“Nicopò”, la prima serie animata ecologica nasce a Taranto. Contro Giunco Nero, l’Inquinatore

Nasce a Taranto la prima serie animata ecologica. Nel capoluogo ionico, noto per le drammatiche conseguenze dell’inquinamento, verrà ambientato il cartone Nicopò.

Sull’isola tra i due mari una banda di ragazzini è chiamata a fronteggiare l’annoso problema della plastica. Nicola Sammarco, storyboarder e regista, ha progettato una serie di 26 episodi da 7 minuti ciascuno in cui la plastica ha preso vita, sotto forma di “plasticotti” che si sono sostituiti alla fauna marina e rivendicano il diritto di esistere. Saranno i protagonisti a raccoglierli e riciclarli per liberare i mari dai rifiuti che Giunco Nero, l’inquinatore seriale, abbandona ripetutamente. L’attenzione alla tutela ambientale non sarà espressa solo attraverso la trama: “Per la prima volta – spiega l’ideatore – tutto l’indotto, dai giocattoli al merchandising, dovrà essere biodegradabile ed ecosostenibile. L’innovazione è la filiera produttiva stessa”.

Il nome Nicopò è stato scelto in onore dei piccoli pescatori tarantini. Anche la casa di produzione, la Nasse Animation Studio, è ispirata a Taranto: “Le nasse sono gabbie in giunco che si intrecciano fino a ottenere una campana e si usavano tradizionalmente per pescare. I miei nonni sono nassari e sono loro ad aver ispirato non solo il nome della mia società, ma tutta la serie di Nicopò. I nonni del protagonista sono loro. Questa volta però non peschiamo pesci, ma idee”.

La storia di Sammarco parte dal capoluogo ionico, dov’è nato 28 anni fa. Dopo aver lavorato con i migliori studios internazionali – Disney, Netflix, Universal e Aardman –, è tornato in Puglia col desiderio di renderla la California italiana. Ha già avviato la collaborazione con ReWow, una start-up di Bari, che ha ideato un polimero ricavato dagli olii esausti. Verranno creati così i primi giocattoli riferiti ai cartoni animati biodegradabili. “Commercializzeremo un brand attraverso il cartoon – dice – per insegnare ai bambini che i giocattoli sono destinati a trasformarsi: non finiranno a galleggiare nei mari”. L’esperienza di Nicola viene da lontano: ha lavorato per Alla ricerca di Dory, Peter Pan, Il Grinch e Klaus. I segreti del Natale. Per Nicopò ha già ottenuto la collaborazione del conduttore radiofonico Andrea Pellizzari, che produrrà la musica del teaser in uscita a dicembre. La preproduzione è stata finanziata dall’imprenditore Paolo Rusciano, suo socio. Per la realizzazione – assicura – “sono previsti i migliori professionisti del cinema d’animazione”.

“I flirt con D’Alema e le mie girl super sexy con fatturati da Srl”

Massimo venne a trovarmi al soundcheck. Era uscito dal bosco.

Quel Massimo?

D’Alema.

Faceste anche un selfie insieme. Ma cosa le disse ‘Spezzaferro’?

Era un mio concerto nel Lazio. Mi chiese di tornare a cantare lì.

E cos’altro, Myss Keta?

Queste sono storie personali tra ex marito e moglie.

Sarà contenta la signora Linda. Non mi faccia prendere querele. Di D’Alema lei ha più volte dichiarato che siete stati amanti e ora amici, che lui ci ha provato spalmandole la crema sulla barca a vela…

Tutto agli atti. Di più non posso rivelare.

Potrebbe essere Massimo il destinatario del nuovo singolo Due?

Come dimostro nel video, siamo alle prese con un nevrotico mosaico di annunci che svela la condizione dell’Occidente contemporaneo e la saturazione del mondo post-capitalista.

Chiarissimo. Ci dev’essere lo zampino di un grande vecchio. Del resto lei favoleggia sulle sue frequentazioni con Gianni Agnelli e Salvador Dalì. Ma è troppo giovane per esser stata la musa di quelle mummie.

La realtà supera ogni immaginazione.

Mi dica un altro incontro vip, però di quelli veri.

L’anno scorso ho passato una bellissima serata con Tiziano Ferro, mi ha confessato di essere un mio fan, abbiamo cantato insieme.

Lei è una matrioska pop. Quante identità nasconde nel nuovo Ep Il cielo non è un limite?

Tante. C’è la ‘Rider Bitch’ che recalcitra quando i destinatari le stanno sulle palle, c’è una specie di mistress tedesca, molto teatrale, in Gmbh…

Alla quale fa dire ‘la mia pussy è una Srl’…

C’è la modella molto Anni 90 che viene inquadrata ossessivamente dallo stesso fotografo in Photoshock, la Giovanna Hardcore libera di cavalcare. Mille sfaccettature narrative dentro un gioco sonoro vertiginoso.

Le secca se lo definisco urban porn?

Anzi, in un momento cupo come questo la rivendicazione della sensualità è una priorità. Mi manca tanto usare i nostri cinque sensi, dobbiamo reinventare noi stessi. Come artisti ed esseri umani.

Della sua biografia non si sa nulla di concreto, Myss. Del suo presunto volto scoperto circola una foto rubata, ma chissà. Ha mai pensato di togliersi la mascherina, ora che la indossano tutti?

La mia provocazione artistica, prima che accadesse questo casino nel mondo, era far capire a tutti che la mascherina non copre, ma svela molto di quanto la gente vorrebbe nascondere. Adesso che la pandemia ci costringe a velare la nostra bocca, quasi tutti sembrano aver afferrato il concetto.

Parlano gli sguardi.

È un nuovo concetto del potere. Con i miei occhi posso dominarti o sottomettermi. Sta a te cogliere il messaggio. Stiamo sviluppando, giocoforza, un linguaggio che avevamo tralasciato di usare. Uno sguardo profondo può far cambiare la società. Ed è un mezzo artistico, per creare inediti crossover culturali e sviluppare la creatività del futuro.

Accidenti. Ma che ne sarà dei concerti?

La mia idea è di farli in elicottero. Perché, citando il disco, Il cielo non è un limite. Semmai una possibilità. E comunque siamo creature digitali, ci muoviamo già dentro questo mondo liquido. Le tecnologie ci stanno aiutando a elaborare un concetto alternativo di live.

Anche il New York Times si è accorto di lei.

Ho pensato a uno scherzo, ma è stata una chiacchierata proficua. Punto sempre a uno show con Lady Gaga.

E le sue ‘Ragazze di Porta Venezia’ come stanno col lockdown? La ‘Milano sushi e coca’?

La città ha di nuovo chiuso per virus. Quando l’attraverso per lavoro, come oggi, mi figuro le mie girl multicolori, toste e sessualmente consapevoli. Mi manca da morire la vita di notte. Tendo l’orecchio e aspetto di risentire quelle voci, sempre più forti. In fondo sono stata testimonial di Milano in uno spot con Cracco e Ghali. Mi scambio messaggi con Sala. Accendiamo lumini di speranza, ce la possiamo fare.

Mi racconta una cosa che può sorprendere la donna celata dietro Myss Keta?

Uhm…uhm…

Allora qualcosa che la sorprese da bambina?

La luce del sole attraverso la finestra, una mattina d’inverno.

L’arte fa una bella figura. Una storia delle immagini

“La sfida, insomma, non è diventare tutti storici dell’arte – che è un tipo di specializzazione – ma diventare tutti più consapevoli di come funzionano questi oggetti visivi che abbiamo intorno, che siano dipinti, film o pubblicità. L’alternativa è non vedere niente. Ritrovarsi a vivere in un mondo che non capiamo davvero, e che finiamo per subire”. Solo alla penultima pagina di questo libro bellissimo – Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram (Einaudi) – saggio e avvincente, Riccardo Falcinelli prospetta la vera posta in gioco: e lo fa con parole misurate e schive, quasi scusandosi di introdurre un punto di vista politico, e morale, in quello che il lettore si è goduto come uno straordinario divertimento.

La materia scolastica (alle primarie e alle medie), che ora è tornata a chiamarsi “Educazione artistica”, fino a qualche tempo fa era intitolata “Educazione all’immagine”: e dovrebbe fare esattamente ciò che fa questo libro, anzi potrebbe efficacemente usarlo come libro di testo, entusiasmando così generazioni di piccoli nativi della civiltà dell’immagine. Perché Falcinelli risponde alle domande che ci facciamo quando entriamo da bambini in un museo, e che quando diventiamo adulti ci sembrano – a torto – troppo banali, anche se non sapremmo trovare le risposte.

Perché il personaggio più importante sta sempre al centro? Perché i quadri sono per lo più rettangolari? Perché i quadri cambiano a seconda che li vediamo da vicino o da lontano? Guardiamo tutti le stesse cose, quando guardiamo lo stesso quadro? Ed è stato l’artista a volerlo? E come ha fatto a “costringerci”? E ancora: perché il vuoto è importante almeno quanto il “pieno”, nelle immagini? E che rapporto c’è, se c’è, tra una pala d’altare medioevale, la foto dei miei nonni e un fotogramma di Via col vento? E poi: cosa succede quando riduco o ingrandisco un’immagine? E quando la taglio?

Falcinelli risponde a tutte queste, e a moltissime altre, domande. Lo fa in modo ammirevole: per le cose che dice, e per come le dice. Non lo fa da storico dell’arte (anche se la storia è sempre presente, e non si cede mai alla tentazione di una “pura visibilità” senza tempo) e non lo fa da neuroscienziato o da psicologo (anche se i meccanismi della visione hanno una grande parte nel discorso): lo fa da quell’eccezionale graphic designer che è. Cioè da professionista delle immagini: da artista, erede diretto e consapevole della tradizione occidentale di creazione dell’immagine. Lo si capisce dalla profonda intimità che ha con le immagini, e soprattutto dal libro stesso: che egli ha non solo scritto, ma creato come un oggetto parlante in cui l’impaginato, la costruzione del testo e il continuo gioco di riduzione, ingrandimento, amputazione, alterazione e restituzione delle immagini seguono puntualmente il filo del discorso, anzi lo sostengono, lo creano, lo rendono persuasivo. Come in una conferenza perfetta, in cui il tappeto delle immagini proiettate sia indivisibile, e anzi indistinguibile, da ciò che viene detto.

Qualcosa del genere accade (in modo, naturalmente, diverso) nei grandi classici di Ernst Gombrich, o nel bellissimo libro di David Freedberg su Il potere delle immagini: cioè nell’opera di storici dell’arte scaturiti dalla lezione di Aby Warburg (che, non per caso, è il nume che appare sul finire di Figure). E, in Italia, nell’opera di un neurobiologo come Lamberto Maffei (ricordo che, da studente di storia dell’arte in Normale, seguivo le sue lezioni a bocca aperta), o in quella di uno storico dell’arte (anche) warburghiano come Salvatore Settis, attento come nessun’altro a considerare tutte le implicazioni delle immagini.

In molti – nota Falcinelli – vanno nei musei e alle mostre spinti “da una sincera curiosità, ma nessuno spiega loro a cosa dovrebbero stare attenti”: mancava un libro che, riuscendo a parlare a tutti, insegnasse agli italiani a “saper vedere” (per riprendere il titolo di un celebre best-seller divulgativo degli anni Trenta, di Matteo Marangoni). Ora quel libro c’è.

“McCarrick mentì a Giovanni Paolo II. Poi solo omertà”

“Nei settanta anni della mia vita, non ho mai avuto rapporti sessuali con alcuna persona, maschio o femmina, giovane o vecchio, chierico o laico, né ho mai abusato di un’altra persona o l’ho trattata con mancanza di rispetto”. A scrivere è Theodore Edgar McCarrick in una lettera, datata 6 agosto 2000, al segretario di San Giovanni Paolo II, l’attuale cardinale Stanislaw Dziwisz. McCarrick, all’epoca arcivescovo di Newark, ha saputo che il Papa polacco lo vuole promuovere alla guida della chiesa di Washington, ma che il processo di nomina è stato bloccato dalle accuse. Wojtyla, che lo conosce personalmente dalla metà degli anni 70, gli crede e firma la nomina. Nel 2001 gli impone la berretta rossa nello stesso concistoro nel quale nomina cardinale anche l’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Maria Bergoglio. Eppure le accuse contro lo “zio Ted”, come McCarrick si faceva chiamare dai suoi ragazzi, erano note da tempo. Quando andava in gita con i suoi giovani, se li portava sempre in numero dispari. A colui che rimaneva senza compagno di stanza, McCarrick offriva di dormire nel suo letto. La verità sull’ex porporato è emersa nel rapporto realizzato in due anni dalla Segreteria di Stato. Dal dossier emerge che “fino al 2017 né il cardinale Parolin, né il cardinale Ouellet, o l’arcivescovo Becciu o l’arcivescovo Viganò, hanno fornito a Papa Francesco alcuna documentazione relativa agli addebiti contro McCarrick”. Appena Bergoglio ebbe certezza che il cardinale aveva commesso abusi sessuali su minori, gli tolse la porpora, unico caso finora nel suo pontificato, e lo ridusse allo stato laicale. Il dossier smentisce l’ex nunzio negli Usa, monsignor Carlo Maria Viganò che affermò di aver informato Bergoglio delle accuse contro McCarrick senza però che il Papa agisse.

“Questa cintura farà poom!”. I jihadisti e i video del terrore

“Vi pentirete di essere nati, soprattutto voi, mossos d’esquadra maledetti”. Una minaccia che da lì a poco diventerà realtà – anche se non tutto andrà secondo i piani – quella pronunciata dai membri della cellula terroristica di Rapoll, Spagna, tre dei quali sono da ieri alla sbarra per gli attentati delle ramblas e Cambrils del 17 agosto 2017 in cui morirono 16 persone. Nel video, inedito, presentato in aula dagli inquirenti, i terroristi sono intenti a preparare cinture esplosive, quelle che salteranno in aria nell’appartamento occupato di Alcanar (Tarragona) prima dell’attacco previsto per il 20 di agosto e il cui fallimento farà da detonatore a quello del 17. “Questo è il nostro lavoro. Ogni grammo di questi ferri si infilerà nelle vostre teste, in quelle dei vostri figli e delle vostre mogli”, si vanta nelle immagini Mohamed Hichamy, leader dell’attentato a Cambrils, morto durante l’attacco. “Con l’aiuto di Dio, proteggeremo la nostra religione”, conclude il giovane Younes Abouyaaqoub, conducente del furgone che si schianterà sulle ramblas uccidendo 14 persone; lo stesso che in un altro video breve alla domanda “Come ci si sente con la cintura esplosiva” risponde “Questo fa poom”. Le immagini, mostrate dalla Procura, mirano ad accertare i legami dei tre imputati, Mohamed Houli, Driss Oukabir e Said Ben Iazza con la cellula jihadista di Rapoll alla cui testa si trovava l’imam Abdelbaki Es Satty, che convinse gli altri a morire in nome di Allah, primo tra tutti, proprio quel Youssef Aalla, vittima della sua improvvisazione, che perse la vita nel covo di Alcanar. Oltre a lui, nell’attacco del ‘17 sono morti anche gli altri jihadisti, come Abouyaaqoub. “Più che un processo per il 17 agosto, è il processo ai sopravvissuti della cellula di Rapoll”, ha chiarito il procuratore, quella che si preparava a far esplodere il Camp Nou, la Sagrada Familia e la Torre Eiffel. I tre hanno strategie difensive diverse: Houli, che rischia 41 anni di carcere, non parla, ma si dice “pentito”; Ben Iazza e Oukabir, che rispettivamente potrebbero ottenere pene di 8 e 36 anni, negano legami con il jihad: “Non sono religioso, bevo alcol e vado a prostitute”, ha giurato il secondo ai giudici.

Erdogan umilia gli armeni. E Putin impone loro la resa

Con l’espressione soddisfatta e arrogante tipica di chi è convinto che il forte sia autorizzato a umiliare il debole dopo averlo schiacciato senza pietà, il presidente azero Ilham Aliyev ha annunciato al mondo “la capitolazione dell’Armenia” nel sanguinoso conflitto in corso da un mese nel Nagorno Karabakh. Se è vero che la “tregua totale” firmata da Yerevan non poteva più essere evitata dai vertici armeni per la evidente superiorità militare azera, è altrettanto vero che l’attuale esponente della corrotta dinastia Aliyev (al governo dell’Azerbaijan da decenni) è riuscito a “vincere” soprattutto grazie alle armi e ai mercenari inviati in suo aiuto nell’enclave armena dalla Turchia. Anche Israele ha venduto armi all’Azerbaijan.

Il Nagorno Karabakh è abitato fin da epoca pre-cristiana da popolazioni armene che si sono ritrovate secoli dopo dentro i confini azeri stabiliti dopo il crollo dell’Unione Sovietica, di cui Yerevan e Baku erano parte. Motivo per cui è errato definire gli abitanti del Nagorno Karabakh “separatisti”. Si tratta invece di un piccolo Stato presidenziale con le proprie istituzioni, seppur protette dalla casa madre a Yerevan. Ma ora non più. La popolazione del Nagorno, di religione cristiana ortodossa come l’Armenia, a un certo punto si è ritrovata per i giochi della storia inserita in uno Stato turcofono (in Azerbaijan si parla una lingua di derivazione turca) di religione islamica che oggi è riuscito a chiudere la partita anche grazie al ruolo della Federazione Russa presieduta dal presidente Vladimir Putin. Nonostante Mosca abbia un accordo di mutuo soccorso con Yerevan stabilito dopo la fine dell’era sovietica, in ossequio peraltro alla religione ortodossa che le accomuna, la Russia fa parte anche del direttivo del gruppo di Minsk per il raggiungimento della pace tra Baku e Stepanakert (capitale del Nagorno Karabakh) nel quadro stabilito dall’Osce. Usando questa posizione di negoziatore, Putin ha imposto alla povera e debole Armenia la resa, quando invece avrebbe potuto continuare a sostenerla almeno militarmente. Ma al presidente russo interessa di più mantenere aperto il dialogo con la Turchia e con l’Azerbaijan a causa dei suoi corridoi energetici verso l’Europa che rappresentano in parte un’alternativa a quelli russi. Insomma, ancora una volta a muovere i fili di questa zona tormentata del Caucaso, sono stati il presidente turco Erdogan e il suo omologo Putin.

Il tradimento di Putin ha fatto sì che Yerevan non sia più stata in grado di sostenere militarmente l’enclave che si trova appena oltre il confine azero. Per tutte queste ragioni è stato Putin e non Aliyev ad annunciare per primo l’accordo per un totale cessate il fuoco nel Nagorno Karabakh. Gli armeni hanno accolto l’annuncio assaltando il palazzo del governo per tutta la mattinata per poi dirigersi verso la residenza del primo ministro Nikol Pashinyan, che aveva definito l’accordo “doloroso”, urlando accuse di tradimento. La gente è esplosa per la rabbia quando ha visto il presidente azero in tv che infieriva pronunciando tronfio: “L’abbiamo (Pashinyan, ndr) costretto a firmare una vera e propria capitolazione”. Aliyev ha detto che l’accordo è di “importanza storica”, e che dà all’Armenia un breve lasso di tempo per ritirare le truppe dal Nagorno-Karabakh.

Trump non si rassegna, Biden si consola grazie all’Obamacare

Per Joe Biden, la buona notizia è che l’Obamacare sembra potere uscire quasi indenne dal giudizio della Corte Suprema: nell’udienza di ieri, il presidente John Roberts e il giudice Brett Kavanaugh, uno dei tre nominati da Donald Trump, hanno manifestato seri dubbi sull’abolizione della riforma della sanità di Barack Obama, sollecitata da un gruppo di Stati repubblicani guidati dal Texas e appoggiati dall’Amministrazione Trump. I due giudici, entrambi conservatori, si sono mostrati scettici sull’ipotesi di revoca dell’Obamacare, anche se una o più delle sue norme dovesse risultare incostituzionale. La decisione della Corte non è attesa prima del giugno 2021. La cattiva notizia è che il magnate presidente continua a tagliare le teste degli ‘infedeli’ e non vuole avviare la transizione dei poteri. Ieri, erano quattro anni esatti che Obama riceveva alla Casa Bianca Trump vincitore delle elezioni, svoltesi appena due giorni prima, l’8 novembre, mentre il suo vice Biden cominciava a lavorare con il vice eletto Mike Pence.

Dopo la rimozione del segretario alla Difesa Mark Esper, s’è dimesso un suo vice, James Anderson. Trump ha pure rimosso il responsabile del rapporto sul cambiamento climatico, Michael Kuperberg. Direttore esecutivo del Global Change Research Program diventa Betsy Weatherhead. La messa da parte di Kuperberg segue l’ingresso nel team di Trump di David Legates, accademico dell’università del Delaware, secondo cui il “diossido di carbonio è un alimento vegetale, non una sostanza inquinante”. Il ministro della Giustizia William Barr, uno che rischia il posto, cerca di salvarsi autorizzando l’avvio di indagini su “accuse rilevanti ” di frode elettorale. A causa della decisione di Barr, che rompe una tradizione di non ingerenza nelle elezioni, Richard Pilger, il principale procuratore per i crimini elettorali negli Usa del Dipartimento di Giustizia, lascia l’incarico. Anche il leader della maggioranza repubblicana al Senato Mitch McConnell, che pareva esitante, avalla il rifiuto di Trump di ammettere la sconfitta nelle elezioni, il cui esito – dice – è “incerto”.

“Il brusco licenziamento del segretario Esper è una prova inquietante di come il presidente Trump intende usare gli ultimi giorni del suo mandato, seminando caos nella nostra democrazia”, osserva la speaker della Camera Nancy Pelosi. Biden non esclude di intraprendere azioni legali contro l’amministrazione Trump accusandola d’ostacolare l’avvio del processo di transizione in maniera illegale.

Legge, ordine e Wall Street: l’altra faccia di Kamala

Il cambio di scena è netto: di là, accanto al presidente misogino, un vice che incarna il prototipo del conservatorismo americano. Di qua la prima vicepresidente afro-asian-americana.

Kamala Harris si presenta come l’elemento di maggior discontinuità nell’era post-Trump eppure il modo in cui la sua figura viene esibita dal circuito mainstream fa pensare a un maquillage in cui il genere e il colore della pelle sono disgiunti dalle idee politiche.

I natali di Harris, in realtà, promettevano bene: nata a Berkeley nel 1964, figlia di due accademici impegnati nel movimento per i diritti civili, l’aria della rivolta la respira nel passeggino. Con la laurea a Harvard e poi la Law School imbocca la carriera di avvocato ed entra nell’ufficio del procuratore di Oakland dove stringe i legami con l’alta società di San Francisco e si fa la nomea di “sceriffa”: durante i primi tre anni di procuratore distrettuale il tasso delle condanne sale dal 52 al 67%.

A sostenere che Kamala Harris non fosse “un procuratore progressista” è il progressista New York Times in un articolo del 2019 a firma di Lara Bazelon, professoressa di diritto ed ex direttrice del Loyola School Project for the Innocent di Los Angeles: “Quando i progressisti l’hanno esortata ad accettare le riforme della giustizia penale come procuratore distrettuale e poi procuratore generale dello stato la signora Harris si è opposta o è rimasta in silenzio”. La dura bacchettata riguarda l’atteggiamento aggressivo contro i genitori dei figli trovati a marinare la scuola, quasi tutti provenienti da famiglie della comunità nera a basso reddito.

Eppure, sul razzismo proprio lei era andata all’attacco di Joe Biden rimproverato di essersi opposto alla politica del busing, cioè il trasporto dei ragazzi neri nelle scuole popolate dai bianchi. Qualche giorno dopo quel dibattito, però, è il Washington Post a dimostrare che la sua posizione “non appare così distante da quella di Biden”.

Harris si mostra dura anche sulla pena di morte: “Quando un giudice federale della contea di Orange – scrive ancora Bazelon – ha stabilito che la pena di morte fosse incostituzionale nel 2014, la signora Harris ha presentato ricorso”. E sul sistema giudiziario ha posizioni “classiste”, ma al contrario, sui detenuti: quando nel 2014 la California è chiamata a ridurre il sovraffollamento delle carceri – per i detenuti non pericolosi e che avessero scontato metà della pena – l’ufficio di Kamala Harris sostiene il mantenimento al lavoro dei detenuti non pericolosi perché altrimenti il sistema carcerario avrebbe perso manodopera a basso costo.

I legami con l’élite si confermano nella rinuncia a perseguire Steve Mnuchin, attuale Segretario al Tesoro di Donald Trump. La notizia fu diffusa dal giornale indipendente The Intercept e riguardava “una condotta scorretta diffusa” assunta da Mnuchin alla guida della sua banca, la OneWestBank. Si trattava di oltre un migliaio di violazioni legali nella sottosezione prestiti, ma “l’ufficio di Harris”, scrive Intercept, “senza alcuna spiegazione, ha rifiutato di perseguire il caso”.

I rapporti con le corporations sono particolarmente buoni nel caso delle Big Tech: in qualità di Attorney General dello Stato Harris non ha fatto nulla per limitare lo strapotere di Facebook

, soprattutto per quanto riguarda la privacy. Anzi è noto che considerava le Big Tech “un partner” utile a presentarla come stella nascente nella politica americana.

Kamala Harris è il volto centrista e moderato del Partito democratico in piena continuità con Hillary Clinton della quale ha ereditato, al tempo della sua campagna per le primarie, gran parte dello staff. Un punto di incontro nevralgico tra le due è Michèle Flournoy, già vicesegretaria alla Difesa di Obama, figura di spicco del mondo militarista che si appresta a prendere la guida del Pentagono. Ma i rapporti sono forti anche a Wall Street dove la sua scelta da parte di Biden fu accolta dai vari Ceo al grido di: “Il partner perfetto”.

In una fase degli Stati Uniti attraversata dal peso del “ginocchio sul collo” una presenza come la sua alla Casa bianca – una “mulatta” secondo le scempiaggini di certa stampa – costituisce una risposta a quanto avvenuto nella società americana. Ma per le sue idee e i suoi atti Kamala Harris rappresenta quel partito democratico tradizionale che ha già favorito l’avvento di Trump e che, come nota la rivista Jacobin, “vuole riportarci al 2015” come se nulla fosse successo. Sperare che non accada di nuovo è lecito.

Sorelle Pilliu, è arrivato l’Erario (dopo la mafia)

L’ennesima beffa alle sorelle coraggio di Palermo, Maria Rosa e Savina Pilliu, è una cartella esattoriale di 22 mila e 842 euro spedita dall’Agenzia delle Entrate di Palermo che scade in questi giorni. Lo Stato fa l’ennesima pessima figura chiedendo le tasse sulla causa vinta da queste due sorelle che hanno sfidato la mafia del cemento e hanno avuto ragione. Il risarcimento non lo hanno avuto ma lo Stato vuole le tasse lo stesso. La causa riguarda il palazzo di via del Bersagliere 77 a Palermo, vicino a Piazza Leoni, che i lettori del Fatto conoscono bene.

Tutto inizia nel 1990. Le sorelle Pilliu erano proprietarie di alcune case a Palermo e il costruttore Pietro Lo Sicco, forte della sua vicinanza ad ambienti mafiosi, voleva che le cedessero per aumentare la cubatura sul suo suolo attiguo. Quando le Pilliu rifiutarono, Lo Sicco, per costruire il suo palazzo di tre scale e 9 piani, dichiarò al Comune che le particelle fossero già sue e si impegnò a demolire le casette altrui. Poi buttò giù con la ruspa le case sopra e accanto a quelle delle sorelle, rimaste inagibili ma in piedi. La licenza, grazie a una mazzetta all’assessore arrivò subito mentre la demolizione del fabbricato non arrivò mai.

Le sorelle Pilliu hanno lottato per 30 anni e vinto in tutti i tribunali: i giudici amministrativi hanno dato torto alla società di Lo Sicco, difesa allora da Renato Schifani, e hanno annullato la concessione nel 1996. Poi due sentenze civili definitive hanno stabilito che il palazzo debba essere arretrato (cioè abbattuto) per 2,2 metri per rispettare le distanze e che alle Pilliu spetta un risarcimento di 700 mila euro.

Invece il palazzo è rimasto al suo posto e le sorelle non hanno incassato un euro. Le Pilliu avevano iniziato a parlare a luglio 1992 con Paolo Borsellino pochi giorni prima che lo uccidessero. Alla fine il costruttore è stato condannato nel 2001 per truffa, falso e corruzione “soltanto per la resistenza delle Pilliu – scrivono i giudici – che egli pensava di tacitare come gli altri proprietari ricorrendo a offerte generose (o a minacce più o meno velate)”. Poi, sempre grazie anche alle Pilliu, è stato condannato definitivamente a sette anni anche per concorso in associazione mafiosa. Eppure per lo Stato le Pilliu non sono vittime di mafia. Il palazzo delle loro disgrazie, quello di via del Bersagliere, però ha una storia intrisa di mafia. Boss e pentiti in vari processi hanno raccontato che durante la costruzione c’erano contatti tra Lo Sicco e boss di primo livello come Pinuzzo Guastella e Totuccio Lo Piccolo; poi la ditta dei fratelli Graviano, condannati per le stragi del 1992-3, ha fornito i blocchetti per la costruzione; Gioacchino La Barbera ci accompagnava Leoluca Bagarella che voleva prendere un appartamento ma poi lasciò il passo a Giovanni Brusca che ne prese uno tramite un prestanome per la latitanza e due boss erano troppi per uno stabile.

Il genero del costruttore Salvatore Savoca si occupava del cantiere fino alla scomparsa per lupara bianca. Altri inquilini erano il nipote e il figlio dell’autista di Stefano Bontate, Giuseppe Marsalone, ucciso nel 1988. Abitava al settimo piano anche la figlia di Stefano Bontate. Le due figlie di Lo Sicco avevano due appartamenti e l’amministratore giudiziario è stato condannato dalla Corte dei Conti perché non gli chiedeva nemmeno il canone.

Legato alla mafia ma anche ricco e rispettato, Lo Sicco girava su Ferrari 348 e Porsche Carrera (poi sequestrate con centinaia di appartamenti) ed era difeso da un amministrativista di grido come Renato Schifani, futuro presidente del Senato. Nella sentenza di condanna di Pietro Lo Sicco i giudici riconoscono da parte sua “…l’utilizzazione delle amicizie mafiose cercando di far recedere, anche con la minaccia, alcune proprietarie di beni a lui indispensabili site nell’area di via del Bersagliere”. Però quando le sorelle Pilliu fanno richiesta al Comitato del Fondo vittime della mafia di rifondere il risarcimento di 700 mila euro al posto della società confiscata l’ufficio del Ministero dell’Interno il 17 aprile 2019 rigetta la domanda. Secondo la delibera firmata dal viceprefetto Fiorella Fontana non c’è nesso di causalità tra il danno subito e il reato di mafia. L’avvocato Giulio Falgares ha citato in giudizio il Ministero. Intanto è arrivata l’ennesima tegola della cartella esattoriale.

Le sorelle avanzano 700 mila euro per i danni liquidati dalla Corte di Appello con la sentenza del 2018, più gli interessi. Però la società Lopedil, ormai passata all’Agenzia dei beni confiscati alla mafia, non paga. Perché la Sicilcassa ha pignorato quasi tutti gli appartamenti della Lopedil e ha chiesto al tribunale di vendere tutto all’asta per rientrare del prestito dato nel 1992 alla Lopedil. Ormai quasi tutti gli appartamenti sono stati venduti a prezzi convenienti: 1000 euro al metro quadrato. Un secondo piano è andato nel 2019 ai due figli ventenni di Giuseppe Marsalone, arrestato per traffico di droga in Germania nel 2003, a sua volta figlio di Rocco Marsalone e nipote del fratello Salvatore Marsalone, classe ‘53, condannato al maxi processo e in passato arrestato per traffico di droga. Anche Salvatore Marsalone vive da decenni nell’attico e superattico di 400 metri quadrati della scala A con la famiglia. Il mega appartamento è andato all’asta con il garage di 60 metri il 29 ottobre 2020 con una base di 401 mila euro e offerta minima di 300mila. Non è possibile sapere dalla procedura chi lo abbia acquistato.

Le sorelle Pilliu invece avevano ottenuto in affitto dall’amministratore giudiziario dal 2000 l’appartamento prima usato da Brusca per la latitanza. Le sorelle coraggio nella casa dell’uomo che ha schiacciato il telecomando a Capaci sembrava un bel messaggio antimafia. Purtroppo anche qui lo Stato ha dato il peggio di sé: l’amministratore giudiziario ha affittato infatti per errore alle Pilliu un appartamento già venduto nel 1996 da Lo Sicco a un signore che abitava al piano di sopra senza sapere che non era suo. Quando quello sopra è andato all’asta, il signore ha chiesto quello sotto intestato a lui e affittato alle Pilliu nel 2000. Ora c’è una causa in corso. Le sorelle sostengono che l’atto di vendita era nullo perché il palazzo era abusivo e nel 1996 era in piedi la causa per annullare la concessione. Però ora rischiano pure di dover pagare i canoni arretrati. E lo Stato, dopo aver dormito o mal gestito per decenni, ora si risveglia per chiedere le tasse di registro sulla causa vinta dalle Pilliu contro la Lopedil. Visto che la società soccombente nel giudizio non ha un euro, l’Agenzia delle entrate chiede l’imposta del 3 per cento sui 700mila euro a chi ha vinto ed è co-obbligato in solido, cioé alle Pilliu. C’è però un piccolo particolare: le sorelle non hanno mai visto un euro.

Allo Stato resta l’ultima chance di riscatto: il Tribunale di Palermo a breve dovrà decidere se le Pilliu sono vittime della mafia e quindi se il Ministero dell’interno debba pagare almeno il risarcimento di 700 mila euro al posto di Lopedil. Chissà come finirà. Una cosa è certa: se le sorelle Pilliu non sono vittime della mafia sono vittime dello Stato.

“Non mi meritate!”: ora Bassetti scatena la fatwa del basilico

Questa proprio non ci voleva. Non bastavano la malattia, la sanità in crisi, l’economia paralizzata, l’incertezza sul futuro, i lockdown totali sempre più imminenti. Ora un’ altra tragedia si abbatte sull’umanità: il professor Matteo Bassetti minaccia di andar via da Genova perché è offeso, i genovesi lo trattano male. Quanta irriconoscenza. Anziché essere grati, questi genovesi, al professore che li ha tranquillizzati per mesi convincendoli del fatto che la seconda ondata al massimo sarebbe stata quella su Voltri col Libeccio, si mettono pure ad avercela con lui. Lui che “Il Covid c’è ancora qualche caso grave sporadicissimo, ma ormai è diventata veramente molto simile a una forma influenzale”, che “Non c’è stata una seconda ondata di Coronavirus, si tratta di una coda, peraltro prevedibile”, che “Mi chiedo, è il caso di fare tanto ‘sciato’, come si dice a Genova, tutto questo casino, per una quantità di gente asintomatica?”, che “È da maggio che non arriva un paziente in rianimazione. Le discoteche? Si può ballare con le mascherine. E a settembre tutti a scuola!”. Davvero, io non so perché questi genovesi non siano grati al talento ai confini del divinatorio del grande Professor Bassetti. Al capitano che è rimasto saldo al timone mentre tutto il resto del paese affondava con gli Schettino della virologia, con i Galli, con i Crisanti, con tutti quei cazzari che continuavano a dire “Il virus non è cambiato”, “Il virus tornerà”, “Minimizzare è pericoloso”.

È proprio vero che questi genovesi hanno un brutto carattere. Non se lo meritano un luminare come Bassetti. Si meritano una nuova epidemia, una xylella del basilico, una peste del pinolo che estingua il pesto ligure in una settimana. E fa bene Bassetti ad essere furioso, mentre va in tv a promuovere il suo nuovo libro Una lezione da non dimenticare, il cui sottotitolo iniziale doveva essere “Nel dubbio, durante una pandemia, meglio tacere che dire minchiate”. Fa bene a dichiarare piccato: “Mi farò da parte, sono arrabbiato con una parte politica che parla di Bassetti, si occupassero più di politica, farebbero il bene della nostra regione!”. Un po’ come certi professori abituati a parlare di sé in terza persona come Maradona che se si occupassero un po’ più di malati anziché di tv, radio, Instagram e giornali, farebbero il bene della loro regione. Fa bene, Bassetti, a dire che è un problema di cattiva comunicazione. Che è colpa degli esperti che fanno terrorismo, dei gufi che profetizzavano sciagure, degli allarmisti del Covid, dell’informazione che crea panico. Poi la gente si lascia suggestionare. Affolla i pronto soccorso. Addirittura muore. Nessuno dice che gli attuali 400 morti al giorno li secca il Tg, mica il Covid. Basta uno sguardo torvo di Mentana e vai in arresto cardio-circolatorio. Non capisco proprio perché i genovesi non si fidino di Bassetti. Io quando l’ho visto in tv con i libri della Rolex sullo sfondo mi sono sentita confortata, rassicurata dalla scienza. Ho capito che lui avrebbe calcolato i tempi della seconda ondata consultando il quadrante del Daytona. Che sarebbe andato tutto bene. Che c’era da fidarsi. Anche quando si è difeso dalle accuse di aver fatto pubblicità alle cravatte con la motivazione “Ho fatto pubblicità a un’azienda che ha donato 10 000 euro al San Martino!”, aveva ragione lui. Se Fiat dona 100 000 euro al San Martino lui si fa fotografare nella corsia del reparto Covid su una Mini Cooper, è aziendalista. È amareggiato il prof Bassetti. Come dargli torto. “Non posso vivere in un luogo dove mi vergogno a far leggere ai miei figli cosa dicono di me, sono schifato”, ha detto. In effetti la banda larga arriva fino a Lerici, poi dalla Toscana in giù nessuno può più leggere cosa si scrive di Matteo Bassetti, gli basterà portare in salvo la famiglia a Viareggio. E in fondo, tutti memori dell’esattezza chirurgica delle sue previsioni, gli ospedali italiani se lo litigano. “Ricevo ogni giorno offerte di lavoro, potrei andare dove voglio. Arrivati a questo punto o mi rassegno alla mediocrità oppure me ne vado, col dispiacere nel cuore”, ha raccontato Bassetti in una recente, addolorata intervista.

In effetti non ha specificato il tipo di offerte di lavoro ricevute, io per esempio ho il kebabbaro sotto casa che proprio giorni fa mi diceva “Come mi piacerebbe far affettare l’aglio per il kebab a quel professore di Genova!”. Posso dunque testimoniare che sì, se lo litigano. E poi lo avrete letto, è stato nominato coordinatore gestione pazienti Covid per il Ministero della Salute. Mi pare giusto. Vuoi non premiare chi il 23 agosto, con commovente, impressionante lungimiranza, diceva: “Ecco un dato che tutti aspettavamo e che alcuni di noi avevano ampiamente previsto già tre mesi fa. Dopo la carica virale ridotta, ecco la dimostrazione che il SARScoV-2 è mutato!”? Vuoi non premiare chi, tra gli esperti, conta il maggior numero di pubblicazioni su Instagram di selfie? Chi ha passato l’estate a minimizzare affermando che avevamo imparato a gestire il virus e a tracciare e ora dice che a Milano la situazione è fuori controllo? Vedete, è Genova che non se lo merita. E Bassetti fa bene a scappare da quel covo di irriconoscenti. Se solo mi facesse la cortesia di non venire a Milano, ecco, gli sarei grata. Mica per altro. Abbiamo già Gallera, Fontana, Zangrillo e la zona rossa. Direi che a sciagure siamo già a posto così, grazie.