Oltre la poesia E tra i “Rovi” spunta la rivolta contro l’affermarsi di un fascismo universale

Chi, leggendolo, sa che Davide Nota, giovane scrittore e poeta della Costa adriatica è stato a lungo vicino di luogo e di scrittura di un poeta (e, fatalmente, un maestro ) come Gianni D’Elia, ha un punto di orientamento molto importante su questo autore. La Costa adriatica ha segnato molta poesia e letteratura italiana con un doppio registro di tenerezza e inesorabile asprezza, di decisione sospesa e scelta perentoria, dolcezza e amarezza che si accostano, si susseguono, si alternano come movimenti musicali legati e incompatibili. Oggi Davide Nota, dopo qualche romanzo e molta poesia, pubblica un testo, Rovi, che sposta in avanti lo spazio del suo coraggio di esplorazione solitaria. Tiene nello stesso conto lo sguardodell’uno e dell’altro. Procede cauto e doloroso, e – a volte – con una spietata durezza.

Avete, lettori, una enorme libertà in questo libro. Se volete potete farlo cominciare con “adolescenza”: “Le gelide mattine sulle panchine gelide a scartare maritozzi aspettando mezzogiorno dentro il piumino nero, sotto il cielo sterrato, incomprensibile avervi creduto, mattine”; e potete concluderlo con questi versi: “Così il mercato dell’impero nero, tra i profughi, i suicidi e gli ammazzati, battezza con il sangue dei soldati l’avvento del fascismo universale”. Fra questi due spezzoni di versi troverete la storia grande e profonda di uno sguardo che cerca dimensioni, non due, non quattro, ma un bellissimo e misterioso poliedro che misteriosamente continua a mutare e a cambiare, anche quando questo dovrebbe essere un lavoro finito che contiene una poesia con versi belli e parole indimenticabili. Rovi, il titolo, racconta la rudezza tagliente delle sue righe, dei suoi versi. Ma poi il taglio entra dentro uno spazio gremito di esseri umani, tremendi e amorevoli, odiosi e da proteggere, se non altro con l’attenzione mite di un verso, di una parola.

Ci sono anch’io, in questo libro di poesia. Sono nell’ultima parte di un grande inventario di ciò che Davide Nota vede mentre esplora: “Sono appena rientrato da un pranzo con F. C. – un lunch, come lo chiama all’americana”. E infatti in borsa avevo Kerouac e Tony Harrison. “La mia intenzione è quella, dico, di cambiare referente, per rivolgermi a un prossimo come potrei essere io ai tempi del liceo”. “Il difetto, mi risponde, è forse in questo stile colmo di riferimenti intertestuali e colti”. Per fortuna il poeta non ci crede e continua la sua strada. La parte che segue è ancora più popolata di esseri umani disperati e felici che uccidono e credono. Credono tutti nello stesso Dio.

 

Rovi Davide Nota, Pagine: 167, Prezzo: 15, Editore: Agrolibri

Mail Box

L’aumento delle bollette è colpa del liberismo

Se non ricordo male le grandi multinazionali firmavano contratti di fornitura decennali con produttori di combustibili sia gassosi che liquidi (Libia, Algeria, Russia, Arabia Saudita e via dicendo) a un prezzo stabilito per joule, che poteva essere modificato entro un range fra il 5 e il 10 per cento. Lo dico in quanto ho lavorato all’Eni per più di 35 anni. Insomma, questo procedimento assicurava a noi una fornitura costante a un prezzo politico, che non creava grossi sbalzi. I recenti aumenti del costo del gas secondo me sono dovuti a un gioco dei nostri fornitori, che con la scusa degli aumenti del mercato libero stanno rapinando gli italiani per riempirsi le tasche. Mi meraviglio che nessuna forza politica abbia il coraggio di verificare e fermare questa rapina, che sta distruggendo le piccole e medie industrie.

Omero Terrin

 

I danni fatti dalla sanità privata in Lombardia

La suddetta sanità, in Lombardia e nel Nord Italia, è oramai stata fagocitata e omologata da una grande gruppo privato. I lavoratori, che non si vedono rinnovare il contratto da 14 anni, ora si vedono scalzati da cooperative alle quali sono affidati reparti e servizi: si crea così un comparto nel quale la stessa mansione ha differenze enormi di retribuzione a seconda della regione e del contratto applicato. Tutto questo in un silenzio assordante dei sindacati di categoria che, dovrebbero tutelare il lavoro ed i lavoratori.

Luca

 

Draghi non ha imparato nulla dal Nobel Stiglitz

Il trattato di Maastricht ha contribuito a peggiorare l’economia del nostro paese: con la lira eravamo la quarta potenza manifatturiera al mondo, con l’euro siamo sprofondati al nono posto e oltre. Aveva ragione il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz: “La moneta unica ha cancellato il principale meccanismo di aggiustamento a disposizione degli stati: il tasso di cambio. Così l’eurozona ha limitato l’autonomia degli stati nella politica monetaria e fiscale”. A tale proposito, Stiglitz sosteneva che nei periodi di crisi sarebbe stato necessario, soprattutto per i paesi indebitati, ricorrere a massicci investimenti pubblici per favorire la crescita economica e mai a politiche di austerity, che l’illustre economista paragonava a una stupida modifica della disposizione delle sdraie sul ponte del Titanic. Alla luce di quanto detto, considerato che Draghi, a differenza di Stiglitz, non ha vinto nessun premio Nobel, va guardato a vista onde impedire che faccia altri danni come quelli che hanno devastato la Grecia. Solo il premier Conte è riuscito a convincere i partner europei a sospendere in occasione della pandemia il patto di stabilità dei famigerati trattati e ad abbandonare le devastanti politiche di austerity che a suo tempo avevano messo in ginocchio la Grecia.

Maurizio Burattini

 

Così siamo stati privati dell’art. 1 della Carta

Penso che molti di noi cittadini, pur di diversi schieramenti politici, siano rimasti disgustati dallo spettacolo offerto dai nostri rappresentanti parlamentari in occasione della recente elezioni del capo dello Stato, che in forza dell’art. 87 “rappresenta l’unità nazionale”, e quindi dovendo essere super partes. Fra i nomi di volta in volta proposti, risultavano molti titolari di condanne penali poi prescritte; alla fine hanno ripiegato sulla conferma del presidente uscente, attuando una sostanziale forzatura, anche se non vietata dalla legge. D’altra parte che cosa dobbiamo aspettarci da un parlamento nel quale, con disinvoltura, ben 276 deputati (voltagabbana) sono usciti dallo schieramento politico nel quale erano stati eletti. L’art. 1 della Costituzione dice che “la sovranità appartiene al popolo”. Per rendere effettivo questo fondamentale diritto è necessario che la legge elettorale, da approvarsi prima delle prossime elezioni politiche, preveda la possibilità che l’elettore esprima delle preferenze scelte dalle liste elettorali e che esse siano determinanti. L’art. 49 della Carta prevede per i cittadini la possibilità di associarsi in partiti, ma tale facoltà non autorizza le segreterie a conculcare il diritto dei medesimi a esprimere le scelte dei propri rappresentanti, facoltà questa nella quale si realizza nel più alto grado la “sovranità nazionale”. Vogliamo in sostanza essere cittadini non sudditi. Qualora in occasione dei prossimi comizi elettorali tale riforma non sia stata realizzata, andrò al seggio e sulla scheda elettorale scriverò: impossibilitato a votare, in quanto privato della sovranità di cui all’art. 1 della Costituzione.

Fabio Cioni

Fassino, non si scherza con le profezie di fassino. Applausi per Zingaretti

 

BOCCIATI

PREVISIONI A POSTERIORI. Da quando suggerì a Beppe Grillo di fondare un partito per vedere quanti voti avrebbe preso, e invitò Chiara Appendino a sedersi sulla sua sedia di sindaco di Torino ‘e vediamo se poi sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di poter fare’, le profezie di Piero Fassino sono diventate proverbiali. Fino ad oggi l’ex primo cittadino ha sempre fatto buon viso a cattivo gioco di fronte alla nomea di rediviva Cassandra, sbagliata però, come il Negroni, e ha evitato di sollevare obiezioni sulla sua fama così brillantemente guadagnata. In questi ultimi giorni però, dato il caos nel mondo Cinque Stelle, tra l’eterna querelle Conte-Di Maio e l’annullamento della carica a leader politico dell’avvocato, l’esponente democratico ha deciso di rifarsi e ad ‘Un giorno da pecora’ si è vendicato così: “Le profezie poi si sono avverate, bisogna solo aspettare che passi il tempo: nel corso del tempo hanno perso un sacco di voti e la Appendino si è seduta sulla mia poltrona e poi i torinesi hanno scelto un altro sindaco”. Una visione quanto mai curiosa quella di Fassino: sarebbe come se un meteorologo prevedesse temporali nell’ultimo fine settimana di Ottobre, il suddetto weekend splendesse un sole che spacca le pietre, e lo studioso pensasse di rifarsi con un acquazzone di fine Marzo. E su onorevole Fassino, con le profezie di Fassino non si scherza.

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PROMOSSI

ALTRE PROFEZIE. “Sono molto pessimista sul futuro prossimo. Avremmo bisogno di una tregua sociale e politica tra tutti. Come dopo la guerra. Lasciando da parte ogni spaccatura e divisione. Compresa l’ultima, quella nata sul covid. Altrimenti lo tsunami in arrivo ci farà ancora più male”: questa di Guido Crosetto, invece, è una di quelle profezie che spereremmo non si avverasse, ma la paura è molta.

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FATTI NOSTRI. ‘I ragazzi hanno pagato il prezzo più alto di questa pandemia’, ‘I giovani sono quelli che soffrono di più’, ‘C’è una generazione a rischio’, ‘I danni psicologici sugli adolescenti saranno enormi’, ‘Rischiamo di rovinare una generazione’: sono mesi ormai che sentiamo frasi di questo tipo un po’ da tutti i lati. La politica in particolar modo non fa che riempirsi la bocca di quello che è un tema che non prevede contestazioni di sorta. Parole parole parole. Finalmente arriva un fatto: la Regione Lazio stanzia 10,9 milioni di euro per la salute mentale dei giovani: voucher per assistenza psicologica e accesso alle cure per la salute mentale e prevenzione del disagio psichico, potenziamento degli Sportelli di ascolto nelle scuole e rafforzamento dei servizi territoriali per la salute mentale. “I problemi non possono sempre e solo essere segnalati, ma vanno anche affrontati con politiche attive: per questo non possiamo oscurare il fatto che la pandemia ha lasciato in molte persone, soprattutto nelle nuove generazioni, dei danni psicologici enormi. Dobbiamo riflettere su quanto si è stati disattenti nei confronti di questi ragazzi, che vengono formati e poi messi sulle bici a consegnare pizze: noi stiamo investendo sulla ripresa di una prospettiva di vita”: così il presidente Nicola Zingaretti. Finalmente.

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La lingua non si cambia con diktat dall’alto: il voi fascista insegna

 

BOCCIATI

Sottogamba. Il giornalista Davide Maggio ha criticato il look di Emma a Sanremo: “Se hai una gamba importante eviti di mettere le calze a rete”. Lei ha risposto così, in un video importante postato sui social: “Buongiorno dal Medioevo, il body shaming con il linguaggio politically correct, non so se è più imbarazzate o noioso. Mi rivolgo soprattutto alle ragazze, giovanissime: evitate di ascoltare o leggere commenti del genere. Il vostro corpo è perfetto così com’è, dovete amarlo e rispettarlo e soprattutto dovete vestirvi come vi pare, sia che abbiate gambe importanti o meno”. Brava Emma, non poteva cantargliele meglio.

 

PROMOSSI

Mica tanto easy. Tre premi ricevuti ai Brit Awards, i riconoscimenti britannici della musica per la canzone “Easy on Me”: Adele è tornata, a 33 anni, dopo sei anni di silenzio, la maternità e il divorzio, con un disco in cui racconta di sé, fragilità e amarezze incluse. Sul palco, durante la premiazione, ha detto: “Sono felice di essere donna e un’artista femmina”. Il commento, riferito al fatto che in questa edizione della kermesse le categorie di genere non erano previste, è stato ripreso da alcuni utenti di Twitter che lo hanno giudicato figlio di una visione terf, ovvero da femminista radicale trans-escludente: “Chi avrebbe mai pensato che Adele potesse essere transfobica e potesse usare la sua visibilità per distruggere la comunità trans”. Alla polemica, immediatamente ripresa dai media, si è accodata la scrittrice femminista Milli Hill: “Spero che chiunque non si fosse accorto che siamo tra le grinfie di un’ideologia dannosa abbia aperto gli occhi e possa vedere quanto è controverso oggi dire sono felice di essere donna”. Chi dice donna dice danno: il nuovo maschilismo ha sempre le stesse parole, solo che ora il megafono sono le donne…

Stell di schwa. Un illuminante pezzo di Gian Antonio Stella sul Corriere fa il punto sull’ennesima polemica linguistico-inclusiva. L’articolo comincia così: “Silvi, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, liet e pensos, il limitare / di gioventú salivi?”. Direte: che roba? Giacomo Leopardi politically correct: amava Silvia, Silvio o un neutro “non binario?”. Succede che un appello (non è il primo) contro l’abuso dello (della, del dell) “schwa” sia stato firmato da Luca Serianni, Edith Bruck, Alessandro Barbero, Massimo Cacciari, Paolo Flores d’Arcais e Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca. Stavolta l’innesco sono i verbali redatti da una Commissione nel concorso per l’abilitazione a professore universitario di Organizzazione aziendale nel settore delle discipline economico-giuridiche. “Sono presenti i Professor3”, dove il 3 (“schwa lungo”, a indicare il plurale o forse una compagnia telefonica) sta per professori maschi, femmine e non binari. Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica a Cagliari e promotore dell’appello, parla di una “pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica’. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della ‘e rovesciata’ non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche”. Abbiamo un precedente non lusinghiero per i fautori dell’imposizione del neutro inclusivo, il voi fascista, lanciato sul Corriere nel gennaio del ‘38 dallo scrittore fiorentino Bruno Cicognani con il celebre elzeviro “Abolizione del Lei” (una paroletta “turpe, infetta, esecrabile, disgustosa”). A proposito di inclusività, una velina suggeriva: “Abolite nei vostri rapporti personali il lei femmineo, sgrammaticato, straniero, nato due secoli or sono, in tempi di schiavitù”. Durò come un gatto in tangenziale (ne fece le spese il settimanale Lei, costretto a cambiare nome in Annabella) ed era una regola molto più semplice da assorbire per la comunità dei parlanti.

 

Poste&telefonia Il difficile connubio tra la burocrazia e la semplificazione

Il 9 dicembre scorso ho spedito una “raccomandata A.R.” e solo dopo più di un mese, il 12 gennaio, la lettera è stata infine “resa disponibile” per il destinatario (che l’ha ritirata il 17 gennaio). Dopo quasi un altro mese, mi è stato poi recapitato l’avviso di ricevimento. Sia io, sia il destinatario abitiamo a pochi metri di distanza e a pochi metri dall’ufficio postale, ma ciò è ininfluente in un’Italia dove esistono, ope legis, raccomandate che non possono essere consegnate a mano facendosi firmare una ricevuta e dove, qualora il mittente possa usare l’e-mail certificata Pec, non può certo obbligare il destinatario ad averla. Dalla scorsa estate, inoltre, la società telefonica cui sono abbonato addebita agli utenti, che hanno scelto la domiciliazione bancaria, le bollette senza renderle disponibili né sul sito web né inviandole per e-mail o per posta, oltre ad essere praticamente irraggiungibile sia telefonando (e pagando il tempo della musichetta d’attesa) al servizio clienti, sia tentando di inviare un telefax. È solo una mia impressione oppure in questo decaduto Paese non esiste qualcuno che abbia l’obbligo di controllare e provvedere. Oppure, se esiste, non controlla o non provvede?

Gian Carlo Macchi

 

Gentile Macchi, nella sua riflessione, condivisibile, ha toccato due tra i punti più nevralgici e dolenti del Paese: l’innovazione e la digitalizzazione del sistema postale da una parte e gli immancabili disservizi, balzelli della telefonia che compromettono la trasparenza per i clienti dall’altra. Insomma, due criticità all’ordine del giorno con cui dover convivere. Con i servizi postali, l’ultimo miglio da percorrere potrebbe essere proprio quello verso l’innovazione: l’introduzione obbligatoria della Pec. Magari come accaduto con lo Spid e la Carta d’identità elettronica per accedere a tutti i servizi della Pubblica amministrazione che, starà sì facendo dannare gli utenti più arretrati tecnologicamente, ma ha anche accorciato le distanze tra utenti e burocrazia, rendendo accessibili documenti fino ad oggi irraggiungibili. Note dolenti, invece, per la telefonia. È qui che, come dice lei, c’è l’obbligo dello Stato di controllare. Le Authority competenti lo fanno. Le sanzioni contro i gestori di certo non mancano, ma le criticità viaggiano a una velocità decuplicata. La soluzione è sfruttare la concorrenza.

Patrizia De Rubertis

Brividi! Il calcio italiano è in ginocchio ma discute di Alfano, Casini e Veltroni

“Eti vorrei amare ma sbaglio sempre… e mi vengono i brividi, brividi, brividi”. È ufficiale: la canzone con cui Mahmood e Blanco hanno vinto a Sanremo sta per diventare l’inno ufficiale del calcio italiano: dove tutti in modo imperterrito sbagliano sempre, una mossa dopo l’altra, e dove la situazione, al fixing di oggi, 14 febbraio 2022, è appunto, per dirla con un eufemismo, da brividi.

Ricapitolando. Inutile dire che speriamo tutti fortissimamente di no: ma è giusto ricordare che per la seconda volta consecutiva (mai successo nella storia) l’Italia rischia seriamente di non qualificarsi per il Mondiale di calcio: dopo Russia 2018 rischiamo di restare a casa anche da Qatar 2022. Dice: sarebbe una catastrofe, ma per fortuna il movimento è vivo, scoppia di salute. Macché. Il calcio italiano non è mai stato così malridotto come oggi: al punto che il presidente Figc Gravina è appena stato sfiduciato dai presidenti di serie A – la cui Lega Gravina vuole commissariare – con una lettera invitata al presidente del Coni Malagò mentre il presidente della Lega Dal Pino s’è appena dimesso in polemica con i presidenti stessi.

Dice: okay, forse c’è un po’ di maretta ma i conti almeno sono in ordine. Macché. I conti del calcio italiano sono da mani nei capelli: e se Dal Pino se n’è andato sbattendo la porta è perché sette club, guidati dalla Juve di Agnelli e dall’Inter di Marotta, nella primavera scorsa hanno mandato a picco il piano dei fondi di private equity che avrebbe ridato ossigeno ai bilanci dissestati portando nelle casse 1,7 miliardi.

Dice: manca però la controprova che il piano-fondi avrebbe funzionato. Macché. Non appena la Serie A si rimangia l’accordo, sugli stessi fondi piomba la Liga del presidente Tebas, bocciato tre anni fa dai nostri eroi, che sorretto da tutti i club tranne Real, Barça e Bilbao firma un accordo da 2,6 miliardi con cui le società spagnole sistemano stadi, potenziano i vivai e per ultimo si comprano buoni giocatori.

Dice: ma Juve e Inter sono state costrette al dietro front per una clausola che avrebbe impedito loro l’ingresso nella mitica, fantasmagorica Superlega. Macchè. Oltre ai soldi dei fondi non arrivano nemmeno quelli della Superlega, che muore subito nella culla: tanto che i presidenti di A pensano di fare causa ad Agnelli e Marotta, ideatori e poi sabotatori del tragicomico piano.

Dice: c’era però in ballo anche l’asta dei diritti tv con Agnelli, Marotta e De Laurentiis a premere per la chiusura immediata dell’accordo con Dazn: dopo una vita con Sky, finalmente la svolta. Macchè. I diritti finiscono sì a Dazn ma per meno soldi e una peggiore qualità di servizio.

Dice: però la svolta streaming infiamma l’Italia, gli abbonati si moltiplicano. Macché: tempo sei mesi e l’Agcom informa che l’audience del calcio in tv, a dispetto dei dati forniti da Dazn, si è dimezzata. Al punto che Tim, che concorre alla spesa di 840 milioni annui di Dazn con 340 milioni, caccia il suo ad Gubitosi e chiede a Dazn, visto il flop, uno sconto di 90 milioni per ognuno dei 3 anni dell’accordo.

Dice: sul fronte giudiziario, però, tutto tranquillo. Macchè: le inchieste sullo scandalo delle plusvalenze farlocche di molti club, a cominciare da Juventus e Inter, spuntano come funghi in svariate Procure del Belpaese.

Dice: vabbè, oggi i club di A provano a eleggere il loro nuovo presidente. Come no. Lunedì scorso i nomi discussi sono stati quelli di Alfano, Casini e Veltroni. E insomma, all together now, cantiamo tutti insieme: brividi!

 

Ostia amaraUsata (e bruciata) dai partiti una “assessora” giovane e competente

Era solo metà novembre quando, volendo dare alcune piccole buone notizie ai lettori di Storie italiane, misi nell’elenco dei segni di speranza un fatto che riguardava il municipio di Ostia. Ossia la richiesta di accettare l’assessorato alla legalità (o alla trasparenza) rivolta a una giovane sociologa che conosco molto bene, Ilaria Meli. Ilaria sta finendo una ricerca sulla rigenerazione urbana presso la “Sapienza” di Roma. Ma ha svolto una parte importante della sua attività con l’Università degli Studi di Milano. Partecipando a ricerche per la Commissione europea e soprattutto a tre importanti indagini per la commissione parlamentare Antimafia.

A Roma invece, ed eccoci, ha svolto la sua tesi di dottorato sul caso di Ostia e dei clan che ne hanno infestato la vita pubblica in una lunga inerzia (o tolleranza) di politica, imprenditori e professionisti locali. Più una ricerca sul clan dei Casamonica. Lavori considerati esemplari. Insomma, che qualcuno le avesse proposto di fare l’assessore nel campo che ha procurato a Ostia disastri di immagine, era obiettivamente una buona notizia. Una new entry in arrivo dalla società civile, con importanti esperienze associative alle spalle, Libera e scout anzitutto. Competente su uno dei maggiori problemi del territorio e in più senza debiti elettorali. La condizione ideale. E per questo i Giovani democratici l’hanno reclamata assessore. Ma la politica è una bestia strana. Vale sempre per lei l’esempio dello scorpione suicida che Prodi, con una splendida parabola, evocò per Bertinotti: una tendenza insopprimibile a farsi del male. Così, una volta resa pubblica la buona novella, la giunta di Ostia l’ha fatta sparire con un gioco di prestigio. Approfittando del fatto che la ricercatrice, sostenuta dal sindaco Gualtieri, avesse bisogno di alcune settimane per l’autorizzazione dell’università, il presidente della giunta l’ha dichiarata decaduta.

Direte: l’ha convocata, lei non gli ha potuto dare certezze e lui a malincuore ha pensato di non potere attendere le calende greche. Nossignore. Lei gli aveva comunicato che l’autorizzazione accademica era stata data e che mancava solo una firma: qualche giorno e si sarebbe chiusa. Sono pronta a lavorare con la giunta. Come le era stato richiesto di fare, l’ha comunicato al presidente due volte su whatsapp, l’11 e il 13 gennaio. Poi il 17 ha aggiunto per certezza tra i destinatari anche il suo segretario. In risposta ha ricevuto una lettera protocollata 25 gennaio. Che diceva così: visto che lei tace da settimane e “non avendo a tutt’oggi notizie in merito”, dichiaro decaduta la proposta di nomina; resterà al suo posto l’assessora inizialmente nominata, “le auguro una luminosa carriera universitaria” (testuale). Ho chiesto di vedere di persona scritti, destinatari e date, e posso testimoniare che così è stato. Richiesta da amici e colleghi che cosa stesse facendo a Ostia per contrastare la criminalità balneare (un importante imprenditore arrestato per tentata estorsione in quegli stessi giorni), Ilaria ha fatto sapere sui social che lei in realtà non è affatto assessore alla legalità di Ostia. E ha spiegato come mai, per filo e per segno. Il presidente ha replicato. Dando della vicenda una versione tutta sua. E annunciando che la giunta continuerà a lavorare sulla legalità “anche senza Ilaria Meli, che di certo non ne ha l’esclusiva”.

Certo, l’esclusiva non l’ha nessuno, per fortuna. Il problema è la competenza, che contro le mafie non è affatto secondaria, anche se con il dilettantismo che tira chiunque pensa di poterne parlare, non diciamo poi di Falcone e Borsellino. Vedete come tutto si tiene? Dal Quirinale al municipio di Ostia, da Elisabetta Belloni a Ilaria Meli, la politica butta nel mazzo le persone per bene, ne usa l’immagine e poi prova a sfregiargliela. Per uscirne però ogni volta più malconcia di prima.

 

La Chiesa arcobaleno del tedesco Marx, le accuse a Ratzinger e il rischio scisma

Quando la cronaca è a un passo dalla storia. A poco più di cinquecento anni dallo scisma di Martin Lutero, viene ancora una volta dalla Germania il pericolo di una frattura epocale nella Chiesa cattolica. Sono almeno due anni che le spinte progressiste dei cattolici teutonici guidati dal cardinale Reinhard Marx (nomen omen!) – capo dei vescovi, collaboratore di Francesco e pastore dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga – provocano moti sussultori in Vaticano, spaventando e irritando non solo la destra clericale ma anche il “centro” riformista di papa Bergoglio.

Stavolta però stiamo assistendo a un’escalation che può avere esiti imprevedibili. Basta unire i puntini di vari eventi clamorosi. Partiamo dal coming out, alla fine di gennaio, di 125 sacerdoti, suore e funzionari ecclesiastici, con il supporto del Sinodo. A rinforzare ulteriormente l’agenda Lgbt della Chiesa tedesca è stato poi a inizio febbraio il cardinale lussemburghese Jean Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Ue, che ha dato un’altra scossa: ha proposto una revisione della dottrina cattolica per non considerare più un peccato l’omosessualità. Negli stessi giorni, il cardinale Marx e il Sinodo tedesco hanno chiesto a Roma di abolire il celibato per i sacerdoti.

Al culmine di questa sequenza sono infine arrivate le accuse a Benedetto XVI per gli abusi sessuali compiuti da religiosi nell’arcidiocesi di Monaco negli anni in cui Ratzinger era vescovo, quattro casi dal 1977 al 1982. Il dossier è stato pubblicato da uno studio legale su impulso proprio della diocesi di Marx, che un anno fa presentò le proprie dimissioni (respinte) al pontefice per la vergogna dello scandalo pedofilia. Di qui le scuse storiche del papa emerito, precisando però di non aver mentito a proposito di una riunione del 1980.

In ogni caso, la difesa di Benedetto XVI da parte dei suoi più illustri fedelissimi adombra un disegno unico che conduce, appunto, all’agenda Lgbt di una presunta lobby gay che vuole una nuova Chiesa universale e arcobaleno. È stato infatti monsignor Georg Gänswein, lo storico segretario di Ratzinger che vive con lui nel monastero Mater Ecclesiae a parlare al Corsera di “una corrente che vuole distruggere l’immagine e l’opera” dell’emerito. Una “damnatio memoriae” propedeutica a una nuova fase. Da un lato, quindi, Marx; dall’altro Ratzinger, ritenuto il vero papa dalla minoranza dei clericali di destra. Entrambi tedeschi. Senza dimenticare che, a differenza del suo predecessore San Giovanni Paolo II, venerato già da vivo in Polonia, Benedetto XVI non mai acceso passioni ferventi nel suo Paese. Anzi.

Ecco quindi il bivio di Francesco, alla vigilia del suo nono anniversario di pontificato, il prossimo 13 marzo. L’accelerazione a sinistra della Chiesa teutonica potrebbe provocare uno scisma dottrinario a destra. Viceversa un deciso argine di Roma alle richieste tedesche favorirebbe uno strappo progressista. Tenendo presente che per vari analisti conservatori la Chiesa “marxiana” con i suoi pronunciamenti ha di fatto operato uno scisma. Manca solo l’annuncio ufficiale.

 

Tornino pubbliche dove si può: corsie gratuite come fanno Berlino e Parigi

Sembra che alla commissione recentemente nominata dal ministro Enrico Giovannini sia chiesto di valutare anche la possibilità che, alla scadenza di una concessione, lo Stato decida di riappropriarsi dei beni “gratuitamente devolvibili” come previsto nei contratti. Terminata la concessione lo Stato potrebbe abolire i pedaggi, come ha deciso di fare il governo spagnolo. Il benessere sociale aumenterebbe sia per il maggior utilizzo dell’infrastruttura che per l’eliminazione dei costi di esazione dei pedaggi che sono uno spreco sociale. La manutenzione potrebbe essere affidata all’Anas con un onere molto modesto per la finanza pubblica.

In Germania le autostrade sono gratuite, in Francia esiste una rete di strade a doppia corsia con caratteristiche autostradali, gratuite e mantenute dallo stato. Queste spese sono d’altronde più che coperte dalle imposte sui carburanti.

Invece in Italia le concessioni continuano ad essere prorogate o rimesse a gara anche quando l’autostrada è già ammortizzata e non necessita di significativi investimenti, come ad esempio nel caso della Torino-Piacenza. Il motivo è chiaro: le autostrade sono una ricchissima fonte di rendite che lo Stato si spartisce grossomodo a metà coi concessionari. Nel 2018 (ultimo dato disponibile) degli 8,3 miliardi pagati per pedaggi appena un miliardo sono stati utilizzati per investimenti (incluse le manutenzioni straordinarie). Lo Stato ha incassato circa 2,2 miliardi per Iva e canoni di concessione, più le imposte sugli utili delle concessionarie. Dal canto loro le concessionarie hanno registrato un utile netto di 1,6 miliardi (dato 2017). È un gran festino a carico dei “pedaggiati” che non pare abbia riscontro in altri paesi.

La funzione sociale dei concessionari sembra soprattutto quella di giustificare il mantenimento di questa rete di rendite e per questo l’ingresso della Cassa Depositi e Prestiti nel capitale della società Autostrade per l’Italia non cambierà nulla.

Le (poche) nuove tratte – ad esempio le due pedemontane veneta e lombarda – richiedono massicci sussidi pubblici. Se il debito rimborsabile con i pedaggi copre solo una quota modesta del costo complessivo è preferibile abolire del tutto i pedaggi. Se si introducono pedaggi ma il concessionario privato, come sempre, non apporta capitali significativi è preferibile allora affidare la gestione all’Anas evitando di continuare a fare regali ai concessionari. Come è avvenuto ad esempio per il completamento della Asti-Cuneo di cui, grazie al cosiddetto “cross financing”, il gruppo Gavio ha il 65% pur avendo messo solo una frazione minuscola del costo.

Altro caso di “cross financing” che si sta preparando è quello della Cispadana (67 km con costo di 1,3 miliardi) e della bretella Campogalliano-Sassuolo, che non avrebbero giustificazione economica se non quella di consentire agli azionisti della Autobrennero di ottenere l’agognata proroga della concessione ormai scaduta nel 2014, dopo altri tentativi andati a vuoto.

 

Niente soglie rigide sulla spesa, obiettivo la piena occupazione

L’inflazione aumenta, le famiglie sono in difficoltà, molte imprese delocalizzano o chiudono. È l’ora di un’altra recessione? Molto dipende da ciò che faranno i governi e dal dibattito in Ue. Ne abbiamo parlato con Antonella Stirati, economista dell’Università di Roma Tre.

I conti pubblici italiani sono davvero troppo fragili?

La situazione dei conti pubblici riflette lo shock della pandemia, che ha costretto il governo a spendere molto, d’altra parte senza quel sostegno il Paese sarebbe collassato.

E ora? Business as usual?

Se torniamo alle vecchie regole europee, come pare, vanificheremo la crescita recente e anche lo stimolo del Pnrr. Rischiamo di ripetere gli errori dell’austerità dopo la crisi del 2008. Molti si dicevano convinti che non si sarebbe tornati alla vecchia situazione, ma all’orizzonte si vede questa possibilità.

Perché rischiamo di commettere di nuovo questi errori?

Un motivo è l’inflazione, sebbene non sia causata dalla politica monetaria o fiscale. L’Italia poi è nel mirino per il suo alto debito pubblico, ma c’è anche un’inerzia ideologica: alcuni credono che il rigore nei conti pubblici sia una necessità radicata nelle leggi dell’economia, magari con sfumature morali. Inoltre, nell’Eurozona è molto difficile cambiare regole e Trattati.

Nel dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità europeo cosa dovrebbe fare il governo?

Bisogna avere chiara una cosa: l’Italia è il Paese dell’Eurozona che ha fatto le politiche di bilancio più restrittive dagli anni 90. Ciò ha ridotto il rapporto debito/Pil solo quando i tassi di interesse sui titoli di Stato erano bassi, sebbene al prezzo di una crescita lenta e di una spesa in servizi pubblici molto più bassa della media Ue. Dopo la recessione del 2008, però, le politiche di “austerità” hanno contratto l’attività economica, facendo schizzare in alto il rapporto debito/Pil. Riassumendo: la possibilità di ridurre quel rapporto dipende dal tasso di interesse sui titoli e dunque da cosa fa la Bce, mentre politiche fiscali troppo austere possono avere l’effetto opposto.

Intorno a quali idee ruota il dibattito attuale?

In Italia e in Europa non si riconosce ancora che la crescita del Pil dipende, in modo rilevante, da quanto e come spende lo Stato. Se lo Stato stringe la cinghia, come ha fatto in Italia, ristagnano anche Pil, innovazione e produttività. Dobbiamo trovare un sentiero per espandere la spesa pubblica, destinandola a fini utili: infrastrutture, investimenti, consumi pubblici. Non servono invece i trasferimenti a pioggia alle imprese (circa 20 miliardi all’anno), spesso giustificati come incentivi alle assunzioni, ma che hanno effetti nulli sulla occupazione. Per aiutare le imprese servono sostegni mirati agli investimenti e la crescita della domanda aggregata.

In che direzione vanno cambiate le regole europee?

Ormai tutti riconoscono i difetti di queste regole, in particolare il fatto che accentuano le recessioni. Viene spesso proposta una “regola della spesa”: la crescita della spesa pubblica dovrebbe essere in linea con quella del Pil negli anni precedenti. Ma così un Paese che cresce poco vedrà limitato il suo spazio fiscale, quando invece avrebbe bisogno di poter spendere per crescere. La via di uscita è un’altra: perseguire la piena occupazione, individuare come obiettivo un tasso di disoccupazione basso (intorno al 4%), e consentire spazio fiscale fino al suo raggiungimento. Allo stesso tempo dovremmo poter avere bassi tassi di interesse.

È possibile pagare pochi interessi se si ha un debito pubblico elevato?

Vari Paesi oltre all’Italia hanno un debito/Pil alto, ad esempio Giappone e Stati Uniti. Cosa rende appetibili i loro titoli di Stato? Sono sicuri, non soggetti a rischi di diminuzione del loro prezzo. Questo dipende da una banca centrale che può intervenire per stabilizzare il mercato. È quanto normalmente fanno le banche centrali, ma per la Bce è più complicato, per motivi politici e giuridici, e ciò rende i titoli dei paesi più deboli dell’Eurozona esposti alle intemperie dei mercati finanziari, dunque percepiti come rischiosi e costretti a pagare tassi di interesse più elevati.

Per ovviare a questo ci sono alcune proposte per un’Agenzia del debito europea.

Tra quelle avanzate preferisco quella di Massimo Amato, perché prevede l’acquisto di tutti i titoli di Stato da parte dell’Agenzia che a sua volta emetterebbe suoi titoli per finanziare quegli acquisti. Tuttavia, perché funzioni ci devono essere tre condizioni: 1) che l’Agenzia non faccia monitoraggio diretto sugli Stati obbligandoli all’austerità; 2) che affronti in modo trasparente il nodo dei diversi tassi di interesse applicati agli Stati; 3) che la Bce possa intervenire per garantire i titoli emessi dall’Agenzia.