Morandi, per l’accusa mai eseguite, distaccato a Roma, e Massimo Miliani di Spea, consociata di Aspi. Le accuse ipotizzate dai pm di Genova, vagliate dal giudice Paola Faggioni, sono attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture.

Riguardano le installazioni di barriere fonoassorbenti su 30 chilometri di rete autostradale: Aspi, secondo le accuse, sapeva che la progettazione era difettosa, che cadevano al primo colpo di vento, perché progettate con una resina non omologata dall’Unione Europea; ma i suoi massimi dirigenti lo nascosero al Ministero, mettendo a rischio la sicurezza degli utenti. Tra novembre 2016 e gennaio 2017 due di queste barriere posizionate sui viadotti Rio Rezza e Rio Castagna cedettero a causa del forte vento. Ed altre barriere di quel tipo ebbero la stessa sorte sull’autostrada Adriatica. I tecnici scoprirono che le barriere “Intergautos” soffrivano di un difetto di progettazione degli ancoraggi e dell’installazione. La resistenza al vento ligure era stata sottostimata anche del 50%. Insomma, sbragavano alle intemperie, costringendo i tecnici di Aspi ad alzarne e abbassare le cerniere delle protezioni. Ridotte di un metro di altezza grazie a queste speciali ‘cerniere’, le barriere – oltre a rimanere comunque a rischio crollo – perdevano la funzione di insonorizzazione. Per l’infelicità di chi abitava lì intorno, fino a quando il frastuono insopportabile non si traduceva in centinaia di mail di protesta, alle quali Aspi replicava con risposte preconfezionate. Occorreva cambiarle, ma costava troppo. Più facile addossare la colpa ai subappaltatori, idea “aziendalista” di Donferri. “Michele, ma ti rendi conto che non tiene il vento quella barriera?”. E ancora: “Il tirafondo è nella barriera. È incollato col Vinavil”. La sintesi della filosofia aziendale di Aspi, secondo chi indaga, è tutta in un’intercettazione di Gianni Mion, Ad di Edizione Holding, che controlla a sua volta Atlantia: “Le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo meno facevamo … cosi distribuiamo più utili … e Gilberto e tutta la famiglia erano contenti”. Gilberto Benetton è scomparso il 22 ottobre 2018. Secondo gli investigatori ci sono“60 chilometri di barriere fonoassorbenti potenzialmente pericolose” solo nel tratto genovese.

Per un problema emerso “nel luglio 2017”. I lavori di adeguamento erano andati a rilento perché pagarli sarebbe stato “un bagno di sangue”: “’Ndo chiappi i sordi?”, sintetizza Donferri. Anche il nuovo ad di Aspi Roberto Tomasi è indagato, ma la sua posizione è prossima all’archiviazione.

Aspi fa sapere tramite una nota di aver eseguito i lavori tra la fine del 2019 e il 2020 dopo aver appreso dell’indagine. “Stupore e preoccupazione per un provvedimento che non si giustifica in sé e che non si vorrebbe veder finire a condizionare una vicenda, quella del crollo del Ponte Morandi, che con quella odierna non ha nulla a che vedere” scrivono i legali di Castellucci.

United leccons

Il minimo che si possa fare leggendo le intercettazioni di Castellucci, Mion e degli altri magnager di casa Benetton intercettati dalla Procura di Genova, è vomitare. Ma stupirsi, per favore, no. Da ieri siamo inondati dai commenti indignati di politici, giornalisti e commentatori che fingono di meravigliarsi per le parole sprezzanti dei manager scelti dai Benetton per speculare a suon di dividendi miliardari su un bene pubblico (le autostrade), la sicurezza pubblica (le mancate manutenzioni dei viadotti) e l’incolumità pubblica (i cavi del Morandi “corrosi” e i pannelli “incollati col Vinavil”). Ecco: ce li risparmino. Oggi intitoliamo questa colonna come quella dell’agosto 2018 sul crollo del ponte Morandi, perchè ricordiamo benissimo cosa dicevano questi tartufi. Era già tutto chiaro e lampante allora, almeno per le responsabilità gestionali dei dirigenti scelti da Luciano, Gilberto & F.lli, noti imprenditori a pelo lungo passati dal tosare le pecore al tosare gli italiani. Ma quando il premier Conte e i suoi vice Di Maio e Salvini (che si sfilò un minuto dopo) promisero ai funerali di cacciare i Benetton da Aspi, furono investiti da una potenza di fuoco politico-mediatica mai vista prima, al grido di “no all’esproprio” e “aspettiamo la Cassazione”. Anche se il crollo del Morandi (43 morti) era il macabro replay della strage di Avellino del 2013 (40 morti).

Solo il Fatto e la Verità osarono mettere la parola “Benetton” in prima pagina. Quella del Corriere non citava né Atlantia, né Autostrade, né Benetton: in compenso additava come colpevoli i 5Stelle e gli ambientalisti contrari alla Gronda (anche se la Gronda non l’avevano certo bloccata loro, non avendo mai governato né la Liguria né l’Italia, ma la destra e la sinistra; e comunque la Gronda, anche se esistesse, non rimpiazzerebbe ma affiancherebbe il Morandi). Stessa favoletta su Repubblica: niente Atlantia, Autostrade e Benetton, ma giù botte a i 5Stelle anti-Gronda. Idem su La Stampa (“Imbarazzo per un documento M5S” e per “il blog di Grillo”), il Giornale (“chi è stato”: i Benetton? No, “i grillini”) e tutti i tg. Perché? Elementare, Watson: i Benetton riempiono di pubblicità milionarie giornali e tv; il M5S e gli ambientalisti un po’ meno. In più, per pura combinazione, Autostrade sponsorizzava la festa di Repubblica “Rep Idee” e aveva nel Cda l’amministratore di Repubblica Monica Mondardini. Quindi la revoca della concessione alla Sacra Famiglia trevigiana era pura bestemmia. Repubblica, Corriere, Stampa, Messaggero e

Giornale ripeterono per giorni che Conte, Di Maio e chiunque altro si azzardasse a incolpare Atlantia per le colpe di Atlantia era affetto da patologie gravissime.

Eccole: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina, ansia da Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice “no a tutto”, deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, oscurantismo. Ezio Mauro spiegò su Repubblica che “una delle più grandi società autostradali private del mondo” non può diventare “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo” e dei “pifferai della decrescita”. Toccare la sacra concessione, per Daniele Manca del Corriere, era una pericolosa “scorciatoia”, “un errore” e “un indizio di debolezza”. Giovanni Orsina, su La Stampa, lacrimava inconsolabile per i poveri Benetton (mai nominati), “sacrificati” come “capro espiatorio”: roba da “paesi barbari”. L’emerito Sabino Cassese tuonava a edicole unificate, dal Corriere al Sole 24 Ore a Repubblica, contro la revoca ai Benetton e il ritorno delle Autostrade allo Stato: “Sarebbe una decisione immotivata e anche illegale”, strillava, scordandosi di premettere che nel 2000-‘05 era stato nel Cda del gruppo Benetton, uscendone con 700mila euro tra gettoni e consulenze.

Centrosinistra e centrodestra, a suo tempo lautamente foraggiati da Autostrade, le fecero scudo come un sol uomo, tempestando la Consob di esposti contro Conte&C.: il crollo che li angosciava non era quello del Ponte sui 43 morti, ma quello del titolo Benetton in Borsa. “Qualcuno sarà chiamato a rispondere di aggiotaggio” (Michele Anzaldi, deputato renziano, 16.8). “Consob avverte Palazzo Chigi: ‘Pericoloso turbare i mercati’” (Stampa, 17.8). “Consob raccoglie l’appello di Forza Italia: verifiche su Autostrade. Brunetta: ‘Attenzione a chi turba i mercati’” (Giornale, 18.8). Il Partito d’Azioni trovava il suo naturale portavoce nell’Innominabile: “Revocare la concessione ad Autostrade significa pagare 20 miliardi di danni”. Poi, con comodo, il nome Benetton riapparve sui giornaloni. Ma per riabilitarli con titoli e interviste strappalacrime. Da Pulitzer quella di Francesco Merlo (Repubblica) a Luciano dai capelli turchini, poco dopo la morte del fratello Gilberto. Merlo lo definì “imprenditore di sinistra”, forse perché nelle foto di famiglia siede da quella parte. Poi affondò il colpo: “È vero che il crollo del Ponte Morandi a Genova con i suoi 43 morti ha ferito lei e ha ucciso suo fratello?”. Mancò poco che chiedesse i danni ai famigliari delle vittime. Quindi, signore e signori: vomito sì, stupore no. Magari qualche parolina di scuse, ecco.